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martedì 28 settembre 2010

Sul domani della Fraternità di S. Pio X. Una lettera di Mons. Gherardini

Durante un amichevole incontro, alcuni amici m’han chiesto quale potrebb’esser il domani della Fraternità S. Pio X, a conclusione dei colloqui in atto fra la medesima e la Santa Sede. Ne abbiam parlato a lungo ed i pareri eran discordi. Per questo esprimo il mio anche per iscritto, nella speranza – se non è presunzione e Dio me ne guardi! - che possa giovare non solo agli amici, ma anche alle parti dialoganti.

Rilevo anzitutto che nessuno è profeta né figlio di profeti. Il futuro è nelle mani di Dio. Qualche volta è possibile preordinarlo, almeno in parte; in altre, ci sfugge del tutto. Bisogna inoltre dare atto alle due parti, finalmente all’opera per una soluzione dell’ormai annoso problema dei “lefebvriani”, che fin ad oggi han lodevolmente ed esemplarmente mantenuto il dovuto silenzio sui loro colloqui. Tale silenzio, però, non aiuta a preveder i possibili sviluppi.

Di “voci”, peraltro, se ne sentono; e non poche. Quale sia il loro fondamento è un indovinello. Prenderò dunque in esame qualcuno dei pareri espressi nell’occasione predetta e dirò poi articolatamente il mio.
  1. Ci fu chi giudicava positivo un recente invito ad “uscire dal bunker nel quale s’è asserragliata durante il postconcilio per difendere la Fede dagli attacchi del neomodernismo”. Fu facile rilevare la difficoltà d’un giudizio a tale riguardo. Che la Fraternità sia stata per alcuni decenni nel bunker è evidente; purtroppo c’è ancora. Non è invece evidente se vi sia entrata da sé, o se vi sia stata da qualcuno, o dagli avvenimenti sospinta. A me pare che, se proprio vogliamo parlare di bunker, sia stato Mons. Lefebvre ad imprigionarvi la sua Fraternità quel 30 giugno 1988, quando, dopo due richiami ufficiali ed una formale ammonizione perché recedesse dal progettato atto “scismatico”, ordinò vescovi quattro dei suoi sacerdoti. Fu, quello, il bunker non dello scisma formalmente inteso, perché pur essendo “rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice” (CJC 751/2), mancò il dolo e l’intenzione di crear un’anti-chiesa, fu anzi determinato dall’amore alla Chiesa e da una sorta di “necessità” incombente per la continuità della genuina Tradizione cattolica, seriamente compromessa dal neomodernismo postconciliare. Ma bunker fu: quello d’una disobbedienza ai limiti della sfida, del vicolo chiuso e senza prospettive d’un possibile sbocco. Non quello della salvaguardia di valori compromessi.

    E’ difficile capire in che senso, “per difendere la Fede dagli attacchi del neomodernismo”, fosse proprio necessario “asserragliarsi in un bunker”. Vale a dire: lasciar libero il passo all’irrompere dell’eresia modernista. E di fatto il passo fu ininterrottamente contrastato. Se pur in una posizione di condanna canonica, e quindi fuori dai ranghi dell’ufficialità ma con la consapevolezza di lavorare per Cristo e per la sua Chiesa, una santa cattolica apostolica e romana, la Fraternità attese anzitutto alla formazione del clero, questo essendo il suo compito specifico, fondò e diresse seminari, promosse e sostenne dibattiti teologici talvolta d’alto profilo, pubblicò libri di rilevante valore ecclesiologico, dette conto di sé mediante fogli d’informazione interna ed esterna: il tutto allo scoperto, dimostrando di quale forza – lasciata purtroppo ai margini - la Chiesa potrebbe avvalersi per la sua finalità d’universale evangelizzazione. Che gli effetti dell’attiva presenza lefebvriana possan esser giudicati modesti o che di fatto non sian molto appariscenti, può dipender da due ragioni:

    • dalla condizione canonicamente abnorme in cui opera,
    • e dalle sue dimensioni; si sa che la mosca tira il calcio che può.

    Ma io son profondamente convinto che proprio per questo si dovrebbe ringraziare la Fraternità la quale, in un contesto di secolarizzazione ormai ai margini d’un’era post-cristiana, ed anche di non dissimulata antipatia verso di essa, ha tenuto e tiene ben alta la fiaccola della Fede e della Tradizione.
  2. Nell’occasione richiamata all’inizio, qualcuno riferì d’una conferenza durante la quale la Fraternità fu invitata ad aver maggior fiducia nel mondo ecclesiale contemporaneo, ricorrendo se necessario a qualche compromesso, perché la “salus animarum” esige – l’avrebbe detto un lefefbvriano – che si corra anche questo rischio. Sì, ma non certamente il rischio di “compromettere” la propria e l’altrui eterna salvezza.

    E’ probabile che le parole tradiscan le intenzioni. O che non si conosca il valore delle parole. Se c’è una cosa che, in materia di Fede, è doveroso evitare, è il compromesso. E il richiamarsi della Fraternità – così come d’ogni autentico seguace di Cristo - al “Sì sì, no no” di Mt 5,37 (Giac 5,12) è l’unica risposta alla prospettiva del compromesso. Il testo citato continua dicendo: “tutto il resto vien dal maligno”: dunque anche e segnatamente il compromesso. Almeno nella sua accezione di rinunzia ai propri principi morali ed alle proprie ragioni di vita.

    A dir il vero, anche a me, da quando i colloqui tra Santa Sede e Fraternità ebbero inizio, era arrivata la voce d’un possibile compromesso. Cioè d’un comportamento indegno, dal quale la stessa Santa Sede immagino che rifugga per prima. Un compromesso su quanto non impegna la confessione dell’autentica Fede, è possibile e talvolta plausibile; non lo è mai ai danni dei valori non negoziabili. Sarebbe oltretutto una contraddizione in termini, perché anche il compromesso è un “negotium”. Ed un negozio a rischio: il naufragio della Fede. Mi ripugna, pertanto, il solo pensare che la Santa Sede lo proponga o l’accetti: otterrebbe molto meno d’un piatto di lenticchie e s’addosserebbe la responsabilità d’un illecito gravissimo. Mi ripugna del pari il pensiero d’una Fraternità che, dop’aver fatto della Fede senza sconti la bandiera della sua stessa esistenza, scivoli sulla buccia di banana del rifiuto della sua stessa ragion d’essere.

    Aggiungo che, a giudicare da qualche indizio forse non del tutto infondato, la metodologia messa bilateralmente in atto non sembra aprire grandi prospettive. E’ la metodologia del punto contro punto: Vaticano II sì, Vaticano II no, o sì se. Cioè a condizione che dall’una o dall’altra parte, o da ambedue, s’abbassi la guardia. Una resa a discrezione? Per la Fraternità il mettersi nelle mani della Chiesa sarebbe l’unico comportamento veramente cristiano, se non ci fosse la ragione per cui nacque e per cui dette vita al suo Aventino. Cioè quel Vaticano II che, specie con alcuni dei suoi documenti sta letteralmente all’opposto di ciò in cui essa crede e per cui opera. Con tale metodologia, non s’intravede una via di mezzo: o la capitolazione, o il compromesso.

    Un esito così esiziale potrebb’esser evitato seguendo una metodologia diversa. Il “punctum dolens” di tutt’il contenzioso si chiama Tradizione. Ad essa è costante il richiamo dell’una e dell’altra parte, che peraltro hanno, della Tradizione, un concetto nettamente alternativo. Papa Wojtyla dichiarò ufficialmente “incompleta e contraddittoria” la Tradizione difesa dalla Fraternità. Si dovrebbe pertanto dimostrar il perché dell’incompletezza e della contraddittorietà, ma ancor più impellente è la necessità che le parti addivengano ad un concetto comune, ossia bilateralmente condiviso. Un tale concetto diventa allora il famoso pettine al quale arrivan tutt’i problemi. Non c’è problema teologico e di vita ecclesiale che non abbia nel detto concetto la sua soluzione. Se, dunque, si continua a dialogare mantenendo, l’una e l’altra parte, il proprio punto di partenza, o si darà vita ad un dialogo fra sordi, o, per dimostrare che non si è dialogato invano, si darà libero accesso al compromesso. Soprattutto se accettasse la tesi dei “contrasti apparenti” perché determinati non da dissensi di carattere dogmatico, ma dalle sempre nuove interpretazioni dei fatti storici, la Fraternità dichiarerebbe la sua fine, miseramente sostituendo la sua Tradizione, ch’è quella apostolica, con la vaporosa ed inconsistente e disomogenea Tradizione vivente dei neomodernisti.
  3. Un’ultima questione trattammo nel nostro amichevole incontro, esprimendo più speranze che previsioni concretamente fondate: il futuro della Fraternità. In argomento è sceso pure, recentemente, il sito “cordialiter blogspot.com” con un’idilliaca anticipazione del roseo domani che già arriderebbe alla Fraternità: un nuovo – nuovo? per ora, non ne ha mai avuto uno – “status” canonico, inizio della fine del modernismo, priorati presi d’assalto dai fedeli, Fraternità trasformata in “superdiocesi autonoma”. Anch’io mi riprometto molto dalla sperata composizione per la quale si sta lavorando, ma con i piedi un po’ più per terra. Tento d’acuire lo sguardo e di vedere che cosa potrebbe domani accadere. Lo specifico della Fraternità, l’ho già ricordato, è la preparazione al sacerdozio e la cura delle vocazioni sacerdotali. Non dovrebbe aprirsi per essa un campo diverso da quello dei Seminari, questo essendo il suo vero campo di battaglia: propri e non propri, nei Seminari assai più che altrove o più che altrimenti potrebbero esprimersi la natura e le finalità della Fraternità.

    Sotto quale profilo canonico? Non è facile prevederlo. Mi pare, comunque, che l’esser una Fraternità sacerdotale dovrebbe suggerirne l’assetto canonico in una forma di “Società Sacerdotale”, sotto il supremo governo della Congregazione “per gl’Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica”. Inoltre, l’aver essa già quattro Vescovi potrebbe suggerire, come soluzione, una “Praelatura” di cui la Santa Sede, al momento opportuno, potrà precisare l’esatta configurazione giuridica. Non mi sembra questo, tuttavia, il problema principale. Più importante è, senza dubbio, sia la composizione all’interno della Chiesa d’un contenzioso poco comprensibile nel tempo del dialogo con tutti, sia la liberalizzazione d’una forza compatta attorno all’idea e all’ideale della Tradizione, perché possa operare non dal bunker ma alla luce del sole e com’espressione viva ed autentica della Chiesa.
27 sett. 2010
Brunero Gherardini

domenica 26 settembre 2010

Liturgia, analisi critiche e confutazioni sulla ritualità e sulla partecipazione. Una risposta a p. Augé

Mi sono soffermata su un articolo di Matias Augé che propone una riflessione: “Quale partecipazione alla Liturgia?”, partendo dalla definizione della Sacrosanctum concilium, 26 e formulando una serie di considerazioni sugli ostacoli alla cosiddetta “actuosa participatio
http://liturgia-opus-trinitatis.over-blog.it/article-34730188.html
Ciò che oggi ostacola la realizzazione di una siffatta partecipazione alla liturgia è, tra l’altro, il riemergere insistente dell’individualismo, da una parte, e/o di un nuovo clericalismo dall’altra parte. Dal versante della comunità cristiana l’individualismo assume i lineamenti di un’assemblea ridotta a massa amorfa, che riduce a stereotipi i comportamenti simbolici e linguistici, incapace di comprendere la dinamica della pluralità dei ministeri e dei compiti nel contesto celebrativo. L’individualismo può portare a considerare la liturgia della Chiesa come la cornice sacrale all’interno della quale esprimere le proprie devozioni. L’individualismo, poi, non è altro che il rovescio della medaglia rappresentato dal clericalismo. Si potrebbe ben dire che una lettura condotta in modo esclusivo nella direzione della sacralità legata alle persone, ai luoghi e agli oggetti, fino a ritenere essi stessi più in funzione del sacro e meno in funzione della santificazione del popolo di Dio, rende, da un lato, i ministri della Chiesa simili allo “stregone del villaggio” e, dall’altro, riduce l’assemblea dei fedeli a spettatrice anonima e passiva.
Questa analisi mostra dati che potrebbero essere presi in considerazione, ma solo come fenomeni degenerativi e non possono essere genericamente considerati e quindi attribuiti a tutta la realtà considerata:
  1. si abbina la perdita di qualità della “partecipazione” a due estremi: “individualismo” e “assemblea ridotta a massa amorfa”.

    Innanzitutto cominciamo a considerare la prevalenza del collettivismo e dell’identità di gruppo. Lo dimostra l'enfasi sempre centrata sull'Assemblea, che certamente non è un 'collettivo' usuale, ma che non va dimenticato esser composta da persone, molto accentuata soprattutto nei movimenti (uno in particolare), mentre la persona risulta ridotta ad un ingranaggio di qualcosa di più grande dal quale deriverebbe la sua identità, ma che non completa in realtà un sano “processo di individuazione”, che implica anche maturazione psicologica e spirituale.

    Se partiamo dall’Evangelico “ Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori ad una ad una… e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce” (Gv 10, 3-4), riconosciamo che un vero cristiano realizza in Cristo e nella vita sacramentale e di Fede – e quindi vive nella quotidianità – la sua creaturalità Redenta, perché preziosa e irripetibile agli occhi del Signore.

    Proprio nella sua creaturalità Redenta e orientata al Signore la persona è destinataria della dignità che fonda qualunque riconoscimento dei diritti umani - che riguardano l’individuo-persona e non l’individuo-parte-della-comunità qualunque essa sia - e realizza una ‘individualità’ sana, portatrice di umanità in pienezza e non di ‘individualismo’, che è la degenerazione operata dal centrarsi egoistico dell’individuo su se stesso, frutto del materialismo, dell’edonismo e di tutti gli –ismi di questo nostro tempo confuso e disorientato, compreso il relativismo che è entrato purtroppo a pieno titolo nel linguaggio e quindi anche nella realtà ecclesiale.

    Tuttavia, poiché l’uomo è un essere-in-relazione, è ovvio che esiste anche la dimensione comunitaria della sua spiritualità e della sua vita di fede, che si dispiega nell’Ecclesìa: Corpo Mistico di Cristo (altro che Assemblea anonima!) e porta i suoi frutti in tutti gli altri ambiti relazionali a livello familiare, sociale, ecc.
  2. si riconduce l’attenzione e lo ‘sguardo alla ‘sacralità’ di persone, luoghi, oggetti ad un ‘assoluto’ che distoglierebbe l’attenzione dalla “santificazione del popolo di Dio”. E’ un argomento pretestuoso che non ha alcun fondamento; tant’è che si tratta di una semplice affermazione apodittica che non porta alcun argomento dimostrativo; ergo, non è altro che uno slogan ideologico. così com'è di conio tipicamente conciliare la definizione di sapore veterotestamentario del ‘Popolo di Dio’, più generica e meno centrata rispetto al ‘Corpo Mistico di Cristo'- Sposo, che E’ anche la Sua Chiesa-Sposa.

    La desacralizzazione, la banalizzazione, l'orizzontalità di gesti parole e atteggiamenti riscontrabile nelle celebrazioni odierne non è meno nemica della santificazione di quanto non lo si attribuisca, assolutizzando, al rispetto e alla cura di 'luoghi', oggetti cultuali o alla venerazione di figure di santi, ad esempio, dato che si parla anche della sacralità di persone...
  3. si riafferma lo ‘stereotipo’ dell’antica liturgia ridotta a “cornice sacrale per esprimere le proprie devozioni”. E’ il cavallo di battaglia dei novatori quando tirano in ballo le “vecchiette che durante la celebrazione recitavano il rosario”. A prescindere dal fatto che, anche se fosse vero al cento per cento questo dato (cosa del tutto impropria ed anche improbabile) , non è realistico pensare che l’Assemblea fosse composta unicamente da quelle vecchiette - che comunque si facevano presenti al rito sapendo che vi incontravano il Signore e cosa vi accade - o soltanto da persone analfabete in sacris, se generazioni di Santi si sono formate vivendo la Liturgia di Sempre. Il problema è di tutti i credenti e di tutte le generazioni: è missione altissima del Sacerdote guidare e formare i fedeli alla piena consapevolezza ed attiva partecipazione interiore ed esteriore come fedele dispensatore dei misteri divini.
  4. si riduce la partecipazione ad un ‘fare’. L’actuosa participatio promossa e raccomandata anche dal concilio, e prima ancora, non è determinata dal protagonismo dell’Assemblea, ma dal vivere e seguire lo svolgersi del Rito con consapevolezza e con le giuste disposizioni d’animo (apertura di cuore, atteggiamento di accoglienza e gratitudine, stato di grazia conservato o riacquistato…). Il valore pedagogico e catechetico dell’Eucaristia non è solo in quello che si ascolta e a cui si partecipa, ma anche e soprattutto in quello che accade ad Opera del Signore e che si accoglie nella Fede… Stare, esserci, accogliere: la povertà che si lascia raggiungere ed esprime la sua gratitudine. Necessità dell'essere visitata. Anche lasciarsi attraversare dall'irruzione del Soprannaturale è partecipazione consapevole, attiva, fruttuosa (actuosa participatio!!).

    Actuosa Participatio
    L’ actuosa participatio è molto più di una mera "disposizione interiore dell’assemblea" o della persona singola. La disposizione interiore (porta di accesso) è unita alla consapevolezza, cui si affiancano fondamenti e novità: mozioni e intuizioni, preghiere e sentimenti suscitati dallo Spirito che denotano la partecipazione con tutto il proprio essere a quello che ‘accade’… occorre avere ben presente questo importate dato della ‘consapevolezza’ di ciò che si sta ‘vivendo’ e che ‘accade’.

    Parlare di consapevolezza, vuol dire presenza sia della dimensione intellettiva che di quella spirituale, entrambe caratterizzanti l'essere umano discretamente evoluto. Ma davvero ‘fare’ è soltanto quello che si compie materialmente? In realtà è più presente la dimensione del Mistero, quella del silenzio, dell’Adorazione… Non si vorrà sostenere che nel vivere consapevolmente e profondamente queste dimensioni, rapportate al momento e all’atto liturgico che si compie, c’è solo ‘passività’! Forse nel mio intimo accadono molte più cose - e non sto parlando in termini spiritualisti o intimistici, ma dico quello che davvero succede - che poi si traducono in vita… perché ci sono momenti così intensamente vissuti alla Presenza del Signore che quello che sei: difficoltà, problemi, resistenze, doni e altro… di una persona-in-relazione, ti si svelano e non possono rimanere gli stessi se ti esponi all’azione dello Spirito, che coinvolge te e nello stesso tempo l’Assemblea di cui fai parte, che oltretutto non ha confini, perché si estende alla Chiesa di ieri di oggi e di domani, terrestre e celeste, contemporaneamente… Se solo si rendessero i fedeli consapevoli di questa realtà, non esisterebbero più Assemblee anonime o tentazioni devozionistiche.

    Mi stupisce che discorsi come questo, che forse non si fanno abbastanza, tanto siamo proiettati unicamente nel ‘fare’ materiale - che non sottovaluto, ma che non assolutizzo - possano sembrare complicati anche per dei sacerdoti; cosa che si deve constatare con doloroso rammarico...
Consideriamo poi anche queste affermazioni successive:
D’altra parte, il sospetto freudiano, secondo cui le religioni non sarebbero altro che nevrosi collettive coercitive, dovrebbe essere preso in considerazione. La religiosità decaduta ha il carattere di un’azione forzata che si estrinseca nel compimento “religioso” come un “rito”. Questo, però, nell’economia psichica di un essere umano, ha un senso ambiguo, simile a quello della routine nel fenomeno del quotidiano. La ritualizzazione, se si pone in modo assoluto, è un segno di religiosità decaduta.
Può parlare così solo qualcuno che della nostra Santa e Divina Liturgia di sempre 'vede' solo il "guscio esteriore" e forse neppure quello.

Non dimentichiamoci che Freud e la psicoanalisi sono dei validi sussidi come scienze umane; ma proprio nell'essere scienze umane hanno il loro limite intrinseco, mentre la Fede, pur incarnata nell'umano, ha le Sorgenti nel Soprannaturale. Non si tratta di contrapporre Fede a Ragione: in questo caso a scienze come psicologia e psicoanalisi; ma si afferma la necessità di un giusto equilibrio per non cadere né nel fideismo disincarnato né nello scientismo sterile, ricordando tuttavia come per S. Tommaso, purtroppo defenestrato dai seminari cattolici, la filosofia, salvo quando è ancilla theologiae, “ancella della teologia”, rimane la regina delle scienze. Tutte le altre scienze sono subordinate.

E la nostra Fede – che è in Una Persona, la Persona del Risorto – ci dona una "loghikè latrèia", un culto logico, perfettamente comprensibile e spiegabile anche con la Ragione... anche se la Fede ci porta oltre... ma Fede e Ragione non vanno mai separate, altro che "nevrosi collettive coercitive"!

Resta inspiegabile come qualcosa che provocherebbe "nevrosi collettive coercitive", abbia invece l'effetto di trasformare, eliminandole, vere e proprie 'coazioni a ripetere' come i peccati più radicati. Se ad orecchie moderniste può dar fastidio la parola 'peccato', chiamiamoli vistose 'distorsioni della personalità', che inducono a commettere errori che dispiegano conseguenze sia sulla persona che sulla realtà che la circonda e che un credente sa quanto lo allontanino dal Signore da se stesso e dagli altri, se non adeguatamente 'vinte' con il Suo aiuto.

Ebbene, se può accadere concretamente tutto questo e si tratta di una realtà intrinseca al rito, com’è possibile cavarsela col ridurre tutto a “nevrosi” di qualunque genere? Ricordiamo che in più occasioni Benedetto XVI – forse la più illustre vittima di tale tipo di nevrosi – ha chiamato e chiama "trasformazione" ciò che accade nel Rito – consolidato dalla preghiera e dalla vita di fede personale e comunitaria – che ribadisco con vigore, riprendendo il concetto paolino di 'Configurazione' a Cristo, che è ciò che caratterizza ontologicamente l'essere e l'"esserci" su questo mondo di ogni cristiano e che il cattolicesimo custodisce come proprio fondamento identitario.

Come potrebbe questa realtà – che rientra nelle serie dei 'fenomeni' misurabili, perché può essere nel tempo verificata in ragione del mutato comportamento delle persone che ne portano l'effetto – venire attribuita a «ministri della Chiesa simili allo “stregone del villaggio”, che riduce l’assemblea dei fedeli a spettatrice anonima e passiva», dal momento che non è al Sacerdote che si fa riferimento, ma al Signore e l’Assemblea non è solo una realtà collettiva ma è composta da individui: 'pietre vive', li chiama Pietro? E non dimentichiamoci che essi, sia personalmente che comunitariamente unum con il sacerdote, partecipano e VIVONO un culto autentico che implica un rapporto intimo e profondo col vero Celebrante, Cristo Gesù Signore, che ERA E' e VIENE sempre ad ogni celebrazione, è alla Sua Persona - che appartiene all'Ordine Soprannaturale perché è il Verbo Incarnato-Dio, prorpio in virtù dell'Incarnazione strettamente e indissolubilmente intrecciato alla nostra Umanità - che aderiscono. Ed è l'effetto del Suo Sacrificio, purtroppo da molti ridotto ad un 'mito', al pari della Sua Risurrezione, a riversare su sacerdote e fedeli presenti (nonché sulla Chiesa intera: militante, trionfante e purgante, di ogni luogo e di ogni tempo, presente e non) i beni escatologici che Egli ci ha promesso nel 'rimanere con noi' fino alla fine dei tempi. Questa è la nostra fede, che diventa vita quotidiana e rende veramente umane e vitali le esperienze le relazioni e le situazioni che la Provvidenza mette sulla nostra strada.

Viceversa è ormai normale rimanere luteranamente inesorabilmente peccatori, tanto il Signore salva tutti a prescindere dalla risposta alla Sua Grazia Santificante, che non si sa neppure più cos’è….

Nel contempo mi chiedo come possa ritenersi ‘passiva’ un’Assemblea che sia individualmente che comunitariamente si fa presente a ciò che accade nel rito con cuore ed intelletto aperti e desti e consapevoli e in Cristo, cioè nel Figlio Diletto, accoglie, esprime gratitudine commozione gioia, ADORA, loda e benedice, supplica, intercede, offre la sua vita con tutta la ricchezza dei suoi orizzonti interiori ed esteriori, con le sue valli (imperfezioni) da colmare e colline (presunzione, superbia) da abbattere, con i suoi limiti accettati e eventualmente superati se e quando è volontà di Dio, con i suoi talenti al servizio di tutti, con le sue gioie dolori attese speranze che non riguardano solo la singola persona, ma il ricco fecondo intreccio di relazioni a tutti i livelli, che vedo a cerchi concentrici allargarsi oltre i confini dell'evento puntuale, fino all’infinito e sconosciuto orizzonte dello spazio e del tempo e oltre, nella ‘vita eterna’ che già e non ancora comincia QUI! E tutto questo acquista senso e valore solo ed esclusivamente nel Sacrificio di Cristo, ché questo è la Messa.

Chi non sa di cosa sta parlando sarebbe più conveniente che tacesse, non tanto per il vuoto insito nella evidente superficiale arrogante e mistificatoria ignoranza dei fondamenti della Fede cattolica, quanto perché sta calpestando in maniera brutale e grossolana "cose Sacre".

Anche perché nella Tradizione, che noi amiamo e custodiamo, non si dà affatto il caso, posto come più che un’ipotesi, secondo l’affermazione che “la ritualizzazione, se si pone in modo assoluto, è un segno di religiosità decaduta”, perché niente, neppure il Rito, è un ‘assoluto’: esso è un dono prezioso – il cui nucleo risiede nell’Ultima Cena e la cui attuale ‘forma’ che racchiude una ‘sostanza’ impareggiabile, è frutto della Rivelazione Apostolica trasmessa nei secoli e arricchita dalle esperienze di fede di generazioni di credenti – e, proprio in quanto tale va vissuto, custodito, difeso e trasmesso; semmai vedrei “religiosità decaduta” nell’ostinata pertinace orizzontalità che pone l’uomo e l’Assemblea al centro di tutto e diviene pensiero ritualità e azione antropocentrica anziché Cristocentrica. Ed è per questo che possiamo constatare che essa è ben lontana dal santificare qualcuno.

Infine, altro segno di ideologia malsana è vedere l'individualismo come rovescio della medaglia del ‘clericalismo’. Circa l'individualismo ho espresso ampie considerazioni nel precedente punto 1). Quanto all'asserito clericalismo, si sta assistendo purtroppo alla svalutazione del sacerdozio ordinato - le cui coordinate anche misteriche sono così ben indicate e ripetute da Benedetto XVI in seguito alla non casuale indizione dell’Anno Sacerdotale - che nulla toglie al sacerdozio battesimale dei fedeli, che differisce da quello ordinato non solo di grado ma anche di essenza e deve essere vissuto per quello che è, dal Popolo di Dio che è innanzitutto Corpo di Cristo, cerchiamo di non dimenticarlo, altrimenti ricadiamo nelle categorie e suggestioni veterotestamentarie che il Signore - e noi con lui - ha portato e porta a compimento. Del resto, basta richiamarsi al Concilio Vaticano II. “I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del Corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni hanno poi anche un fine pedagogico... Conferiscono certamente la grazia, ma la loro stessa celebrazione dispone molto bene i fedeli a riceverla con frutto, ad onorare Dio in modo debito e ad esercitare la carità” (Sacrosanctum Concilium, 59). Giova ripetere che è missione altissima del Sacerdote guidare e formare i fedeli alla piena consapevolezza ed attiva partecipazione interiore ed esteriore come fedele dispensatore dei misteri divini, esercitando in pienezza il ‘Triplice MunusDocendi, Regendi e Sanctificandi

Sarà bene ricordare cosa pensava Giovanni Paolo II del Sacerdozio. La citazione è tratta dal Discorso ai sacerdoti delle Comunità neocatecumenali, Lunedì 9 dicembre 1985:
«La prima esigenza che vi s’impone è di sapere mantener fede, all’interno delle Comunità, alla vostra identità sacerdotale. In virtù della sacra Ordinazione voi siete stati segnati con uno speciale carattere che vi configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in suo nome (cf. Presbyterorum ordinis, 2). Il ministro sacro quindi dovrà essere accolto non solo come fratello che condivide il cammino della Comunità stessa, ma soprattutto come colui che, agendo “in persona Christi”, porta in sé la responsabilità insostituibile di Maestro, Santificatore e Guida delle anime, responsabilità a cui non può in nessun modo rinunciare. I laici devono poter cogliere queste realtà dal comportamento responsabile che voi mantenete. Sarebbe un’illusione credere di servire il Vangelo, diluendo il vostro carisma in un falso senso di umiltà o in una malintesa manifestazione di fraternità. Ripeterò quanto già ebbi occasione di dire agli assistenti ecclesiastici delle associazioni internazionali cattoliche: “Non lasciatevi ingannare! La Chiesa vi vuole sacerdoti, e i laici che incontrate vi vogliono sacerdoti e niente altro che sacerdoti. La confusione dei carismi impoverisce la Chiesa, non la arricchisce” (Giovanni Paolo II, Allocutio, 4, 13 dicembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979] 1391).»

venerdì 24 settembre 2010

La berakah ebraica al posto dell'Offertorio

Un lettore, che si è dato il nick "Christe eleison", con i suoi input mi induce ad una ulteriore riflessione, che vorrei condividere estraendo l'osservazione sulla berakah ebraica al posto dell'Offertorio nella Messa riformata.

Basta un solo 'iota' espunto, per deteriorare la bellezza la perfezione la sacralità di quello che Benedetto XVI, quando era ancora cardinale, ha definito "Edificio antico"(1) mirabile e intangibile. « ... A nessuno è concesso di sottovalutare il Mistero affidato alle nostre mani: esso è troppo grande perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale.» [Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 52]

Questo il messaggio integrale del lettore:
"Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa del Concilio. L'esempio più cospicuo rimane quello della universale eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l'articolo 36 della Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia nella parte didattica sia nella parte sacrificale." (citazione da "Iota unum" di Romano Amerio)
. l'abolizione del Latino
. lo scempio degli altari
. l'emarginazione del Tabernacolo
. l'accantonamento del gregoriano e della musica liturgica
. la berakà ebraica al posto dell'Offertorio
. il Sacrificio di Cristo sempre più dimenticato e sostituito dalla protestante Cena
è forse un punto di non ritorno?
Dio non voglia!

La berakàh ebraica al posto dell'Offertorio

Colpisce che quanto segue sia detto esplicitamente in un documento come una Esortazione Apostolica Post-Sinodale:
[...] È in questo contesto che Gesù introduce la novità del suo dono. Nella preghiera di lode, la Berakah, Egli ringrazia il Padre non solo per i grandi eventi della storia passata, ma anche per la propria «esaltazione». Istituendo il sacramento dell’Eucaristia, Gesù anticipa ed implica il Sacrificio della croce e la vittoria della risurrezione. (Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007, n.10)
È molto bello e vero, anche nelle esplicitazioni successive. Ma è stato espunto qualcosa di non secondario, perché prima che un dono a noi e, oltre che sacrificio di lode e ringraziamento, l’Eucaristia è l’unico Sacrificio di espiazione, propiziatorio di Cristo da Lui presentato, offerto al Padre.
Nessun documento conciliare autorizzava a operare tagli selvaggi all’Offertorio, sostituendo all’Hostia (vittima) pura santa e immacolata il “frutto della terra e del nostro lavoro”, trasformando così l’Offerta di Cristo alla quale uniamo la nostra offerta al Padre, in una formula di conio rabbinico: una berakah (preghiera di lode e benedizione) ebraica, che il Signore ha certamente pronunciato, ma che non è il punto focale della sua Azione, del Novum che egli ha introdotto nell’Ultima Cena.
Come dice Romano Amerio (2):
Poiché la parola consegue all’idea, la loro scomparsa [delle parole, nel nostro caso intere formule – ndA] arguisce scomparsa o quanto meno eclissazione di quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.
È successo, quindi, che nella Santa Messa cattolica, nel Nuovo Rito, la benedizione ebraica sostituisce quella che nel Rito secondo l’usus antiquior è l’Offerta cristiana.
Questo, come possiamo chiamarlo se non “discontinuità”? E tanto più grave in quanto tocca il Rito, e lo de-forma, proprio nel preludio e nella preparazione in crescendo al suo momento più sacro e solenne. Ch’è anche il momento più sacro e solenne del Rito e della Storia.
Ricordando che funzione primaria della Chiesa è rendere l’autentico culto a Dio. Sorvolando
sugli altri tagli non meno selvaggi operati al Rito Gregoriano: ad esempio tutti i riferimenti a san Michele Arcangelo, alla Vergine e alla Comunione dei Santi. Sulle modifiche perfino alla formula consacratoria (oltretutto con accenti narrativi, mentre invece non è narrazione, ma è un fatto, Actio di Cristo). Sorvolando anche su alcune improprie traduzioni del messale latino di Paolo VI.

Sempre dalla Sacramentum caritatis, n. 11
... In questo modo Gesù inserisce il suo novum radicale all’interno dell’antica cena (pasquale) sacrificale ebraica. Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla. Come giustamente dicono i Padri, figura transit in veritatem: ciò che annunciava le realtà future ha ora lasciato il posto alla verità stessa. L’antico rito si è compiuto ed è stato superato definitivamente attraverso il dono d’amore del Figlio di Dio incarnato. Il cibo della verità, Cristo immolato per noi, dat ... figuris terminum. (Breviario Romano, Inno all’Ufficio delle Letture della solennità del Corpus Domini.)
E allora, a maggior ragione, che senso ha per noi, la berakah ebraica al posto dell’Offertorio?
Inoltre può ravvisarsi un pericolo teologico-sacramentale nell’assolutizzazione della “preghiera di benedizione” staccata dal suo oggetto (la benedizione è compresa nella formula di Consacrazione ed è un tutt’uno con essa: “benedixit... fregit...dedit” — Benedisse... spezzò... diede), che è quello di fare della Messa un memoriale nel senso di commemorazione o semplice ricordo. Essa è invece zikkaron, nel senso del memoriale ebraico: rinnovamento,
ripetizione, attualizzazione, cioè rende presente nell’hic et nunc di ogni celebrazione la realtà sacramentale del Sacrificio di Cristo, e non solo nella memoria per quanto viva e protesa nel
ringraziamento a Dio.
E non si limita al ringraziamento per la Creazione, peraltro presente (con l’aggiunta della Redenzione) nel riconoscimento, che prelude la richiesta, espresso dalla seconda invocazione:
Deus, qui humanae substantiae dignititaem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per hujus aquae et vini mysterium, eius divinitates esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps, Jesus Christus... / O Dio, che in modo mirabile creasti nello splendore della sua dignità la natura umana, e in modo ancor più mirabile le ridonasti nuova vita: per il mistero di quest’acqua e questo vino, concedici di partecipare alla divinità di colui che si è degnato di divenire partecipe della nostra natura umana, Gesù Cristo...
Del resto il ringraziamento per la Creazione ormai definitivamente redenta è ben presente anche nella conclusione del Canone:
Per quem haec omnia, Domine, semper bona creas, sanctificas, vivificas, benedicis et praestas nobis ... / Mediante Lui, o Signore, Tu non cessi dal creare tutti questi beni e li santifichi, doni loro vita e li benedici per farcene dono...
Cito Manfred Hauke, in «La Santa Messa, Sacrificio della Nuova Alleanza.»:
Il sacerdote che celebra la Santa Messa in rito antico accoglie una consapevolezza più intensa della centralità del sacrificio. Per illustrare quest’affermazione, vorrei solamente ricordare le preghiere recitate a bassa voce durante l’offertorio sul pane e sul vino. Secondo la valutazione di Robert Spaemann, si tratta qui dell’intervento più radicale del Novus Ordo nella liturgia romana precedente. Nel rito di Paolo VI, le due preghiere si ispirano a delle formule ebraiche di ringraziamento per i pasti, aggiungendo molto discretamente l’idea dell’“offerta”: “lo presentiamo a te, perché diventi per noi “cibo di vita eterna” rispettivamente “bevanda di salvezza”.
Nel testo latino, Paolo VI ha insistito di mettere il verbo offerimus (“offriamo”) contro la maggior parte dei liturgisti, che ritenevano di dover rimuovere l’idea del sacrificio dall’offertorio [es. Bugnini -ndR)]. È vero che il sacrificio vero e proprio si svolge durante la consacrazione, ma nei riti eucaristici l’idea del sacrificio viene già anticipata prima, nel rito di san Giovanni Crisostomo persino sin dalla proscomidia, quando si preparano le ostie all’inizio della Divina Liturgia.
Ecco cosa risponde il Vescovo Schneider a chi domanda lumi sull’offertorio antico, che viene tacciato di essere addirittura eteroclito:
In tutta la storia della liturgia romana, ma anche nelle liturgie orientali, l’Offertorio è sempre stato legato all’attuazione del sacrificio del Golgotha. Non si trattava di preparare la Cena, ma di preparare il sacrificio eucaristico che aveva come frutto il convivio della comunione eucaristica. Ciò che si offre, viene dato per il sacrificio della Croce, si tratta di ciò che possiamo chiamare “un’anticipazione simbolica.
L’Offertorio richiama tutti i sacrifici dell’Antico Testamento, partendo dai grandi offertori di Melchisedech e di Abele. È una crescita continua fino al sacrificio del Golgotha. Questa visione biblica giustifica pienamente l’Offertorio tradizionale senza dimenticare i riti orientali che sono ancora più solenni nella loro anticipazione del Mistero della Croce.
Così come per sant’Agostino “il Nuovo Testamento era nascosto nel Antico Testamento”, potremmo dire che la Consacrazione è nascosta nell’Offertorio.
Quindi, direi proprio il contrario: l’Offertorio tradizionale è tutto tranne che eteroclito, è un puro prodotto della logica biblica della storia della salvezza.

Se durante la Santa Messa, che è il Sacrificio della Croce, l’offerta del Corpo e del Sangue di Gesù e la loro mistica immolazione, avvengono insieme al momento della Consacrazione, è tuttavia necessario che il Sacerdote e i fedeli uniscano l’offerta di se stessi all’unica offerta gradita a Dio, quella di Gesù.
Perciò, nel rito della Messa, esistono momenti precedenti e successivi alla consacrazione nei quali si esprime l’offerta di Gesù al Padre e quella dei cristiani con lui.
L’Offertorio è sacrificale: quello che viene offerto è il Corpo e Sangue di Gesù, non il Pane e il Vino; è un’anticipazione per dare modo a tutti di unirsi all’Offerta di Gesù, è una  preparazione che anticipa un crescendo.
L’Offertorio, nella sua primitiva accezione, aveva ben presente il Sacrificio come prolessi, cioè come anticipazione del Sacrificio a venire. Le oblate sono intimamente legate al Sacrificio. L’offertorio fa parte integrante dell’Actio del Canone, nel cuore della Santa Messa.
È innegabile, tuttavia, che la “forma” ordinaria di fatto ha cambiato i connotati alle oblate ed estromesso il loro aspetto sacrificale.
Maria Guarini
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1. "... Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita". [J. Ratzinger, La mia vita: ricordi, 1927-1977", p. 110.]
2. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni nella Chiesa Cattolica nel secolo XX, Lindau 2009, p. 103.

martedì 21 settembre 2010

Semi di 'discontinuità' in Gaudium et Spes, 22 ?

Stralcio dalla Gaudium et Spes, 22 – Cristo l’uomo nuovo i brani che, come mosche nel vino, insieme a verità fondanti, riportano espressioni non immediatamente evidenti, ma che hanno già ‘in nuce’ la capacità di sovvertire il ‘sensus fidei’ cattolico; il che del resto, come stiamo constatando dolorosamente, ha già raggiunto stadi di quasi irreversibilità.

Non è estraneo a quanto riscontrato il fatto che i Padri conciliari, invece di privilegiare come in precedenza la dimensione noetica delle verità da credere, hanno messo l'accento sulla dimensione dinamica e dialogale della Rivelazione come autocomunicazione personale di Dio. Ritenendo così di gettare le basi di un incontro e di un dialogo più vivo tra Dio che chiama e il suo popolo che risponde. Una svolta ampiamente accolta come fatto decisivo da teologi, esegeti e pastori. Come se in precedenza il dialogo tra Dio e l'anima credente fosse meno vivo e bisognoso di ricerca di una immediatezza che può essere colta solo nell'atteggiamento interiore di ascolto attento e amoroso, da un cuore -non sede del sentimento ma 'luogo' della coscienza e delle decisioni ultime- reso sempre più ricettivo, purificato e trasformato dal 'mettere in pratica' ciò che viene ascoltato e acquisire quindi una capacità di ascolto sempre più intima e profonda.

La cosiddetta dimensione noetica da cui i Padri conciliari hanno distolto l'attenzione per posarla su quella dinamica e dialogale, mi sembra invece che debba essere proprio il fondamento di quest'ultima, che non ha senso se ne prescinde.

Non lo ritengo un discorso di 'intellettualismo' contrapposto ad 'esperienza', perché la "dimensione noetica" conoscitiva, coinvolge la totalità della persona e precede accompagna e segue l'esperienza... E' essa, basata sulla Rivelazione Apostolica, che ci consente di 'dare un nome a tutte le cose", cioè di avere una giusta interpretazione della realtà, con una chiave di lettura veritativa ed equilibrata.

Per comodità di consultazione di chi legge inserisco in nota i testi integrali da cui sono tratti i brani esaminati: Gaudium et Spes, 22 che richiama Lumen Gentium 2, 19.

Gaudium et Spes 22. Cristo, l'uomo nuovo.

Ci sono alcuni assunti che, mi sembra, colpiscono particolarmente.
  1. "Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo."
    E’ vero, e non solo in virtù dell’ Incarnazione, ma anche della Creazione perché “per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Ma qui risuona forte la Parola: "A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo ma da Dio sono stati generati." (Giovanni, Prologo). Infatti nella Creazione Nuova inaugurata da Cristo Signore, l’Uomo Nuovo è ‘generato non creato’ dal Padre in Cristo nel cuore dei credenti in Lui.

    Si omette che quel “si è unito in certo modo” non crea degli automatismi, ma richiede un Annuncio (“andate ed evangelizzate…” e una risposta; il che verrà meglio sviluppato nel punto 3).

    Lo stesso universalismo già presente nell’ebraismo, vedeva il Popolo della prima Alleanza come Testimone del Signore davanti alle Nazioni. La Nuova ed Eterna Alleanza in Cristo Signore, ha portato a compimento il Disegno di Salvezza Universale, per “tutti”, che si realizza in coloro –e per mezzo loro nelle situazioni e strutture che essi animano– che, conoscendoLo, credono nel Suo Nome, Lo accolgono e aderiscono fedelmente a Lui.
  2. "Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza."
    Piuttosto che ‘assillato’ il cristiano è consapevole e ontologicamente spinto dalla chiamata, funzione, compito, più che da un dovere (non sarebbe stato forse più adatto il termine munus in luogo di officium?). Il testo originale latino [Christianum certe urgent necessitas et officium contra malum] non autorizza questa traduzione disponibile sul sito Vatican.va: esso riporta come soggetti la necessità e l’officium e il cristiano come oggetto. Urgent indica una ‘spinta’, un cogente modo di essere, non certamente un assillo, termine mutuato più dal linguaggio psicologico e quotidiano che da quello teologico. La traduzione riporta, opportunamente se non proprio fedelmente, il cristiano come soggetto, ma poi ‘tradisce’ il significato più profondo nel senso sopra indicato. Con ciò di fatto depauperando se non vanificando quanto affermato in precedenza: “Il cristiano poi, reso conforme all'immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm 8,29; Col. 1, 18) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell'amore (Cf. Rom. 8, 1-11)”

    Affermare infatti che il cristiano “è assillato”, equivale a dire che il cristiano è governato, mosso da qualcosa che non è l’autentica chiamata a “rimanere” in Cristo nel Disegno del Padre e ridurre questa ad un dovere, significa vanificare e annullare il “giogo soave e il carico leggero” della Grazia.

    Nel linguaggio moderno l’assillo appartiene alla sfera dell’ossessione, non certo a quella del Sacro zelo Paolino, ad esempio. L’assillo è un pungolo maggiormente collocabile in un orizzonte di ‘mancanza di libertà’ e quindi non appartiene alla “libertà dei figli di Dio”, che è propria dei cristiani. Tanto più lo colloca nell’orizzonte della legge l’associazione al termine ‘dovere’, che è altra cosa dalla connaturalità al Figlio che la Grazia scrive nel cuore dell’uomo Redento, in virtù della chiamata alla quale il cristiano risponde con la fede e con la vita in permanente interconnessione con la vita Trinitaria in Cristo.

  3. "E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (Lumen Gentium cap.II n.16). Cristo, infatti, è morto per tutti (Rm 8,32) e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale."
    Un assunto che appare molto in sintonia col 'cristianesimo anonimo' di Rahner. Questa famosa formula di Rahner, ha creato non pochi problemi a causa della sua ambiguità: “Se si tratta dei ‘semi del Verbo’ presenti in tutte le culture e le religioni, Giustino, già nel II secolo ne ha rilevato il senso ma anche la radicale frammentarietà. Forse Rahner la intendeva così, ma il modo in cui l’ha espressa, non aiuta a cogliere l’assoluta necessità della fede per la salvezza. Ricordiamo dal testo di Solovev sull’anticristo: al grande imperatore -anticristo in quel racconto-, quando questi chiede ai cristiani cosa sta loro a cuore, Giovanni risponde: ‘Che tu proclami che Cristo è il Signore…’, infatti è nel suo ‘nome’ che sono salvate tutte le genti.

    Inoltre l’anonimato non appartiene ai credenti in Cristo, che conosce e chiama per nome ognuno dei Suoi, mentre la missione della Chiesa consiste nel far sì che ‘nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi’ all’adorazione del Dio unico e vero, in modo che la drammatica domanda ‘il Figlio dell’uomo quando tornerà, troverà la fede sulla terra?’ abbia risposta positiva”.

    Nell’affermare che la salvezza non vale solamente per i cristiani ma per ‘tutti’ gli uomini di buona volontà nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia, si rimanda innanzitutto alla Lumen Gentium 2,16: il concilio richiama se stesso.(1) Con l’aggravante che la LG cita espressamente ebrei e musulmani! (2)

    Inoltre, con l’affermazione che lo Spirito Santo dà a tutti la possibilità di venir associati al mistero pasquale, esprime solo la prima parte dell’enunciato, omettendo di annettervi la ‘risposta’ dovuta dall’uomo che viene lasciata del tutto in ombra nell’espressione “nel modo che solo Dio conosce”. Che fine fa l’Annuncio? Non possiamo non ricordare Paolo ai Romani (10, 14-18): “Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene! Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo.

    A questo proposito ci soccorre l'interpretazione data dalla Lettera della Congregazione per il Culto Divino sulla traduzione di "pro multis" nella Consacrazione del Calice Prot. N. 467/05/L Roma, 17 Ottobre 2006.
    Il testo corrispondente alle parole "pro multis", tramandato dalla Chiesa, costituisce la formula che è stata in uso nel rito romano, in latino, fin dai primi secoli. In questi ultimi trent'anni circa, alcuni testi in lingua volgare hanno adottato una traduzione che interpreta [il pro multis] come "per tutti", o equivalente.
    L'espressione "per molti", pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette inoltre il fatto che questa salvezza non è determinata in modo meccanico, senza la volontà o la partecipazione dell’uomo. Il credente, invece, è invitato ad accettare nella fede il dono che gli è offerto e a ricevere la vita soprannaturale data a coloro che partecipano a questo mistero, vivendolo nella propria vita in modo da essere annoverato fra "i molti" cui il testo fa riferimento.”
Maria Guarini
_______________________________
NOTE:

(1) Gaudium et Spes 22. Cristo, l'uomo nuovo.
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore.
Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione.
Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è « l'immagine dell'invisibile Iddio » (Col 1,15) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato.
Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata (30) per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime.
Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo.
Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con intelligenza d'uomo, ha agito con volontà d'uomo (31) ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato (32). Agnello innocente, col suo sangue sparso liberamente ci ha meritato la vita; in lui Dio ci ha riconciliati con se stesso e tra noi (33) e ci ha strappati dalla schiavitù del diavolo e del peccato; così che ognuno di noi può dire con l'Apostolo: il Figlio di Dio « mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me» (Gal 2,20). Soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l'esempio perché seguiamo le sue orme (34) ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato.
Il cristiano poi, reso conforme all'immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm 8,23) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell'amore (36).
In virtù di questo Spirito, che è il «pegno della eredità» (Ef 1,14), tutto l'uomo viene interiormente rinnovato, nell'attesa della « redenzione del corpo » (Rm 8,23): « Se in voi dimora lo Spirito di colui che risuscitò Gesù da morte, egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza (38).
E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (Cf. CONC. VAT. II, Const. dogm. de Ecclesia, Lumen gentium, cap. II, n. 16: AAS 57 (1965), p. 20.). Cristo, infatti, è morto per tutti (Cf. Rom. 8, 32) e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.
Tale e così grande è il mistero dell'uomo, questo mistero che la Rivelazione cristiana fa brillare agli occhi dei credenti. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell'enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della vita (41), perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre! (42).

(2) Lumen Gentium. I non cristiani e la Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in vari modi sono ordinati al popolo di Dio [Cf. Istr. della S. S. C. del S. Uffizio, 20 dic. 1949]. In primo luogo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5), popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna [Cf. Lett. della S. S. C. del S. Uffizio all’Arciv. di Boston: Dz 3869-72]. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo [34] e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21 e 25), oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: « Predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e sostenere le missioni. [Di questa affermazione non tiene più conto la CEI che ha dichiarato che la Chiesa ha rinunciato a convertire gli ebrei - ndR]

(3) Non può restare senza conseguenze una dichiarazione del genere da parte del Papa durante la sua visita in Sinagoga: "Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore..."
È pur vero che siamo innestati sulla "radice santa" del giudaismo pre-rabbinico e che il Dio che si è rivelato e ha portato a compimento la Storia della Salvezza in Gesù Cristo è lo stesso dei Patriarchi e dei Profeti; ma se ci fermiamo a questo dato, ignoriamo che nella pienezza dei tempi Dio si è rivelato in Cristo Signore, che gli ebrei hanno rifiutato e continuano a rifiutare.
Ed è Dio Trinità, icona e fonte di tutte le nostre relazioni, che noi cristiani Adoriamo, per averlo conosciuto attraverso la Rivelazione del Signore Gesù e degli Apostoli. Quel "quid" in più di un Dio Incarnato e Morto per i nostri peccati e Risorto per introdurci nella Creazione Nuova, fa una differenza abissale e adorare l'Uno piuttosto che l'altro non è ininfluente, perché si diventa 'conformi' (la ‘configurazione’ a Cristo di Paolo) a Colui che si Adora, anche perché i nostri atteggiamenti interiori e comportamenti vi si conformano in base ad una 'connaturalità' donata nella fede e realizzano un'antropologia e, conseguentemente, una storia diverse...

È la stessa ragione per cui non possiamo affermare di adorare lo stesso Dio dell'Islam: Certo, Dio Creatore dell'uomo e dell'universo è lo stesso, ma il rapporto che si instaura con Lui in base alla Rivelazione alla quale si aderisce rende diversi gli uomini e il loro essere-nel-mondo e quindi la storia che essi vi incarnano e scrivono...

giovedì 16 settembre 2010

Romano Amerio e 'l'ermeneutica della discontinuità'

Riporto un breve stralcio dal volume "Iota unum", edizione Lindau 2009, [vedi] nel quale Romano Amerio tratta della "ermeneutica neoterica" del Concilio Vaticano II, quella che Benedetto XVI ha recentemente definito "ermeneutica della discontinuità"

48. L' oltrepassamento del Concilio. Carattere anfibologico dei testi conciliari. -In realtà l'oltrepassamento del Concilio che si fa appellandosi allo spirito del Concilio talvolta è oltrepassamento franco della lettera, tal altra invece è estensione e distrazione di termini.
È oltrepassamento franco tutte le volte che il postconcilio ha sviluppato come conciliari temi che non trovano appoggio nei testi conciliari e di cui i testi conciliari non conoscono nemmeno il termine. Per esempio, il vocabolo pluralismo non vi si trova che tre sole volte e sempre riferito alla società civile. Similmente l'idea di autenticità come valore morale e religioso di un atteggiamento umano non appare in nessun documento, giacché se la voce authenticus ricorre otto volte, il suo senso è sempre quello filologico e canonico, riferito alle Scritture autentiche, al magistero autentico, alle tradizioni autentiche e mai invece a quel carattere di immediatezza psicologica che viene oggi celebrato come indizio certo di valore religioso. Infine il vocabolo democrazia coi derivati non si trova in nessun punto del Concilio, benche si trovi negli indici di edizioni del Concilio approvate. Eppure l'ammodernamento della Chiesa postconciliare è in gran parte un processo di democratizzazione.
Oltrepassamenti franchi sono pure quelli in cui, tenendo in non cale la lettera del Concilio, si sviluppano le riforme in senso opposto alla volontà legislativa del Concilio. L'esempio più cospicuo rimane quello della universale eliminazione della lingua latina dai riti latini, la quale secondo l'articolo 36 della Costituzione sulla liturgia si doveva conservare nel rito romano e che viceversa fu di fatto proscritta, celebrandosi dappertutto la Messa nelle lingue volgari, sia nella parte didattica sia nella parte sacrifìcale. Vedi §§ 277-83.
Tuttavia all'oltrepassamento franco prevale quello che si opera, appellandosi allo spirito del Concilio, introducendo l'uso di nuovi vocaboli destinati a portare come messaggio una particolare concezione e giovandosi a questo scopo dell'incertitudine medesima degli enunciati conciliari: A questo proposito è sommamente importante il fatto che, avendo il Concilio giusta la consuetudine lasciato dietro di sé una commissione per l'interpretazione autentica dei suoi decreti, questa commissione non abbia mai emanato esplicazioni autentiche e non si trovi citata mai. Così il tempo postconciliare anziché di esecuzione, fu di interpretazione del Concilio. Mancando un'interpretazione autentica, i punti in cui apparisse incerta e questionabile la mente del Concilio, tale definizione fu gettata alle dispute dei teologi con quel grave pregiudizio dell'unità della Chiesa che Paolo VI deplorò nel discorso del 7 dicembre 1969. Vedi §7. Il carattere anfìbologico dei testi conciliari dà così un fondamento tanto all'ermeneutica neoterica quanto a quella tradizionale e partorisce tutta un'arte ermeneutica così importante che non è possibile dispensarsi dal farne qui un breve cenno.

49. Ermeneutica neoterica del Concilio. Variazioni semantiche. Il vocabolo " dialogo".- La profondità della variazione operatasi nella Chiesa nel periodo postconciliare si desume anche dagli imponenti cangiamenti intervenuti nel linguaggio. Taccio della scomparsa dall'uso ecclesiale di taluni vocaboli come inferno, paradiso, predestinazione, significativi di dottrine che non si trattano nemmeno una volta negli insegnamenti conciliari. Poiché la parola consegue all'idea, la loro scomparsa arguisce scomparsa o quanto meno ecclissazione di quei concetti un tempo salienti nel sistema cattolico.
Anche la trasposizione semantica è un gran veicolo di novità. Così, per esempio, chiamare operatore pastorale il parroco, Cena la Messa, servizio l'autorità e ogni altra funzione, autenticità la naturalezza anche disonesta, arguisce novità nelle cose prima significate con quei secondi vocaboli.
li neologismo, per lo più fìlologicamente mostruoso, qualche volta è destinato a significare idee nuove (per esempio, coscientizzare), ma più spesso nasce dalla cupidità del nuovo, come si vede nel dir presbitero invece di prete, o diaconia invece di servizio, o eucaristia invece di Messa. Anche in questa sostituzione di neologismi ai termini antichi si cela però sempre una variazione di concetti o per lo meno una diversa colorazione.
Alcuni vocaboli che non erano mai stati frequentati nei documenti papali e stavano relegati in campi circoscritti, hanno acquistato nel baleno di pochi anni una diffusione prodigiosa. Il più notevole è il vocabolo dialogo, prima ignoto affatto alla Chiesa. Il Vaticano II lo adoperò invece ventotto volte e coniò la formula celeberrima che indica l'asse e l'intendimento primario del Concilio: «dialogo col mondo» (GS, 43) e «mutuo dialogo» tra Chiesa e mondo. Il voocabolo diventò un'universale categoria della realtà, esorbitando dall'àmbito della logica e della rettorica in cui era prima circoscritto. Tutto ebbe struttura dialogica. Si avanzò sino a configurare una struttura dialogale dell'essere divino (in quanto uno, non in quanto trino), una struttura dialogale della Chiesa, della religione, della famiglia, della pace, della verità e via dicendo. Tutto diventa dialogo e la verità in facto esse dilegua nel suo proprio fieri come dialogo. Vedi più avanti i §§ 151-6.

50. Ancora l'ermeneutica neoterica del Concilio. Circiterismi. Uso della avversativa "ma". L'approfondimento. - Un procedimento comune all'argomentare dei neoterici è il circiterismo. Esso consiste nel riferirsi, come a cosa quieta in causa e già assodata, a un termine indistinto e confusionale, e da quello ricavare o escludere l'elemento che importa ricavare o escludere. Tale è per esempio il termine spirito del Concilio o addirittura Concilio. lo ricordo come sin nella prassi pastorale preti neoterici, che violavano le norme più certe e nemmeno dopo il Concilio mutate, rispondessero ai fedeli stupiti dei loro arbitrii rimandando al Concilio.
Non nascondo certo che da un canto la limitazione della intentio intellettiva, incapace di contemplare simultaneamente tutti i lati di un oggetto complesso, e data d'altro canto l'esistenza di un esercizio libero del pensiero, il conoscente non può che volgersi successivamente alle varie parti del complesso. Ma dico che questa naturale operazione intellettiva non si può confondere con l'intenzionale obliquazione che la volontà può imprimere all'atto intellettivo affìnché, come si dice nel testo evangelico, non veda quello che pur vede e non riconosca quello che pur conosce (Matth., 13,13). La prima operazione trovasi anche nella ricerca genuina, che è di sua natura progressiva pedetentim, mentre alla seconda conviene un nome che non è quello di ricerca: soprammette infatti alle cose un quid nascente dalla propensione soggettiva di ciascuno.
Si suole anche parlare di messaggio e di codice con cui si legge e decifra il messaggio. La nozione di lettura ha soppiantato quella di cognizione della cosa, sostituendo la pluralità possibile di letture alla forza obbligante della cognizione univoca. Un identico messaggio può essere letto (dicono) in chiavi diverse e se è ortodosso, si può decifrare in chiave eterodossa, e se è eterodosso in chiave ortodossa. Un tale metodo dimentica però che il testo ha un suo senso primitivo, inerente, ovvio e letterale, che deve essere inteso prima di ogni lettura e che talora non ammette il codice con cui sarà letto e decifrato nella seconda lettura. Così i testi del Concilio, come ogni altro testo, hanno, indipendentemente dalla lettura che se ne faccia, una leggibilità ovvia e univoca, cioè un senso letterale che è il fondamento di tutti gli altri che vi si leggeranno. La perfezione dell'ermeneutica consiste nel ridurre la seconda lettura alla prima, che dà il senso vero del testo. La Chiesa d'altronde non ha mai proceduto altrimenti.
Il metodo praticato dai neoterici nel periodo postconciliare consiste dunque nel lumeggiare e oscurare, rubricare e nigricare singole parti di un testo o di una verità. Esso non è che l'abuso dell'astrazione che la mente fa necessariamente, quando esamina un complesso qualunque. Tale infatti è la condizione del conoscere discorsivo che si attua nel tempo, a differenza dell'intuito angelico.
A questo si allaccia l'altro metodo, proprio dell'errore, che consiste nel nascondere una verità dietro un'altra verità per poi procedere come se la verità nascosta non solo fosse nascosta, ma simpliciter non fosse. Quando per esempio si definisce la Chiesa popolo di Dio in cammino, si nasconde l'altra verità, che cioè la Chiesa comprende anche la parte già in termino dei beati che è d'altronde la parte più importante di essa, essendo quella in cui il fine della Chiesa e dell'universo è adempiuto. In un ulteriore passo quel che stava ancora nel messaggio, ma epocato, finirà per essere espunto dal messaggio, con il rifiuto del culto dei Santi.
Il procedimento che abbiamo descritto si attua frequentemente in uno schema caratterizzato dall'uso dell'avversativa ma. Basta peraltro conoscere il senso pieno dei vocaboli per riconoscere a un tratto l'intendimento riposto degli ermeneuti. Per attaccare, ad esempio, il principio della vita religiosa si scrive: «Le fondement de la vie religieuse n'est pas remis en question, mais son style de realisation». Così per eludere il dogma della verginità della Madonna in partu si dice che son possibili dei dubbi, «non d'ailleurs sur la croyance elle-meme dont nul ne conteste les titres dogmatiques, mais sur son objet exacte, dont il ne serait pas assure qu'il comprenne le miracle de l'enfantement sans lesion corporelle». E per attaccare la clausura delle moniali si scrive: «La cloiture doit etre maintenue, mais elle doit etre adaptee selon les conditions des temps et des lieux»
Si sa che la particella mais equivale a magis, da cui deriva, e perciò coll'apparenza di mantenere il proprio posto alla verginità della Madonna, alla vita religiosa e alla clausura, si dice in realtà che più del principio contano i modi di realizzarlo secondo tempi e luoghi. Ma che cosa è mai un principio se sta sotto e non sopra le realizzazioni sue ? E come non vedere che esistono stili di realizzazione che invece di esprimere distruggono il fondamento? A questa stregua si può dire: il fondamento del gotico non si discute, bensì il modo di realizzazione del gotico. E poi si toglie di mezzo l'arco acuto.
Questa formula del ma si riscontra sovente negli interventi dei Padri conciliari, i quali pongono nell'asserto principale qualche cosa che viene poi distrutto con il ma nell'asserto secondario, in guisa che quest'ultimo diventa il vero asserto principale.
Ancora nel Sinodo dei yescovi del 1980 il Gruppo di lingua francese B formula: «Il Gruppo aderisce senza riserve alla Humanae vitae, ma bisognerebbe superare la dicotomia tra la rigidità della legge e la duttilità pastorale». Così l'adesione all'enciclica diviene puramente vocale, perché più di essa importa il flettersi della legge all'umana debolezza (OR, 15 ottobre 1980). Più aperta è la formula di chi vuole l'ammissione di divorziati all'eucaristia: «Il ne s'agit pas de renoncer à l'exigence evangelique, mais de reconnaitre la possibilité pour tous d'etre reintegrés dans la communion ecclesiale» (ICI, n. 555, 13 ottobre 1980, p. 12).
Sempre nel Sinodo del 1980 sulla famiglia apparve nei gruppi neoterici l'uso del vocabolo approfondimento. Mentre si ricerca l'abbandono della dottrina insegnata da Humanae vitae, le si professa intera adesione, ma si domanda che la dottrina venga approfondita, non cioè confermata con nuovi argomenti, ma mutata in altra. La profondità consisterebbe nel ricercare e ricercare finché si approda alla tesi opposta.
Ancor più rilevante è il fatto che il metodo del circiterismo fu adoperato talvolta nella redazione stessa dei documenti conciliari. Il circiterismo fu allora imposto intenzionalmente affinché l'ermeneutica postconciliare potesse poi rubricare o nigricare quelle idee che le premevano. «Nous l'exprimons d'une façon diplomatique, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites». È una stilistica diplomatica, cioè, secondo la forza della parola, doppia, in cui la lettera viene formata in vista dell'ermeneutica, rovesciando l'ordine naturale del pensare e dello scrivere.
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Piccolo glossario:
"Ermeneutica" è voce greca che significa interpretazione.
"Neoteroi" è voce anch'essa greca che in origine designava in senso dispregiativo i "poetae novi" della Roma dell'età di Cesare, il cui massimo esponente fu Catullo (l'invenzione del termine è attribuita a Cicerone). In senso lato i "neoteroi" sono i novatori, coloro che vogliono innovare ad ogni costo e disprezzano la tradizione.
"Ermeneutica neoterica" è pertanto l'interpretazione dei testi conciliari che vede in essi una rottura con la tradizione. Quella che Papa Benedetto XVI ha recentemente chiamato "ermeneutica della discontinuità”
Circiterismi” Credo sia un neologismo coniato da Amerio. Deriva dall'avverbio latino "circiter" che significa "all'incirca". E' sinonimo di pressapochismo, ambiguità.
Anfibolico” significa bivalente, come gli anfibi che possono vivere sia in acqua che sulla terra. Un testo “anfibologico” è passibile di due diverse interpretazioni tra loro opposte.
Esempio: il celeberrimo "subsistit in" su cui ci si è scannati per quattro decenni

venerdì 10 settembre 2010

Aspetti della "Chiesa conciliare". L’ingiusta posizione del « Cristo-Re »

Riprendo un articolo pubblicato in questi giorni dal Distretto francese della FSSPX, per non passare sotto silenzio ciò che accade nella "Chiesa conciliare", cercando di comprendere quali sono le prospettive in una situazione così compromessa, con vescovi totalmente chiusi alla Tradizione. Dove non c'è Tradizione, ma soltanto suoi simulacri, c'è ancora la Chiesa?

"Il giornale Ouest-France il 17 luglio scorso ha annunciato la notizia al grande pubblico: un sacerdote dell'Istituto Cristo Re assicurerà ormai la messa "motu proprio" la domenica, nella Basilica Notre-Dame d’Espérance a Saint-Brieuc. Dopo una breve presentazione della Messa di S. Pio V, l'articolo risponde a tre domande: Perché una messa S. Pio V? Cosa sta cambiando, oggi? Perché il Cristo-Re? L'articolo conclude assicurando che questa notizia potrebbe inquietare: ma tutto avverrà sotto il controllo del vescovado ed in conformità con lo spirito del concilio vaticano II.

I due paragrafi che rispondono alle domande "Perché" sono pieni di ragguagli per coloro che si ponessero ancora domande sul Cristo-Re. Per la diocesi si tratta di soddisfare i fedeli attaccati alla liturgia tradizionale « senza andare a cercare presso l'integrismo » (leggete: "presso la Fraternità S. Pio X", perché non ce ne sono altre nel territorio di Saint Brieuc).

E' detto con chiarezza e precisione ed in perfetta conformità con le direttive dei Vescovi di Francia: l'Istituto del Cristo Re è strumentalizzato per distogliere fedeli dalla Fraternità San Pio X. Ed è ciò che accade in Francia, nel Gabon ed in altri paesi: il Cristo-Re non interviene che là dove la FSSPX è già impiantata. Ci sarebbero tanti luoghi in Bretagna nei quali far conoscere le bellezze della liturgia tridentina! C'è talmente tanto da fare per diffondere ovunque la messa di sempre... Ma no, questa collocazione risponde semplicemente alle esigenze della guerra condotta dai nostri vescovi contro la Tradizione. L'Istituto del Cristo-Re si presta a questo gioco sinistro: è la loro prima ingiustizia. Forse essi sono utilizzati loro malgrado? Ohimè no. Basta leggere le loro pubbliche dichiarazioni: « la questione principale nei loro confronti [NDR: nei confronti della FSSPX] è essere consapevoli di adoperarsi al massimo per la riconciliazione dei fedeli [NDR: la loro riunione alla chiesa conciliare] »

Questo Istituto, nella linea del motu proprio Ecclesia Dei Adflicta, è stato costituito allo scopo, tra gli altri, di recuperare i fedeli che seguono la Fraternità San Pio X e di farli ricongiungere alla chiesa conciliare!

La risposta all'altro "perché" - Perché il Cristo-Re? - conferma quanto diremo: è perché l'Istituto « resta aperto allo spirito conciliare", poiché i suoi sacerdoti « accettano di celebrare la messa col messale del concilio vaticano II e del Papa Paolo VI », poiché essi accettano «di concelebrare col vescovo in occasione dei grandi avvenimenti della vita diocesana ». E per meglio precisare, l'articolo conclude facendo presente che il giovane sacerdote proseguirà la sua formazione presso l’Institut Catholique di Parigi, «luogo emblematico del concilio Vaticano II ». Ed ecco! E' tutto. Si tratta della seconda ingiustizia.

Per farsi accettare, nelle diocesi, è stato necessario accettare gli errori del Vaticano II e la nuova messa. « Non sempre! ... Raramente ! ... anche eccezionalmente ! » mi direte. Ohimè! Anche eccezionalmente non sarebbe altro che il grano d'incenso bruciato agli idoli moderni. Anche i primi cristiani sarebbero stati accettati a Roma, se di quando in quando avessero sacrificato agli idoli...
Questa accettazione degli errori del Vaticano è apertamente riconosciuta dal loro fondatore, Mons. Wach : « ...giovane sacerdote… già constatavo i frutti positivi del pontificato di Giovanni Paolo II ».

Egli affermava ancora (nel settembre 2002): « Il pontificato di Giovanni Paolo II è contrassegnato da un grande irraggiamento... e da atti solenni del Magistero che costituiscono un baluardo per il futuro ».

Non si tratta dunque di un timorato silenzio sugli errori moderni, ma piuttosto della loro accettazione entusiasta. Il solo timorato silenzio dell'Istituto è quello concernente questa accettazione degli errori moderni per non turbare i fedeli tradizionalisti che essi tentano di recuperare. Infine, si sente perfino dire, ed è vero, che tutti i sacerdoti del Cristo-Re non accettano gli errori del Vaticano II né la nuova messa. Essi cosa fanno allora? Tacciono, evitando gli argomenti che sono spiacevoli da abbordare, leggendo il breviario durante le concelebrazioni alle quali devono recarsi...

La loro politica, conforme agli insegnamenti del loro fondatore, è di tacere per non avere problemi, tacere per continuare ad esistere. Ciò è, forse (?) soggettivamente comprensibile, ma resta oggettivamente un abbandono del loro dovere di pastori ed anche di semplici cattolici

Tacere quando la Fede è messa in causa, nelle attuali circostanze, è tradire questa Fede. Tacere abitualmente, in maniera deliberata, è rifiutare a Dio l'onore che gli è dovuto: ecco la terza ingiustizia!

Allora, il Cristo-Re, è un Istituto per diffondere la Tradizione nella chiesa conciliare? Certamente no, ma piuttosto per stornare i fedeli della Tradizione dottrinale attraverso la scappatoia della Tradizione liturgica!

Allora no, noi non potremo dire ai fedeli che possono sostenere in qualunque maniera questo ingiusto Istituto senza grave ingiustizia nei confronti della fede e dell'onore dovuto a Dio.

Abbé Jean-Baptiste Frament
Tratto dall'originale in francese: Sainte Anne n° 221 agosto/settembre 2010"