Non è il testo integrale della Relazione di p. Lanzetta, ma è più di un semplice estratto, perché mi sembra troppo importante per chi con appassionato interesse sta acquisendo queste autorevoli e approfondite riflessioni.
Già durante l'ascolto ed ora, nel ripercorrerlo e meditarlo con gioia e gratitudine, questo lavoro mi ha aperto molti nuovi 'usci' e piste di riflessione per meglio comprendere e inquadrare le complesse e tormentate vicende di pensiero e d'azione che hanno attraversato la nostra Chiesa nell'ultimo cinquantennio. Lo ritengo una tappa ineludibile per il proseguimento del percorso, così bene sintetizzato dalle parole di p. Lanzetta: «Il nostro convegno non è chiuso con la fine dei lavori. Anzi ora si apre il dibattito, che ci auguriamo possa essere proficuo per una presa sul serio di tutte le problematiche legate al Concilio Vaticano II. Ne parliamo perché si dilegui finalmente quella coltre di silenzio irrispettoso, che spesso ha affossato la fede in nome del Concilio. Vogliamo riscoprire la fede e così il vero Concilio: ciò che veramente quest’assise guidata dallo Spirito Santo voleva essere per il bene della Chiesa. Solo questo abbiamo a cuore».
Il Vaticano II: un concilio e i teologi
a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi
c. La collegialità
d. Ecumenismo e missionarietà
2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione
5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Pastoralità, poi, è in un certo modo, sinonimo di ecumenicità. Infatti, a dire di C. Theobald,
Rilievi conclusivi
1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?
2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II
3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
p. Serafino M. Lanzetta, FI
Senza dubbio i teologi ebbero al Concilio Vaticano II un ruolo notevolissimo. Battista Mondin asserisce questo dato con forte rilievo:
«A far emergere i teologi in tutta la loro grandezza fu il Concilio, del quale essi furono i principali artefici e protagonisti. La loro presenza al Vaticano II fu massiccia. I periti ufficiali e privati erano più di duecento. Come i Vescovi anche i teologi provenivano da tutte le parti del mondo, e questo contribuì a dare al pensiero “teologico” del Concilio quella cattolicità che gli consentì di superare gli orizzonti ristretti della teologia curiale. L’apporto dei teologi ai lavori del Concilio fu sostanziale, costante e decisivo: i loro pareri furono continuamente ascoltati e le loro proposte accolte. A loro fu affidata la stesura di tutti i testi conciliari che poi furono approvati dai padri. In definitiva si può dire che la teologia del Vaticano II è quella dei teologi che vi hanno partecipato (Parente, Colombo, Congar, Daniélou, Rahner, Ratzinger, Chenu ecc.) […] Il Concilio rappresenta la felice conclusione del grande rinnovamento che aveva avuto luogo nella teologia cattolica dopo la seconda guerra mondiale».
Per R. Laurentin, il problema fondamentale da risolvere nella teologia post-conciliare, in ragione delle istanze del Concilio è la teologia, atrofizzatasi, in quanto lentamente aveva perso il contatto con le fonti della Rivelazione e con la vita, ed era diventata una collezione di un sistema di tesi.
«Il rimedio – dice – veniva dai teologi stessi che lavoravano accanitamente nell’ombra. Il Vaticano II ha dato un riconoscimento di diritto alle acquisizioni di questa corrente che assume in un solo movimento le fonti rivelate e la realtà vivente della salvezza».
In questa conferenza, ci proponiamo di verificare l’apporto dei teologi al Vaticano II. Escludiamo comunque che il Concilio sia risolvibile nel dato teologico, di elevata enfasi o di critica: il Concilio è magistero della Chiesa. È innegabile però il grande ruolo della teologia al Vaticano II, sia in riferimento ai teologi che furono periti e che guidarono le discussioni e in qualche modo le stesse votazioni, sia per il notevole impatto del Concilio nella ricezione teologica post-conciliare. In questa sede, ci limiteremo ad individuare e a studiare sei posizioni, da noi ritenute tipiche e in qualche modo riaffioranti nelle numerose indagini teologiche sul nostro tema. Non pretendiamo così di esaurire lo status questionis del problema, ma unicamente di offrire dei modelli di riferimento ermeneutico molto rilevanti, nel Concilio e dopo, in modo da poter anche derivare degli elementi-chiave per una nostra riflessione finale. Abbiamo scelto sei posizioni teologiche, in modo che si veda, da un lato l’apporto dei teologi-periti, dall’altro la recezione del dato conciliare.
1. Card. Pietro Parente (1891-1986): il Concilio per una Weltanschauung cristiana
In una conferenza tenuta nel 1961 sull’imminente Concilio Ecumenico, Mons. Parente, allora assessore della S. Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, tratteggiò gli auspici del Santo Padre Giovanni XXIII, auspici volti a far risplendere di nuova bellezza il volto della Chiesa e più che di un punto o dell’altro della dottrina e della disciplina, trattavasi di ridare valore e sostanza al vivere umano e cristiano (Disc. 14 nov. 1960). Dopo aver tracciato una veloce panoramica sui 20 Concili Ecumenici precedenti, Mons. Parente si soffermò anche sulle finalità e le prospettive del prossimo Concilio,
«condizionate dalla profonda analisi della realtà del mondo moderno. Una guerra brutale e un dopoguerra snervante hanno seminato negli uomini scetticismo e disprezzo per ogni ideologia o istituzione del passato e un senso avventuroso di novità in tutti i settori dello scibile e della vita. In tal modo è scossa la fiducia nella Chiesa, nella verità, anche rivelata, nella legge morale, nella vecchia struttura sociale. Di questo stato d’animo in subbuglio si è avvantaggiata un’ideologia materialistica concretata in una struttura politico-sociale, in cui i valori spirituali sono sostituiti dalla tecnica […]».
Ad una Weltanschauung materialistica e ateistica, a giudizio di P. Parente, il Concilio avrebbe dovuto opporre una «Weltanschauung cristiana opposta a quella materialistica, perché l’umanità divisa e smarrita riprenda la via del suo vero progresso e del fine supremo, a cui l’ha destinata la Somma Sapienza e il Primo Amore».
In un altro saggio, a vent’anni dalla chiusura dell’assise conciliare, scriverà Parente:
«La causa determinante di un Concilio generalmente è una crisi o della Chiesa o del mondo o di ambedue. Il Vaticano II risponde alle esigenze di una crisi interna alla Chiesa e di una crisi del mondo moderno».
Il Cardinale Parente vede il Vaticano II come approfondimento teologico della dottrina cristiana, precisando che le distorsioni della dottrina del Concilio non sono del Concilio ma di una certa teologia nuova, i cui prodromi sono riconducibili agli anni ’40 del 1900.
Così affronta le dottrine conciliari, che si presterebbero all’equivoco, ma che ad un’interpretazione autentica, sia teologica che magisteriale, rientrano nel loro giusto ordine.
a. Il Vaticano II non avalla il cambiamento della sostanza dei dogmi
I documenti del Concilio non autorizzano e non portano in sé all’affermazione di uno sviluppo dogmatico inteso come mutazione sostanziale del dogma e della fede.
«Ora questa affermazione è arbitraria – dice Parente, in riferimento a questo problematica –, perché il Concilio riafferma tutto il contenuto essenziale della dottrina cristiana fondata sulla Rivelazione divina e maturata per secoli, sotto l’azione dei Padri e dei Teologi, sotto l’azione dello Spirito santo e il controllo vigile del Magistero della Chiesa».
L’identità e la perennità del sacro Deposito sono espresse chiaramente nella Dei Verbum (nn. 7-8). Qui si asserisce l’origine divina della Rivelazione la divina, l’ispirazione dei libri sacri, e la necessità di trasmetterla fedelmente. Il n. 8 di DV parla di un progresso della Rivelazione, richiamandosi a S. Vicenzo di Lerins, citato dal Vaticano I. Così dice DV 8:
«Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».
Da queste parole, spiega Parente nessun lettore saggio e attento potrebbe ricavarne un’ammissione di una evoluzione intrinseca della verità rivelata e delle stesse formule dogmatiche. Eppure, scrive Parente,
b. La singolarità della Religione cattolica«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
Anche su questo dato il Concilio presenta delle affermazioni che si prestano a discussioni, specialmente di fronte al carattere singolare della religione cattolica, di cui noi in ragione della Rivelazione divina riteniamo che sia l’unica religione salvifica,
«con diritto divino a guadagnare tutta l’umanità al Regno di Dio e al Vangelo che ne è il codice. Questo giusto sentimento determinò nel Medioevo linguaggio, uso e atteggiamenti, che oggi urtano le coscienze; si pensi alla frase “Cattolicesimo religione di Stato”, con la conseguenza che la Chiesa godeva di ogni privilegio, mentre le altre religioni erano “tollerate” senza facoltà di pubblica professione».
Parente, fa notare, che il soggetto della religione è l’uomo cosciente e libero, che ha diritto di pensare e di scegliere autonomamente il proprio credo, salvo il rispetto dell’ordine sociale e della pubblica moralità. Così il Concilio mette in evidenza un dato oggi irrinunciabile che è la libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Gli abusi dell’Inquisizione non si possono giustificare solo col ricorso al diritto divino dell’unica Religione vera, senza considerare la psicologia umana, in cui domina la religione e la libertà».
c. La collegialità
Un altro dato, che al dire di Parente desta scandalo tra i conservatori, è la collegialità, la quale «sarebbe una novità disastrosa che colpisce il Primato del Romano Pontefice!». Invece Parente, che questo tema lo conosceva molto bene, in quanto anche relatore in sede di Commissione dottrinale risponde semplicemente col dire che essa nel suo senso più genuino fu voluta dallo stesso Cristo che fondò il Collegio apostolico con Pietro e gli altri apostoli come membri, i quali partecipano, subordinatamente a Pietro, tutta la Sacra Potestà di Cristo. Il Primato di Pietro non è un dispotismo ma un primato paterno d’amore e di realizzazione della comunione. Il Sacro Romano Impero con la figura di un Imperatore che impersonava tutto il potere del mondo occidentale influì certamente sulla Chiesa, creando una sorta di assolutismo del Romano Pontefice. Questa ecclesiologia, alquanto mortificata durò fino a Pio XII, che nella Mystici corporis, richiamava l’autentica natura della Chiesa e la sua compagine soprannaturale. Il Vaticano II, mentre confermò la dottrina del Vaticano I sull’infallibilità del Pontefice, ne ammorbidì l’assolutismo – per una ragione teologica – facendo luce sulla dottrina della collegialità, richiamando direttamente il concetto di gerarchia intesa come principio sacro della comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio. In questo modo il Concilio favorisce anche l’approfondimento teologico del ruolo dei laici nella Chiesa e la loro partecipazione liturgico-sacramentale alla vita e alla missione della Chiesa, in ragione del loro sacerdozio comune. Così il Vaticano II, richiamandosi direttamente all’esempio di Cristo, mette in luce il concetto di servizio dell’Autorità per edificare la comunione di tutte le membra.
d. Ecumenismo e missionarietà
Il Concilio sul piano ecumenico e missionario tiene ferma la dottrina dell’unicità della Chiesa di Cristo che è la Chiesa Cattolica. Al contempo, però, richiama la necessità di non condannare e rigettare i fratelli da essa separati ma ad instaurare un dialogo con loro al fine di edificare l’unità di tutti i cristiani nell’unica Chiesa. I separati appartengono a Cristo, sono anch’essi sue membra (anche se non in modo pieno).
«Pertanto non solo la S. Sede, ma ogni Chiesa particolare, ogni cristiano deve sentire il dovere, anzi il bisogno, di partecipare al movimento ecumenico e missionario per guadagnare tutti alla vera Fede e al Cuore di Cristo».
Il Concilio voleva essere una fucina di responsabilità missionaria per i fratelli da salvare. Un gesto divino per una Chiesa più viva e più consapevole della sua missione unica e santificatrice per realizzare nel mondo il Regno di Dio
2. Karl Rahner (1904-1984): il Concilio, «l’inizio dell’inizio»
K. Rahner fu un teologo molto influente in tutto il ‘900 teologico ed ebbe un ruolo di grande importanza nel Concilio. Prima, nel 1961, fu nominato solo consultore della Commissione della disciplina e dei sacramenti, poi durante il Concilio fu perito e teologo del Card. König.
Nella conferenza di Rahner tenuta in occasione della solenne cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II nell’Herkules-Saal a Monaco di Baviera (12 dicembre 1965), Rahner anzitutto esalta il ruolo del «consiglio episcopale» e dice:
Così Rahner chiarisce anche il suo pensiero teologico del Concilio in relazione alla fede:«è […] difficile prevedere se oggi il principio sinodale-collegiale della Chiesa assumerà anche in futuro esattamente la figura concreta di questo o di precedenti concili, trovando in essa la sua efficace realizzazione, o se invece il consiglio episcopale di recente istituzione riuscirà, qualora non si limiti ad un’azione puramente consultiva, a fare proprie le funzioni e le forme, tanto complesse da non essere quasi ormai più tecnicamente controllabili, dei concili del passato, diventando, nella sua essenza teologica, un vero e proprio concilio, tenuto anzi con frequenza maggiore».
«Fu un concilio tenuto nella libertà e nell’amore. Certo in quella libertà che in tutti i Padri si sapeva legata all’inviolabile credo a Dio, a Cristo, alla sua grazia e con ciò ai dogmi che la Chiesa ha fino ad oggi proclamati perennemente validi e, nello stesso tempo, storicamente evolventisi nella concezione della fede. Fu però un concilio nella libertà».
Libertà è per Rahner la capacità che il Concilio ha dato a tutti di sostenere la propria tesi e di arrivare così all’unità (ai consensi) ma nel rispetto della libertà, e tutto questo considerando il Concilio «alla luce della storia dello spirito». Infatti,
«Dappertutto, persino nel campo della teologia, si può ai giorni nostri avere la deprimente impressione che la libertà non abbia la sufficiente consistenza e che ogni opera grande di pensiero e di azione si debba conquistare con la forza».
Rahner riconosce che il primato della libertà teologica dovette trionfare sulle scelte già determinate e sugli stessi schemi e risultati delle commissioni preparatorie. Si volle un concilio ecumenico che Rahner definisce «della liturgia e delle missioni».I temi che stavano più a cuore al Concilio, dopo un’attenta cernita, sono elencati dal Nostro in questo modo:
«[…] il principio sinodale della Chiesa, l’importanza dell’elemento carismatico in essa, la comunità locale come Chiesa, la possibilità di salvezza dei non cristiani, la “gerarchia” di importanza anche tra le verità definite, la Scrittura al cui servizio stanno la Chiesa e il suo magistero, il sacerdozio universale, il pluralismo delle varie teologie con pari diritto all’interno dell’unica Chiesa, la personale libertà di fede, l’importanza e l’esistenza di una teologia storico-critica, la infondatezza di una teoria secondo la quale esisterebbero nella Chiesa una morale ed una santità di pregio diverso collocate su due piani differenti, il rilievo dato al servizio di Dio nella parola, ecc.».
Ciò che ha fatto il Concilio rimane per Rahner solo «l’inizio dell’inizio». Questo inizio dell’inizio, che è letto da Rahner anche come «nuovo cominciamento» della Chiesa, è inteso da Rahner in questo modo:
«che Cristo e la Chiesa incontrino veramente il tempo di oggi e di domani. Dunque inizio dell’inizio per una Chiesa della grazia di Dio liberamente concessa, per una Chiesa del nostro Signore e Salvatore, del Verbo di Dio, della fratellanza, della speranza, della carità umile […]».
Resta tutto da fare in una Chiesa che col Concilio ha voluto dare un nuovo inizio. Resta da trasformare in forma concreta le direttive sulla liturgia, da istituire i diaconi permanenti, da riformare il Codice di Diritto Canonico, iniziare il dialogo ecumenico con coraggio e speranza, il dialogo con l’ateismo e con il bisogno impellente di fede nel mondo di oggi, ecc. C’è bisogno, però, più d’ogni altra cosa di «una teologia degna del Vaticano II e degli impegni da esso indicati», affinché diventi più dinamica e più acuta per penetrare le profondità di Dio e del tempo. Rahner così si fa promotore anche delle nuove esigenze che attenderanno al teologia post-conciliare:
Pertanto anche i compiti che attendono la Chiesa sono diversi. Il prossimo futuro, infatti,«[…] parlare di Dio e del suo essere al centro dell’esistenza umana con parole realmente comprensibili agli uomini di oggi e di domani; annunciare Cristo nella visione evolutiva che si ha oggi del mondo, di modo che la parola dell’uomo-Dio, dell’incarnazione del Logos eterno in Gesù di Nazareth, non risuoni come un mito al quale non è più possibile prestare seriamente fede; determinare il rapporto tra i progetti e le ideologie dell’uomo circa il suo futuro e l’escatologia cristiana; impedire, nell’eschaton della redenzione già avvenuta, che l’uomo ricada nella condizione interiore di colui che era vissuto nell’AT, nel continuo timore cioè di restare, dopo la morte, lontano dal Dio della vita; capire come l’amore a Dio e al prossimo formino sempre, ma presto anche in maniera affatto nuova, una assoluta unità […]».
«non domanderà alla Chiesa la precisione particolareggiata dei suoi ordinamenti costituzionali, la strutturazione più attraente della liturgia, nemmeno, in primo luogo, dottrine di più precisa distinzione nella teologia della controversia di fronte alla dottrina dei non-cattolici, né un governo più o meno perfetto della curia romana. Il prossimo futuro domanderà invece se la Chiesa è in grado di testimoniare la vicinanza, che guida e appaga, di quel mistero ineffabile al quale diamo il nome di Dio […]».
Sempre alla luce di questa libertà che è come il cuore della teologia di Rahner, bisogna leggere la sua riformulazione della teologia pastorale, intesa come teologia della prassi, teologia anche politica e perciò «principio organizzativo intrinseco ed estrinseco di tutta la teologia». La pastorale in quanto scienza della ragion pratica, ovvero della libertà, ha una priorità rispetto al dogma. Scrive Rahner:
«Se si riconosce alla ragione pratica (ragione non emozionalità o arbitrio, al quale viene dato il nome di libertà!) una priorità, per il fatto che essa è la sussistenza riflessa di quell’azione che significa salvezza e che si concepisce solo e totalmente in se stessa, non in base a qualcos’altro, allora si può conferire alla T.P., intesa come la rappresentante dell’autoriflessione di questa ragion pratica nella chiesa, una priorità nella teologia globale. Questo non dovrebbe in sé meravigliare. Si dovrà pur riconoscere all’amore libero (e alla speranza) una certa proprietà nei confronti della fede dogmatica».
3. René Laurentin: un Concilio tra limiti, ambiguità e speranze
Un altro testimone scelto per verificare l’impatto del Vaticano II negli immediati anni post-conciliari, è il mariologo francese R. Laurentin, prima membro della Commissione preparatoria del Concilio e poi perito dei lavori conciliari. Un anno dopo la chiusura del Concilio, Laurentin traccia un bilancio dell’eredità pastorale e dottrinale lasciata ai posteri dal Concilio. Questi, nota un paradosso:
«Il Vaticano II, Concilio pastorale, è diventato paradossalmente il Concilio di un rinnovamento dottrinale. I teologi vi hanno trovato un’udienza senza precedenti. “Concilio degli esperti si è detto fin dalla prima sessione, con una nota critica giustificata per ciò che c’era di eccessivo: ma il fatto aveva una sua giustificazione».
La giustificazione ravvisata da Laurentin, in una necessaria revisione della teologia e in un suo aggiornamento, si amplia nel suo bilancio, fino a mettere in evidenza, i limiti del Concilio, i silenzi e le indecisioni, le incompletezze e le ambiguità e finalmente i compiti che spettano alla Chiesa post-conciliare. Tra i limiti, Laurentin ravvisa soprattutto le mancate decisioni in materie scottanti come:
1) i matrimoni misti: ....
2) La regolamentazione delle nascite, ...
3) Il problema del celibato dei sacerdoti, .....
[...]Di qui Laurentin arriva al dato più scottante, con parresia e parole chiare, delle «incompletezze e ambiguità» di alcuni documenti conciliari. Quest’ambiguità è al dire di Laurentin, «quella della vita in via di sviluppo» che però «non toccano il Concilio ma costituiscono un rischio per molti cristiani»
Tra queste bisogna annoverare:
1) l’ambiguità dell’ecumenismo segnalata anche da O. Cullmann: «Quando ritorneremo nelle nostre file, dovremo combattere, soprattutto tra i laici la falsa sentimentalità ecumenica». Per Laurentin questa ambiguità non è del Vaticano II ma è «uno dei rischi della sua rapida espansione post-conciliare. Bisogna anche mettere sull’avviso contro un trionfalismo ecumenico […]
2) Un’altra ambiguità è l’aggiornamento, anche denunciato da Cullmann. Alcuni, infatti, lo leggono come adattamento al mondo moderno, mentre il Concilio vuole rischiarare l’attività umana con la luce del Vangelo. I rischi, afferma il Nostro, «sono legati all’ambiguità del termine “mondo”, che ha formato oggetto di esame da parte del Concilio».
3) Oltre a queste due, c’è n’è un’altra«che ha toccato il Concilio stesso: quella legata al termine “pastorale”». Riportiamo una citazione più lunga, per lasciare a Laurentin descrivere questo punto, che anche a nostro giudizio, riveste un nodo storico e teologico molto serio:
«Questo aggettivo (pastorale) lanciato da Giovanni XXIII ebbe fortuna. Esso risponde indubbiamente ad un’intuizione profonda: il bisogno di restaurare il legame tra vita e verità, tra dottrina e salvezza. Il suo uso però restò vago e prammatico nel corso della prima sessione. Ma con la seconda sessione alcuni caddero nell’errore di considerare il termine “pastorale” come contrario a “dottrinale”; così la “collegialità” gerarchica e l’amore matrimoniale appartenevano al campo “pastorale”, non a quello “dottrinale”. Si voleva trovare in tal modo una via di soluzione alle opposte tendenze: il campo pastorale sfuggiva all’esigenza di rigore proprio della dottrina: sarebbero bastati termini e parole approssimative. Fin dall’inizio della sessione il cardinale Silva si meravigliò che tale principio avesse trovato posto perfino nella spiegazione ufficiale degli emendamenti dello Schema 13. La rottura tra teologia e vita fu una delle deficienze più gravi di questi ultimi secoli. Sarebbe illusione voler rimediare a questo fatto, creando un tipo di vita zeppo di dottrina: illusione più dannosa della prima».
A parere di Laurentin, il Vaticano II è posto tra Scilla e Cariddi: tra il timore di affrontare i problemi e gli abusi della libertà; la libertà di ricerca proclamata dal Concilio ha sempre con sé i suoi rischi. Si è parlato molto delle vessazioni subite da teologi progressisti, meno invece si è parlato del proliferare di cripto-eresie di destra e di sinistra, come i funghi che si scoprono a volte nelle parti più oscure. Infatti, «se le restrizioni e le chiusure suscitano segrete rivolte, anche la libertà mal compresa può sprigionare forze negative: la superficialità, l’eresia, lo scandalo». Pertanto, dice Laurentin, «il Vaticano II, che è un concilio di ritorno alle fonti, deve conservare il contatto con tutta la Tradizione». Ci sono degli aggiornamenti, certo, ma sono stati letti e fatti alla luce dell’apertura a Dio e del desiderio di arrivare al mondo, prendendo atto dei mutamenti così accelerati che lo segnavano. La Chiesa ha riconosciuto l’autonomia dei valori terrestri e l’autenticità del progresso umano. Così, «il Vaticano II, senza abbandonare l’esigenza di assoluto che ispirava il Sillabo, ne ha superato lo spirito di sfiducia e la rigidità».
Certo se dal Concilio la Chiesa è uscita perdendo un certo tipo di sicurezza, ha sviluppato il senso della ricerca, liberandosi anche dal verbalismo. Ha ritrovato il senso dell’essenziale, ovvero il disegno del Padre. Ha infine ritrovato posto il “grande sconosciuto”, lo Spirito Santo, che a dire di Laurentin, mentre era stato riconosciuto nei primi secoli per la sua preminenza nella Chiesa, aveva poi perso la sua importanza fino ad essere dimenticato. Il Vaticano II, «apparirà – a giudizio del mariologo francese –, davanti alla storia, come prima tappa della riscoperta dello Spirito Santo».
L’avvenire della Chiesa, dunque, dovrà essere segnato dalla messa in atto di queste iniziative pastorali-dogmatiche, in modo da avere realmente una Chiesa post-conciliare, di cui Laurentin disegna il modello, nel vescovo post-conciliare, il laico, il sacerdote, e infine la teologia post-conciliare, ancora ai primi balbetti ma promettente data la mole di rinnovamento proposta dal Concilio. Così il Concilio deve essere come una “creazione continuata”, cercando di stabilire con UR 12 quell’ordine o gerarchia delle verità in ragione al loro rapporto col fondamento della fede e mettendo meglio in evidenza il suggerimento proposto inizialmente da Giovanni XXIII, di distinguere tra “sostanza” e “formulazione” della dottrina della fede, ma non trattato né dal Pontefice né dal Concilio. In chiusura, per il mariologo francese, tutto il Concilio è, per così dire, nel post-concilio.
4. Hans Küng: il Concilio via alla riunificazione
Küng rappresenta per i lavori conciliari e per la sua emblematica posizione di rottura, un autore molto interessante, la cui disamina mette in evidenza la portata di un’ermeneutica che, quando separata dal contesto vivente della Chiesa, ovvero isolata in un lavoro solitario del teologo, porta ad una necessaria rottura con il Soggetto-Chiesa. Küng ha ormai celebrato questa rottura con la Chiesa, in ragione, a suo modo di vedere, soprattutto dei tradimenti del Concilio da parte dello stesso Magistero.
Küng ebbe un ruolo molto importante al Concilio come perito e poi come teologo per l’applicazione del post-concilio. Uno dei temi da lui più approfonditi e visto come speranza per una vera unità della Chiesa con i protestanti è stato quello ecumenico. È interessante riportare la testimonianza del Card. W. Kasper, che fu suo assistente alla cattedra di teologia fondamentale:
«All’inizio c’erano molte cose che affascinavano di Hans Küng: il suo modo giovanile e fresco di porsi, la sua visione spontanea e non convenzionale della chiesa e anche molte idee riformatrici. Il suo libro Concilio e riunificazione, divenuto rapidamente un bestseller, dava espressione alle attese che molti riponevano nel Concilio; esso divenne anche una sorta di catalizzatore, sul quale molti spiriti si dividevano. Anche il mio maestro Geiselmann corrugava la fronte».
Un tema fontale ed imprescindibile per capire anche la posizione ecumenica molto speranzosa quanto frettolosa di Küng, è quello della Tradizione della Chiesa, nel contesto della discussione che fu affrontata nella Commissione dottrinale per la formazione dello Schema che porterà alla promulgazione poi della Dei Verbum, schema che aveva evitato di riproporre il problema della duplicità delle fonti della Rivelazione. Un autorevole studioso del problema, che le tesi di Küng presuppongono, è J. R. Geiselmann. Questi sosteneva, riprendendo il tema tridentino e l’accusa di Lutero alla Tradizione (accusa piuttosto al ministero nella Chiesa), che il Concilio Vaticano II abbandonò la tesi del partim (parte della rivelazione contenuta nelle Scritture e parte nella Tradizione) per accontentarsi della sua particella et. Da qui Geiselmann deriva che l’idea della duplicità delle fonti della Rivelazione fu abbandonata dal Vaticano II o per lo meno non espressamente definita. Così deriva la sua idea, secondo cui, in fondo anche un cattolico può approdare senza problemi alla concezione della sufficienza materiale della Scrittura (tutte le verità rivelate sono contenute nella Scrittura) e che sempre come cattolico si può sostenere che la Scrittura ci consegna in maniera sufficiente la Tradizione. In questo modo però scompare il concetto cattolico di Tradizione come canale della Rivelazione e conoscibilità della stessa insieme alla Scrittura. Si può subito immaginare l’esultanza e i consensi che una tale tesi riscontrò tra coloro che si affaticavano per un sereno dialogo col protestantesimo, offrendo possibilità del tutto nuove ad un nuovo incontro tra cattolici e cristiani evangelici in particolare. Tra i Padri conciliari si segnalò particolarmente il Card. Döpfner, che in Concilio disse che la Sacra Scrittura e la Sacra Teologia non erano da venerare con la medesima pietà.
Küng si era messo in questa scia; rinuncerà in modo sempre più marcato al concetto cattolico di Tradizione, considerando gli interventi della Chiesa semplicemente come un riflesso di un determinato momento storico, e così svuoterà dall’interno il contenuto normativo della Tradizione. Questo suo incedere teologico, inaugurerà un nuovo modo di prospettare il movimento ecumenico, quale chiamata all’unità: imperativo del Vaticano II.
Questo modo nuovo ad esempio si vede già nel suo libro – che al dire del Card. Kasper fu un vero bestseller in questo senso, che trascese di molto anche le aspettative di Geiselmann –, sul Concilio e l’unità (della Chiesa?): qui il rinnovamento del Concilio è visto come chiamata all’unità (sottotitolo suggeritogli da K. Barth). Küng si chiede: «Come possiamo incontrarci cattolici e protestanti»? E risponde indicando la via inaugurata da Giovanni XXIII, ovvero quella del «rinnovamento interno della Chiesa in vista del ritorno all’unità». Questo per Küng significa: «Non un semplice, inefficace richiamo a rientrare nell’unità della nostra Chiesa»; «Non semplicemente conversioni individuali»; «Non soltanto una riforma morale», perché la divisione della Chiesa non appartiene all’ordine dei vizi capitali e quindi ai vizi eterni dell’umanità, ma siccome è avvenuta storicamente «[…] può quindi – ben diversamente dai vizi capitali – aver fine con la grazia di Dio». Ecco dunque che per Küng il rinnovamento deve avvenire nella Chiesa cattolica, che partendo dalla sua essenza originaria (come diceva Barth), attui poi il vero spirito del Vangelo. E così sintetizza in modo emblematico il suo pensiero riguardante questo necessario rinnovamento:
«La protesta dei protestanti contro la Chiesa cattolica deve, nella misura in cui essa possa essere giustificata, poter perdere il suo oggetto, per opera della Chiesa cattolica stessa. La Chiesa cattolica, è vero, in quanto Chiesa di uomini e di uomini peccatori, rimane sino alla fine dei tempi Ecclesia reformanda».
Così Küng in definitiva vede il suo programma di rinnovamento: la Riforma protestante è quella giusta ed umana aspirazione alla riforma, che dà alla Chiesa cattolica il modello di un vero ritorno al Vangelo, e noi cattolici ritornando al Vangelo, in questa logica storico/storicista della riforma, ritorniamo all’unità con i protestanti. Ma si potrebbe chiedere: un’unità dove? In quale Chiesa? Di quale unità, in fondo, Küng sta parlando? Col passare degli anni, però, dagli osanna entusiasti a Giovanni XXIII, come traspare nella prefazione di questo libro, che lo animava a galoppare l’onda del rinnovamento conciliare e del nuovo ecumenismo,, passerà ad una contestazione qualificata del Magistero, e accuserà la Chiesa di aver tradito il Concilio.
5. Card. Leo Scheffczyk (1920-2005): aspetti della Chiesa nella crisi
Leo Scheffczyk, dogmatico tedesco, amico e collega di J. Ratzinger, elevato alla porpora cardinalizia per i meriti teologici, è un testimone della teologia di non poco conto, in ragione – come gli riconosce J. Ratzinger nella presentazione alla sua opera italiana che esamineremo –, della «sua conoscenza straordinaria delle fonti, del suo sguardo acuto per i problemi e i compiti del presente, come anche della sua profonda fedeltà, radicata nella fede, al Magistero».
Per Scheffczyk il problema della crisi post-conciliare è riconducibile ad una crisi ecclesiologica, ovvero ad una ricerca sulla “Chiesa” ritenuta per diverse ragioni già esaurita, in un’epoca di forte irrazionalismo del post-moderno che contiene in sé gli elementi del post-cristiano. Così,
Queste riflessioni sono formulate dall’autore,«ignorando questa situazione – scrive – e considerando la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito del tempo, è facile prevedere che anche all’interno della chiesa si introducano le tendenze dell’irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e una presunzione gnostica, coinvolgendola così nell’intreccio della “lieve cospirazione”».
«nel bel mezzo di un fermento rivoluzionario, alla comprensione di ciò che nella chiesa è permanente […]. Il possibile rischio è che in un prossimo futuro possano ritornare attuali le tragiche parole dell’epoca dei disordini ariani: “Geme l’orbe terrestre e si meraviglia di essere divenuto ariano”. Tutti i cristiani veramente preoccupati per la Chiesa dovrebbero trovare nel Concilio Vaticano II un punto d’incontro».
Scheffczyk, nel suo saggio sugli Aspetti della Chiesa nella crisi. Per la scelta di un Concilio autentico, come suonerebbe una traduzione più letterale del suo volume sugli aspetti della crisi post-conciliare, si concentra sul tema “Chiesa”, tratteggiando una teologia rinnovata alla luce del Vaticano II ma senza tradire o adulterare il dato dogmatico acquisito dalla Tradizione e dalla precedente riflessione teologica. La crisi è per Scheffczyk una crisi della Chiesa in quanto mistero. Può sembrare strano, dato l’accento ecclesiologico posto nello sviluppo post-conciliare, eppure il vero nodo teologico è riconducibile, per il nostro cardinale, allo smarrimento di un concetto metafisico di partecipazione del mistero-Chiesa. Le passioni antiecclesiali della fine dell’‘800 e del ‘900, provocate in gran parte dal protestantesimo liberale, quali le rivendicazioni di democratizzazione, di abbandono dell’autorità, di libertà dai dogmi, di liberalità e di parità – quasi tutte accolte dalla Chiesa evangelica – continuano a sfidare il concetto cattolico di Chiesa. Per il protestantesimo un dato è certo, dice il Nostro: «Si può reagire alla crisi non con cambiamenti esteriori, bensì solo attraverso un mutamento interiore del nucleo di fede». E così i dissidi interni al protestantesimo e il calo esteriore sono molto più estesi e perniciosi di quelli presenti nella Chiesa cattolica. In ambito cattolico, invece, dice Scheffczyk ,
«la vera cesura nello sviluppo della coscienza della chiesa ha avuto luogo dopo il Concilio Vaticano II, alle cui legittime aspirazioni di riforma si sovrapposero tendenze di una ristrutturazione pensata in altri termini. Esse si ripercuotono oggi sia nell’ambito evangelico che in quello cattolico e si rendono visibili in primo luogo negli aspetti esteriori».
Un dato però è certo: la dottrina ecclesiologica del Vaticano II è da leggersi come progresso e continuità. La Lumen gentium designa la Chiesa come mysterium, ricollegandosi così chiaramente alla Tradizione. La Chiesa è mistero del Dio Unitrino, diventando in Lui segno della vita divina tra gli uomini. Di qui si passa ad un’altra definizione della Chiesa: «La Chiesa è sacramento, definizione questa ancorata alla Tradizione, ma trasportata qui in una nuova dimensione». Lumen gentium 1 dice che la Chiesa è «in Cristo come il sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa formula, fa notare Scheffczyk, con la quale la Chiesa è designata come «l’indissolubile sacramento dell’unità» è presente già in Cipriano di Cartagine († 258), secondo il quale la formula è da riferirsi
«all’unità interna della chiesa e significa soprattutto l’unità con il legittimo vescovo. Per questo coloro che non sono inclusi in questa unità sono “al di fuori della Chiesa”. Rivolgendosi agli eretici, Cipriano sottolinea in questo contesto che l’unità con la chiesa è necessaria per la salvezza delle anime».
Così Scheffczyk, fa notare che, nonostante il Concilio non citi la formula classica di Cipriano «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza», tuttavia permane nel Vaticano II la stessa immagine di Chiesa, in cui si evidenziano i tratti sacramentali dell’unicità, della necessità di salvezza e della pienezza di salvezza in Cristo e nello Spirito Santo. Questa è «l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica» (LG 8).
Questo concetto di Chiesa-sacramento permette al Concilio di passare adagio dal sacramento Cristo al sacramento Chiesa, la cui radice cristologica più profonda è
«l’immagine del corpo di Cristo. […] Pio XII riconobbe in esso la “definizione più significativa e più divina della sostanza della Chiesa”. Anche il Concilio Vaticano II tiene in grande stima questa immagine, quando considera la chiesa “per una non debole analogia… paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8)».
In questo modo il Concilio non porta nessuna innovazione formale nel pensiero ecclesiale. Ha dato solo ad un’idea biblica e fondata nella Tradizione, un ulteriore riconoscimento. Infatti già il Vaticano I aveva definito la Chiesa come «il segno innalzato tra i popoli», facendo riferimento ad Is 11,12. Quindi «riconoscendo alla chiesa questo suo carattere di segno si garantisce la diversità tra Cristo e la chiesa e si riconosce quest’ultima come realtà che esiste a partire dalla sua relazione con Cristo». La Chiesa è «di fronte» a Cristo e non si identifica con Lui. Il rapporto giusto Cristo-Chiesa è fondamentale per capire anche la portata salvifica di Cristo nella Chiesa e sempre attraverso la Chiesa. Cristo ha fondato la sua Chiesa e la conserva nell’essere. È presente nella sua Chiesa ma la sua presenza non «si esaurisce nella Chiesa, ma resta al di sopra: Cristo abita nella chiesa e ne è superiore allo stesso tempo; la Chiesa è compresa da Cristo, mentre essa non lo può contenere in modo completo». In questo senso la Chiesa è sempre strumento e organo di Cristo.
Accanto al concetto di «sacramento», il Concilio utilizza anche il concetto di «popolo» per designare la Chiesa. Questa immagine profondamente biblica, esprime il dato secondo cui la Chiesa è una comunione vivente di fratelli e sorelle esprimendo la sua natura comunionale, dinamica e storica. Certamente la missione di questo popolo di Dio non è di ordine politico o sociale, ma dice Gaudium et spes 42 «il fine […] che le ha prefisso (Cristo) è di ordine religioso». Non sono mancate però le interpretazioni politiche e sociali di questo lemma Chiesa-popolo. Principiando dall’odierno concetto di popolo come emerso dal Romanticismo, lo si è collegato allo spirito del popolo, alla sovranità popolare, al popolo come forza primitiva che determina il diritto e gli usi. Così qualcuno ha gridato: «noi siamo il popolo», «wir sind die Kirche». Ma, nota Scheffczyk,
«il Concilio non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché esso comprende nell’immagine del popolo la comunità sacramentale del “corpo di Cristo”, che è composto non solo di “popolo”, bensì di un capo e di un organismo sacramentale composto di membra. Nel frattempo, nell’era postconciliare, in cui si vorrebbe proseguire il concilio solo secondo il suo “spirito”, senza attenersi al senso e al contenuto espressi da esso, il concetto di “Popolo di Dio” è stato ripetutamente mal compreso e interpretato secondo un modello democratico».
Un altro concetto centrale dell’ecclesiologia conciliare è il concetto di communio, purtroppo anch’esso divenuto equivoco e contraddittorio nel post-concilio. Questo non svaluta però il suo retto significato attribuitogli dal Vaticano II, secondo il quale, «sono incorporati veramente nella società della Chiesa coloro che… sono congiunti a Cristo mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione» (LG 14). Qui la comunione è nel suo insieme trinitaria e gerarchica (ha cioè un’origine sacra) e perciò è una comunione gerarchica o una gerarchia per la comunione della Chiesa.
Infine, Leo Scheffczyk, appura la continuità della Tradizione in altri due dati dell’ecclesiologia conciliare: il fatto che la Chiesa Cattolica sia l’unica Chiesa di Cristo e il fatto che fuori della Chiesa non c’è salvezza. Si tratta di due problemi diversi, uno ecumenico e l’altro riguardante il dialogo interreligioso.
Il Vaticano II non parla mai di una restaurazione dell’unità della Chiesa, ma solo dei cristiani. Se si dovesse restaurare l’unità della Chiesa in sé, significherebbe che Cristo ha ritirato, per così dire, da essa la sua incarnazione e smentirebbe la sua promessa di restare in essa fino alla fine dei tempi. Il problema più delicato che è stato posto è come mai il Concilio per designare l’unica vera Chiesa si sia richiamato al concetto di sussistenza: la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica (cf. LG 8) e non che essa è la Chiesa cattolica. Qui si vede l’apertura teologica al concetto di ecumenismo e si vuole radicarlo in una teologia degli elementa Ecclesiae. Ci sono certamente elementi ecclesiali presenti anche in altre comunità cristiane o Chiesa particolari separate da Roma, ma dice Scheffczyk,
«“ecclesialità” non è ancora “chiesa”, come (per fare un esempio) le caratteristiche e le connotazioni particolari di un popolo non formano ancora uno Stato, anche se per uno Stato esse rivestono un grande significato».
È da pensare, perciò, in modo corretto l’unità e la molteplicità, il mistero della Chiesa universale (precedente in modo ontologico e cronologico) e quello delle Chiese particolari. L’unità della Chiesa precede la molteplicità: è la sua misura e il suo scopo. La molteplicità, infatti, «non coinvolge l’essenza, bensì le modalità esteriori; non la sostanza, bensì la forma, non la verità bensì la sua espressione (come la teologia e la devozione) […]».
L’altro dato importante, ma anch’esso fortemente e volutamente frainteso è il dialogo interreligioso e la salvezza dei non cristiani che non può realizzarsi se non nella Chiesa e mediante la Chiesa. Anzitutto Scheffczyk appura che la dottrina del Concilio non rinnega l’assioma classico di origine patristica secondo cui «al di fuori della Chiesa non vi è salvezza», che del resto è comprensibile solo a partire dalle condizioni storiche del periodo in cui ha avuto origine. Sin da Origine e Cipriano, fa notare Scheffczyk, era diretto contro le divisioni e le lacerazioni della Chiesa e si voleva contestare alle Chiese particolari il diritto di presentarsi come organizzazioni salvifiche accanto all’unica vera Chiesa. Però, dice il Nostro,
«persino nei Padri della chiesa, giudici rigorosi, che sostennero questo principio non mancano accenni ai “santi nascosti” del paganesimo e alle possibilità di salvezza dei non cristiani, poiché la grazia viene offerta ad ogni uomo e ogni uomo di buona volontà può riconoscerla».
Anche un altro dato è da tener ben presente: il fatto che la Chiesa abbia condannato la frase giansenistica secondo cui «fuori della Chiesa non c’è grazia». Quindi dice Scheffczyk,
«la chiesa […] anche ripetendo fino a ieri il principio tradizionale, non contesta in alcun modo la possibilità di salvezza per coloro che ne sono al di fuori, così come essa, d’altro canto (è importante osservare questo), non garantisce al singolo cristiano la salvezza sulla base della sua appartenenza alla chiesa».
Pertanto non è il Concilio ad avallare le nuove interpretazioni secondo cui tutte le religioni, essendo fatti obiettivi, sarebbero vie di salvezza e basterebbe che ognuno si sforzasse di essere ciò che è: un bravo musulmano, un bravo induista, ecc. Ad esempio Küng, vuole che le religioni si impegnino «alla ricerca comune della verità». è vero che il Concilio,
6. La Scuola bolognese: il Concilio come “evento storico”«non chiarisce le difficili questioni riguardanti il rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Ma vi è una decisione fondamentale le cui conseguenze è bene osservare. […] con l’avvenimento di Cristo è oggettivamente successo qualcosa (comprensibile solo nella fede del cristiano), che equivale a una critica fondamentale, ad un aumento e (sia in senso negativo che positivo) a un’“abolizione” delle religioni nella pienezza di Cristo» E poiché i raggi di verità presenti in qualche modo nelle religioni, «sono ora raccolti nella chiesa donata da Cristo, l’azione del donare la grazia al di fuori della chiesa non avviene senza la chiesa e neppure al di fuori di essa. La chiesa rimane il sacramento universale di salvezza dal quale proviene la grazia e verso cui la grazia si dirige».
Un grande ruolo nell’ermeneutica e nella recezione del Concilio ha svolto la Scuola di Bologna, fondata da G. Dossetti con la creazione di un Istituto di Scienze Religiose, guidato da G. Alberigo, direttore della poderosa Storia del Concilio Vaticano II, raccolta in 5 volumi. Opera di respiro internazionale, i cui criteri ermeneutici del Concilio sono riconducibili anzitutto alla storicità stessa del Concilio, categoria che permette di vedere il Vaticano II come “evento” con una grande partecipazione e amplificazione mass-mediatica. Dalla storicità si coglie bene poi l’impronta pastorale-ecumenica fontale dell’evento conciliare e questo permette in definitiva di esaminare in maniera trasversale, con una notevole opera di cesello, anche gli aspetti più reconditi del Concilio. Questi aspetti non si esauriscono nella celebrazione dell’evento in quanto tale, ma in ragione di uno spirito, il Concilio si può leggere come una legge della “conciliarità” – tema dominante nella lettura bolognese dell’ermeneutica conciliare – sempre presente, in modo che il Vaticano II sia anche in futuro quello che voleva essere nel passato. Questo ad esempio lo vediamo nella disamina storica che fa Alberigo a quarant’anni dalla celebrazione del Vaticano II e al termine della pubblicazione dei 5 volumi della storia del Vaticano II. Scrive Alberigo: «La storicizzazione del Vaticano II apre la possibilità di una “svolta ermeneutica”». Alberigo, nota anche che «non è improprio ritenere i movimenti della prima metà del XX secolo (liturgico, ecumenico, biblico, per la promozione del laicato) un autentico “preconcilio”. Come all’opposto, ha avuto effetti “ritardanti” la diffidenza post-modernista nei confronti della ricerca teologica».
Comunque la lettura del Vaticano II come evento è necessaria per superare il momento problematico della celebrazione dell’evento e della sua recezione, della diatriba tra dottrina e pastorale. Scrive sempre Alberigo nell’introduzione al primo volume della Storia del Vaticano II:
«Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento».
Il post-concilio deve essere il momento della storicizzazione del Concilio, la quale si risolve operando appunto «una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese». Ciò sarà possibile solo nella misura in cui si farà affiorare «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea». Questa disamina, al dire di Alberigo, è interessante perché fa emergere «un gap, tra l’evento conciliare come fatto collettivo e le decisioni finali dall’assemblea». Questo ancora una volta sottolinea che «l’evento conciliare sia irriducibile al corpus, pure molto ampio delle decisioni: la collegialità conciliare ha avuto una densità molto maggiore di quella enunciata in Lumen gentium. Le costituzioni e i decreti non rispecchiano tutte le virtualità che si sono espresse durante la vita del Concilio». Così si apre la possibilità di una ricerca trasversale che porti
«alla luce la presenza ricorrente e spesso determinante dei fattori cruciali dello spirito conciliare: il rinnovamento liturgico ed ecclesiologico, al di là dei limiti delle due costituzioni corrispondenti; l’ansia ecumenica, più ricca ed articolata di quanto non dica il decreto Unitatis redintegratio; la riscoperta della Parola di Dio, che non emerge solo da Dei Verbum; l’irrinunciabilità della libertà religiosa, che i padri conciliari hanno progressivamente acquisito, anzitutto come dimensione del loro statuto cristiano».
Per la Scuola bolognese, il criterio della pastoralità del Concilio è indispensabile per distinguere un livello delle forme contingenti e storiche e un livello dei principi di fede, senza tuttavia che i due livelli appaiano in discontinuità tra loro, per il fatto che il lavoro del teologo e del magistero prende l’avvio da quello dello storico e l’apparente storicità contingente delle forme pastorali, sarebbe suffragata da un lato dalla gerarchia delle verità di UR 11 e dall’altro da un nucleo dottrinale che nel suo interno rimane comunque lo stesso pur nel divenire frammentario. La fede qui è subordinata alla storia; altrettanto le dichiarazioni del magistero, ormai non più proponibili come condanne ma, le stesse condanne di prima, superabili in ragione della loro storicità e della nuova pastoralità.
«i rappresentanti del segretariato per l’unità, il card. Bea, mons. Smedt e mons. Volk, che la momento cristallizzano l’opinione di tutti coloro che si oppongono agli schemi preparatori, colgono il legame interno tra la forma pastorale e la forma ecumenica dei documenti conciliari da comporre».
La visione pastorale della Scuola bolognese che riesce a saldare in unità l’evento con la dottrina, ovvero il dato di fede con la sua comunicabilità è riconducibile, crediamo, a questa espressione di Theobald:
«[…] si tratta veramente, nel rapporto tra tradizione e Scrittura, di un problema di verità o di punti contenuti nel “deposito”? La dottrina non è piuttosto un modo di porre, in contesti diversi, delle condizioni perché all’interno della tradizione stessa l’evento cherigmatico o pastorale possa avvenire realmente e in tutte le sue dimensioni? È sicuramente a questo che aveva mirato Giovanni XXIII parlando della “forma pastorale della dottrina o del magistero”».
Sul versante della storicità del Vaticano II si colloca anche B. Forte. Questi definisce il Vaticano II «il Concilio della storia», nel senso che,
«il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini».
In questo modo il Vaticano II assume la «storia nell’autocoscienza della fede», mettendola in rapporto alla verità. Il documento più importante del Vaticano II è per Forte la Dei Verbum,
«il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…».
Sulla linea della pastoralità intesa come storicità, si colloca pure il vescovo testimone del Concilio, uno di più giovani partecipanti al Vaticano II, L. Bettazzi. Proprio in ragione della pastoralità del Concilio, si può superare, in qualche modo, quella discontinuità provocata, invece, dai precedenti concili in quanto dogmatici. Il Vaticano II sarebbe sempre attuale/storico perché pastorale.
Rilievi conclusivi
A questo punto del nostro itinerario teologico, che ci ha portato a verificare alcune posizioni sul Concilio Vaticano II, da noi scelte perché ritenute alquanto esemplari, possiamo ora ricavare dallo studio d’insieme del problema alcuni elementi-chiave. Questi elementi, a nostro giudizio, sottolineano, da un lato la complessità del dato teologico che si presenta nel suo insieme quale “Concilio Vaticano II”, dall’altro, riescono a far emergere i nodi delle problematiche che via via si sono presentate, riassumibili in tre posizioni: 1) Il Vaticano II è intrinsecamente compromesso? 2) Il Vaticano II nasconde una carenza metafisica fondamentale? 3) Gli asserti teologico-fondamentali quali chiavi per interpretare il Concilio.
1. Il Vaticano II è un “testo compromesso”?
Il tema si fa alquanto delicato e scottante, anche se abbiamo visto che anche Laurentin non ha timore di denunciare le imprecisioni dei documenti del Concilio. Un caso alquanto singolare e certamente privo di sospetti è quello di O. H. Pesch che – a dire il vero in modo alquanto pungente e sarcastico – accusa il Concilio di essere un testo compromesso: «Non di rado – dice – in casi estremi si ha a che fare con “il compromesso del pluralismo contraddittorio”». Per pluralismo contraddittorio Pesch intende ad esempio il fatto che, gli schemi, molto spesso, erano formulati come un do ut des: se accetti il mio testo io approvo il tuo. Questo si presenta nelle votazioni in sede di Commissione, per quanto riguarda, ad esempio, la collegialità episcopale: prima si fanno delle grosse aperture, poi per una minoranza conservatrice, si fanno dei passi indietro, moltiplicando i riferimenti alla potestas del Romano Pontefice: questo lo si appura, al dire di Pesch, soprattutto nel risultato finale.
A Pesch, su questo dato, risponde P. Hünermann, che critica questa posizione estrema per il fatto che i documenti del Concilio non sono da vedere come documenti di una costituzione umana e civile. La possibilità di parlare di “pluralismo contraddittorio” applicata a Lumen gentium, esisterebbe «solo se si partisse da un testo conciliare che possedesse, a motivo del genere, la forma di giudizio o di legge». Per Hünermann, in linea con l’idea della Scuola di Bologna, bisogna valutare rettamente il genere dei testi del Concilio soprattutto nel loro processo ricettivo, tenendo conto della genesi e dello svolgimento del Concilio. Il Vaticano II, infatti, si inserisce nella tradizione di Trento e del Vaticano I, ma a differenza di questi, non fa delimitazioni in termini di definizioni. Il senso del Vaticano II, di natura pastorale, è da vedersi soprattutto nella volontà dei Pontefici, e in particolare nel lavoro della prima sessione. Questo faciliterà il fatto che si recepisca «il corpus dei testi del Vaticano II come norma durevole. Solo se il testo del Concilio non adempie a delle funzioni una volta e basta, ma lo si consulta continuamente per i problemi del momento e per la loro elaborazione, allora veramente si afferma il suo carattere». Per Hünermann, comunque, «si potrà indicare il genere dei testi del concilio Vaticano II come “costituzione della vita ecclesiale di fede” o, in breve, come “costituente della fede”».
Così, ci chiediamo, si risolverebbe il problema del “pluralismo contraddittorio”? Crediamo di no, per il fatto che i documenti di un concilio in genere non costituiscono la fede, la esprimono, la definiscono in modo solenne. Potrebbero costituirla solo in un ambito dogmaticamente pastorale, visto da un’angolatura storica come vuole la Scuola bolognese. Ma il Concilio non fu questo, né vorrebbe esserlo.
Crediamo, anche, che un certo pluralismo contraddittorio appaia ed era inevitabile per diverse ragioni, innervate però tutte nella mancanza di chiarezza dei confini tra ciò che è pastorale e ciò che è dogmatico. Le due dimensioni dell’unica teologia sono equivalenti? Si distinguono? L’una è subordinata all’altra? Pertanto, non si potrebbe dare una risposta esaustiva alla domanda formulata e neppure si potrebbe verificare a livello teologico la continuità/discontinuità delle dottrine del Concilio con la Tradizione della Chiesa, senza richiamarsi ad altri due livelli, che indicheremo di seguito.
2. Il Vaticano II come problema metafisico: un problema di sostanza e di forma?
Il problema “Vaticano II”, più che un “pluralismo contraddittorio”, è quello di una non chiara precisazione della sua natura e di conseguenza del tenore dei suoi documenti, nella cui ottica, sono da leggere le cosiddette “aperture” o meglio approfondimenti teologico-magisteriali. Se rimane fermo che la natura del Concilio è pastorale (non nel senso storicista inteso da Rahner: attingere i presupposti teologici dalla prassi e dalla scienze profane, ma nel senso teologico inteso dal Magistero) e che il tenore del Magistero è autentico ordinario, infallibile solo nella misura in cui reitera i dati già definiti o definitive tenenda della Tradizione, allora i miglioramenti e gli approfondimenti del Concilio, che potrebbero dar adito anche a dei regressi a causa della rottura teologica, sono da verificare alla luce del sano metodo teologico. La teologia che illumina il Magistero dovrebbe verificare lo status di questi approfondimenti e fornire al Magistero un criterio per un pronunciamento (magari anche ordinario) volto a dissipare tutti gli equivoci accumulatisi. Il Magistero in tal modo, potrebbe dire in modo autorevole che solo la continuità è l’ermeneutica giusta da applicare al Concilio e che le innovazioni sono da leggersi in questa continuità della Tradizione, le cui discontinuità non sono dogmatiche (nel senso che feriscano il dogma o lo cambino; più che altro lo spiegano o tentano di spiegarlo) ma teologiche. Nel Vaticano II come rapporto diadico di “concilio-mistero” non si insinua il modernismo. Sarebbe blasfemo il solo pensarlo. Questo magari era presente in alcuni periti e teologi, ma il Concilio è cattolico, convocato e approvato dal Romano Pontefice, i suoi documenti rimangono, natura sui, un insegnamento magisteriale obbligante.
3. Alcuni principi teologico-fondamentali nel Vaticano II
Per ultimo, è necessario individuare alcuni principi, che potremmo definire teologico-fondamentali, enunciati dal Concilio, dalla cui applicazione e lettura, dipende, in gran parte, la visione d’insieme del Vaticano II, come Concilio (evento/celebrazione solenne) e, di conseguenza, la giusta/errata interpretazione delle dottrine conciliari. A nostro giudizio, questi principi potrebbero essere riassunti in tre: 3.1 pastoralità/aggiornamento; 3.2 la distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione; 3.3 il principio “gerarchia delle verità”. Esaminiamoli brevemente, per sottolinearne la cogenza, auspicando il conforto di altri studi di approfondimento.
3.1 La pastoralità del Concilio intesa come aggiornamento e viceversa
Nell’intenzione di Giovanni XXIII il Concilio doveva provocare un aggiornamento, inteso come apertura al mondo e quindi come modo per dire al mondo, hic et nunc la fede della Chiesa. Si volle un modo pastorale d’approccio per far sì che si scegliessero i mezzi più adeguati ed anche il linguaggio della modernità, quando necessario, per parlare all’uomo di oggi, profondamente diverso da quello del Vaticano I, per le nuove condizioni storiche e anche teologiche. Al Concilio si intrecciano e si ingarbugliano due livelli: la fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Il progresso doveva essere visto come un aggiornamento ma l’aggiornamento non doveva essere dogmatico (come definizione di nuovi dogmi) bensì pastorale ma riguardante propriamente la dottrina. Era chiaro che si arrivasse all’aggiornamento della dottrina: una pastorale ha come cuore la dottrina, ma il Concilio voleva procedere in modo pastorale, ovvero con un magistero ordinario autentico. Lasciando in una sorta di wavering generale i lemmi implicati, e utilizzando nel complesso un linguaggio piuttosto discorsivo e non metafisico, presto “pastorale” è divenuto per Rahner il metro della teologia in quanto tale, sicché sussumendo da un’antropologia profana e da una rivelazione intesa come storia le categorie teologiche, la teologia stessa, nel suo insieme diventa pastorale, e la pastorale non deriverà più dalla teoria teologica, bensì dalla prassi. Qui il mondo con la sua concupiscenza entra nella dogmatica e la trasforma.
3.2. La distinzione tra sostanza della fede e sua formulazione (sostanza e forma?)
Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura dell’11 ottobre 1962 aveva detto:
«Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto».
Il Pontefice qui invita la teologia a distinguere tra sostanza della fede e suo rivestimento; tra sostanza e forma esteriore o apparente. Si tratta di un problema di linguaggio? Il pontefice ci dice che bisogna adottare una nuova filosofia del linguaggio per superare il momento fatidico dell’in sé e di ciò che viene espresso, passando per le maglie di un forte soggettivismo di colui che dice e quindi già di una sua interpretazione? Crediamo che Giovanni XXIII non si riferisse ad un problema di linguaggio, ma in modo molto semplice volesse dire a tutti che la sostanza della fede non cambia, ma può esser meglio adattato ai tempi il linguaggio per comunicare la fede. Infatti UR 11 dirà:
«[…] la fede cattolica va spiegata, con maggior profondità ed esattezza, con un modo di esposizione e un linguaggio che possano essere compresi anche dai fratelli separati».
La teologia stava già da tempo coniando un nuovo linguaggio, accantonando per lo più quello metafisico-scolastico, per fare posto a quello più moderno, che diventerà poi, in alcuni teologi, l’adottare una filosofia esistenzialista e fenomenica. Questo principio, dunque, si è prestato a svariate letture, anche contraddittorie: da una teologia rinnovata basata sulle fonti del sapere rivelato, ad una teologia rinnovata, diventata pluralista in ragione del pluralismo filosofico, ebbra nel recepire il dato della modernità e senza troppe remore circa la sua fedeltà alla Rivelazione di Dio. Gran parte della teologia è divenuta un’antropologia. La Chiesa si è mondanizzata, secolarizzata. Sembra strano, ma il grimaldello è stato in gran parte la teologia: quella che in larga misura ha fatto il Concilio.
3.3. La gerarchia delle verità (UR 11) o piuttosto analogia delle verità?
Qui si entra in un discorso molto delicato. Il principio della gerarchia delle verità è enunciato da UR 11 che dice:
«Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede cristiana».
Il testo, letto nel contesto teologico ormai acquisito da così lungo tempo, si protende più verso un’analogia delle verità che verso una subordinazione di alcune verità ad altre fino a farle scomparire. Le verità rivelate hanno tutte pari dignità perché ci sono dette per la nostra salvezza e tutte promanano dall’unico Autore, Dio. Gerarchia o ordine, dovrebbe essere qui letto nel suo senso etimologico originario come origine sacra delle verità da Dio e nel loro rapporto analogico col fondamento della fede che è lo stesso Dio rivelantesi come verità, distinguendo tra fides qua e fides quem. A nessuno che legge il Concilio nella Chiesa e in linea con la sua Tradizione, verrebbe in mente di strumentalizzare le verità di fede, riconoscendone alcune – normalmente quelle che non piacciono al teologo – inferiori e di secondaria importanza rispetto ad altre. Questo però è stato fatto. Si pensi ad esempio ad H. Küng che vede in questo principio il punto di partenza per un dialogo ecumenico volto non più al ritorno dei fratelli separati nell’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ma ad una conversione di tutti principiando dal dato storico inequivocabile di una giusta e motivata istanza portata dalla Riforma: quella di una spiritualizzazione e conversione della Chiesa. Un mero andare verso gli altri. Anche la Scuola bolognese vede in questo principio il punto di partenza per una mentalità veramente “conciliare”, che metta tutti insieme, diventata presto un programma politico, o forse già lo era.
Come si deve leggere dunque il principio della gerarchizzazione delle verità? Siamo al punto di partenza. Ma questo evidenzia che, se non si fa una lettura vera e teologica, nel senso alto di questa parola, di questi principi-primi del Vaticano II, tutto il resto facilmente risulta falsato. Risulterebbe, pertanto, veramente utile per i fedeli e per i teologi, un documento (metafisico) dogmatico del Magistero, per spiegare la retta origine e la retta interpretazione di questi principi, così da orientare poi il Popolo di Dio e i maestri della fede in primis, in una lettura corretta del Concilio, facendo vedere, in modo autentico, che l’unica ermeneutica giusta, che porta frutti, è quella della continuità e del progresso nella verità dell’unica Traditio Ecclesiae. È vero che il Magistero si è già pronunciato per dirimere i vari errori di interpretazione attestatisi, talvolta, proprio sui temi a cui abbiamo fatto riferimento. Questo però ancora non risolve il problema, per il fatto che, col prevalere di una certa visione di “conciliarità”, facilmente si è passati, in larga parte, ad un “neo-conciliarismo”: ci si continua ad appellare al Concilio e si dimentica, scorrettamente appunto, che il Magistero non si è congelato col Concilio. Il Papa è al di sopra del Concilio e pertanto solo lui può indicare in modo definitivamente dirimente quale è la giusta ermeneutica del Vaticano II.
p. Serafino M. Lanzetta, FI
«certi Teologi progressisti sostengono che il Vaticano II ha riabilitato l’evoluzione del domma, già condannato al tempo del Modernismo sotto Pio X. […] In conclusione possiamo affermare che le deviazioni post-conciliari sono abusi di lettori disattenti e poco leali, che cercano di giustificare con l’autorità del Concilio i loro errori e le loro incontrollate tendenze. Questo abuso di nota anche per altri punti del Concilio, che a prima vista colpiscono come assoluta novità in contrasto con la Tradizione; ma un’attenta riflessione rimette le cose a posto».
RispondiEliminaquesta citazione non fa che confermare, qualora ce ne fosse bisogno, l'origine delle deviazioni post-conciliari; ma "un'attenta riflessione che rimette tutte le cose a posto" e che è in corso da tempo, se non trova il suo sbocco naturale in una dichiarazione solenne del Papa, a cosa potrà servire?
Let us pray that the Franciscans of the Immaculate will be a light in these dark times
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