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sabato 28 maggio 2011

Magister e il dibattito sul Concilio. Proseguono analisi e controanalisi.

Magister scende ancora una volta in campo alimentando il dibattito dal fronte degli "allineati": Introvigne e Rhonheimer, in contrapposizione agli "anticonciliaristi" - da lui così definiti impropriamente - ma in realtà "critici propositivi": de Mattei e Gherardini. Questa volta, oltre alle repliche dei suoi due paladini, ha aggiunto una riflessione di Basile Valuet OSB che sorprendentemente sembra sparigliare un po' tutti, ma di fatto risulta "allineato" anche lui. Sto elaborando l'impegnativa puntualizzazione di questi ulteriori elementi. Nel frattempo pubblico qui la riflessione inserita oggi da Enrico su Messa in Latino. E' riportata dopo questa mia premessa, perché la ritengo validissima ed utile per fare il punto sulla questione prima di proseguirne l'approfondimento e la condivido toto corde.

Piccola dimostrazione dell'allineamento di Valuet. Estratto dalla sua critica a de Mattei:
A p. 469-470 tronca la lista dei limiti giuridici indicati da DH 7, § 3 per l'esercizio del diritto alla libertà religiosa (LR). Sempre contro la LR, DM (de Mattei), citando il discorso di Pio XII del 6 dicembre 1953, dimentica il passaggio seguente: "Può darsi che in determinate circostanze Egli [Dio] non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d’impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso? Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa". Dunque in queste circostanze la repressione è un'ingiustizia, muovendosi contro un diritto, quello del seguace dell'errore a non essere impedito. Da cui la non assurdità di un diritto negativo come quello di DH.
Del riesumato passaggio di Pio XII, che condiziona la sua affermazione con "in determinate circostanze", Valuet fa un assoluto, perché la Dignitatis Humanae non condiziona il diritto negativo, come Pio XII, in riferimento a "determinate circostanze", ma lo afferma senza condizioni assegnando alla Libertà di religione, nel citato n. 7, solo i limiti giuridici generici di qualunque principio morale che implica responsabilità personale e togliendo ogni discrimine rispetto alla "Verità tutta intera" di cui è portatrice la Fede cattolica.

Constatiamo che analisi e controanalisi proseguono e il dibattito si fa interessante, in alcuni punti ristagna in altri si arricchisce. Certo, in confronto ai tempi in cui veniva silenziata ogni voce critica, è pur sempre un progresso e si potrebbe ben sperare se se ne potesse intravvedere uno sbocco dal piano accademico a quello 'pastorale', che resta immutato ed intangibile.

Un esempio: finché non ci sarà anche una 'pastorale' non solo fantasmatica, ma concreta, non si attuerà mai alcuna promozione del Rito Romano usus antiquior. Infatti, se esso non vien fatto attivamente conoscere più diffusamente, non solo attraverso celebrazioni 'strappate' a vescovi e sacerdoti prevalentemente renitenti ma anche attraverso la corrispondente 'formazione permanente' del coetus fidelium, non potrà mai essere amato da più persone e continuerà a rimanere ghettizzato. Del resto anche l'Istruzione Universae Ecclesiae, senza la corrispondente 'pastorale', rischia di rimanere lettera morta tranne che per quanto affidato ad assetate ma non ascoltate buone volontà laiche ed ecclesiastiche. La stessa Istruzione presenta molte luci, ma anche alcune ombre che rischiano, se non di vanificarne, di attenuarne di molto l'efficacia. Anche questo, a breve, sarà oggetto dei nostri approfondimenti.

Non solo per questo ovviamente, ma non a caso, il "discorso da fare" di Gherardini appare ora il "discorso mancato". Non nel senso della discussione, che tuttora ferve rispetto a quando non se ne poteva neppure parlare; ma nel senso della presa d'atto e conseguenti interventi per pareggiare la verità da parte del Papa.


Puntualizzazione di Enrico (MiL)
Magister persiste a presentare come difensori del Papa, contro i malvagi anticonciliaristi de Mattei e Gherardini, i prodi paladini Introvigne e Ronheimer, dei quali ha pubblicato ieri due repliche peraltro molto interessanti. Ne riportiamo i principali passaggi. Come vedrete, in realtà le posizioni di questi asseriti "difensori del Papa" sono talmente divergenti tra loro che, evidentemente, o solo uno dei due assume correttamente le difese della tesi del Papa, oppure nessuno dei due, come personalmente sono portato a ritenere. Abbiamo infatti sulla cattedra di Pietro qualcuno che, quando poteva parlare più liberamente, aveva scritto del Concilio: "I risultati sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti [ ... ]. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un richiamo al Concilio e ha quindi contribuito a screditarlo per molti" ("Ecco perché la fede è in crisi", intervista a cura di Vittorio Messori, in Jesus, 11.11.1984, p. 70). Se quella è l’opinione di Joseph Razinger, è chiaro che con l’allocuzione del 22.12.2005 ci ha sostanzialmente chiesto di assumere uno sguardo sul Concilio totalmente nuovo rispetto all’ermeneutica fino ad ora pressoché totalitaria; sguardo che non può che essere critico e demitizzante di tutto quanto avvenuto negli ultimi 50 anni. Certo, sarebbe irrealistico e prima ancora teologicamente insostenibile rifiutare sic et simpliciter il Concilio, e pertanto non ci resta che lo strumento esegetico, da utilizzare in modo totalmente diverso rispetto a quanto avvenuto negli ultimi decenni, come ricorda il Papa; ma appunto studi (come quelli di de Mattei e Gherardini) che del Concilio sfrondino gli allori ed evidenzino i problemi e le ambiguità, sono la necessaria premessa, non fosse che come pars destruens, per toglier di mezzo l’ancora imperante mitologia conciliare e così consentire l’operazione di ricostruzione dottrinale, prima ancora che liturgica, tanto cara al Papa.

Ma torniamo ai due articoli. Introvigne sviluppa principalmente un concetto: che solo il Magistero può stabilire che cosa sia conforme a Tradizione e che cosa no, pena una deriva protestante in cui ciascuno (e quindi, di fatto, i teologi sulla breccia) si fa metro di che cosa sia la Tradizione. L’osservazione non è priva di plausibilità, ma solo entro certi limiti: perché se diviene un criterio assoluto come vuole Introvigne, diventa un argomento ex auctoritate che in alcuni casi limite porta a violentare il sensus fidelium e il raziocinio dei cristiani. Di fronte ad evidenti casi di vero e proprio revirement magisteriale - come nel caso emblematico della libertà religiosa, o come la definizione della Messa nella prima versione dell’Institutio generalis del messale paolino (che, siccome debitamente promulgata, fu anch’essa Magistero) - Introvigne ci chiede di ricorrere ad una sorta di double thinking per convincerci che il dopo è sostanzialmente identico al prima (Orwell, nel suo cupo capolavoro 1984, così definisce l’abito mentale del double thinking o bispensiero, attitudine indispensabile per non accorgersi delle contraddizioni nella propaganda del partito unico, e anzi per ritenere perfettamente conciliabili gli opposti: "Dimenticare tutto quello che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi dimenticarlo da capo: e soprattutto applicare lo stesso processo al processo stesso. Questa era l’ultima raffinatezza: assumere coscientemente l’incoscienza, e quindi da capo, divenire inconscio dell’azione ipnotica or ora compiuta. Anche per capire il significato della parola "bispensiero" bisognava mettere, appunto, in opera il medesimo"). Qualcuno dirà che un meccanismo mentale analogo teorizzava S. Ignazio di Loyola quando chiedeva di considerare bianco quel che la Chiesa dice essere bianco, anche se lo si vede nero. Confesso che quell’aforisma ignaziano non mi è mai piaciuto (perché il nostro Dio è ragione: non siamo mica musulmani); ma in ogni caso invitava ad anteporre il giudizio della Chiesa al proprio: quid, invece, se bianco e nero lo dicon due papi diversi nella storia?

In sostanza Introvigne deve ricorrere al letto di Procuste per stiracchiare o restringere i testi magisteriali, nel tentativo di farli conciliare perfettamente tra loro e di sostenere che nulla mai cambia, se non qualche accidentale apparenza. Ma naturalmente, un tentativo del genere può stentatamente reggersi in piedi solo a prezzo di ragionare per slogan e petizioni di principio (ad esempio, ripetendo come un dato a priori che dev’esserci necessariamente una continuità) e quindi censurando ogni forma di approfondimento e di riflessione critica: il che infatti Introvigne s’è dato per missione di fare, dacché pensatori come Gherardini e de Mattei hanno iniziato a sollevare i loro dubbi.

La tesi di Ronheimer è invece più piana. Non tenta quell’improbabile coincidentia oppositorum, ma riconosce tranquillamente che vera discontinuità vi fu; salva, naturalmente, una continuità di fondo del soggetto Chiesa; continuità però talmente ricacciata a livello di principi ultimi da risultare quasi evanescente. Tra le due tesi (quella di Introvigne e quella di Ronheimer), la seconda è più consequenziale con le premesse, ossia con quell’insistenza sul concetto di riforma rispetto a quello di continuità, su cui batte molto anche Introvigne, ma senza avvedersi, a differenza di Ronheimer, delle conseguenze cui quell’idea necessariamente porta: ossia ad una piena accettazione di livelli talmente alti di ‘discontinuità’ da non essere molto lontani da quelli della tanto deprecata (e a ragione) ‘ermeneutica della rottura’.

Per concludere, a me pare che tanto l’impasse in cui si getta Introvigne (che per salvare il valore del Magistero diacronico della Chiesa, ai suoi occhi sempre e comunque vincolante per i fedeli, invita a fingere di non vedere contraddizioni sol perché ritiene aprioristicamente che non ce ne possano essere), quanto l’affermazione da parte di Ronheimer che su aspetti non dogmatici la dottrina della Chiesa può tranquillamente cambiare, dimostrano una cosa: ossia che i documenti della Chiesa hanno gradi di opinabilità sufficientemente alta, fintanto che non concernono il depositum fidei. Il che, è un modo per dire che gli insegnamenti più controversi del Concilio, proprio perché non toccano la fede o la morale, sono pienamente criticabili e non assentibili al pari, quanto meno, degli insegnamenti passati sugli stessi temi che il Concilio ha voluto superare e modificare.
Enrico [Fonte: Blog Messa in Latino, 28 maggio 2011]

venerdì 27 maggio 2011

Centenario dalla nascita di Cornelio Fabro. Convegno ad Udine

Comitato Internazionale per il 1° Centenario
della nascita di Cornelio Fabro
Sede della Presidenza: Casina Pio IV
(00120) Città del Vaticano
Segreteria: Via Mazzarino, 16 (00184) Roma
Tel. +39 - 069766752 (lun-sab dalle 9,00 alle 12,00)
Cell. 3403649154 / 3461001877 www.centenariofabro.org - info@centenariofabro.org


Invito a convegno: (scarica o visualizza la locandina)
Nel centenario dalla nascita del Filosofo friulano 1911-2011
Il 30 e 31 maggio 2011, a partire dalle ore 9.00, a Palazzo Belgrado (sede della Provincia di Udine) si terrà il Convegno
CORNELIO FABRO E LA SUA OPERA: TEMI DI UN PENSIERO VIVO
Il Convegno sarà trasmesso in diretta via internet al sito:
http://www.provincia.udine.it/comunicazioneistituzionale/webradio/Pages/default.asp


Siamo lieti di darne notizia, per chiunque fosse interessato, come richiesto dalla Segreteria Scientifica dell'Università degli Studi di Udine:
Prof. Gabriele De Anna
Per contatti e informazioni:
E-mail: convegni.filosofici@gmail.com
Tel.: 335-8051374

venerdì 20 maggio 2011

Un nuovo libro di Enrico Maria Radaelli. Per riprendere a costruire la civiltà a partire dalla Bellezza.

La Bellezza che ci salva di Enrico Maria Radaelli

Tra le conclusioni del Convegno di dicembre scorso sul Concilio Vaticano II è emersa la consapevolezza che nella difficoltà ermeneutica in cui ci dibattiamo si nasconde la carenza della metafisica. E’ un problema di forma e di sostanza: la modernità fa perdere chiarezza accusando il dogmatismo normativo, ma accantonare la metafisica è significato accantonare la fede che è messa in un angolo.
E’ appena uscito un nuovo libro di Enrico Maria Radaelli (*), un autore che ha la peculiarità di intraprendere percorsi metafisici di rara profondità e suggestione intellettuale e spirituale, sviluppando e proseguendo sia l'opera di Romano Amerio che la sua personale elaborazione su dove e come sia avvenuto il «disorbitare della Chiesa dal suo fine primario» e individuando le soluzioni secondo la Tradizione perenne, non quella “vivente” in senso storicistico.

Abbiamo la ventura di immergerci in 300 pagine che flagellano e svuotano di ogni sua più ridicola pretesa di ragionevolezza e persuasività il liberalismo massonico: La Bellezza che ci salva. La forza di Imago, il secondo Nome dell’Unigenito di Dio, che, con Logos, può dar vita a una nuova civiltà, fondata sulla bellezza.

Avrebbe potuto chiamarsi La Verità che ci salva (soprattutto dal liberalismo massonico), ma l’Autore ha voluto riferirsi alla nota affermazione dostoevskjiana in primo luogo per mostrarne una volta per tutte la futilità, in secondo per portare finalmente alla ribalta le devastanti nuove eresie iconologiche propalate dalle diaboliche vesti cementizie delle nuove chiese, che sono lo specchio di quelle logiche che stanno oscurando la Tradizione perenne, unica portatrice della Verità.

Nelle nuove chiese impera da decenni l’«assenza di immagini» di Cristo e delle sue schiere di angeli e santi, impera cioè l’iconoclasmo, e Radaelli dimostra che esso è il risultato visivo e appariscente dell’attuale ostinata e grave sospensione della pastorale dogmatica nel magistero della Chiesa, dunque è doppiamente «incompatibile con l’Incarnazione» (p. 156).

La sospensione del munus dogmatico a favore di un insegnamento meramente “pastorale”, denunciato da mons. Gherardini come il più grave intorbidamento del magistero attuale, è dichiarato da Radaelli un vero e proprio «peccato di pastoralità del magistero» (p. 54) sia contro la fede che contro la carità, iniziato da Giovanni XXIII e tenuto dai Papi fino ai giorni nostri: «Ma – mette in guardia Radaelli – senza chiarezza dogmatica anche l’arte sacra sarà confusa, relativista e gnostica» (p. 285).

Lo si vede nella Messa, dove, dopo aver spesso «annientato e distrutto gli antichi altari con incredibile e furioso scempio, spiegabile solo con l’odio per la sacra liturgia Tridentina» (p. 170), si è riversata tutta sulle variazioni liturgiche, ognuna cangiante dal più al meno riguardo alla sacralità alla nobiltà e alla religiosità, studiate con scientifica circospezione dalla commissione liturgica istituita da Paolo VI, col dichiarato scopo di raggiungere fratellanza ecumenica con chi quei cangiamenti, se non anche tagli selvaggi, aveva già fatti propri secoli fa.

Il testo è frutto di uno sforzo intellettuale intriso di preghiera, anzi di Adorazione, diretto ad affrettare il tempo in cui il Trono più alto stabilisca che il linguaggio immerso nell’orizzonte Trinitario dell’arte sacra, discendente dal Nome Imago, ha la stessa potenza veritativa del linguaggio magisteriale discendente dal Nome Logos – e a questo obbediente – proteggendo oggi i fedeli dalle nuove eresie iconologiche come da sempre li ha difesi da quelle logiche, anch’esse tuttavia da ricondurre nei loro argini dai quali sono esondate, invadendo territori che dovevano e devono essere invece custoditi con sacro timore.

Le sue pagine scalano pareti di roccia dogmatica con la forza attrattiva di un linguaggio chiarificatore ed icastico che ne scava e porta alla luce lo splendore della verità. Riconosciamo il sistema teologico-filosofico propriamente scolastico, insieme ai lampi di luce del ‘Sensus Communis’, in cui l’autore si muove con grande levità ed eleganza, nello sgorgare di parole incandescenti, che conservano tutta la loro pregnanza semantica originaria, dalla quale i correnti linguaggi ateoretici mutuati dalle filosofie immanentiste e lo stile colloquiale che rende i discorsi ambigui ed approssimativi rischiano di allontanarci. Esse immediatamente destano l’intuizione e lo stupore che sempre si accompagna alla conoscenza per riposare, poi, nella riflessione e nell’assimilazione di vere e proprie melodie fatiche, che aprono alla scoperta di quello che ci appare il nostro paesaggio più naturale, si spingono fino al nocciolo più profondo della nostra ricerca a partire dai sacri Nomi del sommo Intelletto per riconfluirvi ricolmi dell’acqua delle sorgenti celesti. Ed ecco configurarsi il paesaggio, nuovo della germinale fioritura: «audacia» che nasce dalla sua intrinseca fecondità: «Tradizione», denso del realismo incantato ed incantevole, di una filosofia dell’estetica propriamente e gioiosamente trinitaria.

Tre gli obiettivi, o “proposte forti”, di questo libro scritto per ridare animo a una civiltà fondata sulla bellezza:
  • primo obiettivo (Proposta preliminare): ripristinare gli argini del Fiume della bellezza, le cui Sorgenti sono nelle relazioni trinitarie, dimostrando che essi, legata com’è la bellezza alla verità, si trovano soltanto nella guida “dogmatica” che la Chiesa ha tenuto da sempre (nella quale la verità è riconosciuta nella sua limpida, univoca e splendida realtà), e non in una guida meramente “pastorale”;
  • secondo obiettivo (Prima proposta): individuare le Origini della Bellezza scoperte quasi senza saperlo da san Tommaso d’Aquino settecento anni fa individuando i quattro Nomi dell’Unigenito di Dio (Imago, Splendor, Logos e Filius), specie il primo, che, in quanto Volto, Aspetto ed Espressione del Logos, cioè del Pensiero, è anche la prima Fonte della conoscenza;
  • terzo obiettivo (Seconda proposta): rendere esplicito il criterio da sempre utilizzato dalla Chiesa per fare bellezza, cioè per insegnare, individuato dall’Autore nel binomio «tradizione-audacia» (e come tale autorevolmente riconosciuto anche dal cardinal Ravasi in un seminario tenuto nella Biblioteca del Pontificio Consiglio per la Cultura il 14-7-2010). Infatti “il dittico «tradizione-audacia» rappresenta la forte muraglia intorno all’Hortus conclusus dell’insegnamento della Chiesa – stavolta sul piano metodologico – per tenere avventuristi da una parte e abitudinari dall’altra fuori comunque entrambi dalla cerchia della sua fervorosa città dove regna solo la vita, l’operosità costruttiva dell’attenzione, lo slancio calmo di chi sa che ogni buon insegnamento, ogni buon progetto armonico, ogni santa parola, è una maternità, una straordinaria maternità che dà i suoi frutti soprannaturali tutti pronti per l’eternità” (p. 245).
Con queste tre “proposte forti” riprendere la costruzione della Civiltà della Bellezza non è più un sogno, ma un lieto, sacro dovere.
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>L'Autore
(*) Enrico Maria Radaelli, docente di Filosofia dell’estetica, e direttore del Dipartimento di Estetica della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), ha collaborato per tre anni alla cattedra di Filosofia della conoscenza (sezione Conoscenza estetica) della Pontificia Università Lateranense. Opere precedenti: Ingresso alla Bellezza, Fede & Cultura, Verona 2007; Sacro al Calor bianco. La Messa di san Pio V e la Messa di Paolo VI alla luce della Filosofia dell'Estetica trinitaria, Edizione pro manuscripto 2008; Romano Amerio. Della verità e dell'amore, Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005; Teomachia ultima. Teologia delle tre grandi religioni monoteiste, pro manuscripto Milano 2005; Il mistero della sinagoga bendata, Effedieffe 2002; Per l'Opera Omnia di Romano Amerio in corso di uscita per la Lindau, ha curato finora i primi tre valumi, Iota unum, Stat Veritas e Zibaldone, con tre ampie e appropriate Postfazioni.

>Il Libro
«Giovani in estinzione. L’Italia ne ha persi due milioni in dieci anni» (così il rapporto del «Censis» nella primavera del 2011). Da qui si può capire il titolo «La bellezza che ci salva»: la bellezza non è «leggera come una farfalla» (cfr. p. 47), ma è la bellezza della verità: una bellezza di contenuti.
Si parla di arte, si parla di paesaggi e di chiese, ma il vero soggetto è l’uomo, cui qui, sulle orme di san Tommaso d’Aquino, vengono mostrate le Origini della bellezza (primo capitolo) e il criterio per realizzarla a sua volta anche nella vita più quotidiana (secondo capitolo).
Futuro, positività, «sorridenza», Paradiso, sono obiettivi raggiungibili se, mantenendosi nell’equilibrio del senso comune dato dalla ragione vivificata dalla grazia, «non si cade nei dirupi di misoneismo o di avventurismo» (terzo capitolo), così riprendendo la costruzione della civiltà a partire ancora dalla bellezza, devastata dai flagelli materiali e morali del «Ciclope del Liberalismo» (p. 17).

La Bellezza che ci Salva. Edizione pro manuscripto, Milano 2011, pp. XX + 306, euro 35; si può richiedere all’Autore (328.83.42.142), via San Sisto, 3 -20123 Milano, oppure con e-mail a: info@enricomariaradaelli.it, o a: www.hoepli.it.

Maria Guarini

giovedì 12 maggio 2011

Magister e il “Papa riformista”. Perché sarebbero “anticonciliaristi” anziché “propositivi” coloro che discutono sui documenti conciliari?

In questi giorni Sandro Magister torna alla carica portando alla ribalta gli scritti, con le rispettive visioni sul Vaticano II e post concilio di De Mattei, Introvigne e Rhonheimer. Sullo sfondo il “Papa riformista” e, in primo piano, gli allineati (Introvigne, Rhonheimer) ed i critici propositivi (de Mattei et alii) tra i quali potremmo collocarci anche noi, qualificati in maniera tagliente anticonciliaristi” (in una precedente occasione "delusi" da Papa Benedetto); il che significa banalizzare e troncare di netto il dibattito che si tenta di sviluppare, tacciando da dissenzienti sic et simpliciter, voci che, invece:


  • analizzano fatti ricostruiti nel contesto storico risalendo alle radici prossime e remote della crisi che attraversiamo, polarizzatesi e riconoscibili nei sedici documenti conciliari e quindi tradotte in parole gesti ed omissioni nel post-concilio (R. De Mattei) oppure
  • analizzano i testi e ne fanno l'esegesi utilizzando l'intelligenza critica, al fine di individuarne la forza teoretica e pratica in relazione con il Magistero di sempre (R.Amerio, F. Spadafora, B.Gherardini, S.Lanzetta, E.M.Radaelli, il quale ultimo ha la peculiarità di intraprendere percorsi metafisici di rara profondità e suggestione intellettuale e spirituale, sviluppando e proseguendo sia l'opera di Amerio che la sua personale elaborazione su dove e come sia avvenuto il «disorbitare della Chiesa dal suo fine primario» e individuando le corrispondenti soluzioni. Ci sono numerosi altri studiosi che non nomino qui, alcuni dei quali abbiamo avuto già occasione di incontrare nei nostri approfondimenti mentre altri ne incontreremo).
Ed è così che gli “allineati” continuano di fatto ad attribuire al Concilio la peculiarità di «un evento che cessa di essere un elemento da situare nella Tradizione cattolica per diventare la misura stessa della valutazione della Tradizione». L'espressione sul concilio è di de Mattei il quale reputa, al contrario, che dello stesso si possa discutere sul piano storico - ed anche teologico - , in maniera non diversa da quanto hanno sempre fatto gli storici della Chiesa, in ordine ai fatti, ed i teologi, in ordine ai princìpi.

Non dimentichiamo che il concilio Vaticano II è stato ed è un ‘punto’ nella storia della Chiesa, come lo sono stati in misura più o meno incisiva gli altri che lo hanno preceduto. Certamente non è un ‘punto e accapo’ come molti novatori non solo sostengono, ma operano di conseguenza ed in discontinuità. E allora si dà il caso che la Tradizione viene considerata un evento, quindi una parte, mentre essa è il tutto.

Ricordiamoci le “due fonti” della Rivelazione: Tradizione e Sacra Scrittura. Esse risultano messe in discussione dalla Dei Verbum che ne opera l'unificazione affermando che Scrittura Tradizione e Magistero «coalescunt in unum» (paragrafo 10), in netto contrasto con l'asserto da cui parte (nel proemio) «Seguendo le tracce del Tridentino e del Vaticano I» [Brunero Gheradini, Il discorso mancato, pag.40]. Uno dei tanti elementi di discontinuità da approfondire e su cui si fonda l'attuale atteggiamento teoretico e pratico che ha creato nella Chiesa cattolica uno iato generazionale che rischia di divenire incolmabile.

Manca di senso logico, prima ancora che teologico, chi si ostina a contrapporre Tradizione e magistero cosiddetto “vivente”, come se la Tradizione fosse il passato e il magistero vivente fosse il presente, mutato e mutevole che prepara un futuro in continua evoluzione, in un susseguirsi di ‘quanti’ puntuali, perdendo l'originaria continuità evolutiva. La Tradizione è il Magistero presente, che contiene in sé sia il passato, che non sostituisce ma assume e completa, che i germi del futuro. Tuttavia i germi del futuro sono nel presente solo in quanto già ereditati dal passato e non prodotti ex novo (come sta avvenendo oggi). La Rivelazione è già data, non può evolversi: ciò che si evolve è la sua ulteriore comprensione ed esplicitazione, ma c'è un requisito importante che serve da ‘canone’ e anche da ‘garanzia’: eodem sensu eademque sententia”...

Di certo la Tradizione non rinasce nuova da un Concilio, che tale potrebbe lasciarla trasparire, nel momento in cui Benedetto XVI lo definisce come la sintesi onnicomprensiva e l'espressione più pura dell'intera Tradizione, mentre afferma il giudizio di continuità pur ammettendo «qualche apparente antitesi»: vedi il precedente articolo sulla “Libertà di religione”. E' da questo che Magister gli rivendica la definizione di “Papa riformista”. Ma è proprio per questa sua affermazione che il Concilio rischia di permanere un “unicum” intoccabile e indiscutibile; il che, alla resa dei conti, oltre a rivelarsi inesatto sulla base di numerosi riscontri analizzati fino ad oggi, rischia di troncare sul nascere l'ineludibile necessità - che è anche un dovere - di tornare a distinguere il permanente valore «dogmatico» legato ai «fatti storici» che oggi invece si tende impropriamente a coinvolgere nella loro mutevole contingenza.
Maria Guarini

domenica 8 maggio 2011

La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa. Convegno a Firenze


Il giorno 20 maggio 2011 - ore 17,30 presso la Chiesa di Ognissanti
(Borgo Ognissanti, 42 - 50123 Firenze)
si terrà un convegno sulla Tradizione della Chiesa, dal titolo:
Quaecumque dixero vobis
La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa

Intervengono:
Prof. Don Renzo Lavatori (Università Urbaniana)
Prof. p. Serafino M. Lanzetta (S. T. Immacolata Mediatrice)
Dott.ssa Cristina Siccardi (scrittrice)
Prof. Mons. Brunero Gherardini (em. Università Lateranense)

Nell'occasione saranno presentati i due recenti volumi di Mons. B. Gherardini:

Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Lindau 2011





Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010


Alle ore 16,30 sarà celebrata la S. Messa nel Rito Romano antico

Tutti i lettori sono invitati a partecipare!

mercoledì 4 maggio 2011

Passione della Chiesa. Amerio ed altre vigili sentinelle

Prima di avventurarmi nell'analisi del saggio di Rhonheimer, un po' specialistica e meno divulgativa, e che richiede un adeguato approfondimento, fatto di studio e di riflessione sui testi originali citati e collegati, inserisco una informazione riguardante una delle recenti tappe di confronto e approfondimento della situazione della nostra Chiesa.
Si tratta del Convegno organizzato dal Centro Culturale Vera Lux - Bologna, tenutosi il 12 giugno 2010 a San Marino. Oltre al Vescovo, Mons. Luigi Negri, al Convegno, introdotto dal Dr. Lorenzo Bertocchi, hanno partecipato relatori di spicco come Mons. Brunero Gheradini, Mons. Nicola Bux, Matteo D'amico, P. Giovanni Cavalcoli.

Trascrivo alcune parole significative dall'introduzione del gen. Lorenzo Bertocchi, mentre ringrazio il gen. Normanno Malaguti, che cortesemente mi ha fatto pervenire il testo degli Atti, Passione della Chiesa. Amerio e altre vigili sentinelle, edito da Il Cerchio, Bologna 2011.

... Per comprendere il cuore del problema occorre ritornare ancora una volta al famoso discorso di Benedetto XVI a Regensburg, laddove si parla della necessità «dell'allargamento del nostro concetto di ragione», capace cioè di superare le strettoie di un razionalismo empirico che di fatto riduce la verità al misurabile. Romano Amerio nelle sua importante opera Iota unum, Ed. Lindau, pag. 314, esprime ciò in un modo preciso: «alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell'uomo», quello che egli chiama “pirronismo” e che in estrema sintesi consiste nella presunta incapacità di poter raggiungere la verità. Questa sfiducia nella verità si traduce nella crisi dell'autorità e della dottrina della Chiesa come “garanzie di libertà”, così il fedele si perde in un caos dottrinale che sfibra la fede e conduce al soggettivismo in campo etico.

Il “pirronismo” si è veramente introdotto nella Chiesa? [...] E' sempre più chiaro ormai che il facile abbraccio con filosofie alla moda abbia intaccato la teologia, producendo in alcuni casi «dottrine fuorvianti» che il Papa stesso ha richiamato nell'omelia del 29 giugno 2010 parlando di Comunità che ne «patiscono l'influenza». [...] A volte vi è la tentazione di non parlare di questi problemi perché si ritiene siano già stati ripetuti troppe volte, oppure perché si possa generare chiusure negli interlocutori, ma a ben guardare il lavoro è tutt'altro che compiuto, pertanto speriamo che l'autorevole contributo dei relatori possa aiutare a chiarire alcuni noti della storia recente della teologia e più in generale della Chiesa stessa...


Stralcio dall'intervento di Mons. Gherardini, Passio Christi, Ecclesiae passio:
[...]
2 - Le “Stazioni” - Amerio, a quanto pare, non parla di “passione”. L'idea che prende in esame è quella della “crisi”, da lui analizzata nella sua natura, nei suoi contesti e nelle sue conseguenze. Io pure -che non chiudo gli occhi davanti alla persecuzione cruenta - son dell'avviso che la passio Ecclesiae sia oggi la perdurante continuità d'una crisi iniziata in modo speciale dall'Illuminismo e ingigantita dalla “desistenza” secolare di chi avrebbe dovuto combatterla. Una crisi polimorfa, che Amerio descrive specialmente nei due primi capitoli, tenendola però presente in tutto il complesso degli altri. Una crisi che non ha nulla in comune con il meschino tentativo di chi, per nasconderne pericolosità e virulenza, la qualificò come “crisi di crescenza”, quasi a sottrarre da sicura e doverosa condanna sia l'accennata “desistenza”, sia il conseguente «disorbitare della Chiesa dal suo fine primario». La crisi fu scatenata e poi fin al presente mantenuta ora sotto la cenere, ora a livelli d'incandescenza, quando forze latenti, ma aggressive, polemiche, centrifughe e soprattutto potenti, apriron le porte del santuario allo spirito del secolo, sostituendo l'uomo a Dio, “l'ubi consistam” spazio-temporale all'escatologia cristiana, il pirronismo alla certezza, il pluralismo all'Una Sancta, il disfacimento del costume alla virtù.

Fin dagli anni del Vaticano II ma soprattutto durante il cinquantennio del postconcilio si soppresse l'antagonismo Chiesa-mondo; si inneggiò ad un cristiano maturo non più in stretta collisione con i pericoli del secolo, ma a braccetto con essi; si chiuse l'era paradossalmente angusta della cristianità cattolica, per aprir quella indiscriminata e vaga del “popolo di Dio”; si ribaltò di sana pianta la base giustificativa del Sillabo e della Pascendi, aprendo ingenuamente a quel liberalismo ed indifferentismo e relativismo e modernismo che quei documenti fronteggiavano; si stravolse l'in-sé della Chiesa e della vita cristiana, affossando il soprannaturale nel magma del naturalistico, del razionalistico, dello storicistico, dell'immediato ed immediatamente disponibile, tutto risolvendo in una Weltanschauung che, alle classiche virtù teologali, cardinali e morali, sostituiva i valori della spontaneità della libertà, del sentimento, dell'aperturismo a buon mercato. Nasceva, e in breve furoreggiò, un Cristianesimo umanitario, quello del buonismo acritico e superficiale, del dialogo, della condivisione, dell'aperturismo in ogni direzione, senza preoccupazioni dogmatiche etiche disciplinari, all'insegna anzi di quel “circiterismo” che Amerio riprende da Giordano Bruno per indicare ogni disinvolto embrasson-nous, perfino nel caso non raro di un amplesso letale. A ciò s'aggiunga l'allentamento della disciplina penitenziale, la crisi dell'obbedienza, la deformazione dialogica dell'apostolato kerigmatico, la degradazione del sacro nel secolare e della communio in una sequela senza fine di sfide. Sì, la crisi non poteva esser meno eversiva né meno pervasiva di com'è stata.

A mio giudizio resta difficile capire perché, pur avendo della crisi una conoscenza diretta ed obiettiva, non si sia corsi ai ripari. Paolo VI, il 7 settembre 1968, rilevò «l'ora inquieta d'autocritica, si direbbe d'autodemolizione» e «di rivolgimento assoluto» che la Chiesa stava vivendo. Celebre è rimasto il suo accenno del 30 giugno 1972 al «fumo di Satana» insinuatosi «nel tempio di Dio». Ed il 18 luglio 1975, inutilmente gridò il suo «basta con il dissenso alla Chiesa. Basta con una disgregatrice interpretazione del pluralismo... Basta con la disobbedienza qualificata come libertà». Tanto inutilmente, che il suo successore, il 7 febbraio del 1981, si disse costretto ad ammettere «realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità» lo sbandamento dei fedeli conseguente a «vere e proprie eresie in campo dogmatico e morale», alla manomissione della Liturgia, al relativismo, al permissivismo, al sociologismo e ad un illuminismo che spiana la via all'invadenza dell'ateismo.
Non meno incisiva né meno drammatica è la denuncia della crisi ecclesiale, con cui Papa Benedetto XVI tenta di scuoter le addormentate coscienze. Era ancora cardinale quando firmò la Via Crucis del 2005, che pose all'attenzione del mondo la «sporcizia... la superbia, l'autosufficienza e la mancanza di fede» fra gli uomini di Chiesa, nonché la Chiesa stessa nella condizione d'una «barca che fa acqua da tutte le parti». Pochi mesi dopo, da Papa, riprese con forza maggiore un suo vecchio discorso su «la dittatura del relativismo», causa prima della secolarizzazione montante, e sul relativismo insiste ancor oggi. Ma “le stelle stanno a guardare”.

3 - Per una conclusione - Lungi da me il segnar a dito le “stelle” che “stanno a guardare”: non ho la vocazione a far il cane da guardia. Ma nemmeno ho gli occhi così bendati da non vedere e non capire.

Vedo e capisco sia il dramma d'una Chiesa nella morsa d'una contraddizione storica, contro la quale occorre, e subito, impegnarsi a fondo; sia la ragione, quasi metafisica, che almeno in parte sottrae quel dramma al nostro intervento.

Quanto di quel dramma -e non è una misura da poco- è dovuto
  • ad incuria,
  • o ad un abbassamento della guardia;
  • o ad una compiacente strizzatina d'occhi all'“inimicus homo” (Mt 13, 25.39),
  • o ad una desistenza dal dovere della fedeltà e della testimonianza;
  • o ad un colpevole rimescolamento delle carte fra il e il no, per fare scomparire del tutto la discriminante tra il bene e il male;
  • o al “circiterismo” pasticcione e confuso di gran parte della teologia contemporanea, la cui sola unità di misura sembra l'abbandono della Tradizione e quindi della linfa che alimenta la vita ecclesiale;
  • o ad una burbanzosa autosufficienza che inalbera la coscienza del singolo o di gruppi particolari a giudice supremo della legge di Dio, sia naturale che rivelata e della Chiesa interpretata e proposta;
quanto -insomma- è dovuto a tutto questo e ad altro ancora, non ha diritto di cittadinanza nella “città di Dio”, essendo antitetico alla costituzione e alla vita di essa. Di tutte queste storture e devianze e ribellioni s'intesse, sì, la passio Ecclesiae, ma è una passione che non s'identifica mistericamente con quella di Cristo, non arricchisce e non dilata la Chiesa come il sangue dei martiri. La mortifica, anzi la strozza, le rifila l'aria che dovrebbe respirare, la riduce al rantolo. Contro questa passio, pertanto, occorre prender posizione, essa va neutralizzata, e l'unica maniera per farlo è quella d'una fedeltà a tutta prova: la fedeltà dei santi.

Ho peraltro accennato, poco sopra, ad una causa quasi metafisica della passio Ecclesiae ed irriducibile per questo ad uno qualunque dei comportamenti umani. Essa nasce dalla sacramentale identità del Cristo fisico e del Cristo mistico e prolunga l'epopea del Golgota nel tempo del già e non ancora: la Chiesa è per questo il Christus patiens. Gli aggettivi “sacramentale” e “misterico”, cui faccio ricorso per qualificare l'identificarsi della Chiesa in Cristo e di Cristo nella Chiesa, portan il discorso sul piano dell'analogia, ancorché ontologicamente fondata. Non si tratta, infatti, di una identità assoluta, ma d'una continuità che il linguaggio dei Padri e della liturgia definisce in mysterio, e quindi di una repraesentatio della Chiesa come continua Christi incarnatio. In particolare d'un rapporto che riproduce nella Chiesa una cristoconformità tale da conferirle quella medesima “immagine del Dio invisibile” che Col 1,15 predica del Verbo incarnato ed in base alla quale la Chiesa ha, del Verbo incarnato, la forma storica d'un amore che si dona fino al sacrificio supremo di sé. La detta repraesentatio non è, dunque, una rappresentazione, se mai è una “ri-presentazione”, o meglio un'assimilazione di due soggetti fin al loro sacramentale ed unificante incontro. Sta qui la ragione per la quale la Chiesa è il Christus patiens, non il Christus passus: rivive nell'attimo che fugge la realtà stessa del Redentore, del Mediatore unico tra Dio e gli uomini, del Rivelatore fedele e qui si radica l'espressione “fuori della Chiesa non c'è salvezza”, oggi superficialmente contestata.

Commossi, pertanto, fin alle lacrime, ci mettiamo nelle braccia di questa chiesa, per aver accesso, attraverso la sua stessa passio, alla passio salvifica di Cristo.