Magister scende ancora una volta in campo alimentando il dibattito dal fronte degli "allineati": Introvigne e Rhonheimer, in contrapposizione agli "anticonciliaristi" - da lui così definiti impropriamente - ma in realtà "critici propositivi": de Mattei e Gherardini. Questa volta, oltre alle repliche dei suoi due paladini, ha aggiunto una riflessione di Basile Valuet OSB che sorprendentemente sembra sparigliare un po' tutti, ma di fatto risulta "allineato" anche lui. Sto elaborando l'impegnativa puntualizzazione di questi ulteriori elementi. Nel frattempo pubblico qui la riflessione inserita oggi da Enrico su Messa in Latino. E' riportata dopo questa mia premessa, perché la ritengo validissima ed utile per fare il punto sulla questione prima di proseguirne l'approfondimento e la condivido toto corde.
Piccola dimostrazione dell'allineamento di Valuet. Estratto dalla sua critica a de Mattei:
A p. 469-470 tronca la lista dei limiti giuridici indicati da DH 7, § 3 per l'esercizio del diritto alla libertà religiosa (LR). Sempre contro la LR, DM (de Mattei), citando il discorso di Pio XII del 6 dicembre 1953, dimentica il passaggio seguente: "Può darsi che in determinate circostanze Egli [Dio] non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d’impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso? Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa". Dunque in queste circostanze la repressione è un'ingiustizia, muovendosi contro un diritto, quello del seguace dell'errore a non essere impedito. Da cui la non assurdità di un diritto negativo come quello di DH.
Del riesumato passaggio di Pio XII, che condiziona la sua affermazione con "in determinate circostanze", Valuet fa un assoluto, perché la Dignitatis Humanae non condiziona il diritto negativo, come Pio XII, in riferimento a "determinate circostanze", ma lo afferma senza condizioni assegnando alla Libertà di religione, nel citato n. 7, solo i limiti giuridici generici di qualunque principio morale che implica responsabilità personale e togliendo ogni discrimine rispetto alla "Verità tutta intera" di cui è portatrice la Fede cattolica.
Constatiamo che analisi e controanalisi proseguono e il dibattito si fa interessante, in alcuni punti ristagna in altri si arricchisce. Certo, in confronto ai tempi in cui veniva silenziata ogni voce critica, è pur sempre un progresso e si potrebbe ben sperare se se ne potesse intravvedere uno sbocco dal piano accademico a quello 'pastorale', che resta immutato ed intangibile.
Un esempio: finché non ci sarà anche una 'pastorale' non solo fantasmatica, ma concreta, non si attuerà mai alcuna promozione del Rito Romano usus antiquior. Infatti, se esso non vien fatto attivamente conoscere più diffusamente, non solo attraverso celebrazioni 'strappate' a vescovi e sacerdoti prevalentemente renitenti ma anche attraverso la corrispondente 'formazione permanente' del coetus fidelium, non potrà mai essere amato da più persone e continuerà a rimanere ghettizzato. Del resto anche l'Istruzione Universae Ecclesiae, senza la corrispondente 'pastorale', rischia di rimanere lettera morta tranne che per quanto affidato ad assetate ma non ascoltate buone volontà laiche ed ecclesiastiche. La stessa Istruzione presenta molte luci, ma anche alcune ombre che rischiano, se non di vanificarne, di attenuarne di molto l'efficacia. Anche questo, a breve, sarà oggetto dei nostri approfondimenti.
Non solo per questo ovviamente, ma non a caso, il "discorso da fare" di Gherardini appare ora il "discorso mancato". Non nel senso della discussione, che tuttora ferve rispetto a quando non se ne poteva neppure parlare; ma nel senso della presa d'atto e conseguenti interventi per pareggiare la verità da parte del Papa.
Un esempio: finché non ci sarà anche una 'pastorale' non solo fantasmatica, ma concreta, non si attuerà mai alcuna promozione del Rito Romano usus antiquior. Infatti, se esso non vien fatto attivamente conoscere più diffusamente, non solo attraverso celebrazioni 'strappate' a vescovi e sacerdoti prevalentemente renitenti ma anche attraverso la corrispondente 'formazione permanente' del coetus fidelium, non potrà mai essere amato da più persone e continuerà a rimanere ghettizzato. Del resto anche l'Istruzione Universae Ecclesiae, senza la corrispondente 'pastorale', rischia di rimanere lettera morta tranne che per quanto affidato ad assetate ma non ascoltate buone volontà laiche ed ecclesiastiche. La stessa Istruzione presenta molte luci, ma anche alcune ombre che rischiano, se non di vanificarne, di attenuarne di molto l'efficacia. Anche questo, a breve, sarà oggetto dei nostri approfondimenti.
Non solo per questo ovviamente, ma non a caso, il "discorso da fare" di Gherardini appare ora il "discorso mancato". Non nel senso della discussione, che tuttora ferve rispetto a quando non se ne poteva neppure parlare; ma nel senso della presa d'atto e conseguenti interventi per pareggiare la verità da parte del Papa.
Puntualizzazione di Enrico (MiL)
Magister persiste a presentare come difensori del Papa, contro i malvagi anticonciliaristi de Mattei e Gherardini, i prodi paladini Introvigne e Ronheimer, dei quali ha pubblicato ieri due repliche peraltro molto interessanti. Ne riportiamo i principali passaggi. Come vedrete, in realtà le posizioni di questi asseriti "difensori del Papa" sono talmente divergenti tra loro che, evidentemente, o solo uno dei due assume correttamente le difese della tesi del Papa, oppure nessuno dei due, come personalmente sono portato a ritenere. Abbiamo infatti sulla cattedra di Pietro qualcuno che, quando poteva parlare più liberamente, aveva scritto del Concilio: "I risultati sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti [ ... ]. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un richiamo al Concilio e ha quindi contribuito a screditarlo per molti" ("Ecco perché la fede è in crisi", intervista a cura di Vittorio Messori, in Jesus, 11.11.1984, p. 70). Se quella è l’opinione di Joseph Razinger, è chiaro che con l’allocuzione del 22.12.2005 ci ha sostanzialmente chiesto di assumere uno sguardo sul Concilio totalmente nuovo rispetto all’ermeneutica fino ad ora pressoché totalitaria; sguardo che non può che essere critico e demitizzante di tutto quanto avvenuto negli ultimi 50 anni. Certo, sarebbe irrealistico e prima ancora teologicamente insostenibile rifiutare sic et simpliciter il Concilio, e pertanto non ci resta che lo strumento esegetico, da utilizzare in modo totalmente diverso rispetto a quanto avvenuto negli ultimi decenni, come ricorda il Papa; ma appunto studi (come quelli di de Mattei e Gherardini) che del Concilio sfrondino gli allori ed evidenzino i problemi e le ambiguità, sono la necessaria premessa, non fosse che come pars destruens, per toglier di mezzo l’ancora imperante mitologia conciliare e così consentire l’operazione di ricostruzione dottrinale, prima ancora che liturgica, tanto cara al Papa.
Ma torniamo ai due articoli. Introvigne sviluppa principalmente un concetto: che solo il Magistero può stabilire che cosa sia conforme a Tradizione e che cosa no, pena una deriva protestante in cui ciascuno (e quindi, di fatto, i teologi sulla breccia) si fa metro di che cosa sia la Tradizione. L’osservazione non è priva di plausibilità, ma solo entro certi limiti: perché se diviene un criterio assoluto come vuole Introvigne, diventa un argomento ex auctoritate che in alcuni casi limite porta a violentare il sensus fidelium e il raziocinio dei cristiani. Di fronte ad evidenti casi di vero e proprio revirement magisteriale - come nel caso emblematico della libertà religiosa, o come la definizione della Messa nella prima versione dell’Institutio generalis del messale paolino (che, siccome debitamente promulgata, fu anch’essa Magistero) - Introvigne ci chiede di ricorrere ad una sorta di double thinking per convincerci che il dopo è sostanzialmente identico al prima (Orwell, nel suo cupo capolavoro 1984, così definisce l’abito mentale del double thinking o bispensiero, attitudine indispensabile per non accorgersi delle contraddizioni nella propaganda del partito unico, e anzi per ritenere perfettamente conciliabili gli opposti: "Dimenticare tutto quello che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi dimenticarlo da capo: e soprattutto applicare lo stesso processo al processo stesso. Questa era l’ultima raffinatezza: assumere coscientemente l’incoscienza, e quindi da capo, divenire inconscio dell’azione ipnotica or ora compiuta. Anche per capire il significato della parola "bispensiero" bisognava mettere, appunto, in opera il medesimo"). Qualcuno dirà che un meccanismo mentale analogo teorizzava S. Ignazio di Loyola quando chiedeva di considerare bianco quel che la Chiesa dice essere bianco, anche se lo si vede nero. Confesso che quell’aforisma ignaziano non mi è mai piaciuto (perché il nostro Dio è ragione: non siamo mica musulmani); ma in ogni caso invitava ad anteporre il giudizio della Chiesa al proprio: quid, invece, se bianco e nero lo dicon due papi diversi nella storia?
In sostanza Introvigne deve ricorrere al letto di Procuste per stiracchiare o restringere i testi magisteriali, nel tentativo di farli conciliare perfettamente tra loro e di sostenere che nulla mai cambia, se non qualche accidentale apparenza. Ma naturalmente, un tentativo del genere può stentatamente reggersi in piedi solo a prezzo di ragionare per slogan e petizioni di principio (ad esempio, ripetendo come un dato a priori che dev’esserci necessariamente una continuità) e quindi censurando ogni forma di approfondimento e di riflessione critica: il che infatti Introvigne s’è dato per missione di fare, dacché pensatori come Gherardini e de Mattei hanno iniziato a sollevare i loro dubbi.
La tesi di Ronheimer è invece più piana. Non tenta quell’improbabile coincidentia oppositorum, ma riconosce tranquillamente che vera discontinuità vi fu; salva, naturalmente, una continuità di fondo del soggetto Chiesa; continuità però talmente ricacciata a livello di principi ultimi da risultare quasi evanescente. Tra le due tesi (quella di Introvigne e quella di Ronheimer), la seconda è più consequenziale con le premesse, ossia con quell’insistenza sul concetto di riforma rispetto a quello di continuità, su cui batte molto anche Introvigne, ma senza avvedersi, a differenza di Ronheimer, delle conseguenze cui quell’idea necessariamente porta: ossia ad una piena accettazione di livelli talmente alti di ‘discontinuità’ da non essere molto lontani da quelli della tanto deprecata (e a ragione) ‘ermeneutica della rottura’.
Per concludere, a me pare che tanto l’impasse in cui si getta Introvigne (che per salvare il valore del Magistero diacronico della Chiesa, ai suoi occhi sempre e comunque vincolante per i fedeli, invita a fingere di non vedere contraddizioni sol perché ritiene aprioristicamente che non ce ne possano essere), quanto l’affermazione da parte di Ronheimer che su aspetti non dogmatici la dottrina della Chiesa può tranquillamente cambiare, dimostrano una cosa: ossia che i documenti della Chiesa hanno gradi di opinabilità sufficientemente alta, fintanto che non concernono il depositum fidei. Il che, è un modo per dire che gli insegnamenti più controversi del Concilio, proprio perché non toccano la fede o la morale, sono pienamente criticabili e non assentibili al pari, quanto meno, degli insegnamenti passati sugli stessi temi che il Concilio ha voluto superare e modificare.
Enrico [Fonte: Blog Messa in Latino, 28 maggio 2011]