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venerdì 29 luglio 2011

Che significa: la lingua del dialogo DEVE essere comune?

Su "Osservatore Romano" del 7 luglio, Sua Eminenza il Cardinale Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, ha proposto alcune riflessioni sul significato della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che avrà luogo il 27 ottobre ad Assisi. Queste hanno provocato un intervento del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la replica del porporato, pubblicate dallo stesso giornale. I due ultimi testi sono consultabili qui, con l'aggiunta di notazioni che riporto anche in conclusione.

Il titolo che ho posto trasforma in domanda l'affermazione indicata come titolo del suo intervento da Rav Di Segni.

Il dato da rimarcare è che non è la prima volta che un ebreo smentisce certe forme di una sorta di captatio benevolentiae da parte di esponenti della Curia et alii nei confronti dell'ebraismo, che comportano solo fraintendimenti e non fanno altro che diluire sempre di più i fondamenti della nostra fede.


Lo stesso Neusner, teologo dell'ebraismo di fama internazionale, noto per la stima reciproca che lo lega a Benedetto XVI, sfata il mito di una "tradizione comune", che vuole ebraismo e cristianesimo imparentati. In un libro recente (2009) Ebrei e Cristiani. Il mito di una tradizione comune, Neusner raccoglie una serie di studi sul rapporto tra ebrei e cristiani, che nell'immaginario comune e dalla Chiesa post-conciliare sono considerati "parenti" dal punto di vista religioso, in quanto derivati da un'unica tradizione: l'Antico Testamento. Ma secondo l'autore questa "tradizione comune" si rivela un mito, nelle convinzione che: "Mentre il cristianesimo è rappresentato come una germinazione dell'"ebraismo", di fatto iniziò come sistema religioso autonomo e assoluto; solo in seguito si formulò la teoria delle sue origini assumendo e facendo proprie alcune componenti dell'eredità dell'antico Israele". Per noi la questione è ben diversa.

Non dobbiamo dimenticare che il giudaismo attuale è quello Talmudico, rabbinico, sviluppatosi parallelamente al cristianesimo dopo l'assemblea di Yavne e la distruzione di Gerusalemme. E' un giudaismo 'spurio', che condanna e maledice i notzrì (cioè i cristiani).

Il giudaismo 'puro' è diventato Cristianesimo, perché il Signore Gesù ha portato a compimento la Storia della Salvezza e introdotto la Creazione Nuova, in Lui... Quindi è il giudaismo che è confluito nel cristianesimo. Oggi, stiamo assistendo a tentativi sempre più pressanti di far confluire il cristianesimo nell'ebraismo, che si è riappropriato di Gesù come Rabbi e Profeta, ovviamente non come Figlio di Dio. Il che purtroppo avviene con la connivenza di molte componenti ecclesiali. [vedi] - [vedi anche]
Il rischio che corre seriamente una certa ala post-conciliare della Chiesa, presente nelle esternazioni di molti vescovi (Zollitsch, ad esempio), è quella di considerare - diciamo impropriamente per usare un eufemismo - la Croce di Cristo solo come un grande atto di amore e solidarietà e non ciò che Essa è e compie: un sublime atto di Amore, certamente; ma è un amore espiativo, oblativo, dono di sé fino alla fine, nel quale si fondono Giustizia e Misericordia insieme, da parte di Dio, e obbedienza e affidamento totali, da parte dell'uomo-Gesù per ogni uomo. In questo senso è il Kippur perenne, affermato da Koch e contestato da Di Segni; perché è il ripristino della Giustizia nel rovesciamento della disobbedienza originaria attraverso il duplice «Fiat», quello dell'Annunciazione ed il suo inscindibile rapporto col mistero del Getsemani, quando "il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna", come abbiamo letto nelle illuminate parole del card. Siri di cui al thread precedente.

E non si può ignorare che è proprio la Croce di Cristo la 'pietra di scandalo' sia per gli ebrei, che per i Riformati di ieri e di oggi e per i non credenti. Stat Crux dum volvitur orbis.

mercoledì 27 luglio 2011

FSSPX - Don Davide Pagliarani fa il punto sulla situazione.

Ringrazio Marco Bongi che ci ha fatto pervenire questa intervista, che si propone di chiarire equivoci e malintesi, affiorati in questi ultimi mesi, circa lo stato dei rapporti fra la Fraternità Sacerdotale San Pio X e le Autorità Romane a seguito della prossima conclusione dei colloqui teologici iniziati nell'ottobre 2009.


Intervista a don Davide Pagliarani, superiore della Fraternità San Pio X in Italia – 26 luglio 2011
Una prima valutazione dell’esito dei colloqui con Roma e dei fermenti nel mondo tradizionalista a cura di Marco Bongi

D. - I colloqui teologici fra la FSSPX e le Autorità Romane volgono al termine. Anche se non è stato ancora emesso un comunicato ufficiale non mancano i commentatori che, in base ad indiscrezioni, li giudicano falliti. Lei può dirci qualcosa in più sull'argomento?
Penso che sia un errore pregiudiziale considerare i colloqui falliti. Questa conclusione è tirata forse da chi s’aspettava dai colloqui qualche risultato estraneo alle finalità dei colloqui stessi.

Il fine dei colloqui non è mai stato quello di giungere ad un accordo concreto, bensì quello di redigere un dossier chiaro e completo, che evidenziasse le rispettive posizioni dottrinali, da rimettere al Papa e al Superiore Generale della Fraternità. Dal momento che le due commissioni hanno lavorato pazientemente, toccando sostanzialmente tutti gli argomenti all’ordine del giorno, non vedo perché si dovrebbero ritenere i colloqui falliti.

I colloqui sarebbero falliti se - per assurdo - i rappresentanti della Fraternità avessero redatto relazioni che non corrispondessero esattamente a ciò che la Fraternità sostiene, per esempio se avessero detto che dopo tutto la collegialità o la libertà religiosa rappresentano degli adattamenti al mondo moderno perfettamente conciliabili con la Tradizione. Per quanto sia stata mantenuta una certa discrezione, penso di poter dire che non ci sia stato il rischio di giungere a questo risultato fallimentare.

Chi non coglie sufficientemente l’importanza di una tale testimonianza da parte della Fraternità e della posta in gioco, per il bene della Chiesa e della Tradizione, inevitabilmente formula giudizi che si inquadrano in altre prospettive.
D. - Quali prospettive secondo lei potrebbero essere fuorvianti?
A mio modesto avviso esiste un’area tradizionalista, piuttosto eterogenea, che, per ragioni diverse, attende qualcosa da una ipotetica regolarizzazione canonica della situazione della Fraternità.
  1. Certamente c’è chi spera in un riverbero positivo per la Chiesa universale; a questi amici, che ritengo sinceri, direi tuttavia di non farsi illusioni; la Fraternità non ha la missione né il carisma di cambiare la Chiesa in un giorno. La Fraternità intende semplicemente cooperare affinché la Chiesa si riappropri integralmente della sua Tradizione e potrà continuare a lavorare lentamente per il bene della Chiesa solo se continuerà ad essere, al pari di ogni opera di Chiesa, una pietra di inciampo ed un segno di contraddizione: con o senza regolarizzazione canonica, la quale arriverà solo quando la Provvidenza giudicherà i tempi maturi. Inoltre non penso che una ipotetica regolarizzazione - al momento attuale - toglierebbe quello stato di necessità che nella Chiesa continua a sussistere e che ha giustificato fino ad ora l’azione della Fraternità stessa.
  2. Su un versante completamente opposto esistono gruppi che definirei conservatori, nel senso un po’ borghese del termine, che si affrettano a dire che i colloqui sono falliti assimilandoli ad una trattativa per arrivare ad un accordo: l’intento malcelato è quello di poter dimostrare il più velocemente possibile che la Tradizione, tale e quale la Fraternità la incarna, non potrà mai avere un diritto di cittadinanza nella Chiesa. Questa fretta è determinata non tanto da un amore disinteressato per il futuro della Chiesa e per la purezza della sua dottrina, ma da una paura reale dell’impatto che la Tradizione propriamente detta possa avere di fronte alla fragilità di posizioni conservatrici o neoconservatrici. In realtà tale reazione rivela una lenta presa di coscienza - quantunque non confessata - dell’inconsistenza e della debolezza intrinseca di tali posizioni.
  3. Soprattutto però mi sembra di riscontrare l’esistenza di gruppi e di posizioni che attendono un qualche beneficio da una regolarizzazione canonica della Fraternità, senza però voler fare propria la battaglia della Fraternità assumendosene gli oneri e le conseguenze.
Esistono infatti, nel diversificato arcipelago tradizionalista, numerosi “commentatori” che pur esprimendo un sostanziale disaccordo con la linea della Fraternità, osservano con estremo interesse lo sviluppo della nostra vicenda, sperando in qualche ripercussione positiva sui loro istituti di riferimento o sulle situazioni locali in cui sono coinvolti. Sono impressionato dalle fibrillazioni a cui questi commentatori sono soggetti ogni volta che un minimo rumore affiora sul futuro della Fraternità. Penso tuttavia che il fenomeno sia facilmente spiegabile.
D. - Perché?
Si tratta di una categoria di fedeli o di sacerdoti fondamentalmente delusi e che avvertono - giustamente - un certo senso di instabilità per la loro situazione futura. Si rendono conto che la maggior parte delle promesse in cui hanno creduto stentano ad essere mantenute ed implementate.

Speravano che con il Summorum Pontificum prima e con Universae Ecclesiae poi, fossero garantite ed efficacemente tutelate la piena cittadinanza e libertà al rito tridentino, ma si rendono conto che la cosa non funziona pacificamente, soprattutto in relazione agli episcopati.

Di conseguenza - e purtroppo - a questi gruppi interessa l’esito della vicenda della Fraternità non tanto per i principi dottrinali che la supportano e per la portata che potrebbe avere sulla Chiesa stessa, ma piuttosto in una prospettiva strumentale: la Fraternità viene vista come una formazione di sfondamento di sacerdoti che ormai non hanno nulla da perdere ma che se otterranno qualcosa di significativo per la loro congregazione creeranno un precedente giuridico a cui anche altri potranno appellarsi.

Questo atteggiamento, moralmente discutibile e forse un po’ egoista, ha tuttavia due pregi:
  • innanzitutto quello di dimostrare paradossalmente che la posizione della Fraternità è l’unica credibile, dalla quale potrà scaturire qualcosa di interessante, e alla quale in tanti finiscono per fare riferimento loro malgrado;
  • il secondo pregio è quello di evidenziare che se non viene privilegiata la via dottrinale per permettere alla Chiesa di riappropriarsi della sua Tradizione, necessariamente si scivola in una prospettiva diplomatica, fatta di calcoli incerti e di risultati instabili, e ci si espone a drammatiche delusioni.
D. - Se il Vaticano offrisse, per ipotesi, alla Fraternità l'opportunità di strutturarsi in Ordinariato immediatamente soggetto alla S. Sede, come potrebbe essere accolta tale proposta?
Sarebbe presa serenamente in considerazione in base ai principi e alle priorità e soprattutto alla prudenza soprannaturale a cui i superiori della Fraternità si sono sempre ispirati.
D. - Non potrebbe dirci qualcosa di più?
Posso solo ripetere ciò che è stato spiegato chiaramente e da sempre dai miei superiori: la situazione canonica in cui si trova attualmente la Fraternità è conseguenza della sua resistenza agli errori che infestano la Chiesa; di conseguenza la possibilità per la Fraternità di approdare ad una situazione canonica regolare, non dipende da noi ma dall’accettazione da parte della gerarchia del contributo che la Tradizione può fornire per la restaurazione della Chiesa.

Se non si approda ad alcuna regolarizzazione canonica, significa semplicemente che la gerarchia non è ancora abbastanza convinta della necessità e dell’urgenza di questo contributo. In questo caso bisognerà attendere ancora qualche anno, sperando in un incremento di questa consapevolezza, che potrebbe essere coestensivo e parallelo all’accelerazione del processo di autodistruzione della Chiesa.
D. - "Il poco bene che possiamo fare a Roma è probabilmente più importante del molto bene che possiamo fare altrove". Questa frase molto significativa, pronunciata da mons. De Galarreta alle ordinazioni sacerdotali di Ecône, interpella direttamente il nostro distretto. Certamente egli si riferiva prevalentemente ai colloqui teologici ma è indubbio che anche l'immagine della Fraternità in Italia, per la sua vicinanza a Roma, assume una rilevanza tutta particolare. Come ha vissuto lei, che è il Superiore del Distretto italiano, questa importante affermazione?
Quanto ha detto il vescovo a Ecône corrisponde ad una convinzione profonda della Fraternità e l’affermazione mi sembra scontata per uno spirito autenticamente cattolico: non trovo abbia nulla di sorprendente.

Penso che l’inciso di Mons. De Galarreta sintetizza perfettamente lo spirito romano con cui la Fraternità vuole servire la Chiesa Romana: fare il possibile affinché la Chiesa, si riappropri della Sua Tradizione a cominciare da Roma stessa.

La Storia della Chiesa ci insegna che non è possibile alcuna riforma universale, efficace e duratura se Roma non la fa propria e se essa non parte da Roma.
D. - Su questi punti molti osservatori esterni sostengono che esisterebbe una divisione interna nella FSSPX fra un'ala cosiddetta "romana" più propensa a dialogare con le autorità, e una "gallicana", ostile ad ogni approccio col Papa. Al di là dell'eccessiva semplificazione e nei limiti in cui Ella può esprimersi, ritiene che tale idea sia fondata?
Come in ogni società umana anche nella Fraternità esistono sfumature e sensibilità diverse tra i vari membri. Pensare che possa essere diversamente sarebbe un po’ puerile. Tuttavia penso che si cada facilmente nelle semplificazioni di cui sopra quando si perde la serenità di giudizio o ci si esprime in base a pregiudizi precostituiti: si finisce per creare dei partiti e per collocarci senza discernimento alcuni piuttosto che altri.

Ai membri della Fraternità è chiaro che l’identità della propria congregazione è costruita attorno ad un asse definito e preciso che si chiama Tradizione; è su questo principio, universalmente condiviso all’interno della Fraternità, che è costruita l’unità della Fraternità stessa e penso che oggettivamente sia impossibile trovare un principio identitario e di coesione più forte: è proprio questa coesione di base sull’essenziale, che permette ai singoli di avere sfumature diverse su tutto ciò che è opinabile.

Penso che una certa impressione di disomogeneità sia data dalla considerevole differenza di toni che i membri della Fraternità utilizzano nelle differenti sedi, nei differenti frangenti, nei differenti paesi e soprattutto davanti alle diversissime e contraddittorie posizioni che i rappresentanti della gerarchia ufficiale esprimono nei nostri confronti e di tutto ciò che ha il sapore di Tradizione. La percezione di questi dati talora scema in chi valuta le singole affermazioni decontestualizzandole e livellandole on line davanti al proprio schermo.

Si tratta certamente di considerazioni di non immediata evidenza per l’osservatore esterno.
D. - Il 13 maggio è stata pubblicata l'istruzione "Universae Ecclesiae" che intende disciplinare concretamente l'applicazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum". Come viene valutato questo importante documento dalla FSSPX?
Si tratta di un documento di sintesi che da una parte esprime la chiara volontà di implementare le direttive del motu proprio, dall’altra tiene conto delle numerose obiezioni, esplicite e implicite, che gli episcopati hanno mosso contro il Summorum Pontificum i quali - non è un segreto per nessuno - sono fondamentalmente ostili al ripristino del rito tridentino.

Innanzitutto viene precisato che il ripristino della liturgia del 1962 è una legge universale per la Chiesa; in secondo luogo l’istruzione compie un chiaro sforzo per tutelare maggiormente in sede strettamente giuridica i sacerdoti che fossero ostacolati nell’uso del messale tridentino dai loro ordinari.

Con una certa finezza viene ricordato ai vescovi che spetta proprio a loro garantire quei diritti… per la tutela dei quali è possibile fare ricorso contro gli stessi ordinari.
Questi mi sembrano in estrema sintesi i punti più positivi.
D. – Tuttavia l’art. 19 dell'Istruzione "Universae Ecclesiae" dichiara che non sono autorizzati a chiedere la S. Messa di sempre i fedeli che non riconoscono la validità e la legittimità del Messale Riformato da Paolo VI. Come giudica tale limitazione?
In tutta sincerità non riesco a giudicarla perché la trovo incomprensibile. Ho sempre ritenuto che il santissimo rito della Messa avesse un valore intrinseco, soprattutto in relazione al fine latreutico che le è proprio.

A prescindere da ogni altra considerazione, non è dato di capire su quale base giuridica o teologica il valore di un rito plurisecolare dichiarato mai abrogato e la possibilità di celebrarlo possano essere determinati dalle disposizioni soggettive di chi assiste o lo richiede.

Si entra in una prospettiva folle e impraticabile. Per esempio, che cosa dovrebbe fare un sacerdote che si rendesse conto che su 10 fedeli che richiedono la celebrazione della Messa, 5 avessero obiezioni sulla Messa di Paolo VI? Che cosa dovrebbe fare un sacerdote se avesse lui stesso delle gravissime riserve sul nuovo rito, dal momento che la limitazione riguarda solo i fedeli?

Se i due riti sono considerati due forme equivalenti dello stesso rito romano, non è dato di capire perché il rito tridentino sia così pericoloso da postulare una sorta di esame previo di ammissione.

Infine, se si entra onestamente in tale logica, non è dato di capire perché non sia stato richiesto ai sacerdoti e ai vescovi che rifiutano apertamente il rito tridentino di astenersi dal celebrare quello nuovo finché non demordono dal loro proposito.

Penso che l’art. 19 dell’istruzione, se da una parte è espressione di un tipico atteggiamento diplomatico, dall’altra possa purtroppo essere assimilato ad una sorta di malcelato ricatto morale. Esso rivela la consapevolezza da parte dei vescovi che la Messa Tridentina veicola inevitabilmente una ecclesiologia incompatibile con quella del Concilio e del Novus Ordo. Di conseguenza la Messa tridentina può essere concessa unicamente esercitando un controllo diretto sulle coscienze dei fedeli. La cosa mi sembra piuttosto allarmante.
D. - Ci sono nel documento altri punti in cui, secondo lei, emerge la volontà di esercitare un controllo di questo tipo?
A mio modesto avviso ve ne è uno in particolare. Mentre il motu proprio ripristinava oltre al messale il libero uso di tutti i libri liturgici, l’istruzione vieta tale utilizzo in un caso ben preciso: quello delle ordinazioni sacerdotali, eccezion fatta per gli istituti religiosi facenti riferimento all’Ecclesia Dei o che già utilizzano il rito tridentino (Cfr. art 31).

La cosa è abbastanza sorprendente, soprattutto nel caso delle ordinazioni diocesane, considerando che la moderna ecclesiologia insiste tantissimo nel riconoscere nel vescovo diocesano il moderatore della liturgia e il vero liturgo in quanto successore degli apostoli; tuttavia la spiegazione sembra essere abbastanza scontata se facciamo riferimento ai classici compromessi tipicamente curiali.

È evidente che mentre un istituto Ecclesia Dei è direttamente controllato dall’organismo vaticano competente, con tanto di statuto firmato e controfirmato (fornirò un esempio in questa stessa sede), un vescovo che utilizzasse i libri liturgici del 1962, non potrebbe esserlo negli stessi termini.

Di conseguenza la richiesta formale e perentoria di procedere alle ordinazioni secondo il nuovo rito è il segno esterno considerato sufficiente per dimostrare che gli ordinandi, e lo stesso vescovo, accettano pienamente l’art. 19 dell’istruzione, adottando il nuovo rito per l’evento indubbiamente più importante e significativo della loro vita e della vita della diocesi.

Questa richiesta ha, tutto sommato, un valore analogo alla prassi quasi universale inerente all’applicazione dell’indulto del 1984: nelle varie diocesi in cui l’indulto era concesso, veniva chiesto di non celebrare in rito tradizionale a Natale e a Pasqua, onde permettere ai fedeli di manifestare il proprio legame con la parrocchia e quindi la loro accettazione del rito di Paolo VI.

Significativa fu pure, su questa medesima linea, l’ingiunzione imposta nel 2.000 alla Fraternità San Pietro di accettare che i propri membri potessero celebrare liberamente secondo il nuovo rito, unitamente al caloroso invito a concelebrare con i vescovi diocesani almeno il Giovedì Santo, onde esprimere la propria comunione con l’ordinario locale e quindi la loro pubblica e perfetta accettazione del Novus Ordo Missae; si noti che pur essendo la Fraternità San Pietro un istituto Ecclesia Dei, la misura si rivelò necessaria proprio nel momento in cui all’interno della congregazione si facevano più forti i toni di opposizione al rito di Paolo VI in alcuni membri refrattari. Nello stesso frangente fu destituito direttamente dall’Ecclesia Dei l’allora superiore generale e sostituito con un sacerdote scelto non dal capitolo ma imposto dall’Ecclesia Dei stessa.

Era allora prefetto della Congregazione per il Culto Divino il Card. Medina Estevez, mentre il Card. Castrillon Hoyos ricopriva da poco la carica di presidente dell’Ecclesia Dei.

Stando così le cose l’ingiunzione dell’istruzione, unitamente al citato art. 19, sembra ispirarsi di più all’indulto di Giovanni Paolo II che al motu proprio di Benedetto XVI. Ora però è stato certificato dallo stesso Benedetto XVI che l’indulto del 1984 pretendeva concedere generosamente, in alcuni casi e a certe condizioni precise, l’uso di un messale in realtà mai abrogato: l’Universae Ecclesiae sembra ricadere in questa assurdità giuridica e morale, comprensibile solo in un contesto di disprezzo e di paura - preferisco non parlare di odio - verso tutto ciò che sa di tridentino.

Dulcis in fundo, siccome tutti sanno che la Fraternità non accetterà mai né l’art 31, né il l’art. 19, ecco che tutti gli scontenti da una parte la criticano per la sua “disobbedienza”, cercando così di ostentare la propria “legalità”, dall’altra la osservano sperando che la sua intransigenza ottenga di riflesso qualcosa di positivo anche per loro.

E così riparte quel meccanismo del “sequebatur a longe ut videret finem”, e della speranza strumentale sulla Fraternità, a cui abbiamo già fatto riferimento.
D. - Nel 2011 ricorrono venti anni dalla morte di mons. Marcel Lefebvre. A distanza di due decenni la sua figura continua a far discutere ed anzi, sembra quasi che più passa il tempo, più susciti interesse negli ambienti ecclesiali e culturali. A cosa è dovuta, a suo parere, questa "seconda giovinezza" di un Prelato giudicato da molti anacronistico e vecchio?
Monsignor Lefebvre ha incarnato qualcosa di intramontabile: la Tradizione della Chiesa, e se c’è stato un vescovo in cui la Tradizione non ha mai cessato di essere “vivente” (mi sia concesso l’uso del termine) è stato proprio il vescovo “ribelle”. Per esempio l’unico prelato che non ha mai cessato di celebrare pubblicamente nel rito tradizionale, allora erroneamente considerato abrogato e bandito, è stato il fondatore della Fraternità San Pio X: egli non si è limitato a riconsegnare alle nuove generazioni un messale stampato e impolverato, ma ha custodito e trasmesso un tesoro vivo e reale, presente quotidianamente sull’altare, dal quale era completamente coinvolto in tutta la sua persona.

Se veramente è incominciata una presa di coscienza che la crisi della Chiesa abbia la sua radice e si manifesti soprattutto in una crisi del sacerdozio e della liturgia, è inevitabile che si faccia riferimento a colui che spese tutte le sue energie a salvare l’uno e l’altra.

Pertanto è inevitabile che se si parla di Messa tridentina o di Tradizione, anche il più riluttante, sia costretto a parlare di lui, se non altro per prendere le distanze e per autocertificarsi politicamente corretto.

Ma chi parla di lui, nel bene o nel male, non può farlo senza parlare di una Tradizione che, lungi dall’essere “lefebvriana”, è semplicemente e per sempre cattolica.

lunedì 25 luglio 2011

La Barca di Pietro. Getsemani...


In molti contesti ferve il dibattito sulla crisi nella Chiesa e sulle ultime vicende che ne segnano l'aggravarsi piuttosto che una remissione. La conclusione è che comunque - pur nella sofferenza - occorre restare fedeli a Pietro. Anche se non mancano sconcerto e disorientamento nell'assistere a gesti e approvazioni che sembrano smentire, nei fatti, i principi con i quali il Papa ci sostiene con le parole.
Condenso in una sintesi le più recenti riflessioni di due nostre lettrici, secondo me molto significative, in quanto testimonianze vive.
A seguire, pubblico il Capitolo conclusivo di "Getsemani" del card. Giuseppe Siri. Il testo è difficile da reperire e, quindi, lo inserisco per condividere con tutti una pagina di alta spiritualità, che ci introduce nel cuore della nostra Fede.


Fare quadrato intorno al Papa.
Fare quadrato, dunque. Ingenua e impraticabile speranza, purtroppo, sembrerebbe. Raccogliere e unificare le forza tradizioniste è un’utopia, almeno per ora, almeno a quel che vedo e che leggo. Esempio lampante il thread in cui si è partiti da un articolo sul Summorum Pontificum, che quella unità auspica e promuove; ma è stato presto archiviato per arrivare all’apostasia della Chiesa salvo un piccolo resto. Quale chiesa, verrebbe da chiedere, quale resto, quale verità, quale tradizione? Vi accorgete o no come queste parole siano farcite di ambiguità, tanto che ciascuno, su fronti contrapposti, se ne appropria e ne fa la sua bandiera? Sono slogan ormai di una battaglia frastagliata che ha perso per me quel buon profumo di Cristo, il sapore della verità, che mi avevano attratto e coinvolto.

Per me la battaglia da correre con le ginocchia corrose di speranza audace è quella della perseveranza, fedele, umile, obbediente. Non possiamo più tacere, anzi, si sente ripetere da più parti. Bene. Io credo la Chiesa una santa cattolica apostolica romana. Questa Chiesa che vive e freme all’ombra delle Sue Ali, assediata da lupi arroganti che brulicano nel suo seno seminando gramigne di eresie e di mai vinte superbie, questa Chiesa tutta è il piccolo resto su cui le porte degli inferi non prevarranno. Perché questa Chiesa è la Sposa di Cristo, è nata dal Suo Cuore sanguinante, è bagnata dal Suo Sangue, è e sempre sarà crocifissa e per questo, proprio per questo trionfante, innalzata e puntata verso il cielo sul legno della Croce. E poiché fuori da questa Chiesa non v’è salvezza, la scelgo sempre di nuovo perché sia approdo e dimora, fonte e culmine della mia speranza.

Responsabilità dei Pastori circa uno dei problemi più seri.
Oltre a questo inno alla fiducia e speranza, di fronte alle responsabilità dei Pastori in ordine a quel che accade, soprattutto ma non solo in riferimento ad una nota realtà ecclesiale, c'è chi si lancia in stroncature fondamentaliste che tagliano la realtà con l'accetta, come anche a me talvolta viene la tentazione di fare. Ma, alla fine, mi ritrovo, invece in un discorso come questo che, sia pure in altri termini, trasuda la stessa speranza del precedente:
"So benissimo chi è responsabile e saperlo mi riempie di sgomento, di incomprensione, e anche sì, lo ammetto, di rabbia. Chi altri se non chi aveva il dovere di correggere, chi ne aveva il potere e la responsabilità? Eppure hanno lasciato fare e, quando non hanno lasciato fare, legittimando nei fatti, hanno direttamente e espressamente incoraggiato una realtà che stava crescendo a lato della Chiesa - mai integrata, se mai sostituendosi - con le sue prassi eretiche, senza mettere i dovuti e urgenti paletti, in fondo ingannando IN PRIMIS i neocatecumenali stessi che potevano credere che tutto andava bene, che tutto era conforme, meglio, o peggio ancora, che erano loro la speranza della Chiesa.

Il Cammino neocatecumenale non è il solo ad aver approffittato di quella totale libertà di fare e disfare, togliere e aggiungere a piacimento, basta vedere in che stato si trova oggi la Chiesa. La differenza è che la struttura e gli abusi neocatecumenali sono rigidamente codificati, ovunque gli stessi. So tutto questo, non sono cieca e ancor meno sorda, so anche che gli abusi continuano, che oggi come ieri sono legittimati e incoraggiati dalla gerarchia. Saperlo, vederlo mi fa male, tanto male. Ma, sapendolo, non arrivo alle conclusioni radicali dei più fondamentalisti, non capisco, soffro di questa situazione, ma sono sulla Barca di Pietro e su quella Barca resto con le mie domande, i miei dubbi, le mie paure, le mie incomprensioni, perché so CHI è su quella Barca e che non mi vedo essere altrove che su quella Barca, perché so che, malgrado i terribili e temibili errori degli uomini, l'opera distruttrice di chi l'ha rovinata, e continua a rovinarla, la Barca non affonderà mai."

Riporto, ripetendole, le seguenti parole come memorandum per tutti, anche perché le sento molto vere e ci danno un'immagine drammatica e potente della situazione.
Questa Chiesa è la Sposa di Cristo, è nata dal Suo Cuore sanguinante, è bagnata dal Suo Sangue, è e sempre sarà crocifissa e per questo, proprio per questo trionfante, innalzata e puntata verso il cielo sul legno della Croce. E poiché fuori da questa Chiesa non v’è salvezza, la scelgo sempre di nuovo perché sia approdo e dimora, fonte e culmine della mia speranza.
STAT CRUX DUM VOLVITUR ORBIS


Il Getsemani della Chiesa è nel Getsemani di Cristo Signore. Conosciamolo meglio.
Getsemani, è la porta del santuario attraverso la quale la Storia ritrova il suo vero volto e il suo vero ordine, nell'intendimento e nella coscienza dell'uomo liberato. È il santuario dove si è compiuta spiritualmente, nella solitudine, la suprema offerta, affinché l'uomo ogni volta unico, e tutta la stirpe degli uomini possano trovare l'ordine eterno della loro creazione e avere così la possibilità di entrare per grazia nella gioia della diretta contemplazione del Creatore.

Soltanto nel raggio del Getsemani la teologia può essere spogliata di ogni vano diletto intellettuale, di ogni lettera morta e di ogni irrigidito schema di pensiero, di ogni aridità del cuore, di ogni illusione di autonomia e di ogni torpore di febbrile attività naturalista. Soltanto in quel luogo l'intendimento e la volontà sono liberati dalla verità conformemente alla parola di Cristo (Gv 8,32), perché è là che il Redentore ha vissuto nella sua intimità umana, con tutto il suo amore divino, la Croce della storia degli uomini.

Ed è nel segreto dell'agonia di Gesù di Nazareth, che si può intravedere il significato dell'uomo nel mistero della storia degli uomini.

Nel mistero del Getsemani si svelano i due più grandi, più struggenti e più dolci misteri: l'Incarnazione di Dio in uomo perfetto in Maria e la generazione della Chiesa santa nella relatività dell'uomo temporale.

Nel popolo di Israele ci sono stati molti santi e molti profeti. Ci sono state molte anime che hanno sofferto per il loro popolo e che hanno saputo amare Dio fino al sacrificio totale. Ci sono state molte anime forti e grandi che hanno penetrato per grazia di Dio i segreti della Natura. Più di quanto non l'abbiano fatto gli uomini di scienza delle segrete generazioni.

Ma l'uomo dell'agonia sul monte del ulivi era l'Essere di un'altra economia; corrispondeva ad un'altra necessità, ad un'altra attesa della creazione. E per questo motivo questa agonia non solo concerne ogni uomo, ma è ontologicamente vincolata ad ogni uomo. L'uomo non è vincolato all'agonia di Cristo soltanto con l'immaginazione e la compassione per qualcuno che soffre ingiustamente. L'uomo vi è vincolato perché è stato il soggetto dell'offerta solitaria nel giardino del Getsemani, che non era un atto morale, ma un'azione di essere.

Il «Fiat» della Vergine Maria ha avuto come immediata conseguenza un evento nella natura dell'essere umano, un evento ontologicamente nuovo. Le parole con le quali il Cristo si abbandona totalmente alla volontà del Padre costituiscono il secondo «Fiat» dell'economia della salvezza dell'uomo. il «Fiat» del Getsemani fu il compimento, in una nuova tappa, del primo «Fiat» dell'essere umano di Maria. il secondo «Fiat» pronunciato e compiuto dall'essere generato da Dio nella natura umana, ha avuto come conseguenza l'unione di Dio con le esistenze di tutti gli uomini, cioè con l'esistenza di tutti gli esseri che costituiscono la Storia degli uomini.

Quale potrebbe essere la finalità di tutta la sofferenza della Croce accettata da prima? Una tale offerta non è concepibile senza concepire, fievolmente che sia, il perché di questa offerta. E appare allora, in tutta la sua luminosa semplicità, l'essenza della misteriosa agonia di Cristo.
«Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io ma come vuoi tu (Mt 26.39)». Quando Gesù ha pronunciato questo «se è possibile», chiedeva di essere liberato dall'onere della salvezza delle anime? Quando il suo spirito ha lanciato questo appello, avrebbe improvvisamente preferito non sarebbe che solo per qualche istante, distaccarsi dalla sua missione e poi vivere, invecchiare e spegnersi un giorno, secondo la sorte di ogni uomo?

Sono pensieri che svaniscono come vane finzioni dell'orgoglio dell'uomo; svaniscono quando il nostro intendimento e il nostro cuore penetrano umilmente e con abbandono nel raggio del Getsemani. Là le nostre categorie, secondo le quali percepiamo e giudichiamo, sfumano, o piuttosto sono trasformate, prendendo un altro tenore e un'altra ampiezza. E così, tanto l'intendimento come il cuore, in un'armonia di pace, ricevono il mistero dell'Essere che pregava prostrato a terra per la salvezza degli uomini. L'appello, infatti, del «se è possibile» non significava la stanchezza e che il Cristo preferisse che un altro si addossasse la salvezza degli uomini. Il Cristo non pregava soltanto per sé; pregava in nome di tutti gli uomini, ai quali si era vincolato con la sua offerta: «come vuoi tu».

Il Cristo, Persona unica di essenza divina, viveva interiormente come Redentore degli uomini nella sua pienezza umana, la sofferenza, per inconcepibile amore, di fronte alla cattiveria e al peccato che generavano la sua Passione e la sua Morte.

Allora l'anima, con tutto il suo potenziale d'intelligenza e di amore, penetra nel mistero dell'Incarnazione e dell'agonia del Getsemani e capisce che la Redenzione dell'uomo non è stata opera di un nuovo insegnamento, né l'esempio di una grande perfezione, sconosciuta fino allora. L'uomo capisce che la sua redenzione non è consistita in un rinnovamento morale, è stata innanzitutto un atto che ha riguardato il principio dell'essere dell'uomo, che ha riguardato la rigenerazione della legge della generazione dell'uomo.

Se non ci fosse stato un uomo generato dalla Parola del Creatore, la Redenzione dell'uomo sarebbe sempre un'attesa di rinnovamento morale. Questo insegnamento e questo esempio i Profeti e i Santi d'Israele li avrebbero compiuti e avrebbero potuto compierli sempre. Ma l'atto iniziale della nuova generazione, per il diretto intervento di Dio, non sarebbe stato compiuto; e l'intervento ontologico divino nella stirpe di Abramo non sarebbe compiuto.

Ebbene, l'essere che pregava prostrato a terra nel giardino del Getsemani era esattamente questa penetrazione ontologica di Dio nella stirpe di Abramo. Dio ha suscitato un essere con il suo proprio Verbo divenuto così uomo, avendo preso «forma» di uomo nell'organismo naturale umano.

L'uomo, nonostante tutte le sue ricerche e le sue indagini, non può penetrare con i propri suoi mezzi il segreto della differenza di livello dei popoli, sia nel passato come nel presente. Raramente si giunge a distinguere da lontano nella profondità del presente la vera immagine iniziale dell'uomo e dell'umanità, perché abbiamo perso la freschezza e il gioioso e continuo stupore della contemplazione attiva e sempre nuova dell'infinita Realtà di Dio Creatore.

Questa perdita c'impedisce di poter sempre percepire la grazia e il continuo miracolo dell'esistenza di ogni cosa, e c'impedisce di percepire il «naturale semplice» delle opere che superano la nostra propria esperienza, delle grandi opere miracolose del nostro Dio Creatore.

L'uomo non può mai afferrare, con le sue ricerche e le sue invenzioni di curiosità, l'inizio delle cose e degli esseri. Perciò incontriamo difficoltà nel concepire il misterioso atto di amore e di armonia che si è compiuto con il primo «Fiat» della Vergine Maria.

Tuttavia è quest'atto che ha permesso all'Essere che pregava con il volto coperto di sudore di sangue, di unirsi ontologicamente all'esperienza di ogni uomo, nel disordine anarchico e doloroso della Storia. Ed è questa unione che offre all'uomo di diventare un essere nuovo e di conoscere che in lui s'innalza una seconda volontà che è in lotta con la prima volontà della sua natura in disordine: il disordine del peccato.

E questa unione particolare fu compiuta da «Fiat» del Getsemani: «non come voglio io, ma come vuoi tu». Questa unione, infatti, era il soggetto della preghiera dell'agonia e del «Fiat»; e fu la causa della Croce che sarebbe seguita.

L'agonia del Getsemani, nel suo mistero ontologico, non sarebbe stata possibile, se l'Essere dell'agonia non fosse stato l'Essere dell'Incarnazione. L'agonia del Cristo esprime la sofferenza nello spirito e nel cuore e di conseguenza in tutta la natura umana; sofferenza che appartiene a questo unico Fiat d'amore indicibile: unirsi all'esistenza di tutti gli esseri umani che costituiscono la Storia.

L'unica Persona, che da sempre possiede la conoscenza oggettiva di ogni cosa, è Colui che è stato concepito a Nazareth, e Colui che è stato concepito a Nazareth è Dio. Soltanto Colui che al Getsemani, si è unito all'esistenza di ogni uomo, avendo accettato per amore di soffrire, nel suo essere unico, il dolore di tutti i secoli, conosce con assoluta oggettività quella che noi chiamiamo Storia. È Colui che, dopo la sua sofferenza interiore e universale al Getsemani, ha sofferto i dolori fisici e morali del martirio e della morte sulla Croce; Colui che, uomo e Dio per l'eternità, ha risolto nel suo essere per tutti gli uomini il mistero d'iniquità, con la sua Resurrezione.

L'uomo desidera l'oggettività, come desidera la vita eterna. Solo il Maestro della vita eterna può dare all'uomo l'oggettività. L'uomo non può progredire in conoscenza oggettiva se non unendosi sempre più al Signore della Storia, che per lui ha detto il «Fiat» del Getsemani.

Quando l'uomo riceve questa verità, tutte le leggi, le norme e le categorie della ragione umana si rigenerano e vieppiù si liberano dagli impedimenti delle opere morte e delle parole morte. A misura che l'uomo sottomette Dio e le opere di Dio al suo desiderio spesso molto sottile ma impetuoso di autonomia, svaniscono le vere leggi della ragione umana e si pietrificano le categorie.

Soltanto il soggetto assolutamente libero può essere assolutamente oggettivo. Per questo l'uomo, soltanto nella misura in cui riceve intimamente con amore la Rivelazione del Soggetto assoluto, può ottenere oggettività nelle sua visione degli esseri e delle cose. L'oggettività del sapere dell'uomo, ossia il grado di vera conoscenza dipende dalla sua unione ontologicamente spirituale con Colui che possiede tutta la realtà oggettiva, perché è Egli stesso la Verità eterna incarnata per l'eternità.

Questa fondamentale verità esclude dal cammino dell'uomo verso la conoscenza ogni teoria pluralistica. L'uomo non si trova di notte nella foresta, senza sapere dove andare e non è neanche «una successione di momenti». È un essere dotato di memoria, e questo lo pone contemporaneamente e nel tempo e fuori del tempo. Infatti, per il dono della memoria valica il tempo, e la «successione di momenti»; l'uomo nel corso della sua esistenza, arricchendosi indefinitamente e sviluppandosi continuamente, permane immutabile come essere e come potenziale di arricchimento e di espansione all'infinito. Il Cristo segue tutto il cammino dell'umanità ed è lo stesso ieri e oggi e nell'eternità.

Scartando la Rivelazione per cogitare su Dio e il mondo, fondandoci, per sottile desiderio d'autonomia, esclusivamente sui nostri propri mezzi d'indagine, perdiamo ogni possibilità di oggettività ed entriamo nella «notte esistenziale». Infatti per lo spirito è notte fonda, quando l'uomo, tutte le sue facoltà d'intendimento e di azione sono fissate sui «momenti fuggevoli», sull'«essere-qui» o l'«essere-là». Questo sguardo esistenziale, ossia il fatto di considerare tutte le cose senza fare continuo riferimento alla nostra più profonda realtà, al di là di ogni gioco del linguaggio delle parole esterne, elimina, nel nostro andare, la nostra propria realtà di coscienza e di memoria. Ed è impossibile riconoscersi ed essere veridici, perché rifiutare il Signore dell'oggettività equivale a rifiutare ontologicamente la verità.

La relatività dei momenti che trascorrono non può colpire l'essere che conosce e che ama. Quando però l'essere si lascia prendere dalla relatività, entra nel turbinio del discorso esistenziale, cosa che impedisce all'uomo di avere una vera immagine della sua esistenza e della nozione dell'esistenza. Il discorso può essere indefinito; e senza fine la coniatura dei vocabolari e delle espressioni; è il triste gioco della falsa filosofia che rifiuta di sottomettersi per ogni cosa al Signore della Storia, che è la Verità incarnata, che è l'ordine eterno di tutto il molteplice dell'universo e della Storia.

Quando, nel nostro spirito e nel nostro cuore, si svela il mistero del Getsemani e il suo rapporto con il «Fiat» dell'Annunciazione, un intero linguaggio diviene caduco, infatti ci si accorge che la Storia non può svelare alcun segreto né in merito alle leggi che la governano, né in merito ai fini ultimi dell'uomo. Essa non lo può, perché non ne ha conoscenza né coscienza. Una sola cosa può insegnare: il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna.

Riferirsi ogni volta, alla Storia, per evitare di riferirsi al Sovrano della Storia, è voler parlare alla polifonia, senza rivolgersi né a colui che ha composto la musica né a coloro che la eseguono. Solo il Creatore delle leggi e dei fini può conoscere la realtà dei fini ultimi di ogni cosa, il Creatore e coloro ai quali Egli lo rivela e che accolgono con umiltà e amore la sua Rivelazione.

Ogni uomo non può essere redento come società. È la Redenzione di ogni persona a poter creare un insieme di persone redente. È per amore per ogni persona d'Israele, per ogni Israelita, che Simeone ha avuto la gioia di ricevere nelle sue braccia il Redentore. Aveva ricevuto il messaggio divino, secondo il quale avrebbe dovuto vedere il redentore prima di morire. E quando l'ha visto, ha provato gioia per la redenzione non di un'entità astratta, ma per tutti coloro che sarebbero redenti, e non a causa di un desiderio di uno stato forte e fiorente nella storia, e per questo ha detto:
«Nunc dimittis servum tuum, Domine».
È stato lieto per la Luce di tutti gli uomini, che era il Cristo e per la Gloria d'Israele. Questa Gloria era il Cristo, che chiamava ogni israelita alla salvezza. Giacché Israele non era un'idea; era un insieme in cui ciascun membro era chiamato alla redenzione.
[Da Getsemani del Card. Giuseppe Siri, Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma 1987 (pag.360-368)]

mercoledì 20 luglio 2011

Mons. Brunero Gherardini ci parla sulle orme di S. Agostino: "La Cattolica"

È appena uscito, per i tipi della Lindau di Torino, un nuovo testo di Monsignor Brunero Gherardini, dal titolo La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana.

Il Libro: Brunero Gherardini, La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana, LINDAU, € 18,00, pp. 202.

L'insegnamento ecclesiologico del grande Vescovo d'Ippona ebbe il merito di fronteggiare una situazione terribilmente critica: l'unità della Chiesa infranta dallo scisma dei donatisti e minacciata da altri gravissimi errori, come quello manicheo e quello pelagiano. Sant'Agostino ebbe ragione degli uni e degli altri riaffermando la dottrina di sempre e riproponendo, quindi, il volto genuino della Chiesa di Cristo, come era pervenuta fino a lui sulle ali sicure della Tradizione cattolica. All'antichiesa di Donato, infatti, contrappose vittoriosamente la Chiesa d'oggi, di ieri, di sempre: la Cattolica. I nostri tempi, è evidente, non sono quelli di sant'Agostino, ma il suo intento di ritrovare l'unità della Chiesa nei valori trasmessi dalla Tradizione ecclesiale è ancor oggi esemplare. Lo riproponiamo in un momento in cui quell'unità sembra entrare in crisi.


Agostino adottava l'uso onnicomprensivo del termine «Catholica» nel presupposto che fosse inequivocabilmente riferito all'«Ecclesia», non in quanto sinonimo, ma nella consapevolezza della «ratio Ecclesiae», perché la Chiesa -lasciando da parte la vexata questio tra substistit in ed est- o è cattolica oppure non è Chiesa. Anche al tempo di Sant'Agostino non mancavano le eresie che rendevano cogente il problema: basti ricordare donatisti, manichei, pelagiani; ma allora la Chiesa non era inquinata dal suo interno e le eresie erano riconosciute e rigorosamente condannate.

Mons. Gherardini ha l'abilità di riaffermare la dottrina di sempre proprio attraverso il vigore e la capacità intellettuale, illuminata dalla 'Sapienza', del vescovo di Ippona. Tant'è che l'Autore stesso dice: «Ho voluto, infatti, un’esposizione “ordinaria” insieme e “cursoria” del pensiero agostiniano sulla Chiesa, per non sovrapporre nessun altro pensiero ad esso e per non filtrarlo al setaccio degl’interpreti. A tener banco è Lui, Agostino».

Ed è così che emerge in tutta la sua trasparenza e autenticità il volto della Chiesa, detentrice e custode della Verità, che nell’universalità di tempo e di spazio realizza l’assoluta compresenza fra se stessa e Cristo Signore, il «Christus totus» di Agostino.

Un elemento messo in risalto da Mons. Gherardini è l'intuizione di Agostino sulla genesi della Sposa di Cristo dal costato trafitto del Signore, con una immagine significativa: come Eva fu tratta dalla costola di Adamo dormiente, così dal fianco squarciato di Cristo morente scaturì la Chiesa con i suoi sacramenti dai quali essa è formata o, per dirla con san Tommaso, «è fabbricata». È così che l’Ecclesia divenne Sposa diletta di Cristo, suo Capo: «un medesimo colpo di lancia determinò la presenza della Chiesa nella sua qualità di corpo».

Ed è così che recuperiamo, in tutta la sua ricchezza semantica e misterica, l'immagine della Chiesa come Corpo Mistico di Cristo nel Chritus totus: due parole chiave per esprimere il Mistero che condensano gli insegnamenti del Santo vescovo, ben consapevoli della limitatezza e del sapore tutto vetero-testamentario di quella di Popolo di Dio, privilegiata dal Concilio.


La Chiesa è Una, Santa, Cattolica e Apostolica, nonché Romana.

Una: unica la Chiesa come unigenito è il Figlio di Dio, avente un’unica Sposa
Santa: «Chiesa [...] santa, la madre vostra, che dovete onorar amar e predicare come la Gerusalemme celeste, la città santa di Dio». La Chiesa è Corpo, ma è anche Madre Santa che esige figli santi di ogni popolo e nazione, che ricevono non più un'identità etnica, ma teologale: «la Chiesa dei santi e non degli eretici: dei santi, designata da Dio prima che facesse la sua comparsa, e additata poi perché fosse riconosciuta [...] Prima nei Libri Sacri, poi fra le genti».
Cattolica: universale, che significa essere dovunque, con tutti, per tutti, sempre e per sempre, in eterno… «Gli eretici son su tutta la faccia della terra, ma non tutti dappertutto. Gli uni qui, gli altri là. Tuttavia non mancan mai […]. La superbia è la loro unica madre, così come la madre di tutt’i fedeli cristiani, sparsi in tutt’il mondo, è la nostra Chiesa cattolica. Nessuna meraviglia: la superbia ingenera lacerazioni, la carità produce l’unità» . Nessuna meraviglia: la superbia è sempre presente, lo sarà ancora, fino alla fine dei tempi e con essa gli errori e purtroppo anche gli orrori, da quelli generati. La gramigna mischiata al grano, le tenebre coabitanti con la luce.
Apostolica: è la Chiesa degli Apostoli che è giunta fino a noi e permane in eterno: un unico corpo, un'unica Fede, un unico Capo. Una realtà oggettiva, viva e organica, custode e, quindi, trasmettitrice (missionaria) dell’integrità dottrinale. «L’esser e il rimanere apostolica è dunque la condizione per la quale la Chiesa è e resta una santa cattolica».
Romana: la Chiesa ha sede a Roma per volontà del suo Fondatore e per le vicende storiche nelle quali è entrato il Provvidente Progetto di Dio.

Poter attingere con fedeltà assoluta alle fonti Agostiniane ci permette di comprendere il presente alla luce del passato e del futuro sapientemente prefigurati e ci aiuta a sciogliere dubbi e interrogativi particolarmente drammatici, oggi.

sabato 9 luglio 2011

"Nuova evangelizzazione" o evangelizzazione "nuova"?

Leggo e propongo come riflessione, partendo da uno stralcio dell'intervista rilasciata da Mons. Rino Fisichella, nuovo prefetto della neo-Congregazione per la "Nuova evangelizzazione", pubblicata da Zenit nel dicembre scorso e altri spunti.

In che modo si può spiegare il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione?
Fisichella: Il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione è una grande intuizione profetica di Papa Benedetto XVI ed è una grande sfida per la vita della Chiesa dei prossimi decenni.
Intuizione profetica perchè ci obbliga a riflettere seriamente sul presente. Ci obbliga a capire le patologie che hanno dato vita a questa condizione che si esprime con l’indifferenza, con l’agnosticismo, con l’ateismo professato, con un individualismo che non si è mai conosciuto così forte negli ultimi secoli. In una parola con la secolarizzazione di cui il Papa parla sempre più spesso. Questa condizione obbliga la Chiesa a diagnosticare la patologia e verificare come curarla.
Dobbiamo riflettere sul perchè questa disaffezione nei confronti della verità da parte del mondo contemporaneo e poi passare a guardare il futuro per ricomporre in una condizione di dialogo e di collaborazione la fede con la ragione. Bisogna sottolineare che la scelta libera e consapevole dell’atto di fede non si fonda su un mito, ma su una relazione personale di un evento storico che ha cambiato il volto dell’umanità e della stessa storia, vale a dire l’incontro con Gesù di Nazareth.
Estrapolo le linee essenziali riconoscibili nel seguito dell'intervista e le esamino riflettendo su ognuna:
  1. Fisichella: Noi dobbiamo essere capaci di ricomporre questa condizione e mostrare che l’incontro e l’esperienza di Dio è una condizione necessaria perché il nostro contemporaneo possa ritrovare realmente il senso della propria vita.
    In risposta all’eclissi di Dio di cui parlava già Paolo VI, e su cui Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno riflettuto, è nato il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. E’ inevitabile che di fronte all’eclissi di Dio noi dobbiamo mobilitare le nostre forze e la nostra convinzione per riportare il primato di Dio nella vita delle persone e mostrare che l’ipotesi di Dio non è affatto superflua, ma è invece determinante per una vita che sia pienamente umana.
    In altre parole, noi abbiamo il compito di portare di nuovo il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi perchè possano recuperare in umanità, perchè possano essere capaci di una rinnovata umanizzazione della propria esistenza.
Mi stupisce che portare di nuovo il Vangelo agli uomini e le donne di oggi debba produrre il risultato di una "rinnovata umanizzazione dell'esistenza". Gesù è forse venuto per umanizzarci? Certo "quelli che Lo accolgono (Gv, Prologo)" diventano uomini nuovi e realizzano la pienezza di umanità realizzata dalla Redenzione. Ma questa "novità" non consiste forse nella Creazione Nuova, quella dell'Ottavo giorno il primo dopo il sabato, cioè la Risurrezione, conseguente ad un'oblazione salvifica, che - come Paolo docet - ci rende Figli nel Figlio connaturali a Lui, a Lui sempre più configurati e per questo 'divinizzati' per adozione? Una Creazione Nuova riconsegnata al Padre nel momento dell'Ascensione al Cielo e rinfrancata e costituita nel momento dell'invio dello Spirito!

C'è forse bisogno di un linguaggio nuovo per dire queste fondamentali verità? C'è solo bisogno di cuori nuovi che le esprimano accesi di quella Presenza, i quali non hanno bisogno di strategie comunicative e di "metodi iniziatici" lasciati entrare imprudentemente nella Chiesa perché presentano il successo dei numeri, ma si sono rivelati il cavallo di Troia di vecchie e nuove eresie! A noi spetta l'Annuncio; chi opera è lo Spirito, se davvero lo abbiamo accolto, non le nostre parole più o meno accattivanti... L'importante è che siano VERE e trasmettano la Verità, che è il Signore!

E, invece, assistiamo a tutto questo profluvio di piani e di progetti, come se tutto dipendesse da noi e come se la Chiesa per 1970 anni fosse stata inadeguata. Errori e problemi ci sono stati e ci saranno in ogni generazione, perché fanno parte della logica del 'mondo'; ma a noi non è dato trovare migliori strategie e "nuovi linguaggi". Oggi, come sempre, è necessario conoscere e diffondere la Verità, tradita e dimenticata forse più che mai.

Attualmente la Chiesa sembra proporsi come nuovo Ente morale e politico piuttosto che come Mater et Magistra, perché Corpo Mistico di Cristo e Sua Sposa. Ne fa testo la pubblicità veramente sconcertante che la CEI sta mandando in onda sulla TV nazionale per l'8 per mille. In essa la Chiesa è presentata nelle sue attività sociali. Si è allestito persino un sito chediloaloro.it, tutto incentrato su testimonianze di opere sociali e umanitarie.

Non si dimentica forse che Cristo Signore non è venuto a portarci il benessere o la solidarietà, ma la Salvezza dal peccato e dalla morte spirituale che ci fa uscire dal Progetto di Dio per noi? Sì ci sono anche le opere di misericordia corporali e spirituali, ma esse sono CONSEGUENZA del dono di noi stessi possibile solo in Lui e non di un vago umanitarismo!

Si pensa che oggi la gente se parliamo di Dio non capisce? Ma forse dipende da quel che diciamo e c'è qualcosa che ci siamo dimenticati per via. Piuttosto perché non creare nell'Agorà rappresentata dai "media", invece di spazi pubblicitari, vere e proprie palestre di cristianesimo testimoniato da autentici testimoni e non da imbonitori improvvisati o da falsi profeti e cattivi maestri che sembra oggi siano gli unici ad aver diritto di cittadinanza mediatica? Il vero problema è "chi forma i formatori"... E tuttavia una palestra del genere sarebbe solo un'opportunità in più, perché la vera soluzione l'ho espressa nelle conclusioni.

In ogni caso sentir parlare del "nuovo umanesimo", senza la qualificazione irrinunciabile di "cristiano", rischia di confonderlo con il ruolo esclusivamente sociale - che somiglia tanto al Nuovo Ordine Mondiale sempre più incombente - diluendo invece quello primario sacramentale-salvifico esercitato diffondendo la Verità custodita e trasmessa portatrice della Presenza della Persona del Signore!
  1. Fisichella: [...] E quindi ci troviamo in una seria difficoltà nel parlare di Gesù Cristo, della fede e della Chiesa in un contesto culturale che o lo avversa o lo banalizza, dando per scontato una conoscenza che non è più viva. Certamente dobbiamo modificare il nostro linguaggio, dobbiamo diventare più comunicativi, dobbiamo essere capaci di accettare la sfida della comunicazione moderna, ben sapendo che il contenuto rimane sempre lo stesso. Perchè il cristianesimo, come diceva l’apostolo Paolo nella lettera agli ebrei, rimane sempre lo stesso ‘ieri, oggi e sempre’, quindi quello che è sempre stato creduto da tutti, in ogni luogo e da sempre, viene conservato, ma deve essere rivestito di un linguaggio che deve essere comprensibile. Dobbiamo fare in modo che il nostro contemporaneo possa vedere il Signore, deve fare l’esperienza di averlo rivolto a sé in prima persona, deve suscitare in lui il desiderio di fare esperienza in Dio, in Gesù Cristo e nell’appartenenza alla Chiesa.
E' importante piuttosto non correre il rischio di considerare "orientamenti passati" quello che invece è la "sostanza", perchè oggi il rischio è quello di cambiare tutto (liturgia, visione di Cristo, visione dell'uomo) in qualcosa che è molto diverso da quello che era l'insegnamento degli Apostoli, ma soprattutto in qualcosa che si allontana dall'autentico esserci dell'uomo in rapporto al Verum Bonum Pulchrum Essere di Dio...

Questo discorso del "rivestimento" rischia di essere un inganno perché, se le parole sono il rivestimento e si cambiano le parole, non dobbiamo dimenticare che sono esse che veicolano la realtà che significano: e allora, se se ne lasciano cadere alcune essenziali o a furia di non parlarne più cadono da sole (come espiazione, per esempio), cambiando il rivestimento cambia anche la sostanza. Perché il nostro contemporaneo possa "vedere" il Signore non serve il discorso accattivante, ma quello che Lo lascia "trasparire".

Se non recuperiamo le 'vecchie 'parole della Tradizione che hanno costituito il nucleo dell'evangelizzazione di sempre (male-peccato-giudizio-perdono-redenzione ecc.) spalanchiamo la porta, già aperta, a tutte le novità. Ma, per fare questo non bastano laici di buona volontà, ci vogliono laici e sacerdoti ben formati. E nelle parole del Papa all'Assemblea Plenaria del neo Pontificio Consiglio di cui stiamo parlando c'è piuttosto il riferimento alla coerenza, che è sacrosanto
...non si potrà dimenticare che lo stile di vita dei credenti ha bisogno di una genuina credibilità, tanto più convincente quanto più drammatica è la condizione di coloro a cui si rivolgono.
E tuttavia non basta dire:
La nuova evangelizzazione dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale. Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità.
Infatti la proclamazione del mistero salvifico della morte e risurrezione di Gesù Cristo non passa dalla ricerca di "trovare nuove vie" di efficacia, ma dell'incontro vivo e vero con l'Unico efficace, che è Lui che opera servendosi di noi. E la Chiesa è QUESTO incontro vivo e vero che deve garantire, null'altro!
  1. [...] Intendiamo sollecitare la presenza delle diverse realtà che operano e anche molto bene nel tessuto della pastorale, ai vicini ed ai lontani, ma farlo in modo tale che non siano gli uni slegati dagli altri ma che ognuno possa comprendere la complementarietà nei confronti dell’altro. Se non c’è questa presenza unitaria noi non diamo un segno efficace. Vorrei ricordare che il Concilio Vaticano II ha chiamato la Chiesa segno e strumento di unità per tutto il genere umano. Se nell’annunciare il Vangelo non diamo un segno di unità, allora rischiamo di rendere meno efficace l’annuncio stesso che ci compete.
Questo è gravissimo, perché di fronte all'immobilismo della chiesa, ci sono già i movimenti - ed è ad essi che ci si riferisce - che non aspettano altro che le 'vecchie' parole della 'vecchia' evangelizzazione vengano messe in soffitta perché loro le hanno già sostituite con 'nuovi' significati. Un esempio concreto: nella Missio ad gentes di uno di questi movimenti, il Cammino neocatecumenale, è sparito non solo il termine ma anche la realtà parrocchia, sostituita dal cathecumenium e quindi, all'inizio, la chiesa sarà in case private. Così come sono sparite o sono state modificate molte prassi, compreso il rito, fonte della lex orandi. Ma questo chi lo sa? Però il papa fa riferimento ai tempi apostolici e all'inizio dell'evangelizzazione, chiunque può interpretarlo come un via libera alla chiesa=casa del presbitero, come nel primo secolo. Ma affermo per esperienza che questa evangelizzazione davvero "nuova" proprio perché "altra" - il cui "iniziatore" è stato inserito tra i consulenti del Dicastero - porta non all'implantatio ecclesiae nei luoghi in cui si diffonde in tutto il mondo, ma alla clonazione di cellule del Cammino, che non si integrano MAI con la Chiesa locale e la sostituiscono dove non c'è.

Per questo Fisichella batte sulla necessità di dare un "segno di unità", perché in realtà si vive una drammatica frammentazione, determinata proprio da certi stili di evangelizzazione che vanno per la maggiore, che non si integrano con le altre realtà ecclesiali, rimanendo blindate in quello che considerano il loro "unicum". Egli sembra tuttavia dimenticare che l'unità non siamo noi a farla. E' il Signore che la opera e l'unità possono realizzarla e viverla in Lui solo coloro che condividono la stesa fede e lo stesso Altare, inutile girarci intorno, perché nella Chiesa -oggi- c'è la Verità, ma c'è anche il suo contrario.

E tuttavia Cammino NC non è l'unico attore della nuova evangelizzazione ma la sua influenza va aumentando, esponenzialmente decuplicata dal neo-modernismo imperante che non ne riconosce né eresie né le prassi anomale, né gli aspetti pesantemente giudaizzanti.
  1. Fisichella: [...] Nel libro intervista “Luce del mondo” appena pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, il Pontefice Benedetto XVI ha scritto che anche se “il cristianesimo non determina l'opinione pubblica mondiale, altri ne sono alla guida” tuttavia “sulla base di quello che vedo e di cui riesco a fare personale esperienza, sono molto ottimista rispetto al fatto che il cristianesimo si trovi di fronte ad una dinamica nuova”. Quali sono le ragioni di questo ottimismo?
    Il Papa ha una idea molto precisa della realtà della Chiesa. Nelle visite ad limina con i Vescovi di tutto il mondo, riceve informazioni precise sui diversi continenti. Mentre noi a volte abbiamo una visione un po' limitata geograficamente e guardiamo spesso solo all’Europa. Ma il Papa ha una visione globale. La Chiesa è presente in Africa, in America Latina, in India, in Corea del Sud... E dai dati complessivi si nota che la Chiesa sta crescendo.
A me sembra vedere solo le enormi contraddizioni che si vanno ingigantendo, annebbiando le menti, anziché illuminarle, per un semplice motivo: che questa Chiesa rinnovata dal concilio ha preteso e pretende di servire due padroni: Cristo e il mondo. Ciò mi pare inconcepibile, secondo il Vangelo, ma essa continua imperterrita a proporci questa posizione doppia, incurante della sua stridente contraddizione con Cristo e con se stessa, con quella che ESSA è/era DA SEMPRE.

A questo punto che significato si può dare alla parola "Tradizione", che pare sempre più un vuoto contenitore, dal bel suono, utile a convincere i diffidenti circa la reale continuità di questa Chiesa con la Chiesa di sempre?

Nei discorsi del Papa sono più riconoscibili chiari riferimenti alla Tradizione, quella vera, non quella "vivente", che cambia secondo le mode del tempo e che ha innestato principi simboli e prassi nuove nella Chiesa, non innovatori, ma decisamente "altri" dalla Tradizione Apostolica e tali da sovvertirla.

Ma alle parole, purtroppo non sembrano corrispondere i fatti...

Infatti anche il Papa sembra aggirare l'ostacolo insormontabile di una realtà ecclesiale, renitente al cambiamento del senso di adeguamento cattolico, col trovare insieme le modalità nuove di evangelizzazione lasciando intendere che nessuna delle attuali 'modalità' ha il monopolio dell'evangelizzazione e non dovrà monopolizzarla come invece tende a fare e di fatto lo fa un certo movimento senza che vengano posti dei limiti.

Se ne parlerà più diffusamente dedicando al tema la prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, nel 2012: "Nova evangelizatio ad christianam fidem tradendam - La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana", di cui accenna anche Fisichella. Il rischio che si corre è lo stesso del concilio, nel quale un minoranza sovvertitrice ma agguerrita ha imposto testi ambigui interpretati e applicati nel senso rifondativo della Chiesa (e non semplicemente rinnovatore). Questo sinodo, in cui i 'rampanti agguerriti' affinati e galvanizzati da anni di briglie sciolte e fatti compiuti non repressi, la faranno da antesignani del "nuovo che avanza", otterrà la prosecuzione se non il rafforzamento di quel che essi già sono riusciti ad imporre in tante diocesi.

Finché il Papa indica, consiglia, lascia fare, anziché governare anche espellendo gli errori o almeno correggendoli efficacemente senza applicare l'"inclusivismo spinto", la barca di Pietro sarà alla deriva... ed è una situazione di grande buio e confusione quella che stiamo vivendo, che non accenna a risolversi, nonostante le luci del Summorum, al quale non mancano inquinamenti a causa di sacerdoti e vescovi "ibridi" o "double face" che dir si voglia, oltre alle molte, anzi troppe, viscerali resistenze di sacerdoti e vescovi dichiaratamente 'contro' persino in contrasto con la volontà del Papa...

Dice Benedetto XVI ai partecipanti all' Assemblea Plenaria del neo Pontificio Consiglio di cui stiamo parlando: "Il compito dell'evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i Sacramenti come veri Sacramenti della fede, e non a riceverli passivamente, o a subirli."

Il principio è sacrosanto. Nulla da eccepire. Ovvio che è necessaria la catechesi, cioè l'insegnamento: il munus docendi appartiene prevalentemente ai sacerdoti, ed è delegabile a laici adeguatamente formati e coerenti nella fede vissuta.

Il problema è chi catechizza cosa. Non dimentichiamo che l'evangelizzazione non si fa soltanto andando per le strade, o nella tanto enfatizzata "Missio ad gentes", che sembra averne il monopolio, ma partendo da una formazione seria e, soprattutto, testimoniando...
Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza. (Romano Amerio, Di un bisogno dei contemporanei, «Pagine nostre», giugno 1926)
La prima evangelizzazione la garantiscono sacerdoti Adoratori che esercitano il loro munus sanctificandi, celebrando vere Eucaristie e amministrando veri Sacramenti della Riconciliazione, conducendo le anime a viverli sempre più profondamente.
Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza. (Romano Amerio, Di un bisogno dei contemporanei, «Pagine nostre», giugno 1926)