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sabato 30 gennaio 2021

“Non ci indurre in tentazione”: se i vescovi leggessero la Commedia … (Dante, Purgatorio, canto XI, vv. 4-24)

Il bellissimo “Padre Nostro pregato” di Dante prosegue, dopo l’iniziale contemplazione di Dio che sta nel cielo Pater noster, qui es in coelis,
O Padre nostro, che ne’ cieli stai, / non circunscritto, ma per più amore / ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
sempre sulla stessa falsariga di una dizione poetica che è pura meditazione del testo evangelico e va dentro, non oltre la lettera del testo sacro.

Santificetur nomen tuum fiorisce in
«laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore / da ogne creatura, com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore» (vv. 4-6),
una terzina in cui il riconoscimento dell’impronta trinitaria nel volto del Padre (nome – valore – vapore, che richiamano il Figlio, il Padre stesso e lo Spirito Santo) apre alla gratitudine perché Egli si é rivelato a noi: «com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore». E come si è rivelato? Come un dolce soffio di vento che ci accarezza il volto: così è il dono dello Spirito.

Adveniat regnum tuum
si dispiega in
«Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi, / s’ella non vien con tutto nostro ingegno» (vv. 7-9).
Pronunciata così, la seconda invocazione impressiona, sia per l’identificazione del regno con la pace, sia per la dichiarazione dell’impossibilità umana della pace stessa, da cui la lettura straordinariamente pregnante di quel “venga”, che significa: “venga lui” perché solo se “avviene” lui, il Regno che coincide con la persona di Cristo, come un dono inaspettato, come una cosa bella che capita senza alcun nostro merito, è possibile che venga. Altrimenti no.

Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra rivela, nella trascrizione dantesca, tutta la forza cogente del sacrificio che tale preghiera implica. L’affermazione della volontà di Dio, infatti, è il sacrificio di ogni altra volontà. Ma un sacrificio lieto, gioioso, che si compie e si esprime in un canto, il canto degli angeli. Ecco quindi un’altra cosa dell’altro mondo, una cosa celeste, che viene introdotta in questo mondo:
«Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te, cantando osanna, / così facciano li uomini de’ suoi» (vv. 10-12).
Panem nostrum cotidianum da nobis hodie sarebbe, in realtà, la vera crux per i traduttori, perché nel testo greco dei vangeli lì c’è una parola, ἐπιούσιος, che, come ben sanno gli esperti, non è per nulla facile da intendere, anche perché si trova praticamente solo lì. Che vorrà mai dire epiousios, che letteralmente dovrebbe valere “soprasostanziale” [quello che viene dal cielo, cioè Cristo Signore]? Il latino se l’è cavata (anche brillantemente, a modo suo) con cotidianus, che poi è pianamente transitato nel nostro “pane quotidiano” [già presente nell'hodie /oggi], una forma concreta come una pagnotta, che il buon popolo di Dio ha sempre applicato, senza incertezze e senza farsi troppi problemi, essenzialmente al carboidrato fondamentale della sua povera dieta, la cui “quotidianità” era troppo spesso minacciata dalla miseria e dalle carestie. Ora, la fame va rispettata, sempre e comunque, perché è cosa troppo seria perché chi è a pancia piena possa permettersi di darle lezioni, quindi quell’esegesi popolare dev’essere accolta e benedetta. Bene hanno fatto dunque i vescovi a non darsi pensiero di cambiare la formula in uso. Continuiamo pure a chiedere a Dio di darci il “pane quotidiano”, però ricordiamoci anche che il Padreterno, sfrattando i progenitori dal giardino dell’Eden, non garantì loro alcun “reddito di cittadinanza”, anzi li avvertì che da quel momento in poi si sarebbero dovuti procurare il pane con il sudore della fronte. Se la società è così ingiusta e malfatta che tanti non hanno lavoro e non hanno reddito, la colpa è solo nostra e la responsabilità di rimediare pure. Dante, senza toccare quell’aggettivo tanto caro al buon popolo di Dio (che deve mangiare “tutti i giorni”), lavora sul sostantivo, traducendo panem con manna, e apre così genialmente la porta all’interpretazione spirituale del passo (quella che gli esperti raccomanderebbero), ma lo fa in modo tanto piano e semplice che tutti possano capire:
«Dà oggi a noi la cotidiana manna, / sanza la qual per questo aspro diserto / di retro va chi più di gir s’affanna» (vv. 13-15).
Che è tra l’altro la ripresa puntuale del concetto già espresso alla fine del canto precedente: «O superbi cristian, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi» (X, vv. 121-123). Senza quel pane lì, nella vita si crede di andare avanti, invece si va indietro.

Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris viene chiosato con una finissima spiegazione di che cosa siano i crediti e i debiti di cui si parla, in modo da sottrarre la nostra lettura al rischio di un’interpretazione da bottegai o ad una contabilità da ragionieri (con tutto il rispetto per entrambe le categorie). Dice semplicemente:
«E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascun, e tu perdona / benigno, e non guardar lo nostro merto» (vv. 15-18).
Quando pensiamo ai nostri presunti crediti, noi tendiamo a considerare in primo luogo il bene che abbiamo fatto (o che presumiamo di aver fatto), ma quel bene, di solito, è condito di tanto amor proprio e soddisfazione di sé che il suo credito forse ce lo siamo già riscosso. Forse, in quel computo del dare e dell’avere, valgono di più le sofferenze che ingiustamente patiamo, lo «mal ch’avem sofferto». Mi ricordo che una volta, quando ci si andava a confessare, il sacerdote al momento dell’assoluzione recitava una preghiera che diceva, mi pare: «Passio Domini nostri Jesu Christi, merita beatæ Mariæ Virginis, et omnium sanctorum, quidquid boni feceris, et mali sustinueris, sint tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiæ, et præmium vitæ æternæ». Formula perfetta, in cui le nostre eventuali “buone opere” sono sì annoverate, ma al loro posto (che non è il più importante), un tassello tra gli altri di un’opera fondata sulla passio Domini nostri Iesu Christi.

Infine ecco l’espressione che tanto ha angustiato i nostri vescovi da indurli a cambiare la carrozzeria del Padre Nostro (il motore speriamo resti sempre quello!). 
Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo era stato letteralmente reso in italiano con quel “non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”, che io continuo tranquillamente ad usare nella recita privata dell’oratio dominica, ma che a quanto pare non si poteva più sentire in chiesa. La soluzione che i nostri pastori hanno adottato è, a mio avviso, peggiore da tutti i punti di vista (come mi pare che tutti gli esperti abbiano fatto notare nei mesi passati, con argomenti che non è qui il caso di ripetere). Chissà, magari se fossero stati più familiari con la lettura della Commedia forse sarebbero stati aiutati, nella loro scelta, proprio dalla limpida esegesi dantesca, che sgombra ogni equivoco:
«Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (vv. 19-21).
È come dire: “Signore, nostro Dio, tu certo puoi metterci alla prova, e in effetti spesso lo fai, e noi crediamo che lo fai per il nostro bene … però lo vedi come siamo: «nostra virtù di legger s’adona», lo sai che resistiamo ben poco contro l’antico avversaro … allora ti preghiamo: «non metterci alla prova»”. Cosa può esserci di più semplice di così, di più aderente al testo greco, di più espressivo di un sentimento filiale verso il Padre?

Paolo VI nel 1965, il giorno prima della chiusura del concilio Vaticano II, pubblicò una lettera apostolica, Altissimi Cantus, dedicata all’illustrazione del magistero teologico di Dante, un testo di grande spessore che bisognerà tornare a leggere e meditare, e donò una copia della Divina Commedia a ciascun padre conciliare. Così facendo, quel papa coltissimo diede a tutta la chiesa un’indicazione preziosa. Caduta nel vuoto, come tante altre, temo. Nel tempo incolto in cui viviamo, sarebbe il caso che qualcuno la riprendesse. - (Fonte)

13 commenti:

  1. bernardino guerrini30 gennaio, 2021 16:13

    Bergoglio ci minaccia..... "" o il concilio o fuori dalla chiesa""" tentativo di scisma con chi non accetta il falso ecumenismo.. la libertà religiosa.., Pachamama e compagnia bella... un Dio unico materialista e mondialista???? -- il dio pagano di tutte le religioni... -- vuole lo scisma per chi non accetta il concilio con tutti gli errori del paganesimo????? cosa dirà il blog Chiesa e post concilio.. i vescovi tradizionalisti.. saranno espulsi dalla Chiesa??? o lui stesso si è fatto la sua chiesa pagana e vuole che tutti lo seguano altrimenti cosa minaccia?????.. siamo di nuovo a Nicea????? e la FSSPX cosa dirà????? noi cattolici veri cattolici vogliamo sapere se ormai sono o no due chiese... la Vera Chiesa Cattolica e Romana e una chiesa pagana del concilio pastorale e bergogliana e seguaci????? -- è stato un ultimatum.. dunque hanno occupato con un colpo di mano tutti gli edifici di culto veri Cristiani... dunque bisogna buttarli fuori con la forza.....

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  2. Bellissima meditazione riscoprendo il Sommo Poeta... Grazie!

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  3. Scusa Maria, hai ragione, ma molti sacerdoti, e Prelati, negano sia l'esistenza dell'inferno, sia quella del Purgatorio, loro sono convinti così, il peccato non esiste, tutti direttamente in Paradiso, la Misericordia di Dio è infinita e Gesù Cristo in po' scemo.....PERCHÉ PERDERE TEMPO A LEGGERE LA DIVINA COMMEDIA??? Bellissima questa annalisi sul Padre nostro e le considerazioni che condivido, penso che la Divina Commedia di Dante dovrebbe essere più famigliare nei Seminari della Chiesa.
    Comunque penso che si sia persa qualunque forma di umiltà nei confronti della PAROLA DI Dio che poi è GESÙ CRISTO SUA PAROLA INCARNATA.... OGGI, L'UOMO AL CENTRO DI TUTTO E TUTTO PIEGATO A LUI DIO COMPRESO.....
    Angela Volo

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  4. MARTIROLOGIO ROMANO SECONDO IL CALENDARIO DEL VETUS ORDO

    CONOSCIAMO IL SANTO DEL GIORNO: S. GIOVANNI BOSCO, CONFESSORE

    Oggi 31 gennaio 2021, Domenica di Septuagesima, inizio del tempo di penitenza, si festeggia a Torino san Giovànni Bosco, Confessore, Fondatore della Società Salesiana e dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, insigne per lo zelo delle anime e la propagazione della fede, ascritto dal Papa Pio undecimo nei fasti dei Santi.
    Questo nome popolarissimo e tanto venerato ricorda un'istituzione grandiosa e benefica che da anni assiste ed educa cristianamente la gioventù, raccolta in centinaia di case sparse in tutto il mondo.
    Giovanni Bosco nacque il 16 agosto 1815 ai Becchi, frazione di Murialdo presso Castelnuovo d'Asti, da una povera famiglia di agricoltori. Sua mamma, Margherita, era una santa donna tutta dedita al lavoro ed ai suoi doveri di cristiana: infondere nei suoi figliuoli il santo timore di Dio. Del babbo non potè gustare il sorriso e la carezza, perchè se ne volò al cielo quando Giovanni era ancora in tenerissima età.
    Fin da fanciullo ebbe il dono di attirare a sè le anime dei fanciulli con i suoi giochi di prestigio e con la sua pietà, che gli cattivava l'animo di tutti.
    A prezzo di privazioni di ogni genere, in mezzo alle contrarietà degli stessi familiari, riuscì a compiere gli studi ecclesiastici e nel 1 841 fu ordinato sacerdote. Da questo punto comincia la sua missione speciale: « l'educazione dei giovani ».
    Lo aveva difatti profondamente colpito il fatto di vedere per le vie di Torino tanti giovanetti malvestiti, male educati, abbandonati, esposti ad ogni pericolo per l'anima e per il corpo, molti già precocemente viziosi e destinati alla galera... Il cuore del giovane sacerdote sanguina: prega e pensa: e la Vergine Benedetta, che lo aveva scelto, gli ispira l'istituzione degli Oratori.
    Dopo mille difficoltà e persecuzioni, gli riuscì di comperare a Valdocco (allora fuori Torino) un po' di terreno con una casa ed una tettoia a cui aggiunse una cappella; ebbe così un luogo stabile e sicuro dove poter radunare i suoi « birichini ».
    Non aveva un centesimo : unica sua risorsa una fede illimitata nella Divina Provvidenza.
    In pochissimo tempo i poveri giovani ricoverati diventarono più numerosi; l'opera cresceva e bisognava pensare al futuro. La benedizione di Dio era visibile. E Don Bosco fonda una nuova congregazione religiosa, la Pia Società di S. Francesco di Sales, detta comunemente dei Salesiani, composta di sacerdoti e laici, che poco alla volta aprirono oratori festivi, collegi per studenti, ospizi per artigiani, scuole diurne e serali, missioni fra gli infedeli in tutte le parti del mondo.
    Per le fanciulle delle stesse condizioni, D. Bosco istituì le Suore di Maria Ausiliatrice, le quali, come i Salesiani, sono sparse in tutto il mondo, ed affiancano l'opera dei sacerdoti. Per il popolo D. Bosco scrisse libretti pieni di sapienza celeste, dal titolo « Letture cattoliche » in contrapposizione a quelle protestanti. Fino all'ultimo la sua vita fu spesa a vantaggio del prossimo, con sacrificio continuo, eroico. Il Signore lo chiamò a sè il 31 gennaio 1888 e fu canonizzato da Pio XI nella Pasqua del 1934.

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  5. L’Italia è una nazione letteraria e Dante è il suo fondatore

    http://www.marcelloveneziani.com/lo-scrittore/interviste/litalia-e-una-nazione-letteraria-e-dante-e-il-suo-fondatore/ 

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  6. Nel silenzio della notte
    il mio grido elevo a te…....

    E’ intenso il bisogno di incontrare il buon Dio, dialogare con lui, portarlo nella vita di ogni giorno, perché veda ed ancora una volta tocchi con mano la sofferenza dell’uomo. La preghiera è un modo per introdurre il buon Dio li dove l’uomo vive, perché sono importanti il suo sguardo e la sua presenza, soprattutto lì dove c’è solitudine e sofferenza. La preghiera è il desiderio di essere ascoltati da un Dio che è padre, dona misericordia, concede miracoli, apre il cuore alla speranza, trasmette amore. Allora la preghiera è il canale attraverso il quale la presenza di Dio inonda la nostra vita e la ricolma di pace e serenità. Ma io non so pregare, dicono in molti. Nessuna scuola insegna a pregare, perché la preghiera è ciò che l’uomo sente di dover dire a Dio, spesso balbettando o anche attraverso il silenzio, leggendo un testo o ripetendo le preghiere amorevolmente insegnate
    dalla mamma o dalla nonna.
    La preghiera è anche sofferenza, perché quando il dolore è intenso, allora la preghiera diventa offerta ed è un silenzioso consegnarsi a Dio nella speranza che passi presto. Lo ha insegnato Gesù nell’ora della sua difficile prova: ”Ora, l'animo mio è turbato; e che dirò? Padre, salvami
    da quest'ora?”.
    La preghiera è gioia, lode, ringraziamento, perché il buon Dio è anche lì dove l’uomo contempla la bellezza del creato, sorride, gioisce, canta e si emoziona : ”Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”.
    Anche il peccatore prega, alla ricerca del perdono che lo liberi per sempre dall’angolo della umana fragilità: ”O Dio, abbi pietà di me peccatore”. La preghiera è anche un dono stupendo che
    si può offrire alla persona cara, alla propria famiglia, soprattutto quando non si ha null’altro da poter donare, allora si offre il proprio umile legame con Dio e si prega per l’altro. Comprendiamo allora come la preghiera elevata al buon Dio è il frutto della libertà interiore, perché non si lascia rinchiudere in uno schema. Importante
    è pregare, fermare la giornata e cercare questo silenzioso incontro con Dio, in una chiesa o in casa, tra la natura o con coloro che percorrono lo stesso cammino di fede.
    Prega come vuoi, esprimi quello che senti, entra nel silenzio di Dio e piegalo sulla tua vita, parlagli di te e di coloro ai quali vuoi bene, chiedi quello che ti è necessario ed affidati alla sua volontà.
    Non ti preoccupare se non sai pregare, basta solo che tu dica, come ci ha insegnato Gesù,
    “Padre nostro .........."

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  7. Chi non accetta il Concilio (quale? quello di Trento? Ah no, immagino il Blaterano Infecondo) è fuori dalla Chiesa? Ok, perfetto, bastava dirlo. A chi mi devo rivolgere? C'è qualche documento da firmare per uscire finalmente da questa schifezza? Oppure, magari, quello fuori dalla Chiesa è proprio il Signor Bergoglio, secondo il quale le persone della Trinità litigano tra loro, la Madonna non lavora per le Poste ecc. ecc.?

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  8. Sii con Dio come l'uccello che sente tremare il ramo e continua a cantare perché sa di avere le ali.
    (San Giovanni Bosco)

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  9. Leggete la risposta che il direttore di Avvenire ha dato ad un suo lettore che gli rimproverava gli articoli scritti sul suo giornale quando Salvini aveva suonato al citofono di un appartamento, dove secondo una signora del luogo si spacciava droga.Per la cronaca i proprietari dello stesso appartamento sono stati arrestati in questi giorni per spaccio di droga,possesso di armi e banconote false.Perchè arrampicarsi sugli specchi quando ammettere di aver sbagliato è la soluzione migliore?

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  10. Ma anche in aramaico il verbo è di movimento verso qualcosa. Gesù aveva chiaro che Dio ci mette alla prova... L'ha fatto perfino con Lui, oltre che con molti profeti come Giacobbe, Giona e Daniele.
    Elena Manzoni

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  11. La CEI NON PUÒ cambiare le parole di Gesù come ci vengono riportate dai Vangeli, che ci sono giunti nella lingua greca di allora (oggi probabilmente verrebbero scritti in inglese). Chi maneggia bene il greco antico dice che "non c'indurre in tentazione" è una traduzione fedele del testo greco. Quindi io continuerò nella Messa a dire "non c'indurre in tentazione".
    L'alternativa partorita dai cervelloni della CEI mi sembra insulsa e in un italiano discutibile (io non la capisco). Mi viene il dubbio che i cervelloni conoscano poco il greco antico e poco l'italiano. Io li manderei a scuola, ma non con la didattica a distanza.

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  12. Dante e i Papi

    Da quanto abbiamo riportato sin qui dalla Divina Commedia, chiaro apparisce il profondo sentimento religioso del Poeta, il suo cattolicismo, l’esattezza dogmatica delle sue dottrine e via dicendo.

    Ciò non vuol dire però, che egli non abbia lasciato più volte correre la penna a bollare con roventi parole e non sempre giustamente, persone di Chiesa, membri di Ordini religiosi, e persino Papi medesimi, criticandone acerbamente le operazioni. Di questi passi danteschi, che non sono però molti, si fecero forti certi moderni interpreti partigiani, inferendone, assai poco logicamente, essere perciò l’Alighieri un acattolico della più bell’acqua; uno spirito insubordinato al giogo sacerdotale; un riformatore, il quale voleva niente meno che la distruzione della Chiesa Cattolica, o almeno della sua forma, mostrandosi egli in più luoghi nemico acerrimo della Curia papale e delle ricchezze ecclesiastiche, ed avendo osato, colla sua vivace fantasia, di mettere nelle bolge d’Inferno più di un Papa, accusati di simonia, di avarizia e simili! E a chi, come saremmo noi, sostiene tuttavia il cattolicismo netto e pretto di lui, domandano baldanzosi: «Dove la sciate i tanti passi della Trilogia, dove il Poeta punge, con dente mordace, ora questo ora quel Pontefice, ora questo o quel monaco, e talvolta tanti ecclesiastici in un sol fascio?

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  13. A 700 anni dalla sua morte, vogliono a tutti i costi rendere commestibile l’Alighieri nel nostro tempo, costringerlo all’attualità, renderlo compatibile con il politically correct. Lasciano in secondo piano il visionario divino, il nostalgico della tradizione e del sacro romano impero, e pure il fondatore della lingua e della civiltà italiana. Per cogliere tutto Dante non basta il pur immenso giacimento della Divina Commedia, bisogna inoltrarsi nella selva preziosa delle sue opere in prosa: dalla Vita Nova dedicata all’Amore al Convivio dedicato alla Sapienza, dal De Vulgari Eloquentia incentrato sulla lingua e la geografia poetica d’Italia al de Monarchia, dedicato alla sovranità e alla visione politica dell’Impero Romano proiettato nell’avvenire. E poi le sue Lettere dall’esilio, come ho ribattezzato nel mio libro su Dante le sue tredici epistole ritrovate.

    http://www.marcelloveneziani.com/articoli/dante-padre-inascoltato/

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