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giovedì 23 maggio 2013

Brunero Gherardini. Irrevocabili (le Alleanze)? Sì, ma...

Cari amici,
questo magistrale testo di Mons. Brunero Gherardini è tratto da Divinitas - Rivista internazionale di ricerca e critica teologica, Città del Vaticano, n.1/2006, pag.27-49.

Irrevocabili? Sì, ma...

Il Decreto conciliare "Nostra aetate" (Nae) dedica il lungo ed abbastanza articolato n. 4 a "la religione giudaica". In 4/d si legge che i Giudei, "Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter Patres". La dichiarazione rimanda a Rm 11,28-29 ed a "Lumen gentium" (LG) 16. Ed in effetti, LG 16 s'esprime quasi con le stesse parole: "populus ille, cui data fuerunt testamenta et promissa et ex quo Christus ortus est secundum carnem (Rm 9,4-5), populus secundum electionem carissimus propter Patres: sine poenitentia enim sunt dona et vocatio Dei (Rm 11,28-29)".

Poiché i due documenti conciliari vennero promulgati in anni diversi(1), diversa essendo pure la loro qualità di documenti conciliari, se ne deduce per un verso l'ovvietà del richiamarsi a LG da parte del posteriore Nae, e per un altro verso l'appoggiarsi di questo su quella per trovarvi conferma ed autorevolezza. Un semplice decreto, infatti, non possiede né la dignità, né l'efficacia normativa d'una costituzione dogmatica, qual è LG. Il rifugiarsi di Nae sotto il manto protettivo di LG assume, pertanto, un motivo di quasi necessità, per conferire al proprio dettato il senso inteso dalla costituzione dogmatica, il suo peso morale, la sua importanza.

Va annotato, però, che Nae 4/d (anzi, 4/c-d) e LG 16, per la loro dichiarata dipendenza da Rm 9,4-5 ed 11,28-29, non posson significare qualche cosa di diverso da ciò che significano i passi paolini cui si riferiscono.
Verifichiamo allora se le cose stiano effettivamente così, precisando in via preliminare che il presente studio, anziché esaminare le varie tematiche contenute nei due testi paolini, focalizzerà il proprio interesse esclusivamente sulle parole: "sine poenitentia sunt dona et vocatio Dei".

1 - Status quaestionis - La traduzione ufficiale di Nae 4/d e di LG 16 presenta qualche discordanza. Mentre Nae 4/d mette in evidenza che "gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento", LG 16 si riferisce a "quel popolo al quale furori dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (Rm 9,4-5), popolo, in virtù dell'elezione, carissimo per ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili Rm 11,28-29)".
Balza all'evidenza che il testo di LG 16 è poco trasparente, se non addirittura involuto: esso s'esprime sulla base di due passi paolini (Rm 9,4-5 e Rm 11,28-2) cercando di condensarne il messaggio, là dove Nae anticipa a 4/c il suo richiamo a Rm 9,4-5 ed appoggiando 4/d sull'autorità di Rm 11,28-29, esprime con chiarezza il suo pensiero. In LG 16, invece, non è chiaro perché ed a chi il popolo ebraico sia "carissimo": "carissimo a Dio", come poi preciserà Nae 4/d? forse, lo s'intuisce, ma non è detto; "in virtù dell'elezione"? "per ragione dei Padri"? per l'irrevocabilità dei doni e della vocazione di Dio? Siamo onesti: l'aver apposto una virgola dopo "popolo" ed un'altra dopo "elezione", priva la frase di senso comune e non lascia intravedere chi siano i presunti "Padri". Di essi poteva parlare liberamente Nae 4/d, avendoli già indicati in 4/c e citando alla lettera Rm 9,4-5: "quorum Patres et ex quibus Christus secundum carnem". Non avrebbe, invece, dovuto parlarne LG 16, perché l'aver confuso insieme Rm 9,4-5 ed 11,28-29 rende l'allusione ai Padri gratuita ed ambigua: gratuita, perché non sorretta da precedente individuazione; ambigua per la discutibilità della traduzione italiana che rompe, con una virgola, l'unità intenzionale del testo latino: "populus secundum electionem carissimus propter Patres". Tale testo non può assolutamente tradursi "popolo, in virtù dell'elezione, carissimo per ragione dei Padri", dove due parrebbero, ed oltretutto slegati, i motivi del "carissimo": l'elezione ed i Padri. Trattandosi non d'un popolo qualunque, bensì di quello che Dio si compiacque di scegliersi fra tutti gli altri O, individuabile appunto come "popolo eletto" (secundum electionem, cioè: conforme all'elezione), le virgole di LG 16 vanno soppresse, traendo il significato del testo dalla considerazione unitaria dell` elezione" e dei "Padri": nei Padri, infatti, avvenne quell'elezione ed a loro furori rivolte quelle benedizioni che si riversarono sui discendenti, rendendo caro a Dio il popolo, in essi eletto e benedetto.
Ciò precisato, è doveroso esaminare un'altra affermazione di Rm 11,2 trasferita di peso in LG 16 ("sine poenitentía enim sunt dona et vocatio Dei"); essa ha bisogno d'esser attentamente soppesata. Il suo trasferimento è più che legittimo perché, come consta alla retta ragione ancor prima che alla divina Rivelazione, Dio non può pentirsi delle sue decisioni, "non è un figlio d'uomo per pentirsi" (Nm 23,19) (3) ; e quando la Bibbia, come nel caso del diluvio universale (Gn 6,1-9.17), afferma che Dio s'era pentito, ricorre ad un antropomorfismo non per ridurre Dio alla dimensione umana, ma per scoprire in Lui, attraverso l'analogia dei comportamenti umani, una proprietà divina: la sua santità, la sua misericordia, la sua giustizia. Dio, dunque, non è soggetto al "sic et non" delle umane decisioni, perché decide una volta per sempre nella puntualità senza tempo del suo esser eterno.
Il problema, peraltro, è di sapere se nel testo in esame san Paolo formuli una legge generale o particolare, legata cioè o no al solo popolo eletto. A tale restrizione s'ispirano alcuni esegeti(4) del passato, anche se non mancano i sostenitori della legge generale (5). Questi non ignorano le ragioni degli altri, soprattutto la presenza degli articoli (τα Χρίσματα και η κλησις) che sembran accreditare ai soli Ebrei la continuità dell'elezione e delle divine promesse; ma, al di là di tali articoli, c'è un contesto nel quale si parla in assoluto e si stabilisce così la legge generale, di cui l'elezione degli Ebrei non è che l'applicazione particolare. A questo punto, l'attenzione è presa ancor una volta dalla traduzione. 'αμεταλμέλητον, ignorato dai LXX, ricorre due sole volte nell'epistolario paolino: nel testo in esame, Rm 11,29, ed in 2Cr 7,10. È quindi inesistente un vero contesto come punto di riferimento. Anche 2Cr 7,10 - che pur è in qualche modo indicativo - non concorre più di tanto ad illustrare Rm 11,29. Vi si legge che "il dolore secondo Dio - quello cioè provocato ai Corinzi dalla prima lettera dell'Apostolo - opera una penitenza salutare, irrevocabile: μετάνοιαν εις σωτερίαν αμεταλμέλητον". Del tutto assente è qui l'antropomorfismo e stabile, non revocabile, valida per sempre è definita la penitenza provocata nel cuore dei Corinzi dall'esser rimasti contristati dalle parole che Paolo aveva loro rivolto in nome di Dio. Soltanto antropomorfismo esprime invece Rm 11,29. Di Dio, infatti, parla come d'un uomo e nega ch'Egli si penta. La parola - αμεταλμέλητον - è usata sia nei riguardi dei Corinzi, per affermare l'irrevocabilità della loro penitenza, sia nei riguardi di Dio, per sottolineare la non ritrattabilità della sua elezione.
Una domanda insorge allora con logica urgenza: chi sono coloro a favore dei quali permane in eterno l'elezione di Dio?

2 - II contesto immediato - Se è vero che per αμεταλμέλητον non esiste un contesto, è altrettanto vero che il concetto comunicato dalla detta espressione, cioè la fedeltà di Dio alla sua Parola e l'irrevocabilità di essa, è contornato da non poche dichiarazioni contestuali, prossime e remote.
Occorre anzitutto precisare l'esatto pensiero dell'Apostolo, prima di specificarne l'intento dogmatico, nei due testi più volte qui richiamati. L'uno, Rm 9,4-5, recita: "...essi, gl'Israeliti (miei fratelli), ai quali appartiene l'adozione (a figli) e la gloria e le alleanze e la Legge ed il culto e le promesse, ai quali appartengono i Patriarchi, e dai quali nacque secondo la carne il Cristo, Lui che è al di sopra di tutte le cose Dio benedetto nei secoli".
È qui evidente la consapevolezza dell'Apostolo circa la particolare elezione del suo popolo a popolo di Dio, gratificato da doni speciali, quali l'adozione alla figliolanza divina, l'Alleanza, la Legge e le promesse della futura salvezza. Non meno viva, anzi resa più viva ancora dalla suddetta consapevolezza, è in lui l'angoscia(6) per la tremenda responsabilità di cui i suoi "fratelli e consanguinei secondo la carne" (Rm 9,3) si son resi colpevoli rifiutando Gesù. Sospinto da tale angoscia e dal profondo amore che lo lega alla sua gente, Paolo arriva addirittura ad invertire i termini: allontanarsi lui da Cristo ("esser anatema"), esser lui, paradossalmente, il "capro espiatorio" (7) messo al bando, sotto il peso dell'altrui peccato, per risparmiare al suo popolo d'esser colpito da Dio.
L'altro testo da prendere in esame è Rm 11,28-29 e vi si legge: "Rispetto all'Evangelo, nemici per vostro bene; ma rispetto al l'elezione, carissimi a causa dei Patriarchi, poiché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili". Non prendo in esame, per non andar troppo per le lunghe, la prima parte del testo e mi fermo alla seconda. Qui l'Apostolo sta parlando ai Gentili che non debbono menar vanto nei confronti degli Ebrei per essere stati acquisiti a Cristo, ma nemmeno gli Ebrei nei confronti dei Gentili per essere stati loro a ricevere l'elezione divina. Egli, tuttavia, vede che l'indurimento (πώρωσις) giudaico nel rifiuto di Cristo e del suo Evangelo affretta la conversione dei Gentili. L'indurimento non riguarda tutto Israele, ma solo una parte, sia pur maggioritaria (cf Rm 5,7; 9,7); è prevista, tuttavia, in Rm 11,31 la conversione futura di tutt'il popolo ebraico. Pertanto, l'attuale riprovazione non è universale (Rm 9,27-29) e non è per sempre (Rm 11,1-10). È, sì, riprovazione - e Paolo, col cuore sanguinante dal dolore, lo fa presente al suo popolo "indurito" e responsabile della "riprovazione attuale" (Rm 9,30; 10,21) - ma non una riprovazione tale da scalzar Israele dalla sua condizione di popolo di Dio, quasi che fosse da Lui rifiutato come popolo eletto. Nemmeno al tempo d'Elia, quando tutto il popolo parve abbandonarsi al culto idolatrico, quando "i profeti venivan uccisi e rovesciati gli altari" (Rm 11,1-3), quel rifiuto fu totale ed irrevocabile. Dio salvò Israele grazie ad un resto (s`r, λειμμα) (8) (Rm 11,5): i "settemila (l'indicazione numerica ha valore puramente simbolico) uomini che non avevan piegato il ginocchio dinanzi a Baal" (Rm 11,4). In costoro, dunque, e non in assoluto, Israele fu mantenuto nel suo privilegio di popolo dell'elezione. Dal "resto", infatti, Iahweh trarrà "il nuovo Israele" (Ger 30,10) cui darà una nuova Alleanza (Ger 31,31) ed un nuovo "re" (Ger 33,17). Ed oggi pure, mentre scrive ai Romani, san Paolo si richiama alla realtà del "resto fedele". Non dichiara esplicitamente di riconoscerlo nel numero degli Israeliti convertitisi a Cristo; lo fa capire. Individua il "resto" non nei pretenziosi seguaci della Legge e realizzatori delle relative opere, ma in una singolarissima grazia (Rm 11,5-8). Quale?
Anche qui occorre procedere per via indiziale. Quando l'Apostolo conclude il suo ragionamento sulla contrapposizione delle opere e della grazia per collegare a questa la presenza d'un "resto", fornisce un'indicazione temporale: "fin al giorno d'oggi (εως της σήμερον ημέρας)" (Rm 11, 8). Sull'orizzonte oscurato dall'infedeltà d'Israele, Paolo scorge "oggi" una novità. Ciò che l'Israele della Legge e delle opere non aveva ottenuto, "l'hanno ottenuto gli eletti" del giorno d'oggi, gl'Israeliti cioè che, rifiutando Baal, accolgono Cristo. E Cristo attende anche tutti "gli altri (οι λοιποί, i rimanenti)", coloro che si son induriti nel rifiuto della novità(9), sul traguardo del loro pentimento e della loro conversione. Sarà una conversione in pienezza (πλήρομα), che colmerà il vuoto dell'attuale condizione di "resto" o "diminuzione di numero (ήττημα)" (cf Rm 11,7-9.12). Anche se non sarà una questione puramente numerica. La continuità del popolo oggetto dell'elezione e dei doni e delle alleanze di Dio non è prevista come totalità dei suoi singoli membri, ma come "pienezza" d'Israele, l'Israele vero, qualitativamente all'altezza della sua elezione, quello che, con la sua docilità, consente a Dio di realizzar il suo eterno progetto riguardante il genere umano. È questo l'Israele che, tutto, sarà salvo" (Rm 11,26): l'Israele a favore del quale Dio non ha dimenticato la sua misericordia (cf Lc 1,54), per "la consolazione" (Lc 2,25) e "la salvezza" (Lc 24,21) del quale gli ha inviato il suo Cristo, accordandogli in Lui la conversione e la remissione dei peccati (At 5,31). Cristo è dunque la novità d'Israele e la Chiesa è l'Israele nuovo, quello escatologico della nuova alleanza (Ebr 8,8ss) (10). Poiché soltanto il "resto d'Israele" viene a farne parte, si capisce perché san Paolo dichiari che "non tutti discendenti d'Israele sono Israeliti" (Rm 9,6), non tutti, precisiamo, son "veri Israeliti" (cf Gv 1,47). Veri, infatti, son quelli che non cercan più la giustizia della Legge e non s'induriscono quando vien loro annunziata la giustizia della fede (Rm 9,31). Sono, essi pure, Chiesa.
Lo si capisce meglio seguendo san Paolo là dove rievoca l'immagine d'Israele-olivo e discute a proposito dei suoi rami (Rm 11,17-24). L'Israele-olivo è un'antica raffigurazione profetica (Os 14,7; Ger 11,16; Sal 128/128 [127],3) che l'Apostolo fa propria, considerandola sullo sfondo d'un olivo selvatico (αγριέλαιος, oleastro) innestato (ενεκεντρίσθης, inserito) su Israele, sul tronco dell'olivo domestico. D'innesto Paolo aveva già parlato in Rm 6,5 chiamando σύμψυτοι (impiantati o com+piantati) coloro che il battesimo aveva interamente incorporato in Cristo. Nei due casi l'idea è la stessa. Ma mentre nel primo dal tronco dell'olivo vengon "recisi" i rami secchi (gl'Israeliti che rifiutano il progetto divino realizzato da Cristo) ed innestati al loro posto ramoscelli d'olivo selvatico (i pagani) perché diventino "partecipi della radice e della pinguedine dell'olivo", quest'olivo, nel secondo caso, è Cristo e gli etnico-cristiani son i subentrati ai "rami secchi", rinati in Cristo e concorporati in Lui, sacramentalmente "connaturati" a Lui.
Riconosco la difficoltà che il ragionamento sull'olivo o l'oleandro pone al lettore, ma devo presumere che l'Apostolo non volesse esprimersi ambiguamente: affermare, cioè, la bontà del tronco, assicurando la salvezza agl'Israeliti ancora collegati con esso come suoi rami vitali, e dichiarare nello stesso tempo che da tronco funge ormai Cristo, di cui diventano innesti vitali quanti, Israeliti del "resto fedele" e provenienti dal mondo pagano, aderiscono a Lui. È chiaro, mi sembra, che la difficoltà va sciolta in questo secondo senso: la funzione originaria del vecchio tronco venne meno per la ragione che la maggioranza dei suoi rami non fu sostituita da innesti vitali su Cristo, ossia sulla vera "radice" che dona all'olivo la sua ricca "pinguedine"; tale funzione continua in Cristo a favore del "resto fedele" su di Lui innestato ed in fiduciosa attesa che anche "i rami recisi" per aver rifiutato Cristo "non restando nell'incredulità, vengano reinnestati" sul tronco vitale (Cf Rm 11,23); nel contempo la detta funzione s'apre al mondo pagano incorporando in Cristo gli etnico-cristiani.
Si è così al punto di partenza. Mi chiedo allora: che significato ha l'affermazione dell'irrevocabilità dei doni e delle promesse divine?

3 - Il contesto remoto - Nelle conclusioni delle precedenti osservazioni c'è già una risposta. Questa, però, va esplicitata in un più ampio contesto biblico, affinché non si veda in essa l'idea peregrina d'un privato, ma il messaggio della divina Rivelazione. Va anzitutto ripreso il discorso su Dio che non si pente di quanto possa aver detto e deciso, perché la sua Parola dura in eterno(11). Essa non è soggetta, non essendolo Colui che la pronuncia, a fluttuazioni ed errori(12). Dio infatti è fedeltà (emet) e lo è in quanto è bontà (hesedh) che lungo i tornanti della storia resta immutabile, anche dinanzi all'infedeltà e all'ingratitudine dell'uomo. Per questo la sua Parola non passa (Is 40,8) né le sue promesse vengon disattese (Tob 14,4). Per questo, anzi, l'Apostolo Paolo collega alla fedeltà di Dio l'efficacia della sua Parola: Colui che vi chiama è fedele e manderà ad effetto la sua promessa (Cf 1Ts 5,23-24). In 1Cr 1,9 indica con maggior chiarezza quale sia l'esito promesso: "Dio è fedele: da Lui siete stati chiamati alla comunione col Figlio suo Gesù Cristo, Nostro Signore". Stante la sua immutabile fedeltà, Dio non ritratta la sua Parola. C'è un Salmo, il 132 (131) molto significativo a tale riguardo: un salmo certamente messianico, soprattutto ai versetti 11-18, dove son ricordate le divine promesse, quelle "giurate da Jahweh a David", e riaffermata la volontà di mai ritrattarle, anzi d'attuarle: "Iahweh ha fatto a David un giuramento e lo manterrà infallibilmente. Sul trono eretto per te, metterò il figlio delle tue viscere. E se i figli tuoi manterranno la mia Alleanza, lo statuto che ho loro insegnato, anche i figli di essi s'assideranno per sempre sul trono eretto per te... Benedirò largamente il suo cibo, sazierò di pane i suoi poveri, vestirò di santità i suoi sacerdoti, ed esulteranno di gioia i suoi fedeli. Un lignaggio susciterò nella casa di David e preparerò un lampada al mio unto; vestirò di vergogna i suoi nemici, ma su di lui brillerà il suo diadema". Il testo, come si vede, non conferma soltanto l'immutabilità ed irrevocabilità delle divine promesse, ma ne annuncia anche l'attuazione nell'era messianica. Implicitamente, il riferimento va nella direzione di Cristo, della Redenzione, della Chiesa.
Fa parte del concetto stesso di promessa anche l'impegno solennemente assunto da Iahweh e da Lui confermato con giuramento di rispettare e mantenere la berîth (Alleanza). Quel giuramento è a garanzia della fedeltà al suo popolo e dell'Alleanza con esso. Esplicito al riguardo è il Sal 89 (88) 34-36: "Mai gli toglierò la mia grazia e mai tradirò la mia fedeltà. Non profanerò la mia alleanza e non cambierò una sillaba sulle mie labbra. Ho giurato una volta sulla mia santità e non mentirò mai a David". Poi (v. 50-52) il salmista, nello stile delle lamentazioni, insiste: "Dov'è, o Signore, quell'antico amore che tu giurasti a David nella tua fedeltà"? Passando, però, per il tramite degli orrendi "obbrobri ed insulti dei popoli", il salmista conclude in ottica messianica, rievocando "i passi del tuo unto", oggetto di quegli obbrobri e di quegl'insulti, per confermare la continuità della grazia di Dio.
Questo è, del resto, quanto risulta da una considerazione complessiva della divina Rivelazione lungo la storia della salvezza. In Gn 15 le divine promesse si concretano in un'Alleanza (berîth); e l'attestato divino di fedeltà ad essa è praticamente ininterrotto. Il Sal 105 (104) 8-10 ne offre un esempio: "Egli ricorda in eterno la sua Alleanza, Parola data per mille generazioni, l'Alleanza con Abramo e il suo giuramento con Isacco. La confermò a Giacobbe come legge e ad Israele come Alleanza eterna". Il medesimo Salmo si ripete al v. 42: "Sì, s'è ricordato della sua Parola santa, con Abramo suo servo". Già in Lv 26,42.45 Iahweh aveva parlato con la solennità del giuramento: "Mi ricorderò della mia Alleanza con Giacobbe, e mi ricorderò della mia Alleanza con Isacco, della mia Alleanza con Abramo... mi ricorderò, per il loro bene, della mia Alleanza conclusa con i loro antenati... per esser il loro Dio. Io sono Iahweh". Gli fa eco Zaccaria che, in Lc 1,72-73, benedice il Signore per il ricordo "della sua santa Alleanza, del giuramento che fece ad Abramo, nostro padre".
Sulla solennità e veridicità di codeste promesse cade presto, però, un'ombra che tutto sembra offuscare. Le promesse anzi sembrano svanire nel nulla, quando Israele cade in mano ai suoi nemici (sec. VIII a.C.), come giusta punizione della sua infedeltà. L'Israele decaduto sembrerebbe una concreta dimostrazione che Dio l'ha abbandonato a se stesso. Dal suo seno, però, affiora un "resto", sul quale si concentra la benedizione divina ed al quale è rinnovata l'antica promessa: possederà per sempre la sua terra e godrà di perfetta felicità (Dt 28,62; 30,5). Durante (Ez 45-48) e dopo l'esilio (Zac 8,12; Is 60,21), i profeti ne dilatano l'annunzio; a sua volta il Sal 2,8 fissa lo sguardo nel futuro di Dio, prospettando all'unto del Signore "per eredità le nazioni, e per dominio le estremità della terra". Il linguaggio suggerisce idealità terrene, ma il successivo perfezionarsi della Rivelazione lo purifica, identificando il "resto" nell'unto e l'unto in Cristo, nel quale si compiono le antiche promesse, rivive la discendenza d'Abramo (Gal 3,16) e s'attua la vera salvezza: non un'affermazione di potenza e di dominio, ma piuttosto il perdono - che, riscattando il peccatore dalla sua schiavitù morale, lo trasforma in figlio di Dio e coerede di Cristo (Gal 4,5-6) - e la grazia della vita eterna.
È questa "la terra promessa", della quale la terra di Canaan, da Dio assegnata ad Abramo ed alla sua stirpe con la solennità dell'Alleanza (Sal 105/104, 11), non è che una pallida immagine, un'anticipazione da leggere "midrashicamente" in funzione dell'altra.
Anche la tradizione patristica riconobbe Cristo nel volto di David e trasferì su Cristo l'eredità davidica. Sant'Agostino, p, es., interpretò il passato veterotestamentario in chiave cristiana e nel cantico innalzato da David a ricordo del "giorno in cui il Signore l'aveva strappato dalle mani di tutti suoi nemici e dalla mano di Saul", riconobbe il timbro della voce di Cristo: di Cristo e della Chiesa, il Cristo totale(13). Il passato, con ciò, non è eluso né rinnegato; si può dire, anzi, ch'esso mantiene il suo valore, ma in tanto lo mantiene in quanto si riversa nel presente per esserne sostanzialmente trasceso.
Una prima conclusione discende con assoluta certezza dal descritto quadro contestuale: Le promesse di Dio son veramente irrevocabili.

4 - Il nuovo Israele - Una così sicura affermazione d'irrevocabilità delle divine promesse ha indotto, per una logica non puramente formale, al riconoscimento del popolo ebraico come titolare, ancor oggi e per sempre, di quelle medesime promesse. Il riconoscimento è riconducibile a san Paolo che, echeggiando il Sal 94 (93) 14, si chiede se Dio possa mai respingere il suo popolo e abbandonare la sua eredità (Rm 11,1) e senz'esitare risponde: assolutamente no, poiché Dio non si pente affatto dei suoi doni e della sua chiamata (Rm 11,29). Su questa base Nae 4/d ha dichiarato la detta irrevocabilità e la quasi totalità dei commentatori ne ha tentato una giustificazione critica, tale da consentire alle autorità competenti di presentarla come un'assoluta certezza. E di presentare con essa una serie di conseguenze riguardanti la Chiesa collegata con la tradizione ebraica, la continuità di questa nella vita e nello stesso essere della Chiesa, la connessione del cristiano e della sua stessa qualità di cristiano con Abramo, di cui anche i seguaci di Cristo sarebbero "figli secondo la fede" (Gal 3,7).
Tutto dipende da una corretta interpretazione delle dichiarazioni paoline, e tale interpretazione sarà davvero corretta se armonizzata con l'insegnamento trasmesso dall'Apostolo attraverso l'intero suo epistolario, compresa quella lettera agli Ebrei che, pur non essendo scritta di suo pugno, presenta una dottrina indubbiamente paolina(14). In pari tempo, l'esigenza della correttezza interpretativa allarga l'orizzonte di riferimento dall'epistolario paolino al quadro generale del NT.
Rm 9,4-5 e Rm 11,28-29, che stanno alla base dell'irrevocabilità sopra indicata, non sono gli unici testi da approfondire. Non basta perciò quanto su di essi ho scritto nel secondo paragrafo.
A conferma della connotazione religiosa espressa dal nome d'Israele (cf nota 1), è doveroso ricordare che Israele - vale a dire il popolo degli Israeliti - nella più pura tradizione veterotestamentaria è l'eredità di Iahweh (Gn 34,9; 1Sm 10,1; 26,19; 2Sm 20,19; 21,3) e sua "speciale proprietà" (Es 19,5), consacrata all'Altissimo per sempre da un'Alleanza non soggetta ad ulteriori pattuizioni. "Voi, il mio popolo; io, il vostro Dio" (Ger 24,7; Ez 37,27). Pertanto, quando l'Apostolo parla dei suoi "fratelli" o suoi "consanguinei per discendenza carnale", cioè degli "Israeliti", non senza un profondo motivo teologico li dichiara titolari "dell'adozione a figli, della gloria, delle alleanze, della Legge, del culto e delle promesse" (Rm 9,4 ). Nelle sue parole risuona l'eco fedele della tradizione suddetta, la commossa certezza d'esser innestato sulla continuità perenne d'una eredità che pone lui stesso, unitamente al suo popolo, in intimità con Dio. Se qualcuno dei suoi connazionali non gode più di tale intimità, ciò non dipende, com'egli giustamente precisa, dal "venir meno della Parola di Dio" (Rm 9,6) o da una sua presunta inefficacia (Is 55, 10-11; cf anche Nm 23,19), bensì dal fatto che non basta la discendenza carnale a far un vero Israelita: infatti "non tutti discendenti d'Israele son Israele, né tutti gli appartenenti alla stirpe d'Abramo sono suoi figli" (Rm 9,7). Se gli si chieda perché la discendenza non basta, Paolo dà una duplice risposta: la misericordia di Dio e le responsabilità d'Israele.
La misericordia di Dio non è affatto ingiustizia (Rm 9, 14), perché eleggendo l'uno, non rifiuta l'altro. Se l'eletto, come avvenne per Isacco e per Giacobbe, già in quanto eletto è l'erede (cf Rm 9, 8-13), dall'eredità non vengono esclusi né gl'Israeliti né i Gentili, nemmeno quando son "vasi d'ira già maturi per la perdizione", perché anche allora Dio "li sopporta con longanimità" (Rm 9, 22-24) in attesa della loro resipiscenza. Inoltre, le responsabilità d'Israele, quelle per le quali non tutti gl'Israeliti effettivamente son tali, vengono dall'Apostolo ridotte al loro tentativo di capovolgere il piano originario di Dio, realizzando la giustizia per mezzo delle opere e non della fede nella libertà bontà ed onnipotenza divina (Rm 9,30-33).
L'Israele che vive di codesta fede, che s'affida a Dio ed in Lui solo confida, dalla fede stessa è mantenuto nella condizione inestinguibile d'erede. Se non che - come ho più sopra anticipato - proprio quella sua stessa fede, secondo la quale soltanto i giusti del "resto" avranno parte all'eredità (Sal 37,9.11.18.22.34), disegna davanti ai suoi occhi una parabola escatologica che modifica qualitativamente la natura stessa dell'eredità: non più una terra promessa entro confini geografici ben definiti (Canaan) (15), né le nazioni tutte fino all'estremità della terra (Sal 2,2.8), ma una condizione di vita che realizzi un passaggio qualitativo dal "possesso della terra" ad "Iahweh è la mia parte" (Sal 16,5; 73,26), nell'atteggiamento prima dei "poveri (`ănāwìm)- che tutto s'attendono da Dio, poi dell'unto di Iahweh e definitivamente di Cristo, il vero "Unto (māšîah), l'erede per diritto di nascita" (Mt 21,38) d`un nome superiore a quello degli angeli" (Ebr 1,4), da Dio costituito, appunto, erede di tutte le cose (Ebr 1,2). E su Cristo-erede si risolve la questione dell'irrevocabilità dei doni e delle promesse di Dio.
L'idea del passaggio da una condizione storico-salvifica all'altra è presente anche altrove; lo è, p. es. e sintomaticamente, in Gal 3,21-29. L'Apostolo intende dimostrare che "la giustizia" non proviene "dalla Legge", questa essendo stata concessa solo come "pedagogo", cioè in funzione introduttiva a quella. In quanto "pedagogo", la Legge poteva solo guidare alla giustizia della fede, ma non realizzarla; assicurava la giustizia legale delle opere, in una condizione d'attesa del futuro e di sostanziale prigionia nel presente. Il riscatto venne dalla fede in Cristo; e "quanti furori battezzati", Israeliti e gentili, tutti diventaron veri figli di Dio, perché "rivestiti di Cristo" e costituiti fratelli suoi, a Lui conformati, in Lui concorporati. In tal modo, la promessa antica si riversò nel presente della fede e si compì in esso.
Si è così giunti alla Lettera agli Ebrei, il cui insegnamento non solo interpreta quello di Rm 9,4-5 e 11,28-29, ma ne scioglie anche gli aspetti meno chiari o addirittura problematici. Mi riferisco in particolare ai c. 3.6-11 e specialmente 12,18.
Citando il Sal 110 (109), 4: "Il Signore ha giurato e non se ne pentirà" (Ebr 7,21), il discorso ritorna con ogni evidenza al tema dell'irrevocabilità, con il passaggio dall'antica alla nuova Alleanza, quella definitiva ("non se ne pentirà") di cui Cristo è "il garante". Ne garantisce infatti la superiorità rispetto all'antica; ché, se questa "fosse stata perfetta, non ci sarebbe stato spazio per una seconda" (Ebr 8,6).
Non solo garante, ma anche mediatore e non d'una qualunque alleanza, ma "d'una Alleanza migliore" (Ebr 9,15), in conseguenza d'un sacrificio infinitamente più alto e più nobile. Ogni alleanza, infatti, si stipula non senza un sacrificio; anche "la prima fu inaugurata con sangue (sacrificale)" (Ebr 9,18), di cui Mosè asperse il libro della Legge e tutto il popolo, proclamando con solennità: "Questo è il sangue dell'Alleanza che Dio ha stabilito per voi" (Ebr 9,20; Es 24,8). Ma "se il sangue dei capri e dei tori e la cenere d'una giovenca" purificano "i contaminati, quanto più il Sangue di Cristo purificherà le nostre coscienze" (Ebr 9,13,14): il Sangue del Sommo Sacerdote santo, immacolato, segregato dai peccatori, più sublime dei cieli (Ebr 7,26-27), la cui "aspersione" ha un'efficacia molto più eloquente, per le ragioni anzidette, del sangue d'Abele (cf Ebr 12,24).
Tra le varie fasi della divina Rivelazione si nota una progressiva allusione a Cristo e nelle ultime una sintomatica corrispondenza alle precedenti. Ciò autorizza l'Autore della lettera agli Ebrei a rilevare le differenze non soltanto formali ma anche di contenuto ed efficacia salutare tra i sacrifici dell'antica Legge ed il sacrificio di Cristo (Ebr 10). Proprio perché solo parzialmente efficaci, quelli antichi si ripetono, senza che "il sangue di tori di capri tolga il peccato" (Ebr 10,3-5). L'efficacia distruttrice del peccato e purificatrice degli animi si ha invece dal valore infinito del Sangue di Cristo e del suo sacrificio redentore. L'Autore lo fa dire a Cristo in persona, mettendo sulle sue labbra il Sal 40 (39; 7-9: "Non hai voluto sacrifici ed oblazione... non hai gradito né olocausti, né vittime espiatorie. Allora dissi: ecco, io vengo - come nel rotolo del Libro sta scritto di me - per compiere, o Dio la tua volontà" (Ebr 10,10). L'insegnamento è chiaro: soltanto nel sacrificio del Figlio suo, tutto votato alla sua volontà di salvezza Dio si compiace d'operare, una volta per sempre, la purificazione e la santificazione dei cuori. Un sacrificio nobilitato dall'infinita perfezione di chi lo compie. E fu questa la ragione che pose fine ai sacrifici "di capri e di tori" (16)
Una nuova economia salvifica era nata, la cui immaterialità sostituisce l'esteriorità dell'antica, come del resto Ger 31,31-34 aveva previsto e come l'Autore della Lettera agli Ebrei fedelmente ricorda: "...concluderò un'Alleanza nuova, non secondo quella antica... metterò le mie leggi nella loro mente, le scriverò nei loro cuori, sarò il loro Dio ed essi il mio popolo". Sintomatico il commento: "Parlando d' (Alleanza) nuova, ha dichiarato antiquata la prima; ora, ciò ch'è antiquato e tende ad invecchiare (ancora) è prossimo a scomparire" (Ebr 8,8-13). Il perfetto πεπαλαίωκεν dal verbo causativo παλαιοω significa più propriamente che l'antica Alleanza è stata resa vecchia e priva perciò delle sue originarie proprietà, tanto che è facile intuirne e prevederne il tramonto anzi addirittura l'abolizione (17). Ormai non esistono più le ragioni della sua sopravvivenza, Cristo l'ha per così dire resa inutile e inefficace, dovrà dunque "scomparire definitivamente, come un vegliardo che s'addormenta nella tomba, dop'avere svolto il suo dovere in vita"(18).
Perché su questo punto non ci sia alcun dubbio, la Lettera agli Ebrei (12,18-29) insiste non solo sul confronto tra AT ed il NT, ma anche sull'opposizione dell'uno all'altro. Avvalendosi d'Es 19,10.12.18.29 e di Dt 4,11-14; 5,22-30 descrive anzitutto l'AT in base al suo costitutivo essenziale, donde discendono timore e spavento, cui si contrappone il NT che è "la riunione festiva, l'assemblea dei primogeniti iscritti nei registri dei cieli" (Ebr 12,23) (19)
La contrapposizione fra i due testamenti ha una sua logica; tutti, sia i membri dell'antica Alleanza sia quelli della nuova, dovranno guardarsi bene "dal rifiutare colui che parla" (τον λαλουντα). Come furon puniti quanti "rifiutaron d'ascoltare colui che promulgava decreti di validità puramente terrena, a maggior ragione non sfuggiremo noi al castigo se volteremo le spalle a colui che parla (ora) dai cieli" (Ebr 12,25-26). Quel presente (parla) non ammette eccezioni; manifesta l'intervento divino, con conseguente coinvolgimento in esso di quanti, ad ogni latitudine ed in ogni "hic et nunc" della storia, l'ascoltano: esso ha per effetto il cambiamento di realtà effimere sul permanere della Parola di Dio che non passa (cf Ebr 12,27).
In effetti, anche la Lettera agli Ebrei riprende la dottrina vetero- e neotestamentaria sulla Parola di Dio ch'è per sempre, la riafferma senz'ambiguità e con fermezza, specie al cap. 6, là dove allude a Dio che "giurò per se stesso" di benedire Israele e di moltiplicarlo "grandemente", e dove gli dichiara ancor una volta "l'immutabilità del suo volere" riguardo alla sue divine promesse (cf Gn 22,16-19). Ciò, sia ben chiaro, non comporta alcuna svalutazione dell'Alleanza, né dell'antica né della nuova, che resta ancor e sempre "un'àncora stabile e sicura" (cf Ebr 6,19) per la ragione che l'una, in quanto "antiquata", viene ora sostituita dall'altra e questa testimonia l'immutabilità suddetta nella realtà dell'evento-Cristo.
Si noti che ciò trova conferma anche in altre parti del NT, specialmente nella parabola dei cattivi vignaioli (Mt 21,3346) (20) che bastonarono i servi del padrone, altri ne lapidarono, altri ne uccisero, per poi uccidere il figlio stesso, l'erede. Inevitabile la condanna: "Sarà a voi tolto il regno di Dio e dato ad altra gente, che produca i suoi frutti". Capisco lo zelo di chi, pur di sottrarre il popolo eletto a tale condanna, riconosce da essa colpiti soltanto i capi (21), dimenticando che in gioco è "la vigna", di cui "erede" è il figlio del padrone, quella "vigna" che vien data ad altri vignaioli con la speranza ed allo scopo che faccia frutto. E "la vigna è simbolo d'Israele" (22).
Analoga a questa è la conclusione che può trarsi, p. es. da Mt 22,10 (parabola del festino nuziale). Il re che invita è Dio, il figlio è Gesù Cristo, il festino è la realtà messianica da Lui instaurata, gl'invitati che declinano l'invito son gl'Israeliti, i chiamati dalla strada, dai crocicchi e dalle piazze son i pagani ed i peccatori, che subentrano agl'Israeliti (23).
L'idea di questo trasferimento si ha anche altrove. In Mt 13,12 sta scritto: "A colui che ha verrà dato (ancora) e sarà nell'abbondanza; a colui che non ha, verrà tolto perfino quello che ha". Come a dire: chi è nell'antica Alleanza, se ben disposto avrà accesso alla nuova; chi invece le è contrario - si ricordino i "rami recisi" di Rm 11,17 - perderà con la nuova anche l'antica (24).
Sembra allora di capire che, se vengon recisi dal ceppo vitale quei rami nei quali trovan la loro identità gl'Israeliti del rifiuto a Cristo, per necessità logica si dirà che gli altri rami ed il ceppo in tanto restan vitali in quanto essi pure si radicano in Cristo. Paolo dichiara addirittura (Rm 11,23) che, attraverso la fede in Cristo, perfino i rami recisi potranno esser reinnestati sul ceppo vitale. Non c'è, dunque, possibilità per altre spiegazioni e l'appellarsi all'apostolo Paolo per dare di Rm 9,4-5 un'interpretazione favorevole alla continuità d'Israele come popolo eletto e dei doni che, come tale, esso aveva da Dio ricevuto (25) non sembra del tutto corretto.

5 - Conclusioni - Può far una certa meraviglia l'uso reiterato di "sembra-pare", per la ragione che, sotto codesto uso, possa nascondersi una buona dose d'insicurezza. Non è il mio caso. Ricorro alle dette forme verbali per il rispetto dovuto a chi la pensa diversamente, soprattutto nel caso in discussione che sul "diversamente" vede attestarsi l'ufficialità dell'insegnamento cattolico; ma, come è assente in me l'intenzione di demonizzare i sostenitori del "diversamente", così è presente la sicurezza morale della mia personale posizione. Dopo averla analiticamente esposta, tento ora di trarne opportune conclusioni.

1. Voglio sperar anzitutto che nessuno m'opponga il monito paolino di 1Tm 6,3-5 contro i falsi dottori: "Se qualcuno insegna cose diverse e non aderisce alle sane parole di Nostro Signor Gesù Cristo, né alla dottrina (ch'è) secondo pietà, costui è accecato dall'orgoglio e non sa nulla, pur essendo in preda alla febbre dei cavilli e litigi di parole. Da tali cose hanno origine le invidie, le contese, le maldicenze, i sospetti maligni, le lotte di individui dalla mente malata" (26). Per parte mia, pur in disaccordo sulla posizione ufficiale sostenuta da Nae 4 e reiteratamente riaffermata, mi sento ben lungi da cavilli e litigi, ed estraneo a contese, maldicenze, sospetti e lotte. Desidero soltanto portar un niccolo contributo di chiarezza su testi di non facile lettura e decifrazione.

2. Spero anche di non sentirmi annoverare, come potrebbe accadere in casi del genere, tra i sostenitori ed i promotori dell'antisemitismo. Si è arrivati al punto che anche il più innocente accenno di critica teologica, se ha per oggetto Israele, non sfugge all'accusa d'antisemitismo. Accusa, il più delle volte, assurda, perché nemmeno rispetta il significato oggettivo della parola: Semiti non sono soltanto gli Ebrei, ma anche gli Arabi (27). Solamente i primi, però, si è soliti oggi elencare come oggetto degli strali antisemitici, dando all'accusa un significato prevalentemente teologico: antisemita sarebbe chiunque rimproveri o critichi o condanni Israele per aver rifiutato Cristo. Anzi, l'antisemitismo è stato autorevolmente individuato, non già in dissonanze socio-politiche, ma in qualsiasi attacco al mistero soprannaturale del popolo eletto (28). È dunque probabile che per aver ricordato ciò che lo stesso decreto Nae 4 ricorda(29) possa esser tacciato anch'io d'antisemitismo.
È proprio necessario ch'io dica di trovarmi totalmente al di là di tale accusa? Nessun intento "anti" m'ha guidato; ho solo obbedito al desiderio e alla provata necessità di cercare nella Sacra Scrittura un po' di luce e di comunicarla.

3. Pur non seguendola, correggendola anzi, aggiungo che la posizione difesa da Nae 4 e da decine d'autorevolissimi interventi non è priva di qualche labile fondamento. Si fonda, infatti, su una discutibile interpretazione di Rm 9,4-5 e 11,28-29, secondo la quale gl'Israeliti son tuttora titolari dell'Alleanza e delle antiche promesse, ancor amati da Dio grazie ai loro Patriarchi, nei quali essi stessi vennero eletti, e grazie pure all'immutabilità ed irreversibilità dei doni divini. Si tratta di passi piuttosto oscuri, in parte legati alla singolare psicologia dell'Apostolo che li scriveva sotto la pressione di fatti contrastanti: il no - per lui dolorosissimo - a Cristo da parte dei suoi correligionari ed il consolante accesso dei gentili alla fede. Forse, interpretandoli per quel che sembrano dire ed indipendentemente dai contesti che potrebbero lumeggiarli, anche la posizione ufficiale può apparire fondata. Ma - e non solo perché questa è una buona norma d'ermeneutica biblica - è necessario leggere Rm 9,-4-5 ed 11,28-29 contestualmente al quadro generale in cui sono incastonati, oltre che alla luce d'altri passi del NT, particolarmente della lettera agli Ebrei. Dal quadro generale è possibile dedurre una correzione delle prime impressioni, o forse anche delle prime convinzioni, indotte dal solo riferirsi alla lettera ai Romani. Questa infatti, circa il problema che c'interessa, mal si concilia con la dottrina della lettera agli Ebrei. Pertanto - se non si vuol dire che la Scrittura è in contraddizione con se stessa - la lettura integrativa di Rm ed Eb potrebbe far capire in che senso doni e promesse sian davvero irrevocabili. Parlerei d'un'irrevocabilità dinamica, o transeunte: dall'Alleanza che invecchia e va verso la fine, all'Alleanza nuova, nella quale quella antica si travasa e si ritrova; dall'antico al nuovo Israele, piccolo seme destinato a diventare albero e ad ospitare una grande quantità d'uccelli (Mt 13,32), "resto fedele" aperto all'universale e all'eterno.

4. La suddetta correzione esegetica non intende affatto contestare l'incontestabile, e cioè che Cristo proviene dai consanguinei di Paolo secondo la carne (Fili 9,5); che anche "gli Apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, nacquero dal popolo ebraico" e con essi "moltissimi primi discepoli" (Nae 4,c); che "grande è il patrimonio spirituale comune a Cristiani ed Ebrei" (Nae 4/e); che "quanto fu commesso - dalle autorità ebraiche e dai loro seguaci - durante la Passione" di Cristo "non può esser imputato a tutti gli Ebrei", né a quelli d'ieri né a quelli d'oggi (Nae 4/f). Sì, tutto ciò è fuori discussione, ma essendone "fuori", non rientra affatto in quel particolare oggetto del contendere che sono l'irrevocabilità dei doni divini, il suo perché, le sue modalità. Sia chiaro, comunque, che altrettanto incontestabile è anche il rifiuto di Cristo da parte degli Ebrei, i quali non riconobbero il tempo in cui vennero da Dio visitati (Lc 19,44), non accettarono l'Evangelo, anzi s'opposero alla sua diffusione (Nae 4/d) e s'adoperarono, attraverso le loro autorità, "alla morte di Cristo" (Nae 4/f). Se dalle cause per le quali "la vigna" fu trasferita ad altri vignaioli (cf Mt 21,33-46) dovesse escludersi il suddetto rifiuto, si sarebbe nella necessità di trarne la conseguenza che il "sì" ed il "no" a Cristo non son che adiaphora (cose indifferenti); e, prima d'esser peccato per la malizia da cui dipende, indifferente sarebbe perfino la persecuzione contro di Lui. M'auguro che una tale conseguenza non si trovi nella prospettiva teologica di nessuno.

5. Rimanendo rigorosamente al tema, dall'aver "ricevuto la Rivelazione dell'AT per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si degnò di stringere l'antica Alleanza", la Chiesa, in quanto è la nuova Alleanza ed il nuovo Israele, non può né trarre la conseguenza dell'irrevocabilità dell'Alleanza dal popolo ebraico, né - anzi, meno ancora - affermare "che trae nutrimento dalla radice dell'ulivo buono", cioè Israele, sul cui tronco fu da Cristo innestata (Nae 4/b).
È vero, infatti, esattamente l'opposto. L'immagine dei "rami recisi" e la situazione che viene in tal modo a determinarsi lo lasciano agevolmente intendere. Alcuni rami vengono staccati dal vecchio tronco in ragione della loro estraneità all'innesto operato; son figli d'Abramo che non credon in Cristo e lo rifiutano. Muoiono proprio per questo, non perché - ritornando alla metafora dell'olivo buono e dell'oleastro - appartengono all'olivo buono, ma perché, pur appartenendo all'olivo buono peraltro ormai prossimo alla fine, non partecipano agli effetti dell'innesto. Ne discende allora che anche gli altri rami e tutt'il vecchio tronco potrebbero avere la stessa sorte, qualora l'innesto non venisse operato o non fosse efficace. Di fatto, però, soltanto ad alcuni rami l'efficacia dell'innesto non perviene per l'impedimento che in essi incontra e la loro morte è scontata proprio per questo; ma gli altri rami e tutto il vecchio tronco potran viver ancora non già grazie all'ormai invecchiata ed isterilita linfa della Legge antica( 30), bensì grazie all'innesto che restituisce loro la vitalità perduta: al di là del velo allegorico, ai figli d'Abramo è assicurata una nuova storia a condizione che accettino Cristo e vivano della e per la fede in Lui, nella sua grazia.

6. La soluzione del problema circa i rapporti tra Chiesa cattolica e mondo giudaico non può, dunque, esser quella suggerita da Nae 4 e dalla sua "Vulgata" a tutti livelli. Non è in discussione il dialogo fra l'una e l'altra parte, la necessità d'una loro comprensione maggiore, la matrice storicamente ebraica del mondo cattolico; in discussione è - e non dovrebbe, in un quadro di coerenza maggiore - se Israele sia tuttora portatore delle antiche promesse o se queste siano state trasferite alla Chiesa, cosicché solo in quanto incorporato nella Chiesa anche Israele possa parteciparne. Quanto esposto dimostra il passaggio perfettivo dall'Alleanza antica alla nuova, con la conseguenza che Israele può continuare a considerarsi il popolo eletto, "a Dio carissimo" (Nae 4/d), solamente in quanto integrato nel nuovo Israele per la fede in Cristo. A Dio carissima è, intatti, la Chiesa "che Cristo ha amato e si è per essa offerto, allo scopo di santificarla, purificandola con il lavacro dell'acqua, mediante la parola", perché sia "tutta splendente, senza macchia e senza ruga, o alcunché di simile, ma santa ed immacolata" (Ef 5,25-27).
Se ne deduce che solamente nella prospettiva della nuova Alleanza, subentrata all'antica, appare teologicamente e storicamente ineccepibile quell'irrevocabilità dei doni divini che, ontologicamente, è legata alla natura immutabile di Dio. Ma se per il mondo ebraico Cristo continua ad esser "la pietra d'inciampo" (Is 8,14), se cioè il rifiuto di Cristo da parte giudaica non vien superato e rinnegato, il popolo dell'elezione e delle successive divine benedizioni si stacca da sé, fatalmente, dalla conclamata irrevocabilità dei doni divini. Di essi, oggi, oggetto e soggetto è esclusivamente la Chiesa.
BRUNERO GHERARDINI
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(1) Il 21 nov. 1964 la LG ed il 28 ott. 1965 Nae. Qui come altrove la parola "Ebrei" non connota esattamente, dal punto di vista religioso, la posterità spirituale d'Abramo. Israele (Israeliti) e Giudaismo (Giudei) esprimono meglio quella posterità, specie in relazione a due eventi: la rovina di Samaria (2Re 23,19ss; 2Cron 30,1ss) e quella di Gerusalemme. Paolo si dice fieramente Giudeo (At 22,3) ed Israelita (Rm 11,1; Fil 3,5). Quando si definisce "Ebreo, figlio di Ebrei" (2Cr 11,22), indica l'origine palestinese e la lingua della propria famiglia.
(2) Fra i tanti testi a sostegno, scelgo i seguenti: Ger 31,33; 32,40; Ez 34,31.
(3) Cf Os 11,9: "Io sono Dio e non un uomo". Tuttavia la Bibbia ricorre ad antropomorfismi ora ingenui, ora azzardati, non per definire la natura di Dio, ma per descriverne il comportamento con gli uomini, ai quali lo presenta come il guerriero invitto (Es 15,3ss), il vignaiolo attaccato alla sua vigna (Is 5,1-7), l'amante appassionato (Os 2,16ss), madre e padre d'infinita tenerezza (Os 11,1; Is 49,15), ma anche d'ira ardente e traboccante furore (Is 30,27-33). È quindi nella norma che la Bibbia (p. es. Es 32,14; Ger 26,13; Giona 4,2) parli anche del pentimento di Dio a proposito del male o del bene (Ger 18,10) ch'Egli aveva deciso di fare. Ma in sé Dio è e resta al di sopra dei comportamenti umani: "sono Dio e non un uomo".
(4) P. es. CORNELY R., Epistola ad Romanos, Parigi 1886; SALES M., Il Nuovo Testamento commentato, Torino 1914; BONSIRVEN G., Il Vangelo di Paolo, tr. dal fr, di P. Graziani, Roma 1951, p. 136; Cf. JACONO V., Le Epistole di S. Paolo ai Romani, ai Corinti e ai Galati, Torino-Roma 1952, p. 209.
(5) BOYER M., Las Epistolas de santo Pablo - Texto de la Vulgata latina contejado con el Greco, 2 voli. Barcelona 1940; JACONO V., Le Epistole, cit. p. 209.
(6) Rm 9,2 parla di lύph megάlh kai adiάleiptoς odύnh): una tristezza grande ed una continua pena, causate dall'infedeltà della sua gente.
(7) Cf Lv 16,8: "un capro per Iahweh ed uno per Azazel". Da analizzare è tutto il cap. 16, dedicato al "giorno del Kippur", che prevedeva il sacrificio del capro o śā`îr. È da tener presente che in tutto l'AT il termine ricorre 53 volte e sempre per indicare la vittima del sacrificio espiatorio o hattà't. Secondo alcuni, Azazel sarebbe un dio del deserto dove il capro, simbolicamente caricato dei peccati del popolo, veniva cacciato; oppure sarebbe uno dei capi degli angeli ribelli, di cui in Enoch 8,1-2. Ma Azazel è anche aggettivo e significa o allontanabile (nel deserto), da ez, cioè capro, e da 'àzal, ossia andarsene; o destinato ad allontanare (il peccato). Così MEDEBIELLE A., Expiation, in "Dictionn. Bibl. Suppl." III, c. 61-68; HEINISCH P., Teologia del Vecchio Testamento, Torino 1950, p. 225ss. Riconosce invece una vera identità ad Azazel l'ottimo DEIANA G., Levitico. Nuova versione, introduzione e commento, Milano 2005, p. 182-185 (cf p. 160-185). Quanto poi ad anάθema, nel greco dei LXX (Lv 27,28s; Deut 7,26) è il corrispettivo di herem che esprime una riprovazione o maledizione, 1Cr 16,22; Gal 1,8s. L'Apostolo, insomma, non ha esitazioni a farsi oggetto anche della maledizione divina, pur di salvar il suo popolo. Questa medesima disponibilità, più plausibile se espressa da un condizionale ("avrei desiderato") anziché da un passato ("desideravo"), è anche quella di Mosè (Es 32,32) e dello stesso Gesù che secondo Gal 3,13, "divenne per noi oggetto di maledizione".
(8) L'idea del "resto fedele", sopravvissuto per grazia divina alle conseguenze devastanti del peccato, solca tutto l'AT ed entra nel N. Lo si trova in Am 3,12; 5,15; 9,8-10; in Is 4,3; 6,13; 10,19-21; 28,5-6; 37,4; Mi 4,7; 5,2; So 2,7; 3,12; Ger 3,4; 5,18; Ez 5,3; Za 13,8-9; 14,2; e tanti altri testi ancora, fino a quelli neotestamentari, secondo i quali tutti diritti del popolo eletto passano al "resto" grazie alla sua fedeltà, affinché il divino ed eterno progetto della salvezza trovi attuazione: Lc 19,32; Rm 9,27. cf DE VAUX R., Le "reste d'Israel" d'après les Prophètes, in "Rev. Bibl." 42 (1933) 526-539; JEREMIAS J., Der Gedanke des "Heiligen Restes" im Spätjudentum und in der Verkündigung Jesu, in „Zeitschrift f. neutestamentl. Wissensch." 42 (1949) 184-194; Gxoss H., Resto, in BAOER I. (a c. di), Dizionario di Teologia Biblica, tr. it. di L. Ballerini, Brescia 1965, p. 1185-1189; Bible de Jérusalem, Parigi 1974, p. 1097, nota b.
(9) Non si tratta di novità parziale. ma assoluta, dinanzi alla quale e grazie ad essa "non c'è (più) né ebreo né greco, né schiavo né libero" e vengono annullate perfino le diversità biologiche: "non c'è né uomo né donna, perché tutti siete uno solo in Cristo", Gal 3,28.
(10) Questo medesimo rapporto tra il vecchio ed il nuovo Israele può cogliersi anche in 1Cr 15,45 a proposito del "primus homo Adam factus in animam viventem" ed il "novissimus Adam in spiritum vivificantem". Commenta mirabilmente S. PIER CRISOLOGO, Serm 117 PL 52,520-521: "Hic est Adam, qui suam tunc in illo, cum figeret, imaginem collocavit. Hinc est quod eius et personam suscepit, et nomen recepit, ne sibi, quod ad suam imaginem fecerat, deperiret. Primus Adam, novissimus Adam".
(11) Sal 119 (118) 89: "La tua Parola, o Jahweh, è eterna, immutabile come i cieli"; Is 40,8: "Secca l'erba, appassisce il fiore, ma la Parola del nostro Dio sta in eterno". A questo concetto si richiamerà poi san Pietro, scrivendo in 1Ptr 1,23-25: "rinati da un seme incorruttibile, che permane in eterno, poiché ogni uomo è come l'erba, ed ogni sua gloria è come il fiore dell'erba: seccò l'erba e cadde il suo fiore; ma la Parola di Dio dura in eterno".
(12 ) Nm 23,19: "Dio non è un uomo per mentire, né un figlio d'Adamo per ritrattarsi".
(13) S. AGOSTINO, Enarr in ps. 17, 2 PL 36,148: "Dicit ergo hic Christus et Ecclesia, id est totus Christus, caput et corpus". Cf h., De Civitate Dei, 17, 7,2 PL 41,538-540.592. ID., Enarr. in ps. 56,9 PL 36,666. Non mi diffondo nell'analisi del pensiero patristico, poiché sto svolgendo un argomento di teologia biblica; ma come sant'Agostino può considerarsi l'espressione sintetica della tradizione occidentale, così può esserlo S. CIRILLO Acess., Comment. in Aggaeum 14 PG 71,1047-1050 per quella orientale.
(14) Cf SPICQ C. L'Epître aux Hébreux, 1. Introduction, Parigi 1952, p. 197219; TEODORICO DA CASTEL DI PIETRO, L'Epistola agli Ebrei, Torino-Roma 1952, p. 14-17.
(15) Che oltretutto verrà poi tolta al popolo di Dio. La sua conquista era stata quanto mai difficile e lunga per la strenua resistenza di città quali Gezer, lebus, Dor, Megiddo, Bethsan. In realtà, le pretese d'una dinastia non davidica suscitarono lotte tali da richiedere l'intervento romano (63 a. C.) che agevolò l'ascesa d'un feroce Idumeo, Erode, sul trono di Giuda. L'epilogo si ebbe nel 70 d.C.: un assedio di tre anni (oltretutto chiaramente previsto da Mt 24, Mc 13 e Le 17,20-18), la capitolazione e distruzione di Gerusalemme, la dispersione del popolo eletto.
(16) Cf SPICQ C., Epître aux Hébreux, IL Commentaire, Parigi 1963, p. 30' "L'immolation du Calvaire fut si parfaite, de par les sentiments de la victime qui s'offrait elle-même, que Dieu décida que ce serait le sacrifice suprême. L'infini est unique. Désormais, les sacrifices matériels étant abolir, il n'y aura plus qu'une religion en esprit et vérité, car Dieu lui-même est esprit".
(17) afanismός, un "hapax legomenon" neotestamentario da αψάνεια, cic rovina, eccidio, distruzione (Esch.).
(18) SPICQ G., L'Epître, cit. p. 245.
(19) Secondo Nm 3,40-50, i primogeniti venivano consacrati a Iahweh ed iscritti in un registro; il testo coordina con essi, per analogia, i cristiani della primissima ora, costituiti dall'Alleanza come Nuova Gerusalemme e corte di Dio, dove tutto è santità, dignità e gioia.
(20) HUSSAR B., La religione giudaica, in AA.Vv., Le Religioni non cristiane nel Vaticano II, Torino-Leumann 1967, p. 252 dice che la lettura della riprova
zione del popolo giudaico nella parabola dei vignaioli omicidi è "in fragrante contraddizione con la rivelazione", oltre che "uno degli argomenti del cristianesimo antisemita tradizionale". Sarebbe opportuno spiegare dove e perché sia segno d'antisemitismo, tenuto conto del significato di questa parola; quanto alla Rivelazione, dalla quale l'accennata lettura sarebbe contraddetta, un modesto saggio di teologia biblica come il presente dimostra esattamente il contrario.
(21) HCSSAR B., La religione, cit. p. 253.
(22) Grande Commentario Biblico a c. di E. R. Brown ed altri, Brescia 1973, p. 949.
(23) Cf La Bible de Jérusalem, Parigi 1974, p. 1445, n. d). Si potrebbe esemplificare anche con la parabola degli operai mandati in varie ore del giorno a lavorare nella vigna e trattati tutti allo stesso modo, Mt 20,1-16.
(24) Cf. La Bible de Jérusalem, cit. p. 1433, n. d): Pour les âmes bien disposées, on ajoutera à l'acquis de l'ancienne Alliance le perfectionnement de la nouvelle; aux âmes mal disposées, on ôtera même ce quelle ont, c'est-à-dire celle Loi juive qui, laissée à elle-même, va devenir caduque"; Grande Commentario Biblico, cit., p. 949: "la destituzione dei giudei a favore dei gentili è insinuata al di là d'ogni dubbio".
(25) Nae 4/c: "Semper autem prae oculis habet Ecclesia verba Apostoli Pauli de cognatis eius, «quorum adoptio est tiliorum et gloria et testamentum et legislatio et obsequium et promissa, quorum Patres et ex quibus est Christus secundum carnem»".
(26) San Paolo rievoca in questo passo quanto sui falsi dottori aveva già esposto in 1Tm 1,3-20; 4,1-18.
(27) Si dicon Semiti i discendenti di Sem (Gn 10,21b), ma Gn 10 raggruppa i popoli in base non tanto a caratteristiche etniche, quanto a rapporti storicogeografici; per questo son classificati come semiti i Cananei, gli Arabi, gli Etiopi, i Babilonesi, gli Assiri. Del resto, sarebbe difficile una classificazione in base al solo criterio etnico; la rendono invece possibile le lingue e P. DHORME, Langues et écritures sémitiques, Parigi 1930, l'ha dimostrato.
(28) JOURNET Ch., Destinées d'Israel, Parigi 1945, p. 436.
(29) Nae 4/d: "Teste Sacra Scriptura, Ierusalem tempus visitationis suae non cognovit (Le 19,44) atque Iudaei magna parte Evangelium non acceperunt, immo non pauci diffusioni eius se opposuerunt (Rm 11,28)"; Nae 4/f: "...auctoritates Iudaeorum cum suis asseclis mortem Christi urserunt (l0 19,6)".
(30) A dir il vero, Rm 11,16 parla di "radice, riza", non di tronco; ma per quale motivo i rami, detti santi perché santa è la radice, vengon recisi, se non perché dalla radice non attingon più la linfa vitale? Con ciò non è detto che alla "radice santa" di Rm 11,16 subentri il pericolo della "radice germogliante veleno ed assenzio", scongiurato da Ebr 12,15 che cita Di 29,17. Ma nell'ipotesi che tale pericolo si verifichi, il rimedio verrà dall'innesto, concepito non secondo norme agrarie e relativa prassi (la linfa della radice trasforma in domestica la pianta selvatica innestata), ma secondo la visione storico-salvifica di Cristo che vivifica quanti vengano in lui incorporati.

3 commenti:

  1. Sono consapevole che si tratta di una lettura impegnativa e comunque ci sono molti altri testi più divulgativi sull'argomento (qualcuno tra le stesse pagine fisse, dal cui testo è possibile risalire a link con altri approfondimenti).

    Tuttavia il testo e il suo approccio all'argomento è rivelatore del giusto modo (serio, sapienziale, fondato, chiaramente definitorio) di affrontare i principi e i fondamenti della nostra fede.
    Esso è ben lontano dallo stile pressapochista, superficiale, sentimentale, a mo' di slogan, che non si assume l'onere dello spiegare e dall'approfondire temi che oggi ci vengono buttati lì come assunti apodittici.

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  2. Se su questo blog vengono proposti anche testi più 'tosti' da consultare è perché credo che "giocare al ribasso", dando per scontata la disattenzione a trattazioni di maggiore difficoltà, sia mancanza di rispetto per le persone e la loro capacità di sempre ulteriormente superare i limiti che tutti abbiamo ed è bene che si abbia la possibilità di approfondire e ampliare la conoscenza della nostra Fede per quanto ci è dato.

    Poi, ad ognuno la libertà di selezionare ciò che gli è più congeniale. Ma senza porci, a monte, scelte che alla fine si risolvano, appunto, nel diffuso "giocare al ribasso" dal punto di vista formativo e teologico (ma che tutto sommato riguarda in genere anche la cultura e tutta la fase storica e politica che stiamo attraversando).

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  3. Grazie, niente andrà perduto.

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