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sabato 31 agosto 2013

Convivenza tra le due forme del Rito Romano. Confutazione del pensiero di padre Augé

Apprendiamo da MiL che padre Augé, noto liturgista allievo di Bugnini, ha pubblicato di recente sul suo blog un articolo sulla convivenza tra le due forme del Rito Romano. Ciò avviene dopo 6 anni di attuazione e applicazione del Summorum Ponticum, del quale è notoriamente un oppositore, ed in relazione al recente "caso" dei Francescani dell'Immacolata, che ha riproposto la questione in termini inaspettati di evidente abuso di potere, proprio per la violazione del Summorum che il Decreto del Congregazione per gli Istituti di Vita consacrata ha posto in essere.[1]

Augé si pone lo stesso interrogativo che ci poniamo noi:
« Alla luce di questi eventi e dopo sei anni e passa dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, viene spontanea una domanda: la situazione attuale del rito romano con due forme rituali, ordinaria e straordinaria, è destinata a consolidarsi o è una situazione temporanea in attesa del ritorno ad una sola forma rituale? »
e perviene alla conclusione sulla impossibilità della coesistenza - che per il momento non può che essere da noi accettata e subìta, pur con tutti i distinguo del caso - posta peraltro la validità se non la liceità di un NO correttamente celebrato. Appare scontato, date le premesse e l'estrazione del liturgista, che egli prefiguri la soluzione, semplicemente raccapricciante, di un rito "ibrido".

Gli viene riconosciuta l'onestà di ammettere che il problema liturgico esiste nella disaffezione dei fedeli e nella diffusa sciatteria celebrativa. Ma egli, tra l'altro, afferma:
« La storia della liturgia dimostra che, in genere, le diverse tradizioni liturgiche nascono e si consolidano in un determinato ambiente geografico ed ecclesiale ».
Perché ignorare che l'ambiente geografico ed ecclesiale preso in considerazione da Trento - e volutamente, proprio per eliminare i pluralismi impropri dei localismi diffusi tant'è che si sono conservati i riti con una tradizione superiore ai 200 anni - non è altro che quello della Chiesa Universale?
Perché tirar fuori gli influssi franco-germanici diffusisi nell'Europa occidentale, che ci sono stati ma in realtà le sedimentazioni che nel tempo hanno forgiato la 'forma' antiquior vengono dalle aggiunte dettate dalla devozione sviluppatasi e consolidatasi nei secoli apportate da anime credenti, che hanno lasciate intatte le linee portanti del Rito che è e resta la mirabile espressione secolare della spiritualità dell'Occidente cristiano?
San Gregorio Magno ha dato il maggior contributo, adoperandosi per l'unità liturgica e il suo perfezionamento. Fu l'ultimo ad intervenire sulle parti essenziali della Messa, modellate sul libro gelasiano che a sua volta dipende dalla collezione leonina. Le preghiere del nostro Canone sono nel trattato De Sacramentis. Ne troviamo riferimenti nel IV secolo. 
Col Concilio di Trento si è provveduto alla revisione dei Messali - giungendo al Messale di S. Pio V -, ma si è lasciata inalterata la forma della Messa. Del resto l'uniformità stessa che nel campo liturgico si riscontra presso le Comunità cristiane dei primi due secoli, suppone un principio d'autorità, un metodo d'azione, cioè una organizzazione primitiva che dovette far capo più che agli Apostoli a Cristo medesimo. Tutto questo non potrà mai essere né ignorato né sottovalutato. Infatti la Messa "tridentina" non è stata inventata da san Pio V né dal Concilio di Trento, ma risale ai tempi apostolici. E la Liturgia, non è l'espressione d'un sentimento del fedele, ma è "la" preghiera ufficiale della Chiesa; è Dogma pregato. Essa racchiude qualcosa di eterno non costruito da mano umana. «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20). (Vedi Studio di Suor M. Francesca Perillo sulle origini apostolico patristiche della Messa Tridentina.)

Se è «fuori posto - come fanno alcuni fautori della pluralità rituale, e quindi della coabitazione delle due forme rituali del rito romano, interessati da motivi ideologici - guardare con interesse alla situazione della liturgia nei secoli anteriori a Trento in cui c’era un certo pluralismo rituale che, è vero, riguardava fenomeni localizzati, altrettanto fuori posto è affermare che « La normativa del Motu proprio Summorum Pontificum introduce una situazione inedita storicamente e problematica pastoralmente » perché ciò, in realtà, presuppone l'inedito storico e pastorale e dunque problematico della riforma di Paolo VI, che ha messo ai margini molte verità cattoliche:
  • lode alla Santissima Trinità (che è quasi sparita dalla messa col prefazio prima predominante nell'anno liturgico ora solo una volta presente nella festa che almeno è rimasta); 
  • riferimenti alla “Comunione dei Santi” e alle intercessioni della Vergine; 
  • sacrificio espiatorio, propiziatorio, impetratorio, oltre che di lode;
  • offertorio sacrificale (con la modifica delle formule: berakah ebraica e non solo); 
  • chiara affermazione della transustanziazione e della presenza reale che cozza con l'enfasi sulla "mensa della Parola"  e sul convito fraterno a tutto discapito del Sacrificio e della "mensa eucaristica" che ne è conseguenza e non è il fine della celebrazione 
Inoltre la liturgia non è né la festa della comunità né azione dell'assemblea, ma Azione teandrica (divino umana) di Cristo Signore che il sacerdote compie in persona Christi così come Lui ce l'ha consegnata nell'ultima Cena fino alla fine dei tempi. Certo che c'è anche la partecipazione del credente col suo “sacerdozio battesimale”; tuttavia esso è ben distinto, sia in grado che in essenza, da quello ordinato (Lumen Gentium, 10).

Per questo il nuovo rito, nella sua quotidianità banalizzante, non prepara né edifica né fa crescere nella fede. Ne consegue che la riconciliazione liturgica, se non porta all'eliminazione dello spirito del Novus Ordo, resta uno slogan vuoto, come l'ermeneutica della continuità: tutti ne parlano e nessuno l'argomenta. Non si può ignorare, infatti che Paolo VI e Bugnini avevano lo scopo di modificare i riti cattolici per togliere ogni pietra d'inciampo al dialogo coi protestanti, noncuranti della serietà e dello spessore della forma sacra e solenne della Santa e Divina Liturgia: è bastato sovvertirla, infatti per intaccare ciò che essa è davvero. Ed è esattamente quel che si è perso e risulta diluito, se non oltrepassato oggi.

È ben noto che dopo il Concilio fu designata una commissione che ne vergò materialmente un nuovo testo: il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia. Inizialmente fu redatto un nuovo messale edito nel 1965 e in parte modificato nel 1967, in cui furono introdotti la preghiera dei fedeli, la possibilità di poter recitare in volgare, un diverso e più ampio ciclo di letture ed anche diverse parti dell'Ordinario.
Tuttavia, la Commissione arrivò alla formulazione di un ulteriore nuovo Messale nel 1969: il Novus Ordo Missæ, che fu redatto ben oltre le linee guida del Concilio. In particolare, e non soltanto, circa l'utilizzo della lingua liturgica, quanto meno nella prassi che relega l'uso del latino a poche cerimonie, soprattutto a quelle celebrate dal pontefice.
Inoltre, l'abolizione di moltissimi gesti, inchini, e preghiere, l'inserimento di nuove preghiere eucaristiche, la citata soppressione dei riferimenti alla Comunione dei Santi ed alla Vergine eliminando le invocazioni alla loro intercessione, il maggior spazio dato all'ascolto della sacra scrittura, la modifica delle formule dell'Offertorio e diversi altri rifacimenti hanno reso il nuovo messale un libro liturgico che molto si distacca del testo tridentino e ha messo ai margini le verità cattoliche sopra elencate.

Del resto il Novus Ordo presenta scostamenti dalle formulazioni della Sacrosanctum Concilium, espressi con chiarezza dal Cardinale Malcolm Ranjith - a suo tempo chiamato personalmente in Vaticano da papa Benedetto XVI con l’intento di ristabilire un senso di venerazione nella liturgia ed ora Arcivescovo di Colombo - nella prefazione di un recente libro sulla base dei diari e delle note del Cardinale Fernando Antonelli. Egli sostiene che sono scritti che aiutano il lettore a «comprendere il complesso funzionamento interno della riforma liturgica immediatamente prima del successivo Concilio», riscontrando che l'attuazione della riforma ha suggerito deviazioni spesso lontane dalle reali intenzioni dei padri conciliari. Da quella lettura emerge che la liturgia di oggi non è una autentica realizzazione della visione avanzata nel documento chiave del Concilio Vaticano II sulla liturgia, la Costituzione Sacrosanctum Concilium. In particolare, il Cardinal Ranjith scrive:
« Alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato furono permesse nella liturgia, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché di canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l'estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa ».
[Sorvolando sull'oltrepassamento, da parte della SC della Mediator Dei di Pio XII]
È noto anche che il concilio ha avuto luogo in un momento di grande fermento intellettuale in tutto il mondo e, particolarmente nelle sue conseguenze, molti interpreti hanno visto l'evento come una rottura con la precedente tradizione della Chiesa. Non finiremo mai di notare come concetti base e temi come sacrificio e redenzione; missione; annuncio e conversione; adorazione come parte integrante della Comunione; la necessità della Chiesa per la salvezza, sono stati tutti esclusi, mentre il dialogo a tutti i costi, l'inculturazione senza discernimento, l'ecumenismo senza reditus, l’Eucaristia come banchetto, l'evangelizzazione come testimonianza, ecc., sono divenuti più importanti. I valori assoluti sono stati disdegnati. Queste influenze sono state chiaramente sentite: un esagerato senso di archeologismo, antropologismo, confusione di ruoli tra l’ordinato e il non ordinato, una concessione di spazio illimitato per la sperimentazione - e anzi, la tendenza a guardare dall’alto verso il basso alcuni aspetti dello sviluppo della Liturgia nel secondo millennio - sono stati sempre più visibili tra alcune scuole liturgiche ed ora ne subiamo gli effetti e ne vediamo il perpetuarsi in uno dei rappresentanti.

Augé non è l'unico, infatti, a ritenere che una nuova comprensione del Rito antiquior possa aiutare ad armonizzare le innovazioni – cioè il Novus Ordo – che « scaturirebbero organicamente dalle nobili forme preesistenti senza rotture ed in dinamica di continuità ». Ciò in via del tutto ipotetica, dato che risulta un "nuovo edificio fabbricato a tavolino" al posto del "vecchio edificio" distrutto (parole dello stesso Ratzinger).
Ma è possibile affermare questo, quando le due forme riflettono e veicolano ecclesiologia e teologia diverse? Teocentrica la prima, antropocentrica la seconda.
Egli ha portato in diverse occasioni argomenti a favore delle innovazioni, alcuni dei quali, in parte, ho già confutato qui.

Tornado all'articolo in esame:
  • al punto 1) della sua argomentazione riguardante la Sacrosanctum Concilium ho già risposto sopra. A prescindere dai distinguo su pastoralità e dogmaticità, la SC, di fatto, è stata disattesa pur contenendo affermazioni di principio ineccepibili, ma riportando in alcune ambiguità di formulazione, l'espressione di eccezioni diventate diventare regole. Ed è attraverso queste che i novatori hanno innestato gli elementi di rottura mascherata da continuità.
  • Sul punto 2), che considera un "rompicapo" l'aggiornamento del santorale che costituisce l'unica possibile modifica del Rito antiquior, non si vede perché una commissione di veri esperti non potrebbe risolvere il problema individuando Santi, date e prefazi che non sconvolgano l'impianto del Rito. E solo per questo motivo buttiamo a mare il rito stesso in favore di quello riformato?
    E perché la comunità parrocchiale dovrebbe risultare divisa, se si desse ai fedeli libertà di scelta? Non è per caso perché, non condividendo lo stesso Rito, non si può condividere la stessa fede?
  • Sul punto 3) che vede nella creazione di Parrocchie personali il rischio di creare ghetti anziché comunità ecclesiali, siamo d'accordo. Ma dovrebbe essere una soluzione contemporanea e non alternativa alla coesistenza delle due forme in altre Chiese, se non in tutte le parrocchie, al momento inattuabile per la carenza di sacerdoti, che non saranno mai abbastanza se se ne continua a boicottare la formazione fin dai seminari, insieme alla totale disinformazione e avversione al rito da parte di vescovi che non consentono neppure la più elementare informazione ai fedeli. 
  • Il punto 4) esclude la possibilità di conservare i libri anteriori al Vaticano II senza cambiamenti di rilievo, o al più con qualche leggero ritocco formale. Ma piuttosto che i risvolti pratici che secondo lui la sconsiglierebbero (creazione di tre diversi caetus fidelium), occorrerebbe prendere in esame le ragioni teologiche ed ecclesiologiche, che costituiscono le vere cause della divisione.
Per il momento e realisticamente, chi ama la tradizione non può che sostenere la coabitazione delle due forme, con pari libertà e dunque piena reciprocità, per chi ama il Rito antiquior, di poterlo promuovere e vivere senza discriminazioni  e ghettizzazioni di sorta. Gli argomenti sono stati forniti ampiamente. Il problema è la cecità spirituale di chi non riesce ad accoglierli.
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1. Da prendere nella dovuta considerazione [nota di Chiesa e post concilio]:
  • L'art.2 del Motu proprio Summorum Pontificum prevede il diritto di ogni sacerdote di rito latino (sia secolare che religioso) di celebrare il VO senza obbligo di alcuna autorizzazione previa (di fatto equiparando l'uso dei due messali). Celebrazioni alle quali, ai sensi dell'art.4 sono ammessi anche i fedeli, come di fatto ormai avviene per prassi consolidata dal 2007 
  • l'art. 3, cui molti hanno fatto riferimento a giustificazione del decreto, riguarda la celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori"
Ne consegue che la disposizione avallata dal Papa nel decreto 11 luglio (che è un atto amministrativo) non potrebbe di fatto cancellare una disposizione papale diramata dal suo predecessore con motu proprio (art.2/4). "...il Santo Padre Francesco ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell'Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l'uso della forma staordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta".
Ciò non appare canonicamente valido, per effetto della gerarchia delle norme. E, di fatto, è e resta grave e scorretto. Anche se il fatto che la disposizione del papa, riguardi esclusivamente la materia specifica cui si riferisce (il "caso" FI) e sia esplicitata con l'aggiunta finale  «nonostante qualunque disposizione contraria ».
È forse uno degli aspetti della ormai imperante "prassi ateoretica senza spiegazioni", che non si può concepire da parte di un pontefice? Egli deve esprimere la sua attività di governo nonché il suo munus docendi attraverso encicliche, lettere apostoliche, atti di magistero, omelie, discorsi e pronunciamenti adeguatamente ponderati. L'alta dignità conferitagli per mistero di grazia lo esige. Infatti queste sue forme espressive sono sempre state di prassi ponderate. In esse, ogni parola è stata sempre misurata, ogni concetto esplicitato e sviluppato, proprio per non lasciare spazio a equivoci e interpretazioni errate, esattamente come stiamo invece assistendo da quattro mesi con la complice ridondanza dei media. 

15 commenti:


  1. http://www.unavox.it/Giornale/127g_p_App_Ritus.htm

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  2. Grazie perché qui si possono leggere queste cose.

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  3. Ecco quest'articolo è certo molto meglio della salsina sentimentaloide pubblicata, sullo stesso argomento, tempo fa. Tiro un sospiro di sollievo

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  4. Penso che il vero problema è che ciò che ho affermato sul Rito antiquior padre Augé lo conosce bene; solo che non dà lo stesso valore a quel che per noi è un tesoro prezioso da custodire.

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  5. Scrive l'ottimo articolista, riferendosi al miserabile divieto ai FI di celebrare la S. Messa: "Ciò non appare canonicamente valido, per effetto della gerarchia delle norme. E, di fatto, è e resta grave e scorretto."
    E' esattamente questo il punto.
    Il diktat del Grande Inquisitore è antigiuridico e, in quanto tale, illegittimo.
    Ogni altra discussione è inutile.

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  6. Scrive l'ottimo articolista...

    Grazie Silente ;)
    sono io che ho scritto l'articolo e che avevo già sottolineato questi dati fin dall'inizio di questa brutta storia.

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  7. Ottima anche la chiusa della nota sulla necessità di una forma espressiva adeguatamente ponderata e motivata dei provvedimenti papali, che mi sembra molto in linea con la dissertazione del prof. Turco sul positivismo giuridico e teologico di atti come il decreto nei confronti dei Francescani dell'Immacolata, emessi da un'Autorità che trasforma in legge il proprio volere anziché adeguarsi alla giustizia.

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  8. Augé non può dire il Signore mi ha aperto l'orecchio e non ho opposto resistenza e parlo come un iniziato...

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  9. Perchè dare tanta importanza a Augé?
    Meglio ignorare tutte queste bischerate.

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  10. Ho detto già altrove che non è tanto in questione l'importanza o la visibilità di Augé quanto il fatto che le sue bischerate sono quelle della cultura egemone. È per questo che è necessario e poi anche utile confutarle, per affermare le ragioni della Tradizione.

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  11. Per giurista.
    Oltre alla scorrettezza ed all'ingiustizia del provvedimento, spicca la scarna formulazione, priva delle necessarie motivazioni, dato che sembra caratterizzare tutte le comunicazioni di questo papa e che si discosta fortemente dallo stile dei suoi predecessori e che non si confà né all'attività di governo né a quella docente di un pontefice.
    Effettivamente molto centrata sia dal punto di vista giuridico che teologico la dissertazione del prof. Turco.

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  12. Purtroppo, come osserva mic, P. Augé dovrebbe conoscere la storia e anche, per età, la celebrazione del rito romano antico.
    Il fatto che l'abbia ripudiato sulla scia delle correnti moderniste del suo tempo, oltre ad essersi formato alla scuola di Bugnini, lo rende completamente sordo a qualunque voce tradizionalista.

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  13. Ecco perché dargli visibilità: proprio per raggiungere coloro che, sia pure alla scuola degli inganni, non sono ancora diventati sordi e ciechi alle ragioni della Tradizione.

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  14. Mic mostra consapevolezza dell'abbandono dei valori e dei significati del VO per elementi più flessibili del NO, ma è consapevole che i suoi argomenti vengono considerati non-cattolici?

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  15. Caro anonimo,
    ne ho preso consapevolezza quando mi hanno segnalato da quale pulpito veniva affermato.
    Se vuole approfondire legga qui.

    http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/09/quando-la-pastorale-diventa-lalibi-per.html

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