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lunedì 31 dicembre 2012

Brunero Gherardini. L'antropocentrismo della Gaudium et spes

Le pagine che seguono (185-195) sono tratte dal Libro: Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau 2012. Il tema è riproposto per approfondire la discussione suscitata dall'articolo La falsa accusa di eresia a chi critica le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Vaticano II di Paolo Pasqualucci. Esso è utile per continuare ad approfondire il nostro percorso nei meandri dei documenti conciliari al fine di coglierne le luci e le ombre e non lasciarci sviare da alcuna acritica esaltazione.
[Qui e qui nostre precedenti riflessioni sulla Gaudium et Spes]

1. L'antropocentrismo della GS

Poiché il lemma è ricorrente, non si può continuar a parlare d'antropocentrismo senza darne prima una breve spiegazione. La quale, in estrema sintesi, potrebb'esser così formulata: l'antropocentrismo è la concezione che vede l'uomo al centro dell'universo, come valore di fondo e punto di confluenza di tutto ciò che esiste. Si tratta d'una concezione molto affine a quella di F. C. Schiller, che la fece dipendere dalla massima protagorea per la quale l'uomo è la misura di tutte le cose. È la massima dalla quale s'è ultimamente sviluppata una teoria filosofica, nota come Umanesimo (Troiano, Ferrari, Maritain). Essa assume l'uomo non solo come misura, ma anche come valore di fondo dell'intero universo, sul piano teoretico, dunque, prima che su quello apprezzativo. Maritain v'aggiunse la nota, del tutto insostenibile, d'una discrasia tra umanesimo ed incarnazione[4].

Non ho elementi per dire, e nemmeno per sospettare, che gli estensori di Gaudium et Spes ed i Padri conciliari, nel redigere discutere e votar un tale documento, avessero tutti la ferma intenzione d'ancorar il magistero conciliare alla detta teoria. Di fatto, però, la dipendenza è innegabile. Ancor prima d'esser innalzato ad altezze vertiginose, l'uomo è costituito come punto focale ed oggetto dell'intero documento: «È l'uomo dunque, e precisamente l'uomo integrale (et quidem unus et totus), nell'unità di corpo ed anima, di cuore e coscienza, d'intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la post esposizione» (GS 3/a). L'affermata centralità dell'uomo, della sua realtà naturale, della sua dignità e della sua emergenza al di sopra d'ogni altra realtà creaturale; l'uomo nella si concretezza storica e nei suoi contesti sociali e culturali; l'uomo, quindi, con tutt'il cumulo della sua problematicità: ecco l'unico oggetto del più esteso documento conciliare l'unico punto d'appoggio - «cardo», cardine - di tutt'il suo contenuto.

Quando una tale problematicità vien confusa col concetto di mistero ed immersa in esso - «il mistero dell'uomo» -, la deriva antropocentrica si fa anche più evidente a danno del «mistero di Cristo» che dovrebbe illuminarla e risolverla: è detto, infatti, che «il mistero dell'uomo trova vera luce solamente nel mistero del Verbo incarnato» (22/a) e che la ragione profonda per la quale l'enigma uomo vien illuminato e risolto è il fatto stesso dell'incarnazione, con cui «il Figlio di Dio s'unì in certo qual modo ad ogni uomo (cum omni homine quodammodo se univit)» (22/b). Ora, se è vero che solamente nel mistero del Verbo incarnato è possibile scoprire la soluzione totale dell'enigma uomo, la ragione addotta è invece assolutamente priva di fondamento, insostenibile, assurda.

Il mistero del Verbo incarnato è quello, come dice la parola, della sua stessa incarnazione e con essa della sua individualità anche come questo soggetto che signoreggia due mondi distinti, il divino e l'umano, in lui ipostaticamente congiunti, grazie alla funzione che l'Io personale del Verbo esercita sulla natura umana di Cristo, individua integra e perfetta[5]. Dicendo «due mondi distinti, il divino e l'umano», la dottrina cattolica intende non gl'individui che ad essi appartengono, bensì le due nature o sostanze, la divina e l'umana, congiunte insieme - e pur sempre distinte e non confuse - nell'ipostasi divina del Verbo. Nel testo, però, di GS poco sopra citato, la dottrina dell'unione e della distinzione è radicalmente sovvertita: l'unione ipostatica, dilatata all'intera umanità nonostante l'attenuazione del « quodammodo»; il confine tra il divino e l'umano, soppresso; inesistente la distinzione tra natura e soprannatura.

È, sì, vero che anche i Padri conciliari avvertiron l'enormità del loro asserto e col solito  metodo del dire e non dire ne proposero un ridimensionamento: aggiunsero infatti l'avverbio «quodammodo», cioè «in qualche modo o misura», per attenuare lo stridore d'una contraddittorietà irriducibile: il Verbo si sarebbe dunque congiunto non con la natura umana, ma «in qualche modo o misura» con tutti singoli titolari di essa. A parte il fatto che, nel linguaggio teologico, perfino in quello di san Tommaso, l'avverbio «quodammodo» e l'uso stesso di «quidam-quaedam-quoddam» sono spesso un'implicita confessione d'insicurezza, d'indecisione, di non perentorietà, e finiscono quindi per confermare ciò che dovrebbero e vorrebbero modificare, non nego affatto l'intento - di per sé evidente - d'addomesticare l'insostenibile asserto; ma l'asserto rimane esattamente ciò che è, e come è. Mantiene, se pur attenuato - ma non si sa in che senso e misura - il significato delle sue parole, questo: non tutti presenti nel Verbo incarnato, ma il Verbo presente in tutti, essendosi egli in tutti incarnato, sia pur in un modo indefinibile. Efeso e Calcedonia, quindi, cancellati. E cancellata l'assunzione della sostanza umana individua e perfetta da parte del Verbo. E cancellate pure l'unione e la distinzione delle due nature. Con Cristo, tutto il divino è ormai non in tutto l'umano, ma in ogni umano soggetto. La deriva antropocentrica del divino non avrebbe potuto aver una proclamazione più significativa di questa: «Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo se univit».

Potrei continuare a citar ancora, l'un dopo l'altro, i brani di GS inneggianti all'uomo, espressione d'una radicale infatuazione antropologica, che non raramente sembra convertirsi in vera adorazione: non aggiungerei molto, o non molto più significativo di quanto ho già esposto. Non posso, tuttavia, rinunciar a metter in evidenza un altro assurdo metafisico di questo documento, il quale, in 24/c, non esita ad asseverare che l'uomo «in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluit»[6]. L'uomo, dunque, unica creatura da Dio creata per se stessa. L'assurdo metafisico consiste nel fatto che, se Dio crea per qualcuno e per qualcosa al di fuori di sé, o gli è soggetto, o gli si assoggetta egli stesso. Nell'uno e nell'altro caso, restando condizionato a e da qualcosa, a e da qualcuno al di fuori di sé, non è né può dirsi Dio: non l'Assoluto, non l'Essere supremo, non il Necessario distinto da ogni contingente. Noto poi che, nel caso, non si ha a che fare soltanto con un assurdo metafisico, ma anche con una contraddizione interna: il citato 24/c è, infatti, contraddetto da 41/a che recita « mysterium Dei, qui est ultimus finis hominis», il fine ultimo, oltre il quale non ce n'è assolutamente un altro, tutto avendo Dio creato per se stesso, anche l'uomo. Direi, anzi, soprattutto l'uomo che, in quanto dotato d'intelletto, nel ricondurre a Dio la conoscenza razionale della concatenazione di cause ed effetti, esprime la sua dipendenza radicale da Lui e rende gloria al suo Amore diffusivo di sé. Del resto, pur non tutti essendo professori di metafisica e forse neanche godendo tutti  d'una mentalità metafisica, i Padri avrebbero dovuto ben conoscere, tutti, la Sacra Scrittura e trattenersi dallo scrivere un'affermazione di tale e tanta gravità, come quella della «sola creatura creata per se stessa»: «Propter semetipsum - si legge in Prv 16,4 - operatus est Dominus» (cfr. Dt 26,19): soltanto per sé e per la dilatazione della sua gloria esterna.

Se GS avesse inteso sottolineare che tutt'il creato fu dal Creatore voluto per l'uomo ed a lui finalizzato, affinché l'uomo, vertice del creato, non fosse sottoposto ad altre creature, non ci sarebbe stato motivo di gridar allo scandalo. Ma, questo non essendo il senso dato dal Concilio alle sue parole, lo scandalo ci fu e che scandalo! In un Concilio ecumenico! 

Il documento è tutt'un susseguirsi di proclamazioni scioccanti, il cui numero rende difficile la scelta dell'esemplificazione: potrei dir a tal fine tolle et lege. Qualche altro rilievo, tuttavia, mi pare non solo opportuno, ma doveroso. Ho parlato di confusione tra naturale e soprannaturale. Non è cosa da poco. È l'ostracismo, anche se non ostentatamente gridato, alla prospettiva teocentrica ed è la porta d'ingresso per quella antropocentrica. Un rimescolamento di carte: quant'è del cristiano perché della Chiesa, è anche d'ognuno perché di tutta l'umanità. Non a caso già il Proemio di GS allude ad una tale idea, come se fosse uno dei temi di fondo sui quali l'intero documento verrà poi articolato. Vi si legge che «nulla c'è di genuinamente umano che non trovi un'eco nel cuore» dei cristiani, la cui comunità «si sente per questo - quapropter - veramente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia». Se ciò si riferisse ad una condivisione cristiana di qualunque motivo di turbamento per il cuore dell'uomo o di qualunque sua nobile speranza, nulla ci sarebbe da eccepire; ma il solidarizzare della Chiesa, anzi il suo comunicare con tutt'il genere umano sulla base di condizioni naturali identiche in cristiani e non cristiani, dimentica le ragioni soprannaturali che la sospingono, sì, incontro ad ogni uomo, ma solo per risolverne i problemi di fondo: il peccato originale, la correlativa questione della salvezza eterna, gl'interrogativi d'un'esistenza lineare con le premesse dell'evangelo e con le sue esigenze di coerenza evangelica[7].

Il fatto è che l'allargamento dell'interesse conciliare dai soli cristiani all'uomo in quanto tale conferma l'accennata apertura della prospettiva antropocentrica. E che tale apertura risponda ad un intento primario di GS, è dimostrato dalla sua diretta confessione: tanto più significativa, questa, in quanto formulata dopo le battute iniziali, a scopo evidentemente programmatico. Dop'aver dichiarato di voler aprir un dialogo con l'umanità per «metter a sua disposizione le energie di salvezza[8] che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo riceve dal suo Fondatore», GS 3/a - quasi a cancellar il sospetto d'un ritorno al soprannaturalismo medievale che tali parole potrebbero suggerire - prorompe in un peana per l'uomo, al cui valore riconosce la funzione di fondamento delle proprie preoccupazioni e della propria dottrina. Il testo è stato precedentemente citato, ma la ripetizione a questo punto è uno strumento retorico per dimostrar il vero intento del Concilio: «Il cardine di tutta la nostra esposizione sarà dunque l'uomo, nella sua unità e totalità, col suo corpo e la sua anima, il suo cuore e la sua coscienza, la sua mente e la sua volontà». Cardine. Volendo metter in evidenza la base ed il fondamento dell'antropocentrismo di GS, non si poteva sceglier parola più chiara ed efficace.

Ed, ovviamente, insieme con l'uomo il mondo. Fu già ricordato che cosa volesse Giovanni XXIII, che cosa Paolo VI e, a Concilio ormai in fase di ricezione, che cosa abbia voluto Giovanni Paolo II e che cosa voglia il regnante Pontefice: la riconciliazione della Chiesa col mondo. E fu pure messo in evidenza l'equivoco collegato al reiterarsi di codesta frase: non la Chiesa s'era fatta nemica del mondo, ma il mondo della Chiesa. Donde un altro equivoco: che la Chiesa desideri riconciliar a sé il mondo, fa parte della sua missione, ma questa non può chiederle d'adattarsi ed ancor meno d'uniformarsi ai principi del mondo. Equivoco a parte, una domanda a questo punto appare ineludibile: qual è il significato del lemma mondo nell'uso di GS, presto imitata dal nuovo linguaggio teologico?

L'ambiguità del lemma, ampiamente testimoniata dalla Sacra Scrittura, è risaputa. Del mondo la Scrittura riconosce la genesi da Dio (At 17,24; Gv 1,3.10; Col 1,16; Eb 1,2) e la testimonianza che il mondo rende alla divina provvidenza (At 14,16), ma conosce pure quello stato di subordinazione a Satana (1Gv 5,19) che ne fa il teatro ed il tramite del peccato fin dalla sua origine (Gv 1,29) e, pertanto, la pietra d'inciampo sulla via del Regno (Mt 18,7). Eppure, proprio questo mondo tutto in balia del maligno (1Gv 5,19) è quello che il Padre avvolge nel suo amore ed al quale fa dono del suo Unigenito (Gv 3,16-17). GS né ignora, né rifiuta, né analizza una tale ambiguità; l'accoglie qual è. Si pone anzi in atteggiamento d'ammirata venerazione dinanzi a questo mondo in cui più che l'ambiguità considera «l'intera famiglia umana con tutte le realtà in mezzo alle quali essa vive, [...] il teatro della storia del genere umano, [...] i segni dei suoi sforzi, delle sue sconfitte e delle sue vittorie», oggetto «dell'amore del Creatore»[9], sottoposto «alla schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo crocefisso e risorto con l'annullamento della potestà del maligno e destinato, in conformità al progetto di Dio, a trasformarsi ed a giungere a compimento»[10] (Gs 2/b). Come se ciò non bastasse, lungo l'intera costituzione pastorale il tema del mondo vien ripreso confermato ed ancor una volta rispettato nella sua ambiguità di base. GS, infatti, auspica che «il mondo riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento», ma si dice pure consapevole di quanto la Chiesa «abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano»[11] (44/a): «I concetti e le lingue dei diversi popoli», « la sapienza dei filosofi», «lo scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture» (44/b). È, questo, un non trascurabile aiuto che «credenti e non credenti» forniscon alla Chiesa «nella misura in cui essa dipende da fattori esterni»: un aiuto ed un «giovamento che può venirle perfino dall'opposizione di quanti l'avversano e perseguitano» (44/c). Ormai, per la costituzione pastorale, non ci son più frontiere contrapposte e se qualcuno le contrappone, saran tutte sempre, anche e perfino un'eventuale persecuzione, un «giovamento» che il mondo porge alla Chiesa. Le frontiere si son in tal modo e a tal punto avvicinate, che son ormai giunte alla saldatura. Ciò che la Chiesa fa e dice, lo fa e lo dice per mondo; e quanto il mondo va operando nella sua corsa al progresso è a beneficio della Chiesa.

Grazie alla «trasformazione sociale e culturale» che ha le sue ripercussioni su tutti gli aspetti della convivenza umana, quella religiosa compresa (4/b), GS inneggia alla cancellazione delle frizioni d'altri tempi. La trasformazione, infatti, non solo si ripercuote sulle condizioni storiche dell'umana convivenza, fin a rimuoverne l'eventualità e l'idea stessa d'una rivoluzione anticristiana - che però va per la sua strada e non si ritrae dall'infierir oggi pure contro i cristiani, infliggendo loro una morte violenta in odio della Fede - ma procede sicura sulle strade dell'antropocentrismo, di cui il mondo, così come vien presentato, diventa l'ambiente ideale. L'ambiente dico, dove gli «amorosi sensi» si vivono, o il teatro dove agli «amorosi sensi» si recita. L'ambiente non più delimitato da le staccionate, ma dilatato dalla loro caduta, secondo l'ingenuo ottimismo che sorresse tutt'il discorso conclusivo di Paolo VI durante la Messa del 7 dicembre 1965[12]; l'ambiente de l'ormai trionfante antropocentrismo che osa equiparar i diritti dell'uomo a quelli di Dio, o identifica questi in quelli e riconosce come divini pensieri e progetti puramente umani. Fu emblematico a tale riguardo il sopraricordato discorso di Paolo VI, là dove equiparò il Vaticano II all'incontro tra «la religione di Dio che si è fatto uomo» e «la religione [perché tale è] dell'uomo che si fa Dio»[13].
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4. Si ricorda di F. C. S. Schiller, Humanism, philosophical essays e Studies in Humanism, l'uno del 1903 e l'altro del 1907. Di j. Maritain, è invece da ricordar il famoso Humanisme intégral, Paris 1936 (trad. it. Roma 1947), fortemente criticato da A. Messineo su «La Civiltà Cattolica» del 29 marzo 1954, pp. 663-669, a sua volta oggetto di replica da parte di G. Aceti in Vita e Pensiero 1914-1964, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 512-520.
5. Val la pena, a tale riguardo, di ricordare che cosa il Magistero ecclesiastico sancì a) al Concilio di Efeso, con la dottrina dell'unione ipostatica «vera reale fisica»; b) e al Concilio di Calcedonia, con la dottrina dell'integrità e perfezione della natura assunta. Tutto ciò per dichiarare che in Cristo c'è una sola persona, perché c'è una sola sussistenza, quella del Verbo, la quale unisce in sé in modo reale e profondo la natura divina e la natura umana, mantenendole però integre reali e distinte. L'unione è dottrina di Efeso; la distinzione, di Calcedonia.
6. Cito in latino, perché questa lingua mantiene rigorosamente le concordanze che consentono, assai più delle lingue volgari, di stabilire l'esatto pensiero dei Padri conciliari. Dicendo che l'uomo è, sulla terra, «sola creatura quam Deus propter seipsam creavit», cade ogni dubbio sulla finalità della sua creazione: il femminile «se ipsa» è in perfetta concordanza col femminile «sola creatura» e col pronome pure femminile «quam»; Dio è in tal modo perentoriamente escluso dalla sua finalità creatrice. Ed accontento così, con un richiamo alla legge delle concordanze, chi mi consiglia di legger attentamente l'originale.
7. E nulla dico sulla mancanza d'un collegamento logico tra la premessa d'una «più profonda penetrazione nel mistero della Chiesa» e la conseguenza del suo discorso non più rivolto «ai soli [suoi] figli, né solamente a coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti indistintamente gli uomini» (GS 2/a). Parrebbe che la realtà dei non cristiani, ai quali oggi la Chiesa si rivolge, fosse la novità derivante da un più approfondito esame del suo mistero. Che cosa fu, allora, prima di codest'esame,
l'evangelizzazione in genere, che cosa in special modo furon le missioni?
8. Per l'ennesima volta metto l'accento sul vezzo invalso soprattutto dal Concilio in poi di parlare d'una generica e mai precisata salvezza, con assoluta reticenza di ciò che caratterizza la salvezza cristiana ed il suo oggetto: l'accesso dal peccato alla grazia e, quindi, alla vita eterna.
9. Il testo originale porta: «Quem christifideles credunt ex amore Conditoris conditum et conservatum»: come si vede, non un'affermazione della creazione dal nulla da parte dell'amore divino che s'espande negli oggetti da esso stesso creati, ma l'aggancio di tali oggetti alla credulità dei cristiani, secondo i quali - soggettivamente, quindi - ciò che è troverebbe spiegazione nella potenza creatrice dell'amore di Dio.
10. Altra frase ermetica: il progetto di Dio prevede, dunque, il «trasformarsi» del mondo fin al «compimento» (!!!). Il testo sembra ignorare che ci si trasforma in meglio ed in peggio e che il pervenir a compimento («ad consummationem» significa più propriamente «fin al termine», «alla conclusione») non ha senso se non si specifica. Così com'è, può dir tutto ed il cpntrario di tutto.
11. Ennesima sfasatura formale e logica: i termini di paragone son Chiesa e mondo, non Chiesa e genere umano.
12. Si veda il testo in Acta Synodalia sacrosancti Concilii Œcumenici II 1970-1980, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1970, vol. IV/7, pp. 654-662.

31 dicembre. Te Deum e Santa messa a San Nicola in Carcere

Lunedì, 31 Dicembre alle ore 18 :00
Santa Messa rito romano antico 
seguita dal canto del Te Deum
con solenne benedizione Eucaristica
Basilica di San Nicola in Carcere
Via del teatro Marcello 46 Roma

Vai alla Mappa, nella quale trovi anche il link per le indicazioni

domenica 30 dicembre 2012

Celebrazioni Lutero: Card. Koch, il Papa non andrà in Germania

L'avevamo detto in tutti i modi possibili. [vedi anche qui - qui - qui]
Ed ora finalmente una dichiarazione definitivamente e chiaramente cattolica! Non si può né ignorare né bypassare la verità storica e spirituale! Si tratta, come al solito, di una fonte mediatica: è la caratteristica dei nuovi pastori quella di parlare più dalle tribune mediatiche che dal Vaticano... Comunque la registriamo con sollievo: la fonte è attendibile.

(AGI) - Berlino, 22 dic. - Benedetto XVI non si recherà in Germania in occasione delle celebrazioni dei 500 anni della Riforma di Martin Lutero, annunciata con l'affissione delle sue 95 tesi il 31 ottobre 2017 sul portale della chiesa di Wittenberg.

Lo conferma alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz) il cardinale svizzero Kurt Koch, che dal 2010 è presidente del Consiglio papale [Prefetto del Pontificio Consiglio] per l'unità dei cristiani.

« Per la Chiesa cattolica non c'è nulla da festeggiare », dichiara il porporato alla Faz, sottolineando che « l'aspirazione di Lutero non è riuscita. Si sono formate Chiese autonome e si sono svolte spaventose guerre di religione con conseguenze fatali per l'intera Europa. Come festeggiare? ».

sabato 29 dicembre 2012

Un Natale della Tradizione vissuto nella povertà evangelica.

Pubblico una testimonianza del Santo Natale vissuto nella Tradizione in questo nostro tempo. Non voglio aggiungere nulla di mio, per dar voce alla nuda e cruda realtà.

Cara Maria ecco un breve resoconto del "mio" Natale. Lo posterei ma poi mancherebbe la foto. Se lo ritieni opportuno ti chiederei quindi di pubblicarlo. Non si tratta di fare polemica (il Natale è anche più gioioso nella difficoltà!) ma solo di testimoniare la verità senza vittimismi e in modo oggettivo.
« Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo ». (Lc 2,7)
Sotto il peso dell'evidenza si deve constatare che purtroppo neanche per la FSSPX c'è oggi posto nell'albergo del Vaticano.

Ecco uno scorcio della "mia" messa di Natale in regione parigina: davanti a un vecchio schermo nello stanzino attiguo alla minuscola cappella (privata) che già nelle domeniche ordinarie non ce la fa proprio a contenerci tutti ...

A una quindicina di kilometri da lì in un'altra "cappella" SPX (lo scantinato senza finestre di un immobile degli anni '80) si celebrava lo stesso Santo Sacrificio. Altri fedeli della regione si facevano invece 50 km per avere la Messa perché la loro cappella-appartamento non è agibile da più di un mese...

Il fatto è che nella SPX per lamentarsi si deve prima fare la fila... e in testa c'è chi sta ben peggio di noi: succede che in un priorato della SPX del sud della Francia, si dice la MESSA IN UNA TENDA DA CAMPEGGIO MONTATA NEL GIARDINO di un privato perché manca la cappella e né il comune né tanto meno la diocesi ci aiutano, neanche eccezionalmente, neanche  in caso di emergenza.

Allora grazie, grazie e ancora mille grazie al Vaticano che ci ha dato cosi il grande privilegio di imitare ancor più da vicino il bambino Gesù.

Per puro caso proprio ieri un bravissimo sacerdote (che lotta e soffre in parrocchia) condivideva con me queste parole del santo di Assisi:
« E san Francesco rispose: quando saremo arrivati a Santa Maria degli Angeli e saremo bagnati per la pioggia, infreddoliti per la neve, sporchi per il fango e affamati per il lungo viaggio busseremo alla porta del convento. E il frate portinaio chiederà: chi siete voi? E noi risponderemo: siamo due dei vostri frati. E Lui non riconoscendoci, dirà che siamo due impostori, gente che ruba l’elemosina ai poveri, non ci aprirà lasciandoci fuori al freddo della neve, alla pioggia e alla fame mentre si fa notte. Allora se noi a tanta ingiustizia e crudeltà sopporteremo con pazienza ed umiltà senza parlar male del nostro confratello, anzi penseremo che egli ci conosca ma che il Signore vuole tutto questo per metterci alla prova, allora frate Leone scrivi che questa è perfetta letizia ».
Se per ciò che riguarda le ingiustizie fatte in generale contro la dottrina, la fede e la morale è doveroso dissentire e anche (rispettosamente) alzare la voce, ma per ciò che riguarda le ingiustizie fatte alle nostre piccole personcine (noi tutti più o meno perseguitati perché difendiamo la Tradizione) queste sante parole sono di grande conforto. Hpoirot

giovedì 27 dicembre 2012

Un rilievo importante sulla Messa di Natale del Santo Padre: il GRADUALE al posto del Salmo responsoriale

Dal blog americano di p. John Zuhlsdorf :

« Durante la prima Messa di Natale celebrata dal Santo Padre la notte del 24 dicembre, alle 22, è accaduto qualcosa che tutto il mondo dovrebbe conoscere. Invece del “salmo responsoriale” [che nella forma ordinaria si inserisce tra la prima e la seconda lettura], la schola e i cantori hanno intonato il Graduale. L’assemblea non l'ha cantato. Le persone hanno avuto occasione di partecipare ascoltando. Che benedetto sollievo. Il Santo Padre predica con l'esempio, evidentemente. Possa essere così infranta la ferrea presa del canto esclusivamente assembleare ! »

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La falsa accusa di eresia a chi critica le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Vaticano II

Un puntualizzazione da registrare, nella speranza che venga anche ascoltata nelle sedi dovute. Ne avevamo tempestivamente parlato anche noi.

Criticare le nuove ed ambigue dottrine del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II significa forse comportarsi da protestanti, da eretici?  No, di certo.  Eppure lo si è affermato e si è tornati a ripeterlo, anche in sedi autorevolissime.  È ormai celebre l’articolo apparso di recente sull’Osservatore Romano del 29 novembre 2012, a p. 5, a firma di S. E. l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Fede, [testo integrale qui] a proposito della “ermeneutica della riforma nella continuità” invocata – come sappiamo – da S. S. Benedetto XVI quale unica legittima chiave di lettura del Concilio:  “Quest’interpretazione è l’unica possibile secondo i principi della teologia cattolica, vale a dire considerando l’insieme indissolubile tra Sacra Scrittura, la completa e integrale Tradizione e il Magistero, la cui più alta espressione è il Concilio presieduto dal Successore di San Pietro come Capo della Chiesa visibile.  Al di fuori di questa unica interpretazione ortodossa esiste purtroppo una interpretazione eretica, vale a dire l’ermeneutica della rottura, sia sul versante progressista, sia su quello tradizionalista.  Entrambi sono accomunati dal rifiuto del Concilio; i progressisti nel volerlo lasciare dietro di sé, come fosse solo una stagione da abbandonare per approdare a un’altra Chiesa; i tradizionalisti nel non volervi arrivare, quasi fosse l’inverno della Catholica”.

Non so se sia giusto mettere sullo stesso piano le due opposte interpretazioni critiche del Concilio.  I “tradizionalisti” ne vogliono sanare le ambiguità ed espellerne gli errori, ponendo implicitamente anche il  problema della validità del Concilio. Sarebbero comunque lieti di vedere un Concilio riveduto e corretto dal Papa sulla base della dottrina di sempre della Chiesa.  I “progressisti” non si pongono certo il problema della validità del Concilio, né quello di ambiguità ed errori da eliminare perché in contraddizione con la dottrina di sempre, che per loro non esiste, visto che concepiscono tutto il Cristianesimo in chiave storico-evolutiva.  Per loro, il Concilio non è certo da riformare né tanto meno da invalidare.  Criticano invece i compromessi cui la mens progressista impostasi in Concilio ha dovuto sottostare, auspicando che in sede di attuazione pratica tali compromessi vengano finalmente a cadere del tutto, per far emergere nella sua compiutezza la “Chiesa dello Spirito” insufflata nelle parti ammodernanti dei documenti conciliari; la Chiesa visionaria dei fautori della Nuova Pentecoste, Chiesa di un Nuovo Avvento, senza gerarchie e totalmente ecumenico-comunitaria, aperta a tutte le istanze della Modernità, anche sul piano etico e dei costumi.  Chiesa di Satana, giova ricordarlo, per i Cattolici rimasti fedeli all’insegnamento perenne della Chiesa.

 Ai rilievi di Mons. Müller ha già risposto in maniera egregia il prof. Roberto de Mattei su questo stesso sito, il 5 dicembre 2012.  Da parte mia vorrei solo aggiungere qualcosa.  In primo luogo, ricordare che gli eretici in genere contrappongono all’insegnamento della Chiesa una loro versione personale del Cristianesimo.  E questo stanno facendo oggi i “progressisti” (o neomodernisti).  Coloro che sono oggi costretti dall’amarissima e perdurante crisi della Chiesa a criticare il Vaticano II in nome della Tradizione, non hanno né intendono avere una loro versione personale del Cristianesimo, da proporre in alternativa all’insegnamento attuale della Gerarchia, al quale invece oppongono, ove non vi si accordi, la Tradizione ossia l’insegnamento della Chiesa consolidato da quasi venti secoli di immutabile magistero.  In secondo luogo, che il Concilio insegna apertamente cose nuove e in documenti non dogmatici ma pastorali.   Ciò sicuramente rende lecito l’esame della conformità di queste novità con la dottrina tradizionale della Chiesa da parte del credente che se ne senta la capacità.  Vediamo quest’ultimo punto.  
  1. Per la prima volta nella storia della Chiesa, un Concilio ecumenico si propone di insegnare delle “novità”.    Nell’art. 1 della Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, si trova la famosa dichiarazione secondo la quale, “questo Concilio Vaticano rimedita la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [haec Vaticana Synodus sacram Ecclesiae traditionem doctrinamque scrutatur, ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]”(DH 1).  Il Concilio dichiara, dunque, di insegnare “nuovi elementi” o “cose nuove” (nova) tratte dallo “scrutare” o “rimeditare” la Tradizione e la Scrittura.  Non dice di riproporre l’identica tradizione e dottrina in modo nuovo (nove), come si usava dire una volta, quando si parlava di progresso estrinseco del dogma ovvero di un approfondimento e di una miglior conoscenza di qualche verità di fede, che restava tuttavia assolutamente immutata quanto al suo concetto.  La sostituzione di nove con nova poteva naturalmente far nascere molte apprensioni, ragion per cui il testo precisò esplicitamente che era intenzione del Concilio “trarre le cose nuove” sempre in armonia con quelle vecchie, con il Deposito della Fede.  Ma già l’idea di “trarre cose nuove” dalla “tradizione sacra e dalla dottrina della Chiesa”, non era di per sé del tutto rivoluzionaria?

    È a mio avviso significativo che quest’ammissione dell’esistenza di  n o v i t à  nell’insegnamento del Concilio sia fatta nel “proemio” di un testo ampiamente innovatore come quello sulla “libertà religiosa”, il cui concetto, secondo i suoi critici, sembra mutuato quasi integralmente dal principio laico della stessa, in passato sempre vigorosamente respinto dal Magistero.  Come hanno ampiamente dimostrato Mons. Gherardini ed altri studiosi, nessuna delle “novità” proposte dal Concilio è fornita del sigillo della definizione dogmatica.  E le novità non le troviamo di sicuro in quei passi conciliari nei quali si riaffermano dogmi precedenti o si rinvia all’infallibilità del Magistero ordinario della Chiesa.  Come hanno notato a più riprese gli studiosi competenti, la “congruentia” delle “cose nuove” proposte con le “vecchie” non è ancora dimostrata dai riferimenti del Concilio ai dogmi del passato o ad insegnamenti del Magistero ordinario infallibile o dalle dichiarazioni di principio di fedeltà al dogma.  Tale “congruentia” deve esser dimostrata puntualmente, caso per caso, paragonando il nuovo al vecchio che esso viene specificamente a sostituire.  Per fare degli esempi:  confrontando tra loro la nuova definizione della Chiesa di Cristo, quella del famoso “subsistit in” di Lumen Gentium 8, con la vecchia, quale appariva, da ultimo, nello schema di costituzione dogmatica De Ecclesia mandato al macero dai Progressisti; il nuovissimo principio della creatività liturgica con quello che il Magistero preconciliare ne aveva sempre pensato; la nuova definizione dell’Inerranza biblica con la vecchia; la nuova definizione della collegialità con la vecchia ossia con tutto l’insegnamento precedente della Chiesa in proposito, e così via.

  2. Il fedele è legittimato ad indagare la “congruentia” delle “novità” professate da un Concilio ecumenico solo pastorale.  Stabilito questo punto fondamentale, e cioè che il Concilio insegna consapevolmente “cose nuove”, dobbiamo chiederci:  il semplice fedele è autorizzato o no, a confrontare tutte queste “novità” con l’insegnamento  tradizionale  della Chiesa, commentato e spiegato dai teologi ortodossi, per vedere se le novità siano tutte “in costante armonia con esso”?  Se si risponde di no, allora si impone di fatto al fedele di credere sulla parola all’esistenza di questa “armonia”:  di credere sulla parola senza discutere, come se ci trovassimo in presenza di un Concilio dogmatico, infallibile sulle verità di fede e sui costumi allo stesso modo del Tridentino o del Vaticano I.  Ma negare ai fedeli il diritto di confrontare la nuova pastorale e la nuova dottrina del non dogmatico Vaticano II con l’insegnamento p e r e n n e  della Chiesa, ciò costituisce una patente contraddizione, poiché implica attribuire al Vaticano II un carattere dogmatico negato espressamente dal Concilio stesso, nelle ben note Notificationes apposte in calce alle due costituzioni “dogmatiche”  Dei Verbum sulla divina Rivelazione e Lumen Gentium sulla Chiesa, in quest’ultima unitamente ad un’importante Nota explicativa praevia.   Proprio in appendice a queste due costituzioni, titolate dogmatiche, si è dovuta apporre una Notificatio sulla nota teologica degli insegnamenti conciliari, che fa capire come esse non siano affatto dogmatiche.  In effetti, “dato il fine pastorale del presente Concilio”, esse non definiscono alcun dogma né condannano alcun errore! 

    Come semplice credente, non ho il diritto – tanto per fare un esempio – di verificare la dottrina dell’Incarnazione della Costituzione pastorale Gaudium et spes 22 [ne abbiamo parlato qui] con quella sempre insegnata dalla Chiesa?  Quando mi trovo di fronte ad una frase come questa:  “Infatti con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”, la mia prima impressione è quella di un testo che dice una cosa strana, mai sentita prima e nello stesso tempo ambigua.  Ambigua, poiché non si capisce perché l’Incarnazione debba esser avvenuta “in ogni uomo” e che cosa voglia effettivamente dire “in certo modo” (il famoso quodammodo). Trovo poi che nell’ articolo 432 del Catechismo della Chiesa cattolica e nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II (Redemptor hominis 13) l’inciso “in certo modo” è stato tolto. Cosa devo concluderne, allora?   Il Papa e il CCC ci forniscono l’interpretazione autentica della frase in questione.   Perciò il senso della frase è proprio quello di dire che l’Incarnazione non si è limitata al Cristo incarnatosi nell’ebreo Gesù di Nazareth, individuo storicamente esistito, ma si è effettivamente avuta “in ogni uomo”.

    Ne risulta, comunque, che, con o senza il quodammodo, il pastorale Vaticano II, un Concilio che avrebbe dovuto in teoria limitarsi ad esporre le verità di fede in modo più consono alla mentalità moderna,  m o d i f i c a  il concetto dell’Incarnazione di Nostro Signore, includendovi “ogni uomo”!  Questa dunque una delle grandi e straordinarie novità.  Che sia negativa per il dogma, non c’è bisogno di esser teologi per capirlo.  Non possiamo non chiederci:  come avrebbe potuto il Verbo, consustanziale al Padre secondo la divinità, unirsi alla natura peccaminosa di ciascuno di noi?  E il dogma dell’Immacolata Concezione avrebbe ancora senso?  E quello del peccato originale?  E in quale “uomo” si sarebbe incarnato il Figlio di Dio?  Solo negli uomini e nelle donne della sua generazione?  E gli altri?  Tutto l’impianto di GS 22 non implica forse l’idea che questa “incarnazione in ogni uomo” ha significato ontologico, costituendo una vera e propria impronta divina perenne nella natura di ciascuno di noi?  L’implica senza dirlo apertamente, contribuendo in tal modo all’ambiguità di un discorso che getta nella confusione la dottrina ortodossa dell’Incarnazione, rendendola incerta e divinizzando l’uomo.

    Se poi, procedendo sempre con il dovuto metodo, il semplice credente confronta GS 22.2 con l’insegnamento anteriore della Chiesa, cosa trova?   Forse qualche spunto che l’anticipi? Come hanno spiegato i teologi ortodossi, trova solo qualche espressione dei Padri della Chiesa, dal significato prevalentemente simbolico, che potrebbe prestarsi all’equivoco, se interpretata in modo errato.  In realtà, che nel pensiero dei Padri non ci sia posto alcuno per un concetto del genere, risulta da come intendono in generale l’Incarnazione nel suo rapporto all’uomo.  L’uomo resta sempre un peccatore da salvare e la possibilità della salvezza gli è offerta proprio dall’Incarnazione dell’Unigenito in Gesù di Nazareth,  in quest’unico individuo, la cui missione terrena è stata quella di “chiamare i peccatori non i giusti” (Mc 2, 17), affinché potessero salvarsi l’anima grazie alla Chiesa da Lui stesso fondata.

    Invece, situata la celebre frase di GS 22.2 nel contesto di tutto l’articolo, un’analisi diligente dimostra che essa giunge a coronamento di tutto un ragionamento annunciante l’ “altissima missione dell’uomo”, al quale il Cristo avrebbe “restituito la somiglianza con Dio resa deforme dal peccato originale”, in tal modo “svelando l’uomo a sé stesso” e innalzando la natura umana in generale ad una “dignità sublime”, in ogni uomo.  A parte il fatto, come ha ricordato lo scomparso teologo tedesco prof. Johannes Dörmann, che il peccato originale ci ha fatto perdere la “somiglianza con Dio” (Tridentino), tutta questa concezione (che riflette notoriamente la peculiare teologia personale di  Henri de Lubac S.I.) fa vedere un antropocentrismo completamente sconosciuto ai Padri della Chiesa.  Nella “Lettera teologica” di S. Leone Magno adottata all’unanimità dal Concilio di Calcedonia, che, nell’AD 451, come sappiamo, definì perfettamente le due nature di Cristo, non vi è traccia dell’idea di un’incarnazione “in ogni uomo”.  E che un’idea del genere rappresentasse una deviazione dottrinale, lo dimostra il fatto che essa fu combattuta da S. Giovanni Damasceno (morto nel 749), la cui critica fu ripresa e teologicamente approfondita secoli dopo da S. Tommaso.

  3. Negare  la “congruentia” dottrinale di un testo ambiguo del Concilio, non comporta alcun peccato di eresia.   In quest’analisi di GS 22, succintamente esposta, mi sono forse comportato da protestante, da eretico?  Ho forse fatto trasparire “l’ostinata negazione di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica [ossia come dogma] o il dubbio ostinato su di essa”, come recita la definizione canonica dell’eresia (CIC 1983, c. 751; CIC 1917, c. 1325 § 2)?  Niente di tutto ciò, come ognuno può vedere.  Analizzando con la dovuta diligenza la “novità” contenuta in GS 22.2 sono giunto alla conclusione, testi alla mano, che essa non appare per nulla in armonia con l’insegnamento tradizionale della Chiesa.  I testi parlano chiaro.  Se poi si dimostrasse che la mia interpretazione è sbagliata, non avrei nulla da obiettare.  Resto pertanto disciplinatamente in attesa di una confutazione, puntuale e documentata, secondo le regole del discorso razionale, rifiutando ogni condanna aprioristica, inflitta sul presupposto di un inesistente carattere dogmatico del Vaticano II o di una sua preconcetta armonia con il Magistero di sempre.  E se questa confutazione non dovesse venire, allora dovrei concluderne che gli apologeti del Vaticano II non hanno veri argomenti da opporre e nascondono questo fatto dietro la cortina fumogena di accuse di eresia del tutto inconsistenti.

    E poiché si è voluto portare il discorso sul piano dell’eresia, mi chiedo:  chi è veramente l’eretico o meglio il sospetto d’eresia?  Chi ha osato scrivere e chi accetta lo:  “Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine [quodammodo] se univit” o chi osa ribattere, testi alla mano, che questo nuovo concetto di Incarnazione non appare per nulla conforme al dogma dell’Incarnazione come insegnato dalla Chiesa cattolica nei secoli?   E non deve considerarsi eretico chi nega o mette in dubbio il dogma secondo il quale la Beatissima Vergine è rimasta sempre vergine, anche dopo il parto miracoloso di Gesù Bambino (DS 256/503; 993/1880) ?  È vero che in passato Mons. Müller ha manifestato dei dubbi sulla validità di questo dogma, senza mai ritrattarli pubblicamente?  E se criticare il non dogmatico Vaticano II è da eretici, anche Benedetto XVI diventerebbe allora imputabile di eresia per aver egli recentemente osato criticare (da un punto di vista sicuramente non “progressista”) la Gaudium et spes e la Dichiarazione conciliare Nostra aetate, la prima perché ci avrebbe dato una nozione tutt’altro che soddisfacente di modernità, la seconda per aver del tutto ignorato le forme “malate e disturbate di religione” presenti nelle religioni non cristiane!  
    Paolo Pasqualucci

mercoledì 26 dicembre 2012

Attualità e verità delle parole di Pio XII su Chiesa e Stato

Dal Radiomessaggio natalizio di Pio XII del 1944: parole chiare, principi certamente non 'datati'...

[...] Una sana democrazia, fondata sugl'immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo.

L'assolutismo di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si tratta) consiste infatti nell'erroneo principio che l'autorità dello Stato è illimitata, e che di fronte ad essa — anche quando dà libero corso alle sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male, — non è ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.

Un uomo compreso da rette idee intorno allo Stato e all'autorità e al potere di cui è rivestito, in quanto custode dell'ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà della legge positiva nell'ambito della sua naturale competenza. Ma questa maestà del diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conforma — o almeno non si oppone — all'ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere, se non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana, non meno che lo Stato e il pubblico potere. È questo il criterio fondamentale di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.

Se l'avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale nel suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa, messaggera della parola del Redentore e continuatrice della sua missione di salvezza. Essa infatti insegna e difende le verità, comunica le forze soprannaturali della grazia, per attuare l'ordine stabilito da Dio degli esseri e dei fini, ultimo fondamento e norma direttiva di ogni democrazia.
[...]
Con la sua stessa esistenza la Chiesa si erge di fronte al mondo, faro splendente che ricorda costantemente quest'ordine divino. La sua storia riflette chiaramente la sua missione provvidenziale. Le lotte che, costretta dall'abuso della forza, ha dovuto sostenere per la difesa della libertà ricevuta da Dio, furono, al tempo stesso, lotte per la vera libertà dell'uomo.

La Chiesa ha la missione di annunziare al mondo, bramoso di migliori e più perfette forme di democrazia, il messaggio più alto e più necessario che possa esservi : la dignità dell'uomo, la vocazione alla figliolanza di Dio. È il potente grido che dalla culla di Betlemme risuona fino agli estremi confini della terra agli orecchi degli uomini, in un tempo in cui questa dignità è più dolorosamente abbassata.

Il mistero del Santo Natale proclama questa inviolabile dignità umana con un vigore e con un'autorità inappellabile, che trascende infinitamente quella, cui potrebbero giungere tutte le possibili dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Natale, la grande festa del Figlio di Dio apparso nella carne, la festa in cui il cielo si china verso la terra con una ineffabile grazia e benevolenza, anche il giorno in cui la cristianità e la umanità, dinanzi al Presepe, nella contemplazione della « benignitas et humanitas Salvatoris nostri Dei », divengono più intimamente consapevoli della stretta unità che Iddio ha stabilita tra di loro. La culla del Salvatore del mondo, del Restauratore della dignità umana in tutta la sua pienezza, è il punto contrassegnato dalla alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà. Là al povero mondo, lacerato dalle discordie, diviso dagli egoismi, avvelenato dagli odi, verrà concessa la luce, restituito l'amore e sarà dato d'incamminarsi, in cordiale armonia, verso lo scopo comune, per trovare finalmente la guarigione delle sue ferite nella pace di Cristo.

martedì 25 dicembre 2012

Il mito anticristiano delle origini pagane del Natale

Tratto da un blog Francese; ma perfettamente valido per tutti noi per confutare menzogne e inganni sulle cose più sacre della nostra Fede.


La cristianofobia si attacca in maniera detestabile ai beni dei cristiani e alle loro persone, ma mi chiedo se essa non sia ancora più perniciosa quando si attacca a ciò con fonda la nostra fede cristiana con la menzogna, la calunnia, la disinformazione. Giudicate voi. Come ogni anno si ripete la consuetudine del famoso ritornello guastafeste:

♪ Natale è un'antica festa pagana ♪

Secondo alcuni, Natale sarebbe una sorta di versione cristiana dei Saturnali e la nascita del Sol Invictus (il « sole invitto »). Noi dimostreremo che queste affermazioni non solo sono fallaci ma che provengono da sette anticattoliche.

La seguente insinuazione proviene dai Testimoni di Jehova :

« Un enciclopedia afferma : “I Saturnali  (…) davano luogo a festività durante le quali ci si scambiava dei doni.” (L' Enciclopedia Americana, 1977, Tomo XXIV, p.299). Ciò corrisponde, in generale a ciò che accade a Natale : ci si scambia dei doni. (…) Ovvio che un cristiano può offrire i suoi doni in qualunque momento dell'anno e in ogni momento che lo desideri. »

I Saturnali erano una festa celebrata dai membri della religione di stato in onore del dio Saturno sotto la repubblica romana (fino al 27 prima di Cristo) poi sotto l'impero romano fino al 380 dopo Cristo, anno in cui il Cristianesimo diviene religione di stato in luogo del paganesimo. In origine, questa festa non aveva luogo che il 17 dicembre ma in seguito la sua durata fu estesa e finì per essere celebrata dal 17 al 23 dicembre.

Si è perfino preteso che i cristiani non avessero fissato il Natale al 25 dicembre che allo scopo di incitare i pagani ad abbandonare i Saturnali a vantaggio della Natività di Cristo, il che è assurdo. In effetti se questo fosse stato il nostro scopo, non avremmo preferito collocare la festa dal 17 al 23 dicembre perché coincidesse con quella di Saturno ? Se il nostro scopo fosse stato quello di sostituire una festa cristiana ad una di quelle dei pagani romani non avremmo di certo piazzato questa festa due giorni dopo la loro settimana di festeggiamenti. Nessuno storico degno di questo nome potrebbe ritenere seria una tale ipotesi.

L’altra affermazione spesso ricorrente è che i cristiani di Roma avrebbero collocato la festa di Natale al 25 Dicembre per sostituirla alla festa romana della nascita del sole invitto. Ma qual è la verità?

La festa della nascita del sole invitto (Dies Natalis Solis Invicti) fu creata nel 274 dopo Cristo dall'imperatore Aureliano. Molti pretendono che questo preceda le prime celebrazioni del Natale. In effetti un cronografo del 354 dopo Cristo menziona la celebrazione d'un Natale cristiano. Esistono inoltre tracce scritte che attestano che la Chiesa di Roma celebrò il Dies Natalis Christi (« giorno della nascita di Cristo ») il 25 dicembre 336 dopo Cristo, cioè 62 anni dopo la creazione del Dies Natalis Solis Invicti pagano.

Tuttavia, ciò non significa che i cristiani tentarono di sostituire una festa pagana con una cristiana o che essi cercarono di cristianizzarla. Innanzitutto il fatto che non si siano trovate tracce scritte di celebrazione del Natale prima del 336 dopo Cristo, non significa che questa festa non sia stata celebrata precedentemente. È utile ricordare che tra il 64 e il 313 dopo Cristo, la religione cattolica era illegale in tutto l'impero romano e che i cristiani erano sistematicamente giustiziati con i mezzi più crudeli durante queste persecuzioni. Conseguentemente, i cattolici sono stati costretti a divenire una società segreta riunendosi in nascondigli dentro le catacombe e celebrando la messa sulle tombe. Quando l'Editto di Milano, nel 313, fece del cattolicesimo una religione autorizzata dalla legge, i cristiani restarono prudenti : dopo tutto, essi ricordavano che le persecuzioni romane erano cessate nel 186 per poi riprendere tre anni più tardi. La prudenza era dunque di circostanza e, conseguentemente, è una delle ragioni per cui non abbiamo trovato traccia scritta della celebrazione del Natale anteriore al 336 dopo Cristo. Il fatto che non abbiamo ancora scoperto documenti cristiani più antichi che associano l'espressione  Natalis Dies (« Natale ») al 25 dicembre è malauguratamente usata da alcuni per affermare che abbiamo scelto questa data per cristianizzare la festa della nascita del Sol Invictus.

La realtà è che i cattolici avevano fissato la data del Natale al 25 dicembre ben prima che l'imperatore instaurasse il culto romano del sole e  prima che egli scegliesse il 25 dicembre come il giorno in cui si sarebbe celebrata la festa del Dies Natalis Solis Invicti. Nel 221 dopo Cristo, lo storico cristiano Sisto Giulio Africano (Sextus Julius Africanus) ci informa, nel suo resoconto della storia del mondo in cinque volumi (Chronographiai) che i cattolici celebravano già l'Annunciazione il 25 marzo. In altri termini, già nell'anno di grazia 221 i cattolici consideravano che Gesù Cristo si era incarnato nel seno della Beata Vergine Maria un 25 marzo (giorno tradizionale del suo concepimento) cioè nove mesi prima del 25 dicembre. Di conseguenza, sappiamo che i cattolici consideravano che il 25 dicembre era la data dell'anniversario della nascita di Gesù Cristo almeno 53 anni prima che l'imperatore Aureliano avesse creato il culto ufficiale del Sole invitto e avesse collocato la celebrazione della sua nascita al 25 dicembre.

L’imperatore Aureliano istituì questo nuovo culto nazionale e questa nuova festa nazionale precisamente perché era consapevole della fine imminente dell'Impero : egli sperava dunque che invocare insieme il dio sole sarebbe stata l'occasione per tutti i suoi sudditi di unirsi attorno alla fede in una deità portatrice di vita che rinascesse ogni anno. La scelta del 25 dicembre come data dell'anniversario della nascita del Sol Invictus derivava sicuramente dal suo desiderio di concorrenza con la nuova religione clandestina che attirava un sempre maggior numero di suoi sudditi : infatti la fede di questi cattolici perseguitati e la testimonianza che essi rendevano alla verità fino alle arene spingevano numerosi sudditi dell'imperatore ad aggiungersi ad essi nella catacombe e a celebrare la messa di Natale con essi. Sembra piuttosto che sia l'imperatore Aureliano ad aver istituito il Dies Natalis Solis Invicti il 25 dicembre allo scopo di combattere con la concorrenza la religione cattolica che, ricordiamolo, era illegale (vedere Le origini  dell'anno liturgico [in inglese] di Thomas Talley).

Come appena dimostrato, Natale non è né una versione cristianizzata dei Saturnali né una versione cristianizzata della nascita del Sol Invictus. Dal XVII secolo dopo Cristo, questa menzognere affermazioni sono state diffuse dalle sette protestanti anticattoliche : i puritani inglesi e i presbiteriani scozzesi.

L’Accademia francese ci dice che i puritani sono « coloro che seguono le idee di Calvino in Inghilterra e in Scozia » (Dizionario de l’Académie française, 1694) e che questo nome fu « dato ai presbiteriani rigidi d'Inghilterra, che si piccavano di seguire la religione più pura. (…) I puritani si distinguevano per un linguaggio austero e per una grande semplicità di abbigliamento. » (Dizionario de l’Académie française, 1835). Il Dizionario del 1835 aggiunge : « Si chiamano [presbiteriani], in Inghilterra, i protestanti che non riconoscono l'autorità episcopale ».

I puritani odiavano tanto il cattolicesimo che si rivoltarono contro la nuova religione anglicana che giudicavano troppo « papista » per i loro gusti e odiavano tanto le feste prescritte dalla Chiesa cattolica, quali il Natale e le tradizioni che vi erano associate, che andarono a creare colonie puritane nell'America del Nord ove alcune del queste feste ed « impurità » cattoliche non sarebbero state tollerate. Più tardi, nel 1743, il tedesco protestante Paul Ernst Jablonski pretese che il 25 dicembre corrispondesse alla festa romana del Dies Natalis Solis Invicti e che, conseguentemente, celebrare questa festa , equivaleva a corrompere la purezza del culto cristiano. Questo atteggiamento puritano non è scomparso : di fatto è perpetuato da certe sette protestanti che hanno ereditato quest'odio puritano contro il cattolicesimo, come i gruppi che seguono gli insegnamenti di de Herbert W. Armstrong o i Testimoni di Jehovah. Più tardi, queste false affermazioni che associavano le origini di Natale a feste pagane precristiane furono ripetute senza discernimento da etnologi poco seri, cosa che attribuì ad esse una parvenza scientifica.

Non lasciamoci imbrogliare o intimidire : coloro che pretendono che le origine della festa di Natale sono pagane non fanno che divulgare una menzogna anticattolica discreditata parecchie volte. Dobbiamo particolarmente diffidare dei Testimoni di Jehova che forse sono gli eredi dei puritani più attivi della nostra epoca in Francia. Non lasciamoli macchiare il vero senso del Natale : se Clodoveo ha scelto questo giorno per farsi battezzare, era per rinnegare solennemente il paganesimo, adottare pubblicamente il cristianesimo e divenire figlio della Chiesa cattolica. Col suo battesimo, il nostro primo re ha legato la nascita della Francia alla nascita di Cristo. Continuiamo a gridare alto e forte che Natale è una festa cristiana e ricordiamo a tutti i francesi che la ragione per cui celebriamo questa festa, così importante in terra francese, è perché si tratta del santo anniversario della nascita di Nostro Signore Gesù Cristo.
by L'Observatoire de la Christianophobie
[Traduzione a cura di Chiesa e post concilio]

lunedì 24 dicembre 2012

Nella città di David è nato il nostro Salvatore, Cristo Signore!

Un testo da condividere, insieme agli auguri più belli per un Felice e Santo Natale.

L'attenzione è al testo Lucano (Lc 2,6-7) che, con semplicità impressionante narra l'evento più sconvolgente di tutta la storia umana. [...] Il tono di semplicità e la sobrietà della narrazione cede preso all'irrompere della hwhy dwbk kabhodh IHWH, la Gloria di Dio non soltanto cantata dagli angeli dinanzi ai pastori, ma presente in quel batuffolo di carne umana che ha appena visto la luce e la Vergine ha avvolto in poveri panni, deponendolo in una mangiatoia. È come se "il velo del Tempio" si fosse improvvisamente "lacerato" (Mc 15,38; Mt 27,51; Lc 23,45) e qualcosa del Sancta Sanctorum fosse venuto in piena luce. Gli angeli, infatti, si presentan ai pastori rivelando loro cose inaudite. Mentre essi son "presi da grande spavento", un angelo porta l'"Annunzio d'una grande gioia". Quant'aveva intessuto per secoli le speranze del popolo eletto è già realtà: "nella città di David è nato un Salvatore, Cristo Signore". Tutto ciò che il lemma êύριος indica della sovranità e della gloria di Dio, eccolo, è lì, in quel piccolo che vagisce tra le braccia d'una giovane madre o all'interno d'una misera mangiatoia. Un coro d'angeli inneggia alla gloria di Dio e preconizza pace agli uomini, oggetto del suo divino amore. La riprova di codest'amore è il fantolino della mangiatoia. Egl'incarna in sé la gloria di Dio, quella stessa infinita ed ineffabile gloria che, avvolgendo di luce i pastori, li ha indirizzati al neonato nella città di David (cf Lc 2,8-14).

"Una grande gioia". L'evangelo è qui, vivo, palpitante, rassicurante. Lui stesso, il piccolo appena nato è infatti la grande gioia. È la Parola che Dio, il Padre ha pronunciato una volta per sempre fin dai suoi giorni eterni, dando con essa non un motivo di semplice speranza, ma la certezza che il problema di fondo, il rapporto dell'uomo con Dio, è ora risolto. Per sempre. Dunque quella medesima Parola, che qui, nella stalla o nella grotta di Bethlehem è diventata Gesù Cristo, davanti a sé non ha limiti di tempo e di spazio. Quando la si dice centro della storia, si sottolinea la realtà del suo essere incondizionato e sovrano. Non a caso êύριος è, fin da queste prime battute, il titolo che caratterizza l'essere e l'azione della Parola incarnata.

Non si tratta d'un suono, d'un sia pur piacevole flatus vocis; è un essere vivente, è l'essere stesso dell'Altissimo onnipotente Dio che viene a noi come Dio e parla ed opera a nostro favore. È la testimonianza vivente dell'eterna decisione a favore dell'uomo: una decisione che rivela l'assoluta libertà di Dio, perché nessun diritto e nessun'esigenza è in noi, né sul piano della pur c.d. dignità della persona umana, né su quello della sua reale indegnità e peccaminosità, tale da condizionare le scelte della libertà increata e per questo è anche la testimonianza del suo infinito amore. Cristo è Dio-per-noi.

Dinanzi a quella mangiatoia e alla storia che, prevista e decisa da sempre nel seno di Dio, prese le mosse col primo palpito del primogenito di Maria, non si può pensar ad una bella novellina. Le fiabe ed i miti han caratteristiche nettamente differenziate dalla realtà di quel fatto che, fin dalla mangiatoia di Bethlehem, tocca la storia d'ogni tempo e d'ogni luogo, non solo per la ragione che la realtà di Cristo è storicamente provata, ma anche e soprattutto perché quella realtà dimostra un nuovo rapporto tra l'uomo e Dio, costituito non solo dai semplici aneliti dell'uno verso l'altro ma dalla loro compresenza storica, dal fatto cioè ch'Egli è diventato uno di noi, in mezzo a noi, partecipe della nostra quotidianità, cittadino della nostra madre terra. L'incarnazione del Verbo è infatti la realtà della nuova alleanza.

Forse, e talvolta è proprio così, si vive ogni anno la festività natalizia senza percepirne il collegamento con l'evento incluso nelle semplici parole di Lc: partorì il suo primogenito. Si passa accanto all'abisso, lo si sfiora, e nulla scuota la comune indifferenza, se non quel tanto di poesia che sboccia dal panorama imbiancato di neve, dal luccichio delle strade illuminate a festa, dal richiamo delle vetrine e dallo scampanio delle chiese. Quel primogenito non è poesia. È l'azione personalizzata di Dio che opera la nostra salvezza. È questo l'aspetto del Natale da riscoprire e da vivere.
[Brunero Gherardini, Credo in Gesù Cristo, Ed. Vivere In 2012, pagg.119-121]

XI Congresso internazionale del « Courrier de Rome » - FSSPX

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Rappresentanza italiana a Versailles

Dal 4 al 6 gennaio 2013 si terrà fra Versailles (Auditorium de l’Université Inter Ages, 6 Impasse des Gendarmes) e Parigi (Maison de la Chimie, 28 rue Saint-Dominique) l’XI Congresso Teologico del Courrier de Rome, in collaborazione con D.I.C.I., sotto la Presidenza di S.E. Monsignor Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X.


Vatican II, 50 ans après:
quel bilan pour l’Église?

Vaticano II, 50 anni dopo:
quale bilancio per la Chiesa?

PROGRAMMA


Venerdì 4 gennaio - Versailles
(punto di vista storico)

Pomeriggio
ore 14:00: Accettare il Vaticano II e la Nuova Messa: da Paolo VI a Benedetto XVI (Abbé François Knittel, priore di Strasburgo)
ore 15:00: Promemoria sulla storia del Concilio (Professor Roberto de Mattei, Università Europea, Roma)
ore 16:00:Dibattiti e pubblicazioni recenti sul Concilio in Italia (Alessandro Fiore)

Sabato 5 gennaio - Versailles
(punto di vista dottrinale)

Mattina
ore 9:00: Un tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II (Abbé Patrice Laroche, Professore al Seminario di Zaitzkofen, Germania)
ore 10:00: La modernità e il Vaticano II (Professor Gianni Turco, Università di Udine, Italia)
ore 11:00: Un Concilio non come gli altri (Abbé Yves le Roux, Direttore del Seminario di Winona, Stati Uniti)

Pomeriggio
ore 14:00:L’ermeneutica della continuità o della rottura?”, secondo il Professor Heinz-Lothar Barth (Abbé Franz Schmidberger, Superiore del distretto di Germania)
ore 15:00: Due concezioni di magistero (Abbé Jean-Michel Gleize, Professore al Seminario di Écône, Svizzera)
ore 16:00: Lo sguardo della Fede e la lezione dei fatti (Abbé Alain Lorans, redattore di D.I.C.I.).

Domenica 6 gennaio - Parigi
Pomeriggio
ore 14:30: Quale bilancio, 50 anni dopo? (Monsignor Bernard Fellay, Superiore generale della Fraternità San Pio X)

Per  informazioni: courrierderome@wanadoo.fr

domenica 23 dicembre 2012

L'Allocuzione di Giovanni XXIIII in apertura del Concilio e la conferma di Paolo VI del "metodo" soggettivista

Questo blog ha pubblicato di recente un interessante articolo del Prof. Bernard Dumont, apparso sull'ultimo numero della Rivista francese Catholica, dal titolo Il conflitto irrisolto. In un passaggio, era stata notata la discrepanza tra la versione francese dell'Allocuzione di apertura del Concilio di Giovanni XXIII e quella italiana. Poiché ho l'abitudine di verificare sempre le fonti, ho scoperto che il testo italiano pubblicato sul sito Vaticano corrisponde a quello francese, ma differisce da una versione, evidentemente l'originale italiano, che avevo pescato sul sito papagiovanni.com fornendo il link al relativo documento, del quale ora non c'è più traccia: il link non è più funzionante. Trascrivo qui il passaggio che ne parla. Di seguito indicherò altri riferimenti che confermano la versione scomparsa,  riformulata in quelle presenti sul sito Vaticano anche nelle versioni in lingua estera. 
[...] La missione attribuita al concilio era offrire risposte adeguate alle angosce nate da questa situazione, ma anche discernere le aspirazioni positive e dar loro una risposta in una formulazione appropriata. Tale era la ragion d'essere del carattere essenzialmente pratico di questo concilio, indicato con l'aggettivo « pastorale » ufficialmente attribuitogli. Giovanni XXIII era stato chiarissimo a questo riguardo : non si trattava di « discutere di alcuni capitoli fondamentali della dottrina della Chiesa, e dunque di ripetere con maggiore ampiezza ciò che Padri e teologi antichi e moderni hanno già detto », bensì di operare un aggiornamento (è uno dei significati della parola aggiornamento ripetuta così di frequente), un adattamento pedagogico : « È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che dev'esser fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo da rispondere alle esigenze del nostro tempo ». (Discorso d'apertura). La traduzione letterale della versione italiana comporta una variante : « [...] sia studiata ed esposta seguendo la ricerca e la presentazione usate dal pensiero moderno », formulazione ambigua, che può intendersi nel senso di una attenzione rivolta alla capacità di comprensione degli uditori oppure di un allineamento alla forme culturali dominanti dell'Occidente.
[N.d.T.: Questa citazione si riferisce ad un'altra versione del testo, rispetto a quella pubblicata sul sito Vatican.va, sul quale appare la versione corrispondente a quella francese, vedi link sopra. Non volendo, ci troviamo di fronte ad un dilemma: dello stesso discorso circolano due versioni diverse: questa riporta la versione citata dal Prof. Dumont. Non faccio commenti, ma se si confrontano le due versioni e non solo per il punto in questione, la cosa è piuttosto intrigante].
Sul sito papagiovanni.com è disponibile il documento in pdf (testo originale dell'Allocuzione di Giovanni XXIII), che consente di confermare la discrepanza; cito: «... studiata ed esposta attraverso le forme dell'indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno ».] E la cosa non finisce qui, perché il testo spagnolo presente sul sito Vatican.va conserva la formulazione riscontrata dall'originale italiano : « ...estudiando ésta y exponiéndola a través de las formas de investigación y de las fórmulas literarias del pensamiento moderno. »  

Anche se nella Allocuzione di Paolo VI di apertura della II Sessione del Concilio, il 23 settembre, è riportata come citazione la dicitura più blanda e generica, una riflessione comunque si impone, soprattutto in rapporto all'intera costruzione della frase.

Trascrivo l'incipit del punto 3. dell'Allocuzione, che ha il titolo: Omaggio alla memoria di Giovanni XXIII - « 3 . Tu inoltre hai radunato i Fratelli, successori degli Apostoli, perché fossero ripresi gli studi interrotti e le leggi lasciate in sospeso, ed anche perché essi si sentissero uniti in un unico corpo con il Sommo Pontefice e da lui ricevessero forza e direzione perché «il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace». Ma a questo più nobile scopo del Concilio hai unito anche l’altro, quello cosiddetto pastorale, che al presente sembra più pressante e più propizio del primo. Hai infatti ammonito:
« Il nostro lavoro non consiste neppure, come scopo primario, nel discutere, alcuni dei principali temi della dottrina ecclesiastica [e così richiamare più dettagliatamente quello che i Padri e i teologi antichi e moderni hanno insegnato e che ovviamente supponiamo non essere da voi ignorato, ma impresso nelle vostre menti.... ] », ma piuttosto che essa « sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi ».
In ogni caso, pur nella sua formulazione attenuata, è dunque già qui, in nuce, il principio inaudito nella storia secolare della Chiesa, che non fonda più la ragione del credere sulla Rivelazione, sul pensiero dei Padri e sul munus dogmatico che custodisce e garantisce la certezza della verità insegnata, ma sul metodo dell'indagine autonoma del nuovo-soggetto Chiesa, improntata al soggettivismo personalista, con la conseguenza che si è arrivati a sostituire al Signore-Rivelante la Chiesa-dialogante e le sue dottrine cangianti con l'evolversi nel e del tempo! Mascherarlo con parole attenuate non serve a nulla, anche perché stiamo raccogliendo i frutti delle applicazioni corrispondenti!

sabato 22 dicembre 2012

Il Papa perdona Gabriele che ora è libero

Una nota della Santa Sede ha comunicato che proprio oggi il Santo Padre ha incontrato Gabriele:

«Questa mattina il Santo Padre Benedetto XVI ha fatto visita in carcere al Sig. Paolo Gabriele, per confermargli il proprio perdono e per comunicargli di persona di avere accolto la sua domanda di grazia, condonando la pena a lui inflitta. Si è trattato di un gesto paterno – prosegue la nota – verso una persona con cui il Papa ha condiviso per alcuni anni una quotidiana familiarità. Successivamente, il Signor Gabriele è stato scarcerato ed è rientrato a casa». Ed ora « benché non possa riprendere il precedente lavoro e continuare a risiedere in Vaticano, la Santa Sede, confidando nella sincerità del ravvedimento manifestato, intende offrirgli la possibilità di riprendere con serenità la vita insieme alla sua famiglia ».

Il Cardinal Darío Castrillón Hoyos spera che per l'anno della Fede la FSSPX si ricreda e trovi un accordo con la Santa Sede

Questa notizia diffusa oggi da le Forum Catholique, riprende un'agenzia di stampa spagnola che dà risalto ad una recente intervista del Cardinal Castrillón Hoyos. Purtroppo nulla di nuovo - dal momento che il pensiero del Cardinale è ben noto - se non la riapertura di un discorso che sembrava accantonato indefinitamente, ma non senza i luoghi comuni nei confronti della Fraternità. Il fatto è che la questione torna alla ribalta; purtroppo accompagnata dal solito 'mantra' del Concilio...

ROMA, 21 Dicembre 2012 (ACI/EWTN Noticias).- Il Cardinal Darío Castrillón Hoyos spera che per l'anno della Fede la Fraternità San Pio X si ricreda e trovi un accordo con la Santa Sede per trovarsi presto in piena comunione con la Chiesa di Roma.

Il Cardinal Hoyos è un punto di riferimento in materia di ecumenismo ed è stato lui, dal Vaticano, a dirigere in passato i colloqui e le trattative con i lefebvriani. È stato insieme a lui che il Papa ha revocato nel 2009 la scomunica che pesava sui vescovi ordinati da Mons. Marcel Lefebvre.

“Ho una grandissima speranza che molto presto si verificherà la piena riconciliazione con la Fraternità di San Pio X”, ha dichiarato il Cardinal Hoyos lo scorso 14 dicembre in una intervista concessa a Roma ad ACI Prensa.

Bisogna ricordare che la FSSPX si trova in posizione scismatica dalla Chiesa dal 1986, quando Lefebvre ordinò quattro vescovi senza l'autorizzazione di Papa Giovanni Paolo II, provocando la scomunica di quanti parteciparono alla cerimonia.

Il Cardinal Hoyos, che è stato Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha anche dichiarato che l'Anno della Fede può servire come impulso per portarci tutti ad una cosa: “a camminare con Gesù, a camminar con Gesù con il verbo eterno fatto carne nel grembo di Maria. Siano con lui, egli non ci abbandona, perché egli non è un ricordo, non è come un profeta che ricordiamo, egli è il profeta risorto, Egli è il Signore risorto, il padrone della vita e della morte”.

“In ciò consiste la cosa più grande della nostra fede cattolica, siamo uniti in Gesù figlio di Maria, in Gesù, uguale al Padre e allo Spirito Santo, per quanto riguarda questo pensiamo la stessa cosa che pensa la fraternità di San Pio X”, ha aggiunto.

Nonostante negli ultimi tempi ci sia stato un avvicinamento, lo scorso novembre il Superiore Generale dee Lefebvriani, Bernard Fellay, ha rimarcato che il dialogo con la Con la Chiesa cattolica è stagnante ed allo stesso punto in cui lo ha lasciato Lefebvre ed essi pensano che la Chiesa percorra cammini troppo moderni.

Ora il Cardenal Hoyos, a 83 anni, celebra il 60° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. È sacerdote dal 1952 ed è un punto di riferimento per la Chiesa Cattolica in materia di dialogo sia ecumenico, che per la pace, ha avuto il ruolo di dialogo tra il governo colombiano e le FARC.

In questa linea, nel 2002 il Porporato è riuscito a superare uno scisma con un altro gruppo allontanatosi dalla Chiesa, la Fraternità Sacerdotale San Giovanni Vianney, che è entrata in piena comunione con Roma dopo aver riconosciuto la legittimità del Concilio Vaticano II e del Novus Ordo Missae, due elementi fondamentali della Chiesa Cattolica odierna che i lefebvriani continuano a negare.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

venerdì 21 dicembre 2012

P. Giovanni Cavalcoli, OP. Il peccato originale secondo il Card. Ravasi

Un testo da conoscere. Fonte: Riscossa cristiana

Il Card. Gianfranco Ravasi è oggi uno dei membri più in vista del Sacro Collegio, uomo di vasta cultura, brillante scrittore ed oratore, particolarmente impegnato, come sappiamo, nel dialogo con non-cattolici, non-cristiani e non credenti, sensibile ai temi di fondo della ragione e della fede, temperamento di poeta che però non dimentica le esigenze del rigore scientifico che si addice alla teologia.

Di recente ha pubblicato per i tipi della Mondadori un libro dal titolo Guida ai naviganti. Le risposte della fede: una guida, scritta con stile sciolto e avvincente, per affrontare con serietà le questioni più profonde dell’esistenza e della vita. Viene un po’ in mente la famosa Guida dei perplessi del grande filosofo ebreo medioevale Mosè Maimonide, ammirato da S. Tommaso d’Aquino.

Non intendo qui fare un recensione del libro. Voglio solo fermarmi su di un punto dottrinale di capitale importanza trattato dall’illustre e dinamico Porporato: la questione del racconto biblico della creazione dell’uomo e del peccato originale.

Devo dire con tutta franchezza che grande è stata la mia sorpresa, sia detto ciò con tutto il rispetto dovuto a un Principe della Chiesa, quando ho letto, a proposito di questo famosissimo racconto, che esso “è un’apparente narrazione storica, con eventi e una trama, che hanno però un valore simbolico, filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale” (p.45).

Si tratterebbe, come dice anche Karl Rahner, di un’“eziologia metastorica”, ossia di un genere letterario antico, che per mezzo del racconto di un mito riferito al passato, intende istruirci su di una condizione dell’uomo che riguarda il presente, anzi una condizione “metastorica”, quindi qualcosa che riguarda l’uomo come tale, indipendentemente dai tempi e dal corso della storia. Insomma, un modo di far filosofia ricorrendo alla narrazione, anziché a concetti speculativi.

Lo scritto del Cardinale prosegue poi sullo stesso tono: “lo scopo” (del racconto biblico)  “non è tanto quello di spiegare cosa sia successo alle origini, ma di individuare chi è l’uomo nel contesto della creazione: è, allora, una ‘metastoria’, ossia è il filo costante sotteso a eventi, tempi e vicende storiche umane. Si risale all’archetipo … non per narrare  cosa sia accaduto nel processo di ominizzazione in senso scientifico o per scoprire gli atti di un singolo individuo primordiale, ma per identificare nella sua radice iniziale lo statuto permanente di ogni creatura umana” (ibid.).

Sono rimasto molto sorpreso davanti a simili affermazioni, anche se so che oggi sono condivise da molti. Ma, come sappiamo, la verità di fede non dipende dal consenso della maggioranza, ma dalla retta interpretazione della Parola di Dio che ci è garantita dal Magistero della Chiesa.

Che il racconto genesiaco faccia riferimento a una condizione dell’uomo che copre tutto il corso della storia, non c’è alcun dubbio, come pure non c’è dubbio che alcuni elementi sono evidentemente ingenuamente mitologici, come c’è da aspettarsi da una cultura primitiva come quella dell’agiografo. Ma la Chiesa ha sempre insegnato che in questa congerie di fatti, di immagini, di quadri e di elementi occorre saper discernere con somma saggezza, sotto la guida dello stesso Magistero, ciò che è mitico da ciò che è storico, ciò che è inventato da ciò che è realmente accaduto, ciò che è simbolico da ciò che va preso alla lettera.

Ora non è difficile venire a sapere, per chi voglia informarsi, che il suddetto racconto, nella sua sostanza, non è per nulla un mito inventato per spiegare una situazione attuale, benchè di fatto il racconto spieghi ottimamente tale situazione; ma, come dice lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica, erede di una millenaria tradizione dogmatica, “il racconto della caduta (Gn 3) … espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all’inizio della storia dell’uomo” (n.390) (in corsivo nel testo, quasi a sottolineare l’importanza dell’affermazione), ossia un fatto che è oggetto della divina Rivelazione, quindi, come tale, verità di fede indispensabile per la salvezza.

Inoltre il Catechismo, a più riprese, nei parr. 6 e 7 del cap. I, in perfetta linea con la Tradizione e la Scrittura, fonti della Rivelazione che ci è mediata dalla Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento sino allo stesso Concilio Vaticano II, ricorda come l’umanità ha avuto inizio da una coppia, - Pio XII nella Humani Generis respinge il poligenismo - la quale, caduta nel peccato per istigazione del demonio, ha trasmesso questa colpa - la colpa originale - a tutta l’umanità per via di generazione, colpa dalla quale siamo liberati dalla grazia del Battesimo.

Dunque netta distinzione fra il peccato personale - il “peccato” nel senso corrente della parola -, la cui colpa resta nel colpevole, e il peccato originale, la cui colpa è trasmessa ai discendenti. Il peccato dei progenitori è stato un peccato personale, ma nel contempo ha avuto il carattere di una colpa che si è trasmessa ai discendenti: peccato originale (originante).

Indubbiamente la Bibbia non è un trattato di paleoantropologia, per cui da essa non possiamo attenderci alcuna informazione su quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dalle origini ad oggi e neppure c’è l’ombra di una derivazione dell’uomo dalla scimmia. Anzi, il quadro della coppia edenica, nobilissima, sapientissima, bellissima, sanissima, immortale, perfetta nella virtù, signora del creato, felice, in comunione con Dio, ci fa pensare che fosse stata dotata da Dio di un corpo nobilissimo, ben superiore a quello della scimmia, benchè Pio XII nella medesima Humani Generis non escluda l’ipotesi che quanto al corpo i progenitori possano essere provenuti da un vivente precedente inferiore (ex iam exsistenti ac viventi materia, Denz.3896), salva restando la verità di fede che comunque l’anima spirituale dev’essere considerata come immediatamente creata da Dio, con buona pace di Vito Mancuso.

Invece nell’interpretazione del Card.Ravasi il peccato sembra essere spiegato semplicemente col libero arbitrio dell’uomo capace di operare il bene come il male, ma sembra totalmente assente la vera condizione di miseria nella quale ognuno viene al mondo, ossia quello stato di colpa, che si chiama colpa originale o peccato originale originato, derivante per generazione dai nostri progenitori.

Nella visione del Cardinale resta quindi inspiegata l’esistenza delle pene della vita presente nelle loro molteplici e tragiche forme, e l’innata, a volte irresistibile, tendenza al peccato esistente in ognuno di noi, anche i più buoni, tendenza dalla quale, come insegna la nostra fede, sono stati esentati solo Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria, il primo in quanto Figlio di Dio, la seconda in quanto preservata, come è ben noto, per specialissimo privilegio, dalla macchia della colpa originale. Se tutti nasciamo buoni, dove va a finire il privilegio di Cristo e della Madonna? Se tutti siamo originariamente, necessariamente, sempre e inevitabilmente in grazia, dove va a finire il privilegio di Maria? E che ne è del peccato come assenza o perdita della grazia?

Invece la Scrittura è chiarissima nel raccontare come il peccato dei progenitori li ha esclusi dal paradiso terrestre privandoli di quei preziosi beni che possedevano nello stato d’innocenza e nel farci comprendere come la serie infinita di pene che da allora affligge l’umanità sia causata, nella sua prima radice, dall’avverarsi di quel castigo che Dio aveva minacciato ai progenitori e alla loro progenie nel caso avessero disobbedito al comando divino di non “mangiare dell’albero del bene e del male”.

E’ chiaro che tantissimi mali sono poi causati dai peccati personali dei singoli, eventualmente ancora sotto l’istigazione di Satana, ma anche questi peccati sono resi possibili dal fatto storico del peccato originale dei nostri progenitori all’origine della storia dell’uomo. “La morte - come dice S.Paolo - è entrata nel mondo a causa del peccato”.

Nella concezione di Ravasi sembra invece che ognuno di noi sia creato naturalmente buono ed innocente, come nella concezione di Jean-Jacques Rousseau, e che possa corrompersi soltanto per una sua volontaria malizia o per l’influsso negativo della società. Ma allora a questo punto ci si chiede: a che serve la grazia cristiana della remissione dei peccati, a che serve il Battesimo, se ognuno di noi ha in sé la forza e la possibilità di osservare la legge divina e di conseguire la virtù, purchè lo voglia?

O forse che ognuno possiede la grazia sin dalla nascita senza mai perderla, come crede Rahner? O forse la grazia è Dio, sicchè l’uomo in grazia in fin dei conti è Dio? Oppure l’uomo, essere sostanzialmente divino, come insegna la filosofia indiana, prende coscienza di tale sua divinità al termine di un opportuno cammino sapienziale di autopurificazione (yoga)? Dove egli allora si distingue da Gesù Cristo? Forse che egli diventa identico a Cristo, come pensava appunto Meister Eckhart che concepiva così la vita di grazia?

Bisogna dire con tutta franchezza che questa concezione è in contrasto con la visione cristiana e combacia invece con le concezioni razionalistiche o naturalistiche o gnostiche, come per esempio la massoneria, il laicismo, il liberalismo, l’idealismo, l’esoterismo, il marxismo o il positivismo, dove il problema del male non è risolto per un intervento sanante della grazia di un Dio trascendente, ma per il fatto che l’uomo o è un essere originariamente divino o per il semplice moto dialettico della ragione o per la forza della volontà o le risorse della scienza, della tecnica e della politica.

Ma se l’uomo nasce già buono e volto verso Dio e il peccato è un semplice incidente di percorso o è sempre e comunque perdonato o può convivere benissimo con la grazia o è il polo dialettico della dinamica della storia, a che la predicazione del Vangelo? A che l’esortazione alla penitenza e alla conversione? Che senso ha la Redenzione di Cristo? E la preghiera? E la Chiesa? E i sacramenti? E come e perché raggiungere la resurrezione e la vita eterna? Che cosa diventa la santità? Non è sufficiente per ogni evenienza il “dialogo” e la buona volontà?

Da qui vediamo che la negazione o la deformazione o la decurtazione della dottrina cattolica della creazione della coppia primitiva e la dottrina del peccato originale, crea un processo a catena di negazioni, per le quali alla fine del cristianesimo non resta più nulla se non un’illusoria autodivinizzazione dell’uomo o un vago umanesimo, utopistico, relativista ed incapace di condurre gli uomini alla giustizia ed alla felicità.