Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 28 gennaio 2020

Il cardinale Stickler il celibato sacerdotale e le sue origini apostoliche

Il libro del cardinale Sarah e di Joseph Ratzinger sul celibato sacerdotale ha suscitato una marea di analisi, commenti e forti reazioni di ogni tipo. Di seguito riprendiamo un saggio di Silvio Brachetta basato sugli studi del cardinale Alfons Maria Stickler.

Il cardinale Stickler e il celibato sacerdotale

Tra i molti autori che hanno dimostrato l’esistenza della vocazione teologica alla continenza da parte dei sacerdoti, emerge per chiarezza un lavoro del cardinale Alfons Maria Stickler (1910-2007)[1], redatto quasi trent’anni fa per dimostrare un assunto: non è vero che il celibato sacerdotale e la relativa continenza è una prassi tardiva della Chiesa e non è vero che nella Chiesa primitiva ai sacerdoti era consentito di continuare a usare del matrimonio.
È vero – scrive Stickler – che fino al Rinascimento vi erano in abbondanza chierici ancora sposati prima di ricevere l’ordine sacro. Ed è anche probabile che gli stessi apostoli fossero sposati, seppure la certezza si abbia per il solo san Pietro. Non è, dunque, messa in discussione la consuetudine, per tutto il primo millennio e oltre, di ordinare al sacerdozio anche uomini sposati, in percentuale non irrisoria. Ma da qua si cade facilmente nell’equivoco, perché l’obbligo al celibato – che «sin dall’inizio veniva giustamente chiamato “continenza”» – compare da subito, nell’insegnamento stesso di Gesù Cristo, il quale si rivolge agli apostoli e dice loro: «In verità io vi dico, non vi è nessuno che abbia abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie, figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più…»[2].

Che gli apostoli fossero sposati o meno, il Signore qui parla proprio di abbandono della moglie (e di relativa accettazione della continenza). Anche nell’ipotesi che fossero sposati, va attentamente considerata la domanda di san Pietro, che provoca la risposta di Gesù: «Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito»[3]. Gli apostoli, allora, avevano già lasciato tutto, prima di seguire il Maestro, comprese le mogli e il matrimonio, che è certamente un bene[4].

Non si è mai trattato, evidentemente, di un abbandono forzoso, perché la sola possibilità, per un uomo sposato, di accedere all’ordine sacro (a meno di voler commettere qualcosa di fortemente illecito e anticristiano) fu di avere il consenso della moglie, senza ripudiarla. Come, allora, il cardinale giustifica il fatto storico che leggi scritte in favore della continenza ecclesiastica appaiono soltanto nel corso del IV secolo dell’era cristiana e non prima? Perché – osserva – c’è una differenza «tra diritto e legge, ius e lex»: mentre la legge è sempre scritta, il diritto può ben essere trasmesso anche oralmente. E così avvenne nel caso in questione. Lo provano i testi stessi della legislazione postuma (conciliare, sinodale, pontificia o imperiale), che giustifica obblighi e divieti per mezzo di una tradizione orale di origine apostolica.

Lo prova san Paolo, che esorta a stare saldi nelle tradizioni «imparate sia a viva voce, sia per la nostra lettera»[5]. E lo prova anche la prassi pagana: il diritto romano (ius) attese secoli prima di diventare la legge scritta sulle Dodici Tavole (lex). Non deve, quindi, stupire se nel mondo antico e pre-medievale anche il diritto tramandato oralmente aveva forza obbligante, al pari della legge scritta. Non va, inoltre, dimenticata la condizione di estrema precarietà persecutoria del cristianesimo nei primi tre secoli della sua esistenza, che impediva la tranquillità necessaria per sviluppare una canonistica giuridica scritta, sia pure in embrione.

Una prima dichiarazione redatta a favore della continenza, citata da Stickler, appare dunque nel IV secolo, al Concilio di Elvira[6]. Il canone 33 è esplicito: «Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, sacerdoti e diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati al servizio dell’altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale». Si noti che, fin da subito, all’obbligo segue sempre la sanzione comminata al colpevole. Erano ammesse alla convivenza (can. 27) solo sorelle, madri o figlie.

Questa severità era giustificata dal fatto che «molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati», cioè «uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi». Come si può notare, la questione dei viri probati non è una novità odierna, ma è da sempre esistita. La differenza, quanto alla soluzione che si vorrebbe dare oggi, è che nel IV secolo i chierici spagnoli «erano obbligati […] ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio», osservando una «completa continenza».

Ma la cosa importante da chiarire è che i padri di Elvira non si sono inventati una norma frutto di un arbitrio. Al contrario si trattò di una «reazione contro una non-osservanza […] largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto», in Spagna come in tutto l’orbe cattolico.

Stessa situazione in Africa: molti dei chierici, se non la maggioranza, erano sposati. E identico fu il responso dei padri al Concilio Africano del 390[7], quando si espressero per la conservazione della castità. Identica, ancora, la giustificazione del responso: «Affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli». Da notare che a Cartagine era presente anche il legato pontificio Faustino, che espresse la «piena concordanza di Roma sulla questione».

Non si trovano invece pronunciamenti di rilievo negli otto Concili ecumenici del primo millennio, a cominciare da Nicea, poiché le correnti ereticali negavano le verità di fede cristologiche, trinitarie e soteriologiche. Tutto, o quasi tutto, il dibattito verteva perciò su questi temi e sulla difesa della dottrina ortodossa.

Tra i pontefici romani, i più espliciti sulla continenza furono Siricio (IV sec.) e Innocenzo I (V sec.). Nella sua lettera ai vescovi africani – scrive Stickler – Siricio insegna che «i molti sacerdoti e diaconi che anche dopo l’ordinazione generano dei bambini, agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall’inizio della Chiesa». Non c’è, dunque, l’imposizione di una propria scelta, ma il consueto riferimento alla «legge irrinunciabile», risalente «all’inizio della Chiesa». In realtà Siricio poneva la propria autorità sulle decisioni di un precedente Sinodo romano[8], in cui venivano interpretate le seguenti parole di san Paolo: «Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, ecc…»[9]. I padri sinodali, uniti al magistero di Siricio, sostennero che l’Apostolo non intendeva dire che il vescovo potesse «continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli», ma che un matrimonio dovesse bastare, in vista «della continenza futura».

Papa Innocenzo I si occupò ampiamente della questione. Alla terza di una serie di domande rivoltegli dall’episcopato della Gallia, Innocenzo I rispose che vescovi, sacerdoti e diaconi «vengono costretti non solo da noi, ma dalle scritture divine alla castità»[10]. Seguono le consuete sanzioni contro gli inadempienti.

Si espresse, nel merito, anche papa Leone Magno, il quale ribadì la legge della continenza e, quanto ai chierici sposati, riferì di una prassi ecclesiastica ortodossa: «Affinché il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via, ma che si avessero come se [i mariti, ndr] non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse, allo stesso tempo, anche l’uso del matrimonio»[11].

Risulta, quindi, abbastanza chiaro che in tutta la Chiesa d’Occidente (Europa e alcune zone dell’Africa) «l’unità di fede era e rimaneva sempre viva», grazie soprattutto ai sinodi e concili, confermati dai pontefici.

A tutto questo si deve aggiungere, ancora, l’autorità dei quattro maggiori Padri della Chiesa occidentali, tutti concordi sulla continenza dei chierici.

Sant’Ambrogio ammette che l’obbligo della continenza è spesso disatteso, ma conferma l’ortodossia della tradizione e spiega che i sacerdoti del Vecchio Testamento non erano tenuti alla continenza perpetua, perché il loro ministero non era «santo, costante e continuo» quanto quello, invece, dei sacerdoti neotestamentari[12].

San Girolamo, il più erudito circa la tradizione, insegna che anche gli apostoli erano «o vergini, o continenti dopo il matrimonio» e che i «presbiteri, vescovi e diaconi erano eletti tra i vergini, oppure vedovi, o di certo continenti in eterno dopo l’ordinazione sacerdotale»[13].

Meno esplicito Gregorio Magno, che tuttavia impedì con provvedimenti disciplinari la convivenza tra chierici e rispettive consorti. Sant’Agostino non solo partecipò ai concili africani (di Cartagine), ma si espresse più volte a favore della continenza.

Nel Medioevo – continua il cardinale – si cercò di ridurre il numero dei candidati coniugati a favore dei vergini o dei celibi: vi è traccia di disposizioni a riguardo specialmente nell’ambito dell’Europa insulare (Irlanda e Britannia). Fino all’anno Mille, comunque, la Chiesa conobbe un decadimento generale della fede e dei costumi. Si diffuse a dismisura il sistema beneficiale ecclesiastico, con il conseguente incancrenirsi di due grandi mali: la simonia (compravendita degli uffici) e il nicolaismo (violazione del celibato ecclesiastico).

Dal disordine susseguente scaturì la riforma di papa Gregorio VII (Riforma gregoriana), che promosse, tra l’altro, una più oculata scelta dei candidati. Queste iniziative furono ufficializzate durante il secondo Concilio Lateranense (1139), che s’impose come spartiacque nella storia e che ribadì la disciplina apostolica, inasprendo le pene per i colpevoli. Da qui sorse il grande equivoco secondo il quale «il celibato ecclesiastico è stato introdotto solo al Concilio Lateranense II».

Molto importante, per la formazione della canonistica giuridica medievale (Corpus iuris canonici) non solo il Decreto di Graziano[14], ma anche il commento successivo che ne dette Uguccio di Pisa[15]. Uguccio, nella sezione dedicata all’argomento, tratta specialmente della «continentia clericorum, quella cioè che essi devono osservare in non contrahendo matrimonio et in non utendo contracto». Si riconferma, dunque, per tutto il primo millennio, «un duplice obbligo» per i chierici: «di non sposarsi e di non usare più un matrimonio precedentemente contratto».

In genere, quasi tutti i canonisti medievali concordano sull’origine apostolica della continenza ecclesiastica, anche se la noncuranza nella scelta delle fonti causò alcuni fraintendimenti; infatti la critica delle fonti sorse solo durante il Rinascimento.

Una prova ulteriore della validità della continenza giunse, paradossalmente, proprio nel momento della sua negazione, da parte del Protestantesimo: alla predicazione di Lutero, Calvino o Zwingli seguì a ruota l’abbandono del celibato ecclesiastico e il sacerdozio fu profondamente mortificato. Finalmente il Concilio di Trento – per la prima volta nella storia – con l’istituzione dei seminari, indicava chiaramente che il chierico dovesse essere scelto tra giovani vergini e celibi, opportunamente formati al sacerdozio, piuttosto che tra i coniugati.

La mossa portò, nei secoli successivi, parecchi frutti di santità e la riforma protestante fu efficacemente contrastata, per quanto umanamente possibile. Anche le decisioni di Trento furono fraintese non poco: a tutt’oggi – scrive Stickler – per celibato ecclesiastico «s’intende comunemente solo la proibizione di sposarsi», omettendo così di dire che il problema non è se sposarsi o meno, ma vivere castamente dopo l’ordinazione sacerdotale, da qualunque condizione provenga il candidato.

I detrattori della continenza considerano troppo severa la disciplina occidentale e si rivolgono alla prassi della Chiesa d’Oriente, perché vedono in essa il volto genuino della Chiesa primitiva.

Quest’opinione – sempre a parere del cardinale – non ha ragione di esistere per una serie di motivi. Pur avendo avuto, gli orientali, il supporto di alcuni autori della patristica – lo stesso san Girolamo, ad esempio, o Epifanio di Salamina – che riesposero le ragioni della continenza, l’Oriente cristiano fu carente dal punto di vista dell’autorità centrale. Affrancandosi, lentamente, dal ruolo confermativo del pontefice di Roma, l’Oriente rimase ostaggio di una qual certa anarchia, che non seppe o non volle risolvere la questione dei chierici coniugati. Non che non esistesse la medesima tradizione apostolica tra Oriente e Occidente, ma il sistema disciplinare orientale è sempre rimasto assai frammentato. Sempre più distanti da un’autorità centrale, «ogni Chiesa particolare» d’Oriente «emanava norme proprie».

Il ruolo del papato fu surrogato dagli scritti dei Padri orientali (sbilanciati sull’ascetica) e dalle norme imperiali bizantine. In ogni caso la continenza dei vescovi era conservata, mentre non lo era quella dei presbiteri e dei diaconi, il cui uso continuato del matrimonio «veniva lentamente giudicato non più arrestabile». In una parola, «ci si arrendeva alla situazione di fatto».

A rendere la consuetudine non più sanabile contribuì, in maniera determinante, il Concilio bizantino Trullano II[16], non riconosciuto come ecumenico dall’Occidente e privo di legati pontifici romani. Il canone 12 fa divieto ai vescovi di usare del matrimonio. Viceversa, il canone 13 ne permette l’uso a sacerdoti, diaconi e suddiaconi, adducendo presunte «antiche prescrizioni apostoliche». La prassi è ancora in vigore nelle Chiese ortodosse.

È sorprendente che il Trullano, per giustificare la nuova disciplina e in mancanza di testi autentici che la certificassero, si trovò costretto a modificare il canone 3 del Concilio africano summenzionato. Ne risultò un testo contraffatto e una tale contraffazione non pesò più di tanto sulla coscienza dei padri conciliari, in quanto ritenevano (o si erano voluti convincere) che la questione fosse puramente disciplinare.

Questa è la sensazione rimasta fino a oggi, in Oriente, ma sempre più spesso anche in Occidente, dopo la rinuncia di Benedetto XVI (2013). Si cerca di eliminare o indebolire il celibato sacerdotale, dicendo che si tratta di una legge della Chiesa modificabile.

Non è così: Stickler conclude l’opera dimostrando che il celibato, così come la castità, non sono elementi accidentali del sacerdozio cattolico, ma essenziali. Mentre in tempi di viva fede – scrive Stickler – «il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede», in tempi di «decadenza del senso di fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare».

Gli elementi teologici sono molteplici e del tutto evidenti: Cristo è casto, vergine e celibe; il sacerdote cristiano è chiamato ad essere alter Christus, nonché «eunuco per il regno dei Cieli»[17]; san Paolo esige dal ministro della Chiesa che sia «enkratés» (continente)[18]; sempre san Paolo dice di avere il diritto di avere con sé una donna, come gli altri apostoli – ma, beninteso, una «gynaika adelfén», una «donna sorella», non una donna moglie.

Se a tutto ciò aggiungiamo l’esempio di molti santi sacerdoti, che hanno fatto della castità una delle loro ragioni di vita, si comprende bene perché per Giovanni Paolo II e per Benedetto XVI la questione del celibato ecclesiastico fosse da ritenersi chiusa.
Silvio Brachetta
_________________________________
[1] Alfons Maria Stickler, “Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici”, Ius Ecclesiae, Vol. V, n. 1, gennaio-giugno 1993, pp. 3-59. Tutte le citazioni sono tratte da quest’opera, dove non diversamente specificato.
[2] Lc 18, 29-30.
[3] Lc 18, 28.
[4] San Paolo: «Chi si sposa fa bene, ecc…», 1Cor 7, 38.
[5] 2Tes 2, 15.
[6] Nel 306. Elvira è l’antico nome della città spagnola di Granada, sede del concilio.
[7] Con sede a Cartagine. La città ospitò più di venti concili, dogmatici o disciplinari, tra il III e il V secolo.
[8] Concilio di Roma del 386, che scomunicò i vescovi concubinari.
[9] 1Tim 3, 2.
[10] Decretale Dominus inter, inizio IV secolo.
[11] Epistola al vescovo Rustico di Narbonne, 456.
[12] Cf. Ambrogio di Milano, De officiis ministrorum, I, 50.
[13] «Vel virgines, vel post nuptias continentes […] presbiteri, episcopi, diaconi, aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici», San Girolamo, Apologeticum ad Pammachium, ep. 49, 21 – pl. 22, 510.
[14] Decretum Gratiani, sec. XII. Si tratta di una raccolta di fonti del Diritto canonico, da parte del vescovo di Chiusi, Graziano.
[15] Giurista italiano (XII-XIII sec.), autore della Summa al Decrteum Gratiani, circa 1190.
[16] Detto anche Quinisesto. Costantinopoli, 692.
[17] Mt 19, 12.
[18] 1Cor 7, 9.

18 commenti:

Anonimo ha detto...

Segnalo questo articolo di Andrea Sandri.
La FSSPX e la nouvelle vague antiratzingeriana. Il triste caso di una recensione di Des profondeurs de nos coeurs

http://vigiliaealexandrinae.blogspot.com/2020/01/la-fsspx-e-la-nouvelle-vague.html

Sarebbe interessante leggere una risposta o qualche commento a quanto Sandri asserisce.

Anonimo ha detto...

Non conosco romanzi che pur non essendo pornografici trattino diffusamente di uno o più rapporti umani dove la sessualità è vissuta intensamente, tuttavia credo potrebbe tornare utile leggerne uno e vedere, constatare se quei pensieri, parole, opere ed omissioni possono convivere con la vocazione sacerdotale. Ritengo che chi non nota differenze, chi non percepisce la diversa qualità di pensieri, opere ed omissioni tra il sacerdote vocato ed anche solo il buon laico maritato, dimostra già di non essere più né vergine né continente anche solo nei suoi pensieri. Non si ha bisogno di eserciti di sacerdoti comunque siano, si ha bisogno dei pochi sacerdoti vocati. Non è un caso che colui che più ha lasciato tracce dello strazio che produce l'assecondare la carne ed dei forti sentimenti che suscita, sia Sant'Agostino che in quella tentazione cadde. Chi continua a dire che son cose da poco al minimo è persona grossolana che percepisce solo il materiale.

Fiat Voluntas Tua ! ha detto...

I rabbini chiedono la rimozione della chiesa cattolica di Auschwitz
https://www.maurizioblondet.it/i-rabbini-chiedono-la-rimozione-della-chiesa-cattolica-di-auschwitz/

Richiesta che approvo fino in fondo: deve esserci una sola Vittima.
Mettiamola sul S.Cuore di Gesu' e sul S. Cuore di Maria .

Anonimo ha detto...

E' una lettura politica a servizio della cerchia che comanda, infarcita di insinuazioni in malafede come quella del persistere del dubbio circa la provenienza del saggio dalla penna di Ratzinger. Un articolo espressivo di piaggeria e di poca intelligenza: conferma che la cerchia attorno a Bergoglio vuole affermare le eccezioni al celibato e che i saggi di Ratzinger e Sarah li ha fatti infuriare.

https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/01/26/news/il-pretesto-di-una-pubblicazione-1.38385913

Anonimo ha detto...

Il concilio di Trullo o Quinisesto non fu mai riconosciuto valido dalla Chiesa cattolica. fu nullo cioè salvo che per le conferme dei veri Concili, è un'anticipazione scismatica di fatto. L'eunuco volontario per il Regno di Dio sulla terra che è la Chiesa è il diacono o sacerdote o vescovo, quindi sono anche queste parole del Vangelo a confermare l'obbligo. San Paolo parla di chi arda per la propria suora piuttosto si sposi, il che significa pure non faccia più né diacono né prete né vescovo (anzi neppure gli orientali lo ammettono per i vescovi ed a "parziale " imitazione di alcuni Apostoli sicuramente sposati (che non ne usarono più dopo la chiamata di Cristo, lasciando tutto per il Regno) si sposano prima di diventar diaconi o preti.… Togliere ogni eccezione di preti uxorati com'è concesso ora sarebbe necessario per essere evangelici autentici. Chi vuole la moglie se la tenga e cessi di fare il diacono o il prete.
https://it.wikipedia.org/wiki/Concilio_in_Trullo

Anonimo ha detto...

OT Mi è sorto un dubbio, ma il termine distruttismo esiste nella lingua italiana ?

Gederson Falcometa ha detto...

Caro Anonimo,

Se può leggere del testo scritto da Andrea Sandri:

"
A differenza di ciò che sostiene il Recensore di fsspx.news, Benedetto XVI non nega in alcun modo la natura sacrificale della crocifissione, bensì soltanto che lo scopo dei soldati romani e degli atti dell’esecuzione capitale ai quali essi erano stati preposti, possano essere considerati in quanto tali momenti di un’azione di culto. E a questa considerazione coappartiene, in tutta evidenza e coerenza con l’insegnamento tradizionale della Chiesa dal quale Benedetto XVI non si discosta, l’osservazione che a rendere quegli atti e quella esecuzione un atto di sacrificio cultuale fu l’ultima Cena in quanto anticipazione della morte di Gesù in croce. Dunque l’accusa mossa a Benedetto XVI di essere incorso negli anatemi del Concilio di Trento è del tutto inconsistente".

Il punto della crociffissione è che Cristo sulla croce è il sommo sacerdoti che se immola a sè stesso come sacrifício a Dio per la remissione dei nostri peccati. Questa è l'essenza dell'insegnamento tradizionale sull'atto cultuale che Gesù compie sulla la croce. Chi non è capace di vedere il sacerdote e la vittima sulla croce, non è capace de capire ciò che accaduto nella crocefissione di Nostro Signore.

Sembra che Sandri non conosce la dottrina tradizionale. Però, Ratzinger la conosce, quindi il perché di presentare questo spaventapasseri invece della dottrina tradizionale della Chiesa è un mistero...

Anonimo ha detto...


I rabbini chiedono la rimozione della chiesa cattolica ad Auschwitz

Veramente, ad Auschwitz, furono uccisi anche polacchi, quinddi cattolici. Certo, in numero molto inferiore a quello degli ebrei. Ma perché la Chiesa non dovrebbe ricordare i cattolici sterminati dai nazisti nello stesso luogo del martirio degli ebrei? Furono sterminati anche centinaia di migliaia di prigionieri russi, se non ad Auschwitz in altri campi di sterminio. E' proibito ricordarli, con una chiesa o un monumento in loco?
E' di moda da tempo cercare di affermare che l'antisemitismo di Hitler derivava in qualche modo dall'antigiudaismo e dall'antisemitismo riscontrabile presso i cattolici. Ma questo è un falso bello e buono. Hitler, austriaco di nascita e battezzato, proveniente da zone periferiche dell'impero asburgico, non era affatto cattolico di sentimenti, odiava tutte le religioni, voleva tornare ai culti degli antichi Germani, a Odino e al Wahalla. IL suo razzismo proveniva dalla subcultura teosofica, che aveva teorizzato l'esistenza dell'ariano puro in INdia, nelle catene montane, portatore di una c.d. sapienza che andava recuperata mediante riti a sfondo magico e simbolico. Tutta una paccottiglia che con il cattolicesimo non c'entra niente, prodotta da Mme Blavatsky e dai suoi amici esoteristi.

Anonimo ha detto...


Ma chi ha mai pensato che i soldati romani attorno alla Croce fossero lì per compiere un atto di culto?
Come mai viene in mente a Raztinger di fare un paragone del genere?
Si trattava dell'esecuzione di una sentenza capitale, servizio di polizia ed esecuzione
della sentenza, appunto, cosa c'entra il culto? Quale culto?
Giustamente Gederson nota che R. non sembra capace di vedere la natura autentica del sacrificio di Cristo, sommo sacerdote che sacrifica se stesso per la nostra salvezza al posto degli agnelli e dei capri degli olocausti del Tempio (vedi Lettera agli Ebrei). Scrive R. che l'Ultima Cena "significa l'anticipazione della sua morte e resurrezione. Ciò significa la trasfformazione di un atto di crudeltà umana in un atto d'amore e di offerta di sé". Offerta, per che cosa? Forse lo dice nel resto della pagina? Sacrificio di espiazione e propiziatorio?
Non è poi corretto rappresentare la crocifissione come "un atto di crudeltà umana", come se si fosse trattato di un atto ingiustificato, messo in atto da criminali. La crocifissione era una pena crudele, impartita da tutti gli Stati dell'antichità, per crimini particolarmente gravi, quali la ribellione, la corruzione dei costumi accompagnata da reati di vario tipo (processo dei Baccanali), la pirateria, da sempre una delle peggiori forme di delinquenza. Una pena crudele, per punire e per dissuadere, ma un atto legittimo di un'autorità legittima, dello Stato. Nel caso di Gesù era stata irrogata ingiustamente ma questo non la trasformava in un "atto di crudeltà" cioè in un atto la cui causa deve ritenersi solo la crudeltà umana, malvagità pura, immotivata.
La motivazione c'era, solo che era falsa. L'atto di crudeltà l'hanno compiuto i capi dei farisei, che hanno organizzato il falso processo di Gesù, e poi la scena madre di fronte a Pilato, a base di false accuse.
T.

Gederson Falcometa ha detto...

Caro T,
Ottimo commento. Il brano di Ratzinger me ha ricordato che D. Tissier, vescovo della FSPX, ha affrontato la questione nel livro “La fede in pericolo per la ragione - Il dogma della redenzione rivisto dall’esistencialismo cristiano”, come se può leggere:

"Il dogma della redenzione rivisto dall’esistenzialismo cristiano

Fu Gabriel Marcel (1889-1973) lo strumento di questa revisione. Secondo questo filosofo francese, esistenzialista cristiano, il disinteresse e la disponibilità senza condizioni dell’uno verso l’altro fa acquisire al nostro io tutta la sua densità ontologica. In questo, Marcel è discepolo di Scheler e vicino a Buber.
Secondo Marcel, la dedizione, col suo assoluto, svela la persona dell’Essere assoluto che è Dio,  solo capace di spiegare questa esperienza garantendone il valore. Ne consegue che Cristo, col dono della sua vita per gli uomini, è l’emblema di questo dono di sé rivelatore di Dio.
La struttura dialettica del ragionamento è quella di Joseph Ratzinger nel suo Foi chrétienne hier et aujourd’hui [Introduzione al cristianesimo]. Riassumo il procedimento del pensiero del teologo di Tubinga: sempre seguendo lo schema «tesi, antitesi, sintesi».
- A partire da Sant’Anselmo (1033-1109), la pietà cristiana vede nella croce un sacrificio espiatorio. Ma si tratta di una pietà dolorista. Del resto, il nuovo Testamento non dice che l’uomo si riconcilia con Dio, ma che Dio riconcilia l’uomo (2 Cor. 5, 18; Col. 1, 22) offrendogli il suo amore. Che Dio esiga da suo Figlio «un sacrificio umano» è una crudeltà che non è conforme al «messaggio d’amore» del nuovo Testamento.
- Ma questa negazione, nel suo assoluto, genera la sua contraddizione (antitesi): tutta una serie di testi neo-testamentari (1 Pt 2, 24; Col 1, 13-14; 1 Gv 1, 7; 1 Gv 2, 2) affermano una soddisfazione ed una sostituzione della pena offerte da Gesù al posto nostro a Dio Padre, «sicché sembra proprio tornare alla ribalta tutto quanto abbiamo testé spazzato via».
- Dunque (sintesi), sulla croce Gesù si è proprio sostituito a noi, non per saldare un debito, né per soffrire una pena, ma per amare al posto nostro, per «svolgere una funzione vicaria» per «rappresentarci» (p. 202) [p. 233]. Cosicché, la tesi, arricchita dall’antitesi, viene riproposta nella sintesi.

Notiamo che qui, come nella dialettica di G. W. F. Hegel (1770-1831), la tesi e l’antitesi, benché contraddittorie, facciano entrambe parte della verità. L’antitesi non è una semplice obiezione che si risolve con la sua eliminazione o col trattenerne la parte di verità, no, è una verità contraddittoria che si risolve con la sua integrazione. Di modo che la verità, ed anche la verità di fede, è soggetta ad una evoluzione continua e indefinita: ad ogni sintesi lo spirito umano troverà sempre una nuova antitesi da opporre, tale da operare delle «sintesi nuove» (Gaudium et spes, n° 5, §3). Il risultato per la redenzione è che «il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della “funzione vicaria”, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente “esodo”, auto-superamento dell’amore».

Gederson Falcometa ha detto...

Continua D. Tissier:

Occorre dunque fare una «rilettura» del nuovo Testamento (Benedetto XVI, primo messaggio del 20 aprile 2005, n° 3 – Cappella Sistina) conformemente alla sensibilità moderna e al modo di investigazione e di formulazione esistenzialiste, come si esige da «una nuova riflessione su di essa [una determinata verità] e un nuovo rapporto vitale con essa» (Benedetto XVI, discorso del 22 dicembre 2005). Al termine di questo «processo di rilettura e di amplificazione delle parole», la passione di Gesù Cristo non opera più la nostra salvezza sotto forma di merito, né sotto forma di soddisfazione, né sotto forma di sacrificio, né come causa efficiente, ma per l’esemplarità dell’assoluto dono si sé (idea platonica?) e per l’attrazione dell’amore offerto, un modo di causalità che J. G. Fitche riteneva «spirituale», irriducibile all’efficienza e alla finalità.
Con questa variazione di rotta nell’idea di espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo.

Tutto questo è stato professato nel 1967, stampato nel 1968 e realizzato in seguito nel 1969 con la nuova Messa, il nuovo sacerdozio, il nuovo cristianesimo senza nemici, senza combattimento, senza riparazione, senza rinuncia, senza sacrificio, senza propiziazione".

Gederson Falcometa ha detto...

Ancora D. Tissier:

La soddisfazione, delicatezza della misericordia divina

E tuttavia, è vero che la carità è l’anima della passione redentrice di Gesù. Ma Joseph Ratzinger pecca di angelismo mettendo tra parentesi, con una epoché degna di Husserl, la realtà delle sofferenze di Cristo e il loro ruolo nella redenzione. Eppure, non è Isaia che descrive Cristo come «…uomo dei dolori […] percosso da Dio e umiliato… trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità», e aggiunge che «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53, 3-5) ?
Nel peccato, spiega San Tommaso, vi è un elemento formale, l’aversio a Deo (l’allontanarsi da Dio), e un elemento materiale, la conversio ad creaturam (il volgersi alla creatura e l’aderire ad essa in maniera disordinata). La carità e l’obbedienza con le quali Gesù offre le sue sofferenze, compensano, con una sovrabbondante soddisfazione, l’aversio a Deo di tutta l’umanità; ma quanto all’adesione alla creatura, al suo disordine non si può riparare se non con una pena volontariamente subita: è la soddisfazione penale di Gesù, offerta a Dio suo Padre al posto nostro e da cui traggono il loro valore tutte le nostre soddisfazioni.
Dunque, lungi dall’aver soppresso ogni offerta di soddisfazione a Dio per l’uomo, il Redentore è stato, dice San Tommaso, il nostro «soddisfattore», di cui offriamo il sacrificio nell’eucarestia. In tal modo l’uomo è messo in condizione di riscattarsi da se stesso. In quest’opera, dice San Leone Magno, Dio fa insieme giustizia e misericordia. Dio strappa l’uomo dalla schiavitù del demonio, non con un atto della sua sola potenza, ma con un’opera di equità, e cioè di compensazione. Da parte di Dio, dice San Tommaso, vi è una più grande misericordia nell’offrire all’uomo la possibilità di riscattarsi, di quanta ve ne sia nel riscattarlo con il semplice «condono» della pena, senza esigere alcuna compensazione. Questo concorre alla dignità dell’uomo di potersi riscattare. Certo, non perché l’uomo si riscatta da se stesso, ma perché egli riceve da Dio quello che gli renderà. Ciò che noi offriamo a Dio è sempre «de tuis donis, ac datis» («delle cose che ci hai donate e date» – Canone Romano, Anámnesi). E anche se il nostro dono non procura niente a Dio, che non ha bisogno dei nostri beni (Sal 15, 2) per essere infinitamente felice, esso è quanto meno dovuto a Dio a rigore di giustizia – e non solo per una giustizia «metaforica» che è il buon ordine interiore delle nostre facoltà – come nostro contributo alla riparazione dell’ordine violato dal peccato. Vi è in queste verità una metafisica sublime rifiutata da Joseph Ratzinger, che invece nella croce vede solo l’amore. In nome della fede, dobbiamo rigettare questa smaterializzazione della croce.

La fede in pericolo per la ragione, D. Tissier, FSSPX: http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV149_Tissier_La_fede_in_pericolo_6.html#138_

Anonimo ha detto...


"invece della croce Ratzinger vede solo l'amore.."

Ben detto. Ma questa è appunto la caratteristica negativa di tutta la gerarchia postconciliare: aver rifiutato la Croce per proporre invece una Cristo amorevole e compassionevale che avrebbe già salvato tutti. Un'eresia spaventosa. Come se il Signore non avesse detto:"chi non prende la sua croce come me non è degno di me". Nella Croce è la salvezza non nell'amore, inteso per di iù in senso appunto "angelico" come se con il suo solo esempio tale "amore" attraesse a Cristo. L'obbedienza di Cristo "sino alla morte in Croce" diventa allora solo "un dono di sé", fatto per amore. Accetta il sacrificio Gesù per amore dell'umanità, per salvarla dal peccato, ma nello spirito di chi compie un dovere oltre che per sentimento di misericordia verso l'uomo peccatore.
Concentrare tutto il discorso sul momento dell'amore, del donarsi, trascura anche la realtà della natura umana del Signore. La quale si ribellava ovviamente alla morte atroce incombente. Nel Getsemani Gesù è quasi vinto dall'angoscia ma poi si riprende, esprimendo appunto un atto di incondizionata volontà al Padre non d'amore (per l'uomo), che resta sullo sfondo. Poi, prima di spirare non ebbe un altro momento di angoscia, quando gridò "Padre, perché mi hai abbandonato?". E spirò dopo aver emesso un gran grido o no? Spirò da uomo afflitto dal dolore fisico e dalla paura e tuttavia sempre capace di mantenersi in controllo, come risulta da altri particolari, quali il rifiuto della spugna che lo avrebbe stordito, per voler rimaner lucido sino alla fine. Ma in controllo non perché si donava al Padre ma perché obbediva al Padre, in modo assoluto. Di nuovo, dono è una cosa, obbedienza un'altra. Era il fare la volontà del Padre, che voleva quella morte, a consentirgli di compiere sino in fondo la sua missione.
Bisognerebbe poi chiedersi quale idea abbia Ratzinger della giustizia, che si realizza appunto nella Croce, nel suo significato espiatorio delle colpe del genere umano, in quanto offesa in primis al Padre.
T.

Gederson Falcometa ha detto...

Caro T.

Nell'altro post un'Anonimo ha citato un branno del testo "Joseph Ratzinger torna in cathedra" pubblicatto da Sandro Magister contiene il testo di Ratzinger "Bastano dieci giusti a salvare l'intera città". Dove se può leggere un po in più della sua visione sulla redenzione, vede:

"ANCHE DIO PADRE SOFFRE, PER AMORE


La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata.

Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è "ab intrinseco" una sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio. […]

Ma allora perché mai la croce e l’espiazione? […] Mettiamoci di fronte all’incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero. Questa massa di male non può essere semplicemente dichiarata inesistente, neanche da parte di Dio. Essa deve essere depurata, rielaborata e superata.

L’antico Israele era convinto che il quotidiano sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione, lo yom kippur, fossero necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo e che solo mediante tale riequilibrio il mondo poteva, per così dire, rimanere sopportabile. Una volta scomparsi i sacrifici nel tempio, ci si dovette chiedere cosa potesse essere contrapposto alle superiori potenze del male, come trovare in qualche modo un contrappeso. I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e incommensurabile era stato creato un contrappeso all’incommensurabile presenza del male. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è un potere che può contrastare quello del male e che salva il mondo. E su queste basi poterono anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell’amore sofferente di Cristo e come parte della potenza redentrice di tale amore.

Sopra citavo quel teologo per il quale Dio ha dovuto soffrire per le sue colpe nei confronti del mondo. Ora, dato questo capovolgimento della prospettiva, emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo.

Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull’argomento un passo tratto dal libro di Henri de Lubac su Origene che mi pare molto chiaro:

"Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre 'passiones' prima ancora di essere crocefisso… Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso?... Il Padre stesso non è senza passioni! Se lo si invoca, allora Egli conosce misericordia e compassione. Egli percepisce una sofferenza d’amore".

Gederson Falcometa ha detto...

In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che contemplava "die Not Gottes", l’indigenza di Dio. E anche l’immagine del “trono di grazia” fa parte di questa devozione: il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e per così dire è insieme sulla croce.

Così in modo grandioso e puro si percepisce lì cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore". Bastano dieci giusti a salvare l'intera città

di Joseph Ratzinger

di Joseph Ratzinger

Joseph Ratzinger torna in cathedra - http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351256.html

Anonimo ha detto...

"...Bisognerebbe poi chiedersi quale idea abbia Ratzinger della giustizia..."

Questo è il punto.
Da giovane udii una persona anziana che diceva: 'una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso'. Non ne ebbi una buona impressione ma, non riuscii ad estrarre l'errore. Oggi questo detto è largamente praticato ed imitato a tutti i livelli religiosi, medici, giuridici (con gli amici), sociali, psicologici, psichiatrici; esso si è affermato di pari passo con l'ipocrisia e con la diffusione della faccia di bronzo.
Infatti la giustizia autentica richiede altro, richiede che tutti gli strappi peccaminosi con cui gli uomini lacerano e contaminano la Verità e la Vita siano riparati, nel senso di ricuciti, rammendati, ritessuti, purificati. Per fare questo occorre un lavoro sovrumano, certosino direi, perché tutto l'essere tuo deve esser concentrato nel lavoro che ti è stato assegnato, che ti sei assunto, nella obbedienza, cioè devi compiere senza distrarti, né pensare a te stesso quello che hai udito, per poter riparare gli strappi, le lacerazioni che gli uomini hanno inferto alla Verità e alla Vita. La Via per fare questa riparazione, questa ricucitura, questo rammendo, questa purificazione cosmica è la Croce. Gesù Cristo salì sulla Croce per ritessere, per donare a nuovo la Verità e la Vita, quasi tuniche dell'umanità. Per farci capire la forza, la potenza, la bontà della Sua azione, i Vangeli dicono che la Sua tunica era integra cioè Lui era Integro, Santissimo, Innocentissimo era, è, sarà in eterno, cioè Sovrabbondante. Quindi la giustizia del Padre non è il capriccio di chi ha perso la pazienza, è offeso perché gli uomini fingono di non capire, di non apprezzare i doni che hanno ricevuto da Lui, è la constatazione dei danni che hanno compiuto con il loro agire peccaminoso ed occorre Qualcuno che ripari la tunica(Verità e Vita) della umanità, che è tutta uno sbrego, ed insegni loro qual'è la Via verso l'Amore Risanatore, cioè la Croce, il Sacrificio di sé. Oggi siamo nell'era dell'ipocrisia e del ribaltamento, il dolore, la fatica riparatrice vengono rigettati, non si capiscono più le cose sante, si finge di aver capito senza aver capito, il pentimento, riconoscimento del bene e/o del male nelle proprie azioni, non è più richiesto ai colpevoli ma agli innocenti, non c'è più lex ma, solo ius, la confusione impera. Aperti i conventi, aperte le galere, una mano non può più lavare l'altra e tutte e due sporcano il viso che rimedia imbellettandosi e profumandosi. La Giustizia va riscoperta nella sua carica risanatrice di Via, Verità e Vita.

Gederson Falcometa ha detto...

"Ora, dato questo capovolgimento della prospettiva, emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo".

Questo punto è da pensare: la massa del male deriva della libertà o del peccato (originale)?

Veramente se tratta di un capovolgimento, percchè nella dottrina tradizionale è l'uomo il responsabile per il male con la caduta di Adamo. Allora se tutto il male del mondo deriva della libertà che Dio ha donato all'uomo, in qualcuno modo, sarebbe Dio il responsabile per il male nel nel mondo e con la croce paga questo debito. Se la grazia è dovuta alla natura, come dicono i nuovi teologi, la crocefissione sarebbe la massima contemplazione del compiemento di questo dovere da parte di Dio. Misterium iniquitatis!!!

Anonimo ha detto...


"Non si tratta del fatto che Egli debba accettare una crudele disposizione di Dio ma che debba attirare l'umanità al di dentro della volontà di Dio.."

E invece proprio di questo si tratta: che il Verbo incarnato ha dovuto, per volontà del Padre, bere sino in fondo il calice della malvagità umana che lo condannava come uomo ad una morte atroce, ingiustamente infflittagli. E così noi, ad imitazione di Cristo, dobbiamo accettare dolori ed ingiustizie senza cercare vendetta. Noi però siamo peccatori, e infliggiamo anche dolori ed ingiustizie agli altri, grandi o piccole che siano. Nelle nostre sofferenze c'è sempre una forma di retribuzione o no? "Come hai fatto, così ti sarà fatto".
Il momento del male, l'ora delle tenebre, non può essere "superato", bisogna evidentemente passarci attraverso, come ha fatto Gesù obbedendo in pieno alla volontà del Padre ("servare mandata"). Senza l'accettazione cosciente della sofferenza non ci sarebbe stata redenzione, su questo la Lettera agli Ebrei è estremamente chiara. Mettere in ombra il momento dell'accettazione del male che gli viene inflitto, da parte del Cristo, significa dare una rappresentazione monca della Passione.
Inoltre: si vuole vedere il superamento del male nell'amore. E lì ci si ferma. Ma che significa qui "superamento". Un termine di notoria origine hegeliana (Aufhebung) che ha un senso, anche se complesso, nel sistema di Hegel, poiché vuol dar l'idea dell'andar oltre conservando l'elemento valido (per lo Spirito) dello stadio precedente - ma isolato dal contesto non appare molto chiaro.
Lo stesso Cristo sofferente non è poi il Cristo giudice che giudica infallibilmente la nostra anima appena moriamo e alla fine dei tempi giudicherà l'intero genere umano? Nel Cristo giudice, del quale Ratzinger e i suoi mentori non parlano mai, nulla è rimasto dell'amore, della carità, della compassione del Verbo incarnato: Egli, rivelandosi nella sua divina Maestà, è solo l'eterna ed implacabile Giustizia, che non fa distinzioni e non può farne.
Così finisce la nostra vita e così finirà il mondo: faccia a faccia con l'eterno Giudice - non nell'amore sciropposo, nella melassa sentimentale che non condanna mai nessuno, propinataci dai nuovi teologi e da Ratzinger. Il "superamento" definitivo del male è nel Giudizio, la spada divina che taglierà l'umanità in due.
T.