Pagine fisse in evidenza

martedì 29 gennaio 2013

Intervista al giovane regista del Film-documentario: Marcel Lefebvre un vescovo nella tempesta.

Interessanti informazioni di prima mano:

A cinquant'anni dal Concilio Vaticano II, a pochi mesi dagli ultimi colloqui tra Roma e la Fraternità San Pio X, un giovane regista, Jacques-Regis du Cray, torna sulla personalità del suo fondatore, il vescovo francese Marcel Lefebvre, in un documentario che mescola testimonianze e immagini d'archivio, “Monsignor Lefebvre, un vescovo nella tempesta”. Un documento essenziale per comprendere la nascita di una contestazione che quarant’anni dopo non è cessata e che, a suo tempo, aveva puntato le cineprese del mondo intero sulla Svizzera e sul Vallese. 

Intervista

Les Observateurs – Perché una biografia di Marcel Lefebvre a cinquant'anni dal Concilio Vaticano II? Chi è Lefebvre per Lei? Lei presenta un lavoro d'archivio dei più completi: quanto tempo le hanno richiesto le ricerche?

Jacques-Regis du Cray – Questa concomitanza non era calcolata, è puramente fortuita. Gli inizi di questo progetto risalgono al 2005. Il vero varo delle riprese e della redazione del testo è iniziato nella primavera 2009. All’inizio, pensavamo al ventesimo anniversario della morte di Mons. Lefebvre, scomparso il 25 marzo 1991, per far apparire il nostro film documentario. Sono dei ritardi che ci hanno portato a terminare nel settembre 2012. Che ciò sia in coincidenza con l'epoca in cui si sarebbe commemorato il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Vaticano II non è che una strizzatina d'occhio della storia. Quanto  a me, sono nato nel 1981: di conseguenza, non avevo ancora dieci anni quando è morto Mons. Lefebvre. Dunque l'ho conosciuto essenzialmente attraverso i libri, le testimonianze e, naturalmente sì, consultando tutte le interviste e i servizi che la televisione gli ha consacrato e che sonnecchiano nei depositi d'archivio audiovisivi.

L’accesso agli archivi Le è stato facilitato o, al contrario, reso più difficile a causa del soggetto?

Bisogna sapere che i fondi di archivi audiovisivi sono intrattenuti dai diritti che i produttori versano quando utilizzano delle sequenze dei film che essi conservano. Di conseguenza chi li detiene, si tratti di istituzioni pubbliche o di società private, non sono riluttanti davanti ad alcun progetto. Molti privati hanno prestato di buon grado i film da loro stessi girati, sia in Africa, sia in Francia o in Svizzera. Non c'è mai stato bisogno di forzarli o di pagarli.

I testimoni sono di ogni parte: ha incontrato reticenze, subito rifiuti da parte di persone interpellate?

Effettivamente, la metà dei trentadue testimoni è costituita da persone che non hanno seguito l'itinerario di Monsignor Lefebvre a partire dagli anni ’70, l'altra parte era composta da persone che hanno condiviso le sue posizioni. Benché non avessimo mai dissimulato l’intenzionalità di questo equilibrio numerico tra le persone interrogate, non ci sono stati che pochissimi rifiuti. In Africa i testimoni – al contrario – si accalcavano, tanto che abbiamo dovuto decidere di selezionarli. Un prelato di Curia ha declinato la proposta, senza dubbio in imbarazzo per la sua posizione. Due preti che hanno iniziato l'avventura tradizionalista ma che si sono rapidamente sottratti hanno preferito non intervenire. Uno esitava, l'altro ha detto semplicemente che lui aveva voltato pagina. Bisogna essere consapevoli che alcuni contemporanei di Monsignor Lefebvre hanno dovuto porsi scelte dolorose che spesso hanno lacerato la loro vita. Era nostro dovere saper rispettare la distanza che essi desideravano conservare.

Le testimonianze sono tutte, nell'insieme, favorevoli. Cosa risponde a chi l'accusa di aver puntato all'agiografia?

Effettivamente, in questo film non si trovano le descrizioni comunemente veicolate di un Monsignor Lefebvre chiuso e intrattabile perché bisogna riconoscere che l'icona di “vescovo di ferro”  forgiata dai giornalisti non esiste presso coloro che hanno conosciuto da vicino il fondatore della Fraternità San Pio X, che era piuttosto premuroso nei confronti di chi gli era vicino. Siamo stati attenti a non enfatizzare le lodi provenienti dai suoi preti. Ma anche presso coloro che non condividono del tutto gli atti che ha compiuto durante gli ultimi decenni della sua vita, si trova una certa ammirazione e, pertanto, una lacerazione. “Io ho amato il personaggio”, ci confidava un vecchio spiritano, “ma non le sue idee”. Un altro, che sfoggiava una camicia a fiori, agli antipodi del pensiero di Marcel Lefebvre, ci ha confidato che lo considerava un santo. Non abbiamo voluto far apparire questa testimonianza perché ci è sembrata troppo soggettiva. Facevamo un film storico, non un processo di canonizzazione.

Lei raccoglie testimonianze preziose della presenza di Monsignor Lefebvre in Africa. Togliendo alcuni ricordi, cosa resta della sua azione in Senegal e nel continente?

Come arcivescovo di Dakar e come delegato apostolico per l'Africa francofona, cioè come personaggio di primo piano della Chiesa sul continente nel corso degli anni ’50, Monsignor Lefebvre ha lasciato una bella eredità, nelle fondazioni e nelle strutture chi questa giovane cattolicità che continua a prosperare. I cristiani d'Africa ne sono consapevoli? Senza dubbio è necessario fare delle distinzioni. In Gabon, dove è stato missionario per quindici anni e in cui la messa tradizionale ha cominciato ad essere celebrata di nuovo dagli anni ’80, questo ricordo è sempre ben vivo negli spiriti. In Senegal, gli “anziani” coltivano discretamente la devozione per colui che era il loro arcivescovo, ma far riemergere la sua memoria spesso solleva dei tabù. Tant'è vero che anche la messa tradizionale, nel quadro del Motu Proprio Summorum Pontificorum che permette la celebrazione della liturgia tridentina, non è stata ancora permessa. Nelle capanne  dei luoghi più remoti del paese, la foto dell’arcivescovo sono ancora affisse con venerazione sui muri…

Nel Suo film viene presentata la figura di un altro prelato della Chiesa africana che è anche e soprattutto un seguace della nuova evangelizzazione dell’Africa, un uomo che per instaurare il “regno di Dio” e opporsi all’avanzare del comunismo in Africa, ha fatto prova di un autentico pragmatismo liberale. Si è ben lontani dall’immagine del piccolo vescovo segretario aggrappato al suo conservatorismo. Cos’è cambiato?

Bisogna prestare attenzione ai termini che si utilizzano. Monsignor Lefebvre ha senza dubbio dimostrato un pragmatismo “liberale” nel senso che ha fatto uso di liberalità, certamente non di liberalismo. Per lui, già nei suoi scritti degli anni ’50, la libertà come fine, ossia il liberalismo, è condannabile. Sosteneva questa opinione appoggiandosi su tutte le encicliche antiliberali del XIX e dell’inizio del XX secolo. Indubbiamente il pragmatismo di Monsignor Lefebvre è una delle sue principali doti, che egli ha sempre dimostrato nel corso di tutta la sua vita. Sapeva adattarsi alle condizioni dei contesti che gli erano affidati. Se fosse stato un intransigente dottrinario, considerando la disciplina un obiettivo in sé e per sé, il movimento tradizionale non avrebbe mai avuto presa e la Fraternità San Pio X non sarebbe oggi nient’altro che una piccola comunità religiosa composta da una decina di persone. Tanto prima del Concilio come dopo di esso, Marcel Lefebvre è sempre stato intransigente sui principi che animavano i Papi dei suoi tempi e allo stesso tempo sapeva adattarsi alle circostanze a lui attuali. Per esempio, egli ha sperimentato diverse vie, nelle sue difficili relazioni con Roma, spingendosi fino al punto di negoziare largamente su quanto non gli sembrava dettato dalla fede.

Dopo il ritorno di Monsignor Marcel Lefebvre in Europa e la sua nomina come capo degli Spiritani, il clima ecclesiastico sembra assumere una svolta tragica. Lei pensa sinceramente che la Chiesa sia potuta cambiare così radicalmente in così poco tempo? A volte sembra di capire che secondo Lei degli improbabili anticlericali si siano approfittati delle novità portate dal Concilio per distruggere la Chiesa dall’interno, che tutto cambia meno la convinzione di Marcel Lefebvre. È verosimile? 

La descrizione di un’infiltrazione d’anticlericali in seno alla Chiesa è un po’ eccessiva. Ciò non toglie che, da un punto di vista oggettivo, la rottura che ha costituito l’epoca conciliare nella Chiesa è stata molto profonda, tanto che, più di quarant’anni dopo il Vaticano II, un Papa ha ritenuto opportuno affermare – col rischio di sorprendere gli osservatori – che bisogna tornare a un’ermeneutica della continuità. E in effetti i cambiamenti hanno modificato tutti gli aspetti della vita della Chiesa: la liturgia, il breviario, i canti della messa, il catechismo, i vestimenti religiosi, la struttura della Chiesa, il modo di governare nel suo seno, i rapporti con le altre religioni, quello con le autorità civili, il ruolo dei fedeli, etc. Tutti gli ambiti potrebbero essere offerti come esempi: tutti sono stati coinvolti. Si prenda come esempio encicliche degli anni ’20 come Quas Primas, che afferma che i governanti devono riconoscere Cristo, o come Mortalium Animos, che proibisce gli incontri interreligiosi. Questi testi del magistero, quarant’anni più tardi, sembrano essere sorpassati. Lefebvre, da parte sua, ha voluto mantenere gli insegnamenti che gli erano stati trasmessi all’epoca della sua formazione. Come si può spiegare, in questo contesto, che tutti gli altri vescovi abbiano deciso di cambiare? Tutti, non qualcuno. Molti condividevano le convinzioni di Monsignor Lefebvre, ma per esporsi pubblicamente bisogna essere dotati di un coraggio fuori dal comune. D’altro canto, l’episcopato che ha fatto il Concilio era composto dalla generazione traumatizzata dai conflitti mondiali. La ricerca della pace a tutti i costi ha fatto sì che s’ignorassero molte delle dottrine insegnate a suo tempo. Ma questa non è altro che una delle tante spiegazioni possibili. 

Lei rappresenta la Chiesa postconciliare in toni alquanto foschi: una Chiesa distrutta e un vescovo scandalizzato dalla riunione d’Assisi. Ma secondo Lei, colui che era stato tanto conciliante di fronte ai pericoli del comunismo in Africa, non è diventato troppo rigido di fronte alle necessità di dialogo del tempo presente?

Il film è incentrato sulla vita di Monsignor Lefebvre. La preoccupazione che l’evoluzione della Chiesa ha destato in lui è il movente che l’ha portato ad agire. Il documentario fa una rapida mostra delle mutazioni avvenute – senza peraltro rappresentare gli abusi più stravaganti – riassumendo in pochi secondi o minuti alcune modifiche nella liturgia, nella vita dei seminari o nei rapporti con le altre religioni, realtà tutte che hanno messo in allarme Monsignor Lefebvre e l’hanno portato ad aprire il seminario d’Ecône. Certo, l’incontro per la pace di Assisi del 1986 ha rappresentato uno stravolgimento ai suoi occhi. Ma egli era molto intransigente a proposito delle relazioni con le altre religioni già negli anni ’50. Come arcivescovo di Dakar, dovette riprendere alcuni dei suoi sacerdoti, che avevano organizzato una cerimonia ecumenica in sua assenza. I sacerdoti spiritani che abbiamo intervistato ci hanno confidato che la posizione di Monsignor Lefebvre era allora conforme alle norme dell’epoca. Ancora una volta, bisognerebbe riflettere sul fatto che l’evento di Assisi sarebbe stato impensabile prima del Vaticano II. L’enciclica di Pio XI, Mortalium Animos (1928), che abbiamo appena citato, venne pubblicata quando il giovane Marcel si trovava nel seminario francese di Roma. Essa afferma che nessun cattolico può prendere parte a congressi che, composti da rappresentanti di religioni diverse, mirino a favorire la pace: “solidarizzare con i sostenitori e i propagatori di tali dottrine”, ammonisce il testo, “significa allontanarsi completamente dalla religione rivelata da Dio”. Monsignor Lefebvre era profondamente impregnato di questi documenti papali.

Il 1974 sembra rappresentare l’anno della transizione dal dialogo instaurato da un Concilio risolutamente “aperto” e “pastorale” a un rifiuto totale della benché minima opposizione. Com’è possibile che un vescovo in pensione, fiancheggiato da alcuni seminaristi, sia divenuto il simbolo di una sorta di resistenza all’“evoluzionismo” nella Chiesa?

Non sono sicuro che si possa definire l’immediato post-Concilio come un periodo pacifico. In Francia, la crisi d’identità dei sacerdoti e dei religiosi era molto forte. Quindicimila di loro hanno abbandonato le loro funzioni tra gli anni ’60 e ’70. Non si tratta di un fatto casuale. Nei posti chiave, i prelati che avevano idee conservatrici sono stato rimpiazzati poco a poco. Monsignor Lefebvre vedeva in questo stravolgimento un adattamento troppo accentuato al mondo. Non bisogna attendere gli anni ’70 per vedere confermata quest’idea. Già durante il Concilio Monsignor Lefebvre aveva dovuto darsi da fare con centinaia di confratelli per mantenere la dimensione tradizionale della Chiesa.

Così, i vescovi francesi, in genere molto favorevoli alle riforme conciliari, sono stati molto reticenti agli sviluppi d’Ecône. Erano tanto abituati all’adattamento della Chiesa in quell’epoca, che per loro essi rappresentavano un allontanamento troppo radicale dagli altri settori della Chiesa. Hanno chiuso le porte molto presto ai sacerdoti che uscivano da un seminario che sembrava loro andare contro tutte le loro aspirazioni. Già nel 1971 Monsignor Ménager, vescovo di Meaux, aveva avvisato uno dei suoi sacerdoti dicendogli: “Faremo proibire la Messa di San Pio V da Papa Paolo VI: o Monsignor Lefebvre obbedirà al Papa celebrando la nuova messa, o lo spingeremo allo scisma!”. Quando si consideri che la messa tradizionale è permessa ancor oggi ai sacerdoti di tutto il mondo, si ottiene la misura di quale danno ha costituito la proibizione drastica e senza concessioni di allora, che non ha fatto altro che disorientare delle anime e portarne più d’una a un abbandono della pratica religiosa.

Va da sé che la figura di Monsignor Lefebvre, che aveva esercitato già il suo carisma in Africa, abbia catalizzato tutti i desideri di mantenere le norme tradizionali di fronte a una linea riformatrice che pretendeva di essere esclusiva. A suo favore gioca il fatto che la sua personalità smentiva i cliché. Ci si aspettava un uomo dal pugno di farro, ma egli era piuttosto attento e misurato. Ci si immaginava un uomo imbevuto d’estremismo di destra, mentre è sempre stato restio a immischiarsi con i clan partigiani, e suo padre è morto deportato. Lo si credeva marginale: è stato il principale personaggio di Chiesa in Africa.

La messa, tanto per Monsignor Lefebvre come per Roma, era veramente il problema centrale? Com’è possibile che Roma abbia pronunciato tante interdizioni e sanzioni per poi tornare con tanta naturalezza, qualche anno più tardi, al vecchio messale tridentino?

Diciamo che la messa ha rappresentato la parte visibile dell’iceberg. La liturgia sintetizza tutta la fede. Un adagio del quinto secolo – Lex orandi, lex credendi –, ripreso da Papa Celestino I, indica che il modo in cui si prega riflette quello in cui si crede. E quando Paolo VI ha detto al suo entourage che non avrebbe accettato alcun permesso di celebrare col vecchio messale, perché ciò avrebbe svalutato l’opera del Concilio, sapeva bene che esiste uno stretto legame tra la preghiera e la fede. Indubbiamente ciò è anche il senso di quanto Monsignor Lefebvre ha dichiarato nel 1976: “è chiaro, è netto che è sul problema della messa che si gioca tutto il dramma delle relazioni tra Ecône e Roma”.

Sono passati anni, e le autorità della Chiesa hanno visto senza possibilità d’equivoco che era difficile revocare il titolo di “cattolici” a quanti pregavano con la vecchia versione del messale romano. Col tempo, quanti avevano posto il loro amor proprio nelle modifiche conciliari sono cominciati a sparire. Sembra pertanto più facile pervenire a un appianamento del problema che, anche se si fonda su una reale divergenza di fondo, porta in sé anche molti elementi emotivi.

Nel Suo film si fa capire che il Concilio Vaticano II ha sancito la “fine delle missioni”: in che senso?

Il film riporta le dichiarazioni di Monsignor Lefebvre all’annuncio dell’incontro di Assisi. Si dice che si sia messo le mani sul volto e abbia esclamato con dolore: “è la fine delle missioni”. Effettivamente, lui che era stato missionario per decenni ha sempre visto le anime che non avevano avuto la grazia di essere toccate dalla fede come i destinatari di una nuova evangelizzazione. Ma persino lui non forzava mai nessuno. Per esempio, accoglieva bambini musulmani nelle scuole del Dakar, ma moltiplicava le loro possibilità di conoscere e amare Gesù Cristo. Ora, nell’ottica del dialogo nata col Concilio, non si cerca più di evangelizzare veramente. Non si cerca più il bene immediato dell’anima ma la risoluzione di problemi temporali, come la pace nel mondo, gli scambi interculturali, la convivenza. Il fatto che si sia perso di vista il bene delle anime e la necessità di dar loro tutte le opportunità per arrivare a Gesù Cristo era impensabile per Monsignor Lefebvre. Egli pensava che pur non forzando le anime non si potesse trascurare il dovere di portar loro Cristo. 

Secondo Lei, perché è stata scelta la Svizzera – Friburgo – e poi il Vallese, due regioni piuttosto isolate? La Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX) non avrebbe potuto nascere e svilupparsi in Francia, dove conta del resto la maggioranza dei suoi fedeli?

Questa localizzazione è dovuta a motivi storici. I cantoni svizzeri forniscono molte vocazioni ai Padri del Santo Spirito di cui Monsignor Lefebvre è stato superiore generale a partire dal 1962. Egli è venuto più volte in Svizzera dove ha per esempio inaugurato la casa di Bouveret. In seguito, ha mantenuto i contatti con dei sacerdoti che vivevano in quelle regioni. Era per esempio strettamente legato ai vescovi di Friburgo e di Sion, i Monsignori Charrière e Adame, che aveva avuto l’occasione di conoscere in precedenza. Ed è grazie al loro consenso che egli ha fondato la Fraternità San Pio X nella diocesi del primo – la cui università era ancora permeata di idee tradizionali – e il seminario d’Ecône in quella del secondo. Sarebbero state possibili questi insediamenti in Francia? La pressione delle alte sfere del vescovato non sarebbe stata probabilmente così clemente, anche se Monsignor Lefebvre era legato a qualcuno dei suoi membri. Tuttavia, un buon numero di essi – come Monsignor Morilleau, vescovo di La Rochelle – dovette abbandonare il proprio posto solo un mese dopo la fondazione della FSSPX.

Lei conosce bene i dissensi che si sono creati all’interno della FSSPX di fronte all’eventualità di un ritorno all’obbedienza a Roma. Mentre in passato Monsignor Lefebvre ha dovuto disobbedire a malincuore, i suoi successori dovranno forse obbedire a malincuore? Secondo Lei, lo zoccolo duro dei sacerdoti e dei fedeli che hanno conosciuto gli inizi della Fraternità e che hanno condiviso ogni sua lotta, è pronto ad accettare questa sorta di rinuncia che lo riporterà nella sfera romana?

Le cose non sono così semplici. La storia della Fraternità è stata costellata di tentativi di regolarizzazione. Il più celebre di essi è stato quello del 5 maggio 1988: Monsignor Lefebvre ha firmato ma poi, ritenendo che non ci fossero sufficienti garanzie, è ritornato sui suoi passi il giorno dopo. La questione di fondo, agli occhi di quanti seguono Monsignor Lefebvre, risiede nella garanzia di poter coltivare dei luoghi di culto tradizionale. Non c’è un rifiuto a priori di sottomettersi all’autorità di Roma, e non c’è quindi una dinamica scismatica nell’impegno di Monsignor Lefebvre e dei suoi successori. Tuttavia, c’è una certa reticenza a cadere sotto il controllo di vescovi che potrebbero avere come fine quello di non lasciarli liberi di adottare come prima la liturgia e il catechismo tradizionali.

Dove si può trovare il Suo film?

Lo si può ordinare sul sito www.monseigneurlefebvre.org o scrivendo all’ADPC, presso M. Peron, 3, rue de l’Église, 63500 Issoire (France). Il prezzo del DVD è di 13,90 euro (12 euro + 1,90 euro di spese di spedizione).
( - In Italia, scrivere al Priorato di Albano: albano@spiox.it - ndR)
________________________________________
Fonte: lesobservateurs.ch - 24 gennaio 2013 (Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio)

2 commenti:

  1. Scusate l'off topic, ho letto che il Papa ha chiesto ai giudici della Sacra Rota di valutare ed approfondire il tema relativa alla mancanza di fede quale causa di nullità matrimoniale (articolo di Tornielli sulla Nuova Bussola).
    Qualcuno ne sa qualche cosa ?
    Mic se ritieni puoi approfondire ?
    mi sembra un tema importante: la validità di un Sacramento è subordinata alla fede dei ministri dello stesso ?
    magari ho solo capito male.

    RispondiElimina
  2. Caro Marco P.
    ho pubblicato l'articolo.
    Potremo approfondire lì.

    RispondiElimina

I commenti vengono pubblicati solo dopo l'approvazione di uno dei moderatori del blog.