Ci dev'esser qualche buona ragione se queste parole dell'Ecclesiaste o Qohélet, nelle traduzioni più recenti della Sacra Scrittura dai testi originali, smarriscon il significato letterale dell'espressione latina, per assumerne un altro di senso completamente diverso. E probabile che ciò sia dovuto ad una ragione di lingua, tenuto conto che, in origine (?), il testo veterotestamentario si presenta in ebraico mishnaico e ch'esso, anche in considerazione dei frequenti aramaicismi, potrebb'esser una traduzione dall'aramaico. Il latino del titolo è quello della c. d. Vulgata, la quale rende nell'idioma di Roma la famosa traduzione greca dell'Antico Testamento ad opera dei Settanta. Dinanzi ad un tale titolo, nemmeno uno studentello della scuola media, se invitato a tradurlo, si farebbe prendere dal panico: avrebbe solo la difficoltà della scelta tra queste possibili formulazioni: "non stupirti", "non meravigliarti", "non farti prender da eccessiva ammirazione".
Se però verifichiamo la traduzione in qualcuna delle Bibbie tradotte direttamente dalle lingue originali, a meravigliarci saremo noi. Nella giustamente famosa Bible de Jérusalem trovo: "Ne sois pas insensé". Un'ottima traduzione italiana(1) concorda: "Non essere... stolto". Altrettanto trovo in altre moderne traduzioni, sia in italiano sia in altre lingue. Interessante, soprattutto per la sua ufficialità, la Nova Vulgata (2), che al riguardo così traduce: "Noli esse stultus".
Stante un siffatto stato di cose, è fondato il sospetto che la pur benemerita Vulgata geronimiana sia incorsa in errore e che Qo 7,17 inviti a ben altro che a non meravigliarsi. Il testo, in effetti, intende allontanare dall'orizzonte dell'esistenza umana la prospettiva d'una ineluttabile esperienza secondo la sapienza degli antichi saggi, quella del "troppo": l'esser troppo saggio o troppe giusto. Il troppo scavalca, in quanto tale, una giusta misura e l'esser troppo è l'esser oltre-misura; è la ragione per la quale il giudizioso Ecclesiaste rivolge retoricamente ad ognuno la seguente domanda: "Ma perché vuoi proprio rovinarti la vita da te"? Anche noi, stando ad un linguaggio comune che non è men giudizioso, diciamo spesso: "Non far lo scemo"(3)!
Qualcuno si chiederà: per quale motivo una siffatta premessa? Non certamente per impancarmi a maestro in settori a me estranei, ma solamente per giustificar una scelta indebita: pur conoscendo l'esatto significato di Qo 17,7 preferisco la traduzione geronimiana "Ne obstupescas", perché m'offre l'occasione di parlare dello "stupore" con il suo stesso intento: prenderne le distanze, neutralizzarlo, tacitarlo, controllarlo, non farsi da esso signoreggiare, non decidere in base alla sua azione suggestionante.
1 - La diffonde la stessa atmosfera che si respira in questi ultimi tempi, determinata da un nuovo e stranissimo linguaggio. Al quale la fortuna è assicurata dalla vastissima audience riscossa in ambito soprattutto giovanile, attorno all'esperienza d'un pur benemerito prete e per effetto di essa, espansa in dimensione mondiale dal ramificarsi della sua associazione, nonché dalla potenza essa pure mondiale d'una sua casa editrice. Conoscevo personalmente quel prete per essersi messo in contatto con me quando, reduce dall'America dove aveva studiato il pullulare delle sette protestanti, m'interpellò sul protestantesimo che, soprattutto in quel tempo, era il mio caval di battaglia. E rimanemmo in rapporti fin alla sua morte. Il linguaggio nuovo e stranissime poco sopra accennato era in gran parte opera sua. Perno fondamentale di esso, unitamente ad altri lemmi e formule che insieme costituivan il linguaggio stesso, era (ed è tuttora) lo stupore. Lo si faceva e lo si fa rientrar in tutti contesti. Ritiri ed assemblee dei suoi giovani associati parvero la sua cassa di risonanza; gli scritti e la saggistica sia del fondatore, sia di decine e decine d'Autori, unificati ed ammaliati dal suono magico di quella parola, ne teorizzaron il valore di Vorverständnis per ogn'impresa di conoscenza, anche di quella cristiana. Nello spazio d'alcuni decenni, teologi e pastori, pur tra coloro che sono - o dovrebbero essere - "maestri in Israele" (cf Gv 3,10), si son lasciati contagiare: la premessa d'un'autentica conoscenza di Cristo, del suo mistero e della sua opera, l'approccio univoco e non patteggiabile al tesoro della Rivelazione cristiana e alla realtà della Chiesa, la strada da battere senza se e senza ma da chi vuol risolver il problema della propria Fede, è lo stupore. Stando, infatti, a questa nuova teorizzazione del fatto cristiano e della sua traduzione in termini esistenziali, chi non parte dallo stupore è condannato a brancolare nel buio.
Due riviste, di ben distinti interessi culturali e di ben diversa natura, l'una quasi un diario di famiglia e l'altra uno sguardo sul mondo, fungono da pista di lancio delle nuove idee. Specialmente la seconda, che ogni trenta giorni si propone di portar in casa d'ognuno, nelle più varie lingue ed in tutt'il mondo l'articolata vita della Chiesa, sembra non interessata ad altro: il suo LeitMotiv è lo stupore. Come se esso fosse il piedistallo d'ogni sicurezza religiosa o d'ogni acquisizione nel campo della Fede. "Gesù è l'attrattiva" che "riesce ancora a stupirci" e che bisogna "vedere per credere". Se infatti non si dà della sua realtà storica una visione previa e non se ne rimane affascinati, non ne segue né conoscenza né Fede. "Ottant'anni di stupore" è un titolo che sintetizza la vita d'un novello beato. E sempre lo stupore è l'idea madre di varie interviste rilasciate alla rivista dal fondatore anzidetto, nonché di sue meditazioni, ivi pubblicate poco prima della sua dipartita: un guazzabuglio di parole gratuitamente assertorie, un susseguirsi di frasi ermetiche e sconnesse, le sole forse capaci di suscitare stupore, soprattutto là dove latita il senso comune, per esempio: "L'esperienza è un caso d'amore, o non è" (parrebbe di capire che, al di fuori o contro quella dell'amore, non si dà altra esperienza: non del dolore, né dell'odio, né dell'indifferenza, e via dicendo: nemmeno della morte?); altro esempio: "Dio sopporta se stesso perché è amore". Qui, a dir il vero, lo stupore è allo stato incandescente: "ne verbum quidem"!
Recentemente m'è capitato di legger un discorso d'un'autorevole personalità: un ditirambo allo stupore, fonte d'ogni autentica crescita spirituale. L'impressione che si ricava dall'insieme è che oggi lo stupore abbia soppiantato del tutto l'epoché. Così i Greci, alla scuola di Pirrone, chiamaron la sospensione del giudizio: né un sì né un no. Lo stupore, al contrario, non solo non sospende, ma previene il giudizio e lo prepara, qualora, almen in forma embrionale, non pretenda d'esser giudizio esso stesso. O meglio un pre-giudizio, una comprensione previa, non un'episteme ma il suo avvio dinanzi all'oggetto che colpisce oltre ai miei sensi, anche e soprattutto la mia coscienza e s'imparenta con essa prim'ancora che sia possibile darne una definizione.
2 - Non un'episteme. La quale, come si sa, già alla sua origine greca significa scienza. È, questa, una parola troppo spesso abusata, specie da quanti non tengono nel debito conto i suoi due significati: in senso lato sta per conoscenza; in senso stretto è o un insieme, o l'insieme delle conoscenze logicamente coordinate. Lo stupore, neanche come pre-giudizio, rientra in codesta definizione: se la previene e prepara, non è ancora una vera conoscenza; se non attiene in senso stretto all'ambito delle conoscenze, non può esser un loro coordinamento logico. In effetti, una conoscenza è sempre ed esclusivamente il risultato d'un atteggiamento mentale che apprende la realtà nel suo esser quella realtà e la costituisce al livello della coscienza come contenuto di pensiero, coordinandola in un sistema d'altri contenuti. Donde la ben nota definizione della conoscenza come "adaequatio rei et intellectus": un rapporto tra pensiero e realtà, o tra soggetto ed oggetto, in cui si risolve il c. d, problema gnoseologico.
Non c'è dubbio che per un'adeguata soluzione di codesto problema non s'opera solamente al livello del detto rapporto. Ad esso s'arriva attraverso camminamenti d'avvicinamento: un approccio, sul quale il soggetto ("intellectus") s'attesta per spiccar il volo verso l'oggetto ("res"). Né va dimenticato che l'oggetto stesso si fa presente al soggetto attraverso una sua immagine ("species"), la quale costituisce lo strumento previo con cui il soggetto intende e conosce. È non l' "id quod" della conoscenza, ma l`id quo" che la prepara e la rende possibile.
Non vorrei che un tale indicazione richiamasse alla mente il solo linguaggio scolastico della "species impressa (sensibilis, intelligibilis)" come una sorta d'immagine vicaria dell'oggetto da conoscere; e poiché il linguaggio scolastico non è più in auge, lo si scartasse sprezzantemente proprio per questo. Si tratta in ultim'analisi di quella "percezione" che precede la conoscenza; e di tale percezione non s'interessa solamente san Tommaso. Si trova infatti un'appercezione anche e soprattutto in Leibniz, per il quale è la coscienza più o meno chiara di percepire qualcosa; e la si trova pure in Kant che l'adorna del qualificativo "trascendentale" per farne addirittura l'atto fondamentale dell'intelletto: in lui la fase previa del conoscere è così superata. Il termine ricorre pure in altri: p. es. in Herbart, la cui appercezione è il processo dell'acquisizione mentale, val a dire quel processo mentale d'un'esperienza che s'adatta al cumulo dell'esperienze già vissute e diventa tutt'uno con esse. Né mancan altre accezioni d'appercezione, tali che, di modifica in modifica, le fan perder il significato originale di fenomeno pre-razionale.
Nemmeno il processo gnoseologico che si conclude con l' "adaequatio rei et intellectus" ignora il momento pre-razionale. Lo dimostra l'ineludibilità del dato sensibile, come sostiene il ben noto adagio: "Nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu". Non perché la conoscenza intellettiva sia subordinata a quella sensitiva, né perché l'una e l'altra sian kantianamente considerate come alterità da sintetizzare; ma perché l'una è ordinata all'altra e questa, cioè la conoscenza intellettiva, s'avvale di quella sensitiva per costituirsi in conoscenza autenticamente umana. Il momento razionale, come si vede, signoreggia il fenomeno gnoseologico; ma esso non farebbe mai la sua comparsa se mancasse il momento pre-razionale.
Tenendo presente la reciproca relatività ch'esclude nettamente l'alterità poco sopra accennata, va detto che i sensi non s'oppongono alla ragione e che questa li presuppone per giungere alla conoscenza. La conseguenza è che il momento razionale è infinitamente più nobile di quello sensibile, in assenza del quale, tuttavia, non ci sarebbe conoscenza, perché "nulla è nell'intelletto se prima non sia stato nei sensi".
3 - A me pare che l'ambito e la funzione dello stupore si definiscano all'interno del momento pre-razionale e che, pertanto, un innalzamento dello stupore a principio conoscitivo, e peggio che mai, un'assolutizzazione di esso come unica capacità di conoscenza, sian del tutto insostenibili e cadano addirittura nell'assurdo. Senza pensarlo, chi ciò sostenesse rinnoverebbe infatti l'assurdo di M. Heidegger nello scavalcar il primato kantiano dell'intelletto a favore dell'intuizione sensibile ed annullerebbe col medesimo Kant l'alterità fra intuizione e pensiero, l'una preferendo all'altro, privilegiandola quindi sull'intelletto e la volontà, in funzione d'una conoscenza in pari tempo intuitiva-sensibile-volitiva-esistenziale.
Che lo stupore non debba elevarsi a principio di conoscenza né debba sostituirsi alle condizioni oggettive e soggettive del conoscere, non comporta la negazione dello stupore stesso, ma esige una connotazione razionale del suo essere e del suo operare. Ora, a chiunque sia in grado di compier l'accennata connotazione, lo stupore si rivela esattamente com'uno stato d'immobilismo razionale e discorsivo; quindi, in ultim'analisi, un immobilismo conoscitivo. Uno stato d'animo, cioè, oscillante tra la sorpresa e l'emozione. Tuttavia, anche in codesti limiti, è pur sempre qualcosa. Non produrrà lo scatto che adegua l'oggetto al soggetto perché questo incameri assimili definisca ed incarni l'oggetto stesso; ma predispone il detto adeguamento.
Allo scopo d'individuare lo stato d'immobilismo al quale mi son appena riferito, è sufficiente l'esperienza d'ognuno. Non si dà infatti individuo umano che non si sia mai ritrovato in codesto stato e non sia naturalmente predisposto per esso. E lo stato in cui si vien all'improvviso o gradatamente a trovarsi, quando s'è colpiti da qualcosa d'indicibilmente meraviglioso e d'inaspettato. Per non esser frainteso, dirò che con l'espressione immobilismo razionale non intendo affatto la condizione psichicamente patologica che la psicologia riconosce in esso. Per gli psicologi di professione sembra, appunto, che un tale immobilismo rallenti fin a bloccarli i meccanismi psico-motori, non perché si tratti d'una vera malattia che attacchi tali meccanismi, ma d'un condizionamento imprevisto e non voluto dei medesimi. Si tratta, infatti, dello stupore nel senso più proprio del termine(4): d'uno stordimento, d'uno sbalordimento, d'una meraviglia così profonda ed imprevista che ti lascia di stucco e senza fiato. Può darsi, peraltro, che determini una sorta di paralisi psichica: solo allora è una vera malattia e si chiama stupore epilettico; e vera malattia è l'autogratificazione dello stupore maniaco, la tensione psichica dello stupore melanconico, il blocco psichico dello stupore catatonico.
Nelle ultime precisazioni non si legga affatto né disprezzo né condanna dello stupore: è un accenno a stati patologici di esso, non ad esso come patologia. Resta il fatto, però, che anche nella sua accezione più nobile, lo stupore ha per effetto l'immobilismo razionale cui poco sopra ho fatto riferimento. È qualcosa che avviene al di fuori della coerente completezza d'un processo conoscitivo, o d'un sistema assiomatico i cui nessi formali sian razionalmente dimostrabili e coordinabili nell'unità e nell'armonia d'un sistema, garantite ambedue da una siffatta razionalizzazione formale. Chi però si chiudesse in un sistema assiomatico e nella stessa deduttibilità formale di cui sopra, sbaglierebbe. La verità non sempre e non necessariamente passa attraverso codesto itinerario; c'è, infatti, la verità che trascende ogni deduzione e, di conseguenza, ogni sapere deduttivo. Se è vero che la capacità discorsiva e raziocinante è la grandezza dell'uomo, è altresì vero che tale capacità ha anche il suo limite e si blocca talvolta su di esso. Talvolta, ossia non ordinariamente bensì in casi particolari, si dà una "visione" speciale, una contemplazione "intuitiva", un`estasi" che vede l'oggetto ma non lo conosce nel senso razionale del termine.
Gli strumenti mediante i quali opera la conoscenza razionale son segnatamente il raziocinio ed il giudizio: traguardo finale d'un meccanismo complesso, che comprende riflessione analisi confronto e discussione, nell'intento di pesare e soppesar ogni aspetto del reale. Nei casi particolari del vedere senza conoscere, tutto questo tace. E tutt'è immobile. Quella che potrebbe apparire come l'unica attività è prima di tutto una passività. La recepisco, quasi vitalmente, e quindi la contemplo nella sua "species". E mi meraviglio o ne inorridisco.
Credo che lo stupore sia da collocare all'interno d'una tale esperienza. E del suo limite conoscitivo, non essendo in moto nessuno strumento del conoscere, bensì il solo contemplare. La qual cosa, che non dovrebb'esser mai dimenticata, non significa affatto, né di per sé determina, un'antitesi tra conoscenza e contemplazione. Dico dunque esperienza non conoscitiva per indicare che, in essa, il processo conoscitivo della verità come contenuto di pensiero si blocca. La contemplazione si verifica, in effetti, come un fenomeno di vita spirituale, in cui il pensiero si lascia assorbire dal suo contenuto e il soggetto si trasfonde e quasi s'immedesima nell'oggetto. Da una tale inesione sgorga un fiotto di sentimenti acritici, quali l'ammirazione, la commozione, la meraviglia, l'entusiasmo, la depressione, l'irritazione, l'orrore: non dunque una conoscenza, ma una condizione esperienziale, uno stato d'animo, un'effervescenza di stati d'animo.
Dell'oggetto da conoscere non si ha, in tali stati, che una vaga intuizione, un'appercezione umbratile, un acuto richiamo, una specie di nostalgia di ciò che ancora è nascosto o lontano. Il desiderio di esso s'intensifica fin a diventare spasmodico, specie quando si tratta di ciò che, dalle sue oscure lontananze, trasparisce come il valore essenziale e la vita della nostra vita. Ma non se ne sa nulla: né che cosa sia, né in che cosa consista. Se ne intravedon i bagliori di fuoco, nel cui vortice potrebbe incenerirsi ogni inautenticità, colmando tutt'il nostro non conoscere; ma questo resta tale, forse anche più tormentante che mai per la mancanza di presa su quella grazia, quella bellezza, quella vita ancor tanto lontana, perché ancor estranea ai meccanismi della conoscenza. Gli accennati bagliori esercitan un'azione possente e delicata non tanto sull'intelletto, quanto sul cuore umano: le sue frequenze si moltiplicano, lo stupore va alle stelle; ma l'ombra non si trasforma in luce, né il balenio crepuscolare dell'oggetto esplode nella solare certezza d'un ragionamento o d'una definizione, se non quando allo stupore subentra la conoscenza.
Per parlare obbiettivamente di conoscenza sarà utile ritornare al rapporto oggetto-soggetto: l'adaequatio rei et intellectus. Un tale rapporto non dipende né da una libera scelta umana, né da una conquista dell'umana intelligenza: è r e a l i s m o, adesione alla realtà delle cose, esattamente il contrario, perciò, di qualunque forma d'idealismo. Per la medesima ragione realistica, il rapporto suddetto presuppone oggetto e soggetto, ma non s'identifica nell'operazione puramente soggettiva d'analisi ed interpretazione dell'esperienza, come a dire non ha nulla a che fare con forme d'empirismo e di fenomenismo. L'insistenza tomasiana e scolastica in genere sulla species porta il discorso nell'ambito del conoscere per rappresentazione della realtà: non quindi dei sentimenti che la realtà suscita nel soggetto, ma di quell'immagine attraverso la quale il soggetto stesso percepisce la realtà e se n'appropria conoscendola. Ciò non sottintende che tale conoscenza sia automaticamente vera; potrebbe infatti non esserlo se l'immagine percepita fosse deformante, percepita cioè in modo difforme dalla realtà e desse di questa, pertanto, una rappresentazione non obbiettiva.
S'è già rilevato, a tale riguardo, il momento fondamentale dei sensi. Non c'è conoscenza umana che possa prescinderne. Se, infatti, l'oggetto del conoscere è prima nel senso che non nell'intelletto, ne segue che l'esperienza sensitiva è il grande libro della realtà, aperto dinanzi all'intelletto, o meglio alla sua lettura razionalizzante e sistematica. Ciò significa che l'immagine percepita non è ancora conoscenza vera e piena, ma soltanto una sua preparazione e predisposizione: non a caso poco fa ho detto "pre-razionale". Ma significa pure la grande importanza del "pre-razionale" come orizzonte all'interno del quale la conoscenza intellettiva seleziona ed analizza le immagini per "trarne" adeguati concetti. Sintomatico codesto "trarne": esso indica che l'intelletto aderisce ai dati forniti dai sensi, recependoli, soppesandoli, selezionandoli ed "astraendone" quei concetti nei quali si consolida e consiste la conoscenza intellettiva. L'astrazione è dunque la prima operazione veramente razionale, che senz'alcun bisogno dell'illuminazione agostiniana, avvia le fasi successive del giudizio e del raziocinio. Il livello "pre-razionale", privo essendo di concetti ed incapace anzi della concettualizzazione, è di per sé implicato nei meccanismi della conoscenza, ma ben lontano ancora da quella astrattiva; la sola conoscenza che in esso si verifica è la sensitiva, complessa, indeterminata, criticamente non signoreggiata. Chiusa nel regno della sensibilità, determina momenti di commozione, di gioia, d'esaltazione, d'entusiasmo; o il loro esatto contrario. Lo stupore ne fa parte. E pertanto non è conoscenza, né ad essa appartiene.
5 - Oggi è frequente che allo stupore s'aggiungano la gioia e la bellezza. Si richiaman a vicenda. La bellezza è infatti tutto ciò che suscita un sentimento d'ammirazione, e quindi lo stupore. Diverso è il significato della gioia, che nel quadro del pensiero tomasiano, è sempre un valore razionale, in quanto "delectatio" che procede dalla ragione(6). Se ne parla, tuttavia, un po' all'ingrosso, in un quadro d'estetismo sentimental-teologico, che sembra posporre il valore conoscitivo a quello emotivo. Non mi riferisco, ovviamente, al linguaggio emozionale che scaturisce dalle teorizzazioni freudiane, ma alle emozioni in quanto tali ed alle condizioni psichiche da esse determinate. Poiché il vero kosmos, il vero ordine, la vera armonia, in breve la vera bellezza è il riflesso della divina perfezione, ecco allora che ad interessarsene è una specie di teologia estetica, al centro della quale lo stupore fa la parte del leone. E poiché l'intelletto, procedendo per via analogica, dà un contenuto razionale alla bellezza creaturale come segno di quella divina, nonché alla gioia dell'esser in essa coinvolti, alla teologia estetica si congiunge, se così posso esprimermi, quella emozionale, con lo stupore che ancor una volta si porta in primo piano.
È ovvio che non intendo affatto escluder la gioia e la bellezza dall'ambito conoscitivo ed ancor meno dalla scienza teologica e dall'esperienza cristiana. Vorrei semplicemente che, parlandone, non s'andasse fuori strada.
Brunero Gherardini
_____________________________________________(1) La Sacra Bibbia, a c. di B. Mariani, con collaboratori di non comune rilevanza, Garzanti, Milano 1964.
(2) Bibliorum Sacrorum Editio, iussu Pauli PP. VI recognita, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgata, Libreria Editrice Vaticana 1979.
(3) Fra i non pochi commenti al Qohélet, rimando a ZIMMERLI W., Prediger, ATD, Gottinga 1962; Di FoNzo L., Ecclesiaste, "La Sacra Bibbia" a c. di S. Garofalo, Marietti, Torino 1967; SACCHI P., Ecclesiaste, NVB, Roma 1971.
(4) Dal latino stupere, meravigliarsi profondamente, sbalordire, d'incerta radice, forse da (s)tup del greco typto, o dal sanscrito tupami, o dall'antico slavo tupu, cf Dizionario etimologico - edizione aggiornata, Rusconi Libri, Milano 2005, p. 906.
(5) MARITAIN J., Distinguer pour unir - Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959'.
(6) S. TOMMASO, STh I/2, 31, 3: "Nomen gaudii non habet locum nisi in delectatione, quae consequitur rationem"; cf ibid. I/2, 35,2.
........................
[Fonte: Divinitas, Rivista Internazionale di Ricerca e di Critica Teologica, n.3/1012, pag.353-362]
........................
[Fonte: Divinitas, Rivista Internazionale di Ricerca e di Critica Teologica, n.3/1012, pag.353-362]
L'ottimo Gherardini non ha lasciato pietra su pietra della teologia giussaniana!
RispondiEliminaNon devo proprio aggiungere altro, se non proporre una lettura sinottica di due brani:
“Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che l'uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l'uno esterno, ed è il mondo visibile; l'altro interno, ed è la coscienza. Toccato che abbiano o l'uno o l'altro di questi termini, non hanno come passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell'inconoscibile. Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell'uomo oltre ogni cosa visibile, o si celi entro l'uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell'animo già inclinato a religione un certo particolar sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l'uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione.” Pascendi Dominici gregis.
"Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso." Nostra Aetate.
Come può facilmente constatarsi, il “senso religioso”, che fa la sua comparsa ufficiale in uno dei peggiori documenti del CVII, non è altro che la riproposizione del “sentimento religioso”, cuore della teologia modernista.
Un bel regalo di Giussani e Montini
http://www.ilfoglio.it/recensioni/120
Ben altra è la nozione cattolica di fede quale virtù teologale.
All'epoca dei miei studi teologici, ho avuto come docente di "Estetica" il prof. Borghesi. Per un semestre abbiamo percorso e sminuzzato, con accenti di elegante nonché dotta e affascinante dissertazione, "Il senso religioso" di Giussani.
RispondiEliminaQuel che mi è rimasto è solo un grande "stupore"...
Non nego che certe intuizioni non possano aprire la strada all'incontro personale col Signore. Ma "aprono la strada", appunto, non sono "l'incontro". Non possiamo amare senza conoscere. Il sentimento non può essere slegato dalla conoscenza. Altrimenti è solo sentimentalismo.
Gherardini lo ha spiegato in termini magistralmente chiari e precisi.
Amerio parlava della "dislocazione della Divina Monotriade": il sentimentalismo che prevale sulla conoscenza, proprio del post-concilio. Lo Spirito (Amore Azione) discende dal Padre (Ragione Conoscenza) e non viceversa...
E da questa distorsione fa derivare la crisi attuale.
Mi viene in mente la prassi ateoretica del nuovo papa...
"Perché il sentimento religioso esiste là dove esiste la religione."
RispondiEliminadom Prosper Gueranger
"Perché il sentimento religioso esiste là dove esiste la religione."
RispondiEliminaNon contraddice nulla di quel che abbiamo detto. Perché il sentimento è legato all'esperienza e alla conoscenza che ne deriva.
Riporto qui alcuni punti della trattazione di mons. Gherardini per sgombrare da ogni equivoco di approssimazione e sottolinearne l'equilibrio e la completezza d'analisi.
RispondiElimina....
Che lo stupore non debba elevarsi a principio di conoscenza né debba sostituirsi alle condizioni oggettive e soggettive del conoscere, non comporta la negazione dello stupore stesso, ma esige una connotazione razionale del suo essere e del suo operare.
...
Chi però si chiudesse in un sistema assiomatico e nella stessa deduttibilità formale di cui sopra, sbaglierebbe. La verità non sempre e non necessariamente passa attraverso codesto itinerario; c'è, infatti, la verità che trascende ogni deduzione e, di conseguenza, ogni sapere deduttivo. Se è vero che la capacità discorsiva e raziocinante è la grandezza dell'uomo, è altresì vero che tale capacità ha anche il suo limite e si blocca talvolta su di esso. Talvolta, ossia non ordinariamente bensì in casi particolari, si dà una "visione" speciale, una contemplazione "intuitiva", un`estasi" che vede l'oggetto ma non lo conosce nel senso razionale del termine.
....
Credo che lo stupore sia da collocare all'interno d'una tale esperienza. E del suo limite conoscitivo, non essendo in moto nessuno strumento del conoscere, bensì il solo contemplare. La qual cosa, che non dovrebb'esser mai dimenticata, non significa affatto, né di per sé determina, un'antitesi tra conoscenza e contemplazione. Dico dunque esperienza non conoscitiva per indicare che, in essa, il processo conoscitivo della verità come contenuto di pensiero si blocca. La contemplazione si verifica, in effetti, come un fenomeno di vita spirituale, in cui il pensiero si lascia assorbire dal suo contenuto e il soggetto si trasfonde e quasi s'immedesima nell'oggetto. Da una tale inesione sgorga un fiotto di sentimenti acritici, quali l'ammirazione, la commozione, la meraviglia, l'entusiasmo, la depressione, l'irritazione, l'orrore: non dunque una conoscenza, ma una condizione esperienziale, uno stato d'animo, un'effervescenza di stati d'animo.
....
Oggi è frequente che allo stupore s'aggiungano la gioia e la bellezza. Si richiaman a vicenda. La bellezza è infatti tutto ciò che suscita un sentimento d'ammirazione, e quindi lo stupore. Diverso è il significato della gioia, che nel quadro del pensiero tomasiano, è sempre un valore razionale, in quanto "delectatio" che procede dalla ragione(6). Se ne parla, tuttavia, un po' all'ingrosso, in un quadro d'estetismo sentimental-teologico, che sembra posporre il valore conoscitivo a quello emotivo. Non mi riferisco, ovviamente, al linguaggio emozionale che scaturisce dalle teorizzazioni freudiane, ma alle emozioni in quanto tali ed alle condizioni psichiche da esse determinate. Poiché il vero kosmos, il vero ordine, la vera armonia, in breve la vera bellezza è il riflesso della divina perfezione, ecco allora che ad interessarsene è una specie di teologia estetica, al centro della quale lo stupore fa la parte del leone. E poiché l'intelletto, procedendo per via analogica, dà un contenuto razionale alla bellezza creaturale come segno di quella divina, nonché alla gioia dell'esser in essa coinvolti, alla teologia estetica si congiunge, se così posso esprimermi, quella emozionale, con lo stupore che ancor una volta si porta in primo piano.
È ovvio che non intendo affatto escluder la gioia e la bellezza dall'ambito conoscitivo ed ancor meno dalla scienza teologica e dall'esperienza cristiana. Vorrei semplicemente che, parlandone, non s'andasse fuori strada.
"Perché il sentimento religioso esiste là dove esiste la religione."
RispondiEliminaNon contraddice nulla di quel che abbiamo detto. Perché il sentimento è legato all'esperienza e alla conoscenza che ne deriva.
Sono stato frainteso. La frase di Gueranger è da intendersi come precedenza dell'oggetto rispetto al soggetto. Si fa esperienza di religione solo in quanto si conosce la religione stessa. Mi ricollegavo al concetto espresso da R. Amerio.
Sono stato frainteso. La frase di Gueranger è da intendersi come precedenza dell'oggetto rispetto al soggetto. Si fa esperienza di religione solo in quanto si conosce la religione stessa. Mi ricollegavo al concetto espresso da R. Amerio.
RispondiEliminaOK. Grazie :)
L'argomentare di Gherardini è ineccepibile, proprio nella misura in cui lo stesso autore invita tra le righe a "testarne" la veridicità.
RispondiEliminaRibattere alle sue ragionevoli affermazioni implica sgombrare la mente e lo spirito da tutti quei «freni sensitivi» che impediscono di cogliere la vera essenza di ciò che è profondamente reale, ossia radicato nella realtà.
Tra i tanti passaggi degni di nota, mi soffermo su uno di immediata portata:
«[...] Ora, a chiunque sia in grado di compier l'accennata connotazione, lo stupore si rivela esattamente com'uno stato d'immobilismo razionale e discorsivo; quindi, in ultim'analisi, un immobilismo conoscitivo. Uno stato d'animo, cioè, oscillante tra la sorpresa e l'emozione.»
In poche righe, ecco spiegato il sentimentalismo sterile di cui è intriso il concetto di religione e religiosità oggigiorno (non solo all'interno della Chiesa, dunque). Trattasi di un perpetuo mercanteggiare con le proprie sensazioni/emozioni, attingendo esclusivamente da esse quella linfa vitale che dovrebbe nutrire e coltivare la Fede.
Ma stante proprio quanto afferma il Gherardini, ciò è sommamente pericoloso, in virtù della connaturata ed insopprimibile arbitrarietà e "volatilità" di tutto ciò che ha a che fare coi sensi e con loro soltanto. Qualora non fosse stato abbastanza chiaro l'autore, non va qui scorta condanna alcuna nei riguardi della sfera sensitiva. Ma la sua impossibilità di essere soggetta ad una qualsivoglia «sistemazione», rende quest'ultima una componente per nulla affidabile al fine di «fissare» concetti, immagini e visioni che anche grazie ad essi filtrano ma non «restano».
È un po' come una costante onda anomala che ci passa davanti agli occhi, a pochi centimetri di distanza: se riusciamo a «vedere» ciò che trascina al suo interno è proprio grazie al nostro «sentire» che è proprio dei sensi (per l'appunto) prima ancora che dell'intelletto. Tuttavia è solo grazie a quest'ultimo che possiamo allungare le braccia e tirar fuori («trarne», cit.) ciò che realmente ci abbisogna per «leggerla». Diversamente l'onda ci scorrerà davanti sottoponendoci le più svariate "cose", di cui però ci saremo dimenticati l'istante successivo per via del martellante incalzare di queste "visioni".
Da qui il mai risolto senso d'incompiuto, che tutti più o meno ci attanaglia poiché essenzialmente immersi in una dimensione perfettibile ma mai perfetta; ma che nella maggior parte dei casi diventa, letteralmente, motivo di perdizione, nell'accezione di smarrimento esistenziale. Quando gli input dei sensi si mescolano, si negano, si contraddicono oppure temporaneamente vengono meno, l'uomo, in balia di essi, non dispone di arma alcuna per far fronte a tale condizione. Ed allora ripiega su «qualcuno» o «qualcosa» che possa fabbricargli delle nuove emozioni/sensazioni, quali che siano le loro forme ed i loro contenuti. Tramite tale modo di usare dei sensi, nondimeno, l'uomo non trova mai un senso.
Grazie, Antonio, per questa lettura e sottolineatura personali.
RispondiEliminaE' questo di cui c'è bisogno, per trarre il succo e anche dei frutti da ogni argomento proposto, che contengono il 'seme' di ulteriori approfondimenti e aperture d'orizzonte.
Più tardi approfitterò per sviluppare gli input che ci hai fornito. Nel frattempo spero che ci siano altri sia a cogliere il tuo esempio che a trarre ispirazione da quel che hai detto tu.
Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo
RispondiEliminaè l’arroganza1 dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai
presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va, e andando va sempre da
dove è venuto. Tu sei il diavolo e come il diavolo vivi nelle tenebre.
Chi sta apostrofando, Anonimo, con le parole di Umberto Eco?
RispondiEliminaChe c'entra?
Anonimo, ipse venena bibas!
RispondiEliminaSolo lo stupore conosce!
RispondiEliminahttp://www.30giorni.it/articoli_id_13761_l1.htm
«Conoscere non è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico.
RispondiEliminaOgni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo.
In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati.
Nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende.
In ogni conoscenza ed in ogni atto d'amore l'anima dell'uomo sperimenta un "di più" che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un'altezza a cui ci sentiamo elevati»
(Benedetto XVI, Caritas in veritate)
Mons. Gherardini non fa una critica dello stupore, invita solo a non confonderlo con la conoscenza.
RispondiEliminaE neppure esclude la possibilità di una conoscenza non sensitiva che scaturisce dalla contemplazione oppure è dono imprevedibile.
Invita e aiuta a non confondere i piani, fornendo non solo elementi di ragione, ma anche 'sapienziali'.
http://www.tempi.it/il-mio-amico-don-giacomo-come-francesco-i-papa-bergoglio-parlo-di-tantardini#.UaUic6ItwUU
RispondiEliminaTutti stupiti, anche Bergoglio stupito ... com'é che non mi stupisce?
RispondiEliminaNoli me tangere(Gv 20,17)
CL e Don Giussani riducono e definiscono Gesù allo stupore di un fatto, di un evento, di un incontro, di un'esperienza sensibile esteriore. Il loro metodo si appoggia su questa dinamica.
Però, pensando in questi termini, cadono nell'errore del naturalismo. Lo stupore e l'esperienza sensibile possono ingannare, la fede non sbaglia mai.
San Bernardo di Chiaravalle, dottore e padre della Chiesa, coglie l'errore di CL in un passo stupendo dei suoi sermoni sul Cantico dei cantici.
Eccolo:
"Non è forse vero che il cielo e la terra, e tutto quello che di carnale l’occhio può scorgere, passeranno e periranno prima che passi un solo iota o un solo apice di tutto quello che ha detto Dio? Eppure la Maddalena cessò di piangere solo quando vide Gesù con gli occhi e non aveva voluto consolarsi nella parola del Signore, facendo più conto dell’esperienza che non della fede. Ma l’esperienza può ingannare.
Viene dunque rimandata alla conoscenza più sicura che viene dalla fede; poiché colei che apprende ciò che il senso ignora, fa una esperienza fallace. Non toccarmi (Gv 20,17) le dice, vale a dire: non fidarti di questo ingannevole senso; appoggiati sulla parola, abituati alla fede.
La fede non può sbagliare, la fede che abbraccia le cose invisibili non sente la povertà del senso e va oltre anche i confini dell’umana ragione, il corso della natura ei termini dell’esperienza. Perché interrogare l’occhio per una realtà a cui esso non arriva? E perché cercare dalla mano ciò che è al di sopra di essa? È troppo scarsa l’informazione che l’uno e l’altra ti possono dare. La fede ti parli di me, essa che può farlo senza sminuire la mia maestà Impara a cercare la certezza, e a seguire la sicurezza in quello che essa ti suggerisce. Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre mio (Gv 20,17).
Quasi che una volta asceso al Padre voglia o possa essere toccato da lei. E lo potrà veramente, ma con l’affetto, non con la mano; con il desiderio, non con gli occhi; con la fede, non con i sensi. Perché, dice, cerchi tu adesso di toccarmi, tu che pensi di comprendere la gloria della risurrezione tramite i sensi del corpo? Non sai che ancora durante la mia vita mortale, gli occhi dei discepoli non furono capaci di sostenere per un momento la gloria del mio corpo trasfigurato, che pure avrebbe dovuto morire? Io mi adatto, è vero, ai tuoi sensi, mostrandomi in forma servile, per farmi riconoscere, come d’abitudine. Ma la mia gloria è divenuta stupenda per te, troppo alta e non la puoi comprendere. Differisci dunque il giudizio, sospendi la sentenza, e non affidare la definizione di una cosa così grande ai sensi, ma riservala alla fede. Questa darà una definizione più degna, più certa, avendo una cognizione più piena. Questa comprende, con il suo mistico e profondo seno quale sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità. Ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né cuore umano comprese, questa lo porta in sé quasi racchiuso in un involucro, e lo conserva sigillato." (San Bernardo, dal sermone 28)
Il prof. Gherardini mi ... stupisce. Eh già, perchè non solo nella sua versione italiana antica (ostupescere) ma anche in latino obstupescere ha il noto significato di "istupidire", "diventare stupido", come peraltro Mons. Antonio Martini tradusse Eccl. 7.17 nel '700 (in lettere: NEL SETTECENTO).
RispondiEliminaEcco la traduzione di A. Martini:
Guardati dal voler essere troppo giusto; e non voler essere più saggio, che non bisogna, affin di non diventar stupido. (pag. 326 del tomo XIII, edizione di Prato 1829.
Dice Nicolò Tommaseo: Ostupescere. V. n. ass. Aff. al latino aur. Obstupiscere, Instupidire Niccolò Tommaseo - Bernardo Bellini, Nuovo Dizionario della Lingua Italiana, vol. III, p. I, Roma 1871 pag. 693.
Informarsi, prima di criticare la Volgata e San Girolamo.
Ottimo Andrea M., passo meraviglioso che racchiude il cuore della teologia e della spiritualità del grande cistercense.
RispondiEliminaConcordo sul rischio di naturalismo, ma forse considererei anche quello di ontologismo.
Legger meglio, prima di criticare Gherardini.
RispondiEliminaNell'articolo egli non critica Girolamo, ne sfiora appena la versione, per introdurre la gamma delle pissibili sfumature di un senso difficile da rendere e che conclude perfino con un "non far lo scemo" che alla fine coincide con la sua sottolineatura iniziale.
Del resto mi pare che l'analisi abbia delineato con grande chiarezza i diversi aspetti dello stupore, arrivando ai due estremi: quello patologico, quello catatonico, e quello dell'"estasi sana" derivante da un'esperienza soprasensibile del divino o dalla contemplazione. Nel mezzo, molte possibili forme di stupore, alle quali la persona resta pur sempre soggetta.
Ricordo comunque che le traduzioni non sono mai letterali né univoche e che dipendono anche dal contesto...
RispondiEliminaConcordo con Louis Martin.
RispondiEliminaDice Gherardini:
RispondiElimina"Stante un siffatto stato di cose, è fondato il sospetto che la pur benemerita Vulgata geronimiana sia incorsa in errore..."
Se il professor Gherardini non sa cosa significhi obstupescere in latino, allora sutor ne ultra crepidam.
Se invece lo sa, come il suo livello culturale induce a ritenere, allora è assai peggio.
Resta in ogni caso la critica di Gherardini a San Girolamo ed alla Vulgata. A meno che si voglia negare l'evidenza.
Se il professor Gherardini non sa cosa significhi obstupescere in latino, allora sutor ne ultra crepidam.
RispondiEliminaLei sta ignorando quel che ho scritto sopra, e cioè che le traduzioni non sono mai univoche e dipendono dal contesto.
Se deve criticare mons. Gherardini per partito preso, accentuando come basilare una citazione fatta tra parentesi nella sua lunga articolata trattazione, vada a farlo da un'altra parte.
Del resto, anche mons. Gherardini non è infallibile; il che tuttavia non esclude la sua autorevolezza e la sua acribia.
Se, poi vogliamo fare fino in fondo il discorso su S. Girolamo e la sua vulgata, sono ben consapevole che ci sono alcune sue traduzioni che sono state riprese e criticate, soprattutto di recente; ma non da mons. Gherardini e soprattutto non tenendo conto del fatto che spesso quanto oggi si ritiene poco chiaro o difforme, deriva invece da una meditata e profonda conoscenza dei testi, anche nella lingua originale per di più conosciuta nel suo contesto. Conoscenza e interpretazione derivate dalla frequentazione e consultazione dell'"ambiente" originale nel quale i testi sono nati...
Ma nel caso di Mons. Gherardini, vien formulato un 'sospetto' nell'ordine delle plurime 'sfumature' considerate. Perché mettere l'accento su una così marginale parentesi e volerne tirar fuori una critica? Del resto anche Girolamo non è infallibile e lei non dimostra l'esattezza della traduzione di Girolamo, alla quale peraltro io di solito aderisco per principio per i motivi che ho già espressi.
Non vado oltre perché non è l'argomento di questa discussione; ma è l'essenziale.
Conoscenza e interpretazione derivate dalla frequentazione e consultazione dell'"ambiente" originale nel quale i testi sono nati...
RispondiElimina... oltre alla personale Fede 'sapienziale' di Girolamo.
Volete (non) stupire?
RispondiEliminaLeggete i commenti in:
http://www.luigiaccattoli.it/blog/?p=11629
I "peperoncini all’aceto" sono ottimi e fanno bene alla salute ... non altrettanto gli zuccheri semplici ... sempliciotti ... semplicistici ...
RispondiElimina
RispondiEliminahttp://archivio.panorama.it/Gius-privato-come-mai-l-avete-conosciuto
"Don Giuss privato, come mai l'avete conosciuto" di Renato Farina, alcuni pezzi estratti dall'articolo:
"Integralista e moralista lui? Mai, assolutamente mai. Nessuno tra noi lo ha mai sentito fare lezioni sull'etica sessuale. Quando qualcuno chiedeva consigli o giudizi, la solita storia dei rapporti prematrimoniali, diceva le cose della Chiesa, nessuna deroga dai comandamenti, ma diceva che in quel ramo era assai difficile commettere peccato mortale, la passione e la fragilità non consentono il deliberato consenso. Mi disse una volta: «Capisci, l'uomo è fatto per la libertà. È sbagliato mettere l'accento sulla questione del peccato».
Un giorno all'aeroporto di Parigi ebbi una discussione sulla contraccezione, pillola e affini. Mi guardò: «È stato Paolo VI a fissare la regola. E lo stesso Montini, su questo argomento, ricevendo un gruppo di famiglie disse: "Esiste anche il peccato veniale"». In quella circostanza, era il 1988, mi confidò di essere d'accordo con Hans Urs von Balthasar, il teologo svizzero: la misericordia di Dio è tanto forte che forse l'inferno è vuoto, l'uomo è libero ma la misericordia è così bella che forse alla fine nessuno resiste all'amore."
"Lui peraltro non accettava le sigarette, preferiva i sigari, il suo preferito l'antico toscano. Amava anche gli avana.
Un giorno ne regalò una scatola all'amico Carras, uno spagnolo che da anarchico antifranchista era stato conquistato da quello sguardo, e si manteneva facendo le pulizie nella sede di Cl (ora è uno dei capi). Carras: «Io non fumo più, ho proprio smesso, mi faceva male». Gius: «Hai fatto male a smettere. Il godimento della bellezza esige il dominio».
Non so a questo punto se il ministro Girolamo Sirchia testimonierà contro la sua beatificazione, ma è così umano tutto questo, così capace di cogliere in ogni frammento il riflesso del grande Dio."
"Come definire don Giussani? Joseph Ratzinger ai funerali ha letto l'omelia funebre più gloriosa mai pronunciata da un cardinale. Ha parlato di musica e di innamoramenti, di valle oscura e di eternità. Ha detto: «Era ferito dalla bellezza. La sua casa, da bambino, era povera di pane ma ricca di musica. La sua storia è la vicenda di un innamoramento». Qui avrei pudore a dire il nome di Gesù Cristo. Non si usa, passa per cosa da preti. La pronuncio ancora una volta, poi più."
"Era perché amava la vita intera. Poi ci versava quella segreta essenza senza di cui anche il miglior Barolo (gli piaceva molto, così come il Gattinara e il Barbaresco) sarebbe da versare in un tombino: l'amore, il significato della vita, la certezza della misericordia. Non parole predicate da un pazzo, ma tutte diligentemente fondate razionalmente. Un giorno, in una discussione con dei ragazzi così giovani e già così disperati, spiegò: «La suprema categoria della ragione è la possibilità. Tenete aperta questa possibilità». Qualche giorno dopo suonarono al suo campanello."
"Lui l'ha testimoniato nella malattia, vissuta come offerta totale. Un giorno disse: «Mi ha dato tanto Dio, è giusto che mi renda così impacciata la parola perché non mi insuperbisca»."
"Siamo alle profezie. Don Giuss diceva: Ebrei: «Se non ci sarà prima la fine del mondo, cristiani ed ebrei saranno una cosa sola nel giro di 60-70 anni»."
RispondiEliminaStupore patologico?
Lo psicanalista Giacomo Contri descrive la figura di Don Giussani:
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2011/2011-04/2011-04-26-BLOG-luigi%20giussani.htm
"Determinerò ora il suo “carattere” in un solo tratto, senza celare che mi considero il suo migliore biografo.
Nella piattezza pia di un’abitudine presa (ma tradizione non è provincia), questo uomo come un fulmine a ciel sereno parlava di Gesù come di un “fatto”: la parola “fatto” è stata la più giussaniana tra tutte, e dire che di trovate lessicali ne ha avute parecchie lavorando di parole come di aratro.
Voglio essere non meno fulmineo nel connotare la scissione iniziale che lentamente doveva trovare esito in un epilogo soggettivamente, o psichicamente, drammatico:
infatti, vero che il suo pensiero era nel modo più personale tutto condensato su Gesù come fatto, (non come teologia o morale), però questo fatto è stato subito scisso dall’essere fatto di pensiero, pensiero sulle gambe, come pure dall’essere fatto di discorso sulle gambe, diciamo pure logos incarnato.
Separato da pensiero e discorso, Gesù restava solo come una meteora unica, emozionante, ineffabilmente affascinante, stupefacente: un’altra parola ipergiussaniana era “stupore”.
La stessa parola “Dio”,ha finito per essere sostituita dalla parola “Mistero”.
Qui va osservato un beneficio secondario che Giussani traeva dalla scissione, ossia il fatto che il suo non è mai stato un discorso teologico(proprio come non lo era il discorso di Gesù): ma ciò andava di pari passo, sguarnito come restava di teologemi come di filosofemi, con il rimanere sguarnito di argomenti: e senza cercare soccorso in una “logica” perversa, ciò a suo merito, diversamente da molti altri che nella perversione, logica prima che comportamentale, hanno cercato riparo dalla psicosi.
Non mi ha dunque sorpreso che sul tardi arrivasse perfino a lasciarsi dire che il logos è “La Donna” leopardiana, proprio quella che in Leopardi è “Il pensiero dominante” cioè un delirio paranoico: malgrado il palese contrasto di questa proposizione con l’ortodossia, non sarebbe corretto classificarla nell’eterodossia come qualcuno non ha mancato di fare.
La novità del portare Gesù ad altorilievo come fatto, ma separatamente dal trattarsi di un fatto di pensiero impensato dall’antichità, Luigi Giussani l’ha pagata per tutti, tutti coloro che non ci vedono né pensiero né fatto e si limitano ad aggirarsi con i loro teologemi, filosofemi, moralemi (un Gesù hegelo-kantiano).
Poco prima che morisse (2005, incontrandolo per l’ultima volta mentre veniva spinto in carrozzella, appena vistomi mi ha detto senza preamboli:
“Giacomo, non si capisce più niente!”, ossia per un istante ha riconosciuto con me il suo stato ma era tardi..
Domando all'anonimo (o agli anonimi) che tanto osteggiano, più o meno velatamente, le considerazioni del Gherardini, come mai tale «stupore» non rientri tra i Sette Doni dello Spirito Santo. Magari possono teologicamente supplire loro a questa piccola "dimenticanza". Vi prego, però, a parole vostre, senza scomodare sacerdoti, scrittori o magazine in generale. E poiché non è mio interesse cogliere in fallo chicchessia, consiglio caldamente di astenersi dal sottolineare che la capacità di «meravigliarsi» sia il presupposto di ognuno di questi Doni. Anzitutto perché in parte è vero e lo trovate già contemplato nel pezzo di cui sopra; in secondo luogo perché, nonostante ciò, non si tratta comunque del momento fondamentale. Almeno in ambito cattolico dovrebbe essere intellettualmente pacifico che in ogni cosa «tutto si tiene», e che Il predominio forzato, ossia l'esasperazione, di una sola componente conduce all'eresia o è eresia essa stessa.
RispondiEliminaVa bene, parliamo, su un piano più prosaico, di CL. Il giudizio su Don Giussani e CL deve essere articolato e attento alle distinzioni ("distingui, distingui, distingui", dicevano i Gesuiti). Da lombardo, non credo, come narra la vulgata dei giustizialisti e degli organi radical-chic, che abbiano lottizzato la sanità lombarda, peraltro la migliore in Italia. E Formigoni è stato, tutto sommato, un discreto governatore.
RispondiEliminaMa me ne sono sempre tenuto distante, ispirato da una naturale diffidenza nei loro confronti, se non da una antropologica idiosincrasia. Non ho mai dimenticato la loro originale collocazione politica a sinistra. Il richiamo, nel nome, alla contemporanea teologia della liberazione, lo dimostra. Gioventù Studentesca è stata una fucina di capi e capetti del Movimento Studentesco. Nel 1974 o nel 1975 CL picchettò, assieme al Movimento Studentesco, il Rettorato dell'Università Cattolica di Milano per impedire, con la violenza, la presentazione di una lista della Destra universitaria (ma gliene incolse: la Destra sfondò il picchetto, la lista venne presentata e i "miti" ciellini si beccarono anche qualche ben meritato cazzotto).
In età più matura ho frequentato, più per dovere professionale e istituzionale che per amicizia, alcune persone di CL. Certo, persone per bene, invitabili a casa senza dover chiudere a chiave l'argenteria, checchè ne dica qualche giudice democratico. Qualcuno di loro persino presentabile in società.
Tuttavia hanno sempre destato la mia profonda irritazione per la loro monomaniacale, infantile, insistita, ispirata, riduzionistica visione del Cattolicesimo come mera "esperienza". Il termine "stupore" ricorreva spesso nel loro linguaggio. E quando, con educazione, ribattevo che ridurre la Rivelazione e la Verità Cattolica alla pura "esperienza", indeterminata e confusa, era fare del pessimo esistenzialismo con caricaturali, puerili venature pascoliane da estetica del fanciullino, non capivano. Per cui cambiavo discorso.
Grazie a Mons. Gherardini per aver dato sostanza teologica alle mie sensazioni.
Riporto questo commento, che Trascrivo dal Blog di Raffaella, per correttezza visto che anche noi abbiamo chiamato in causa Giussani, e perché lo trovo convincente.
RispondiEliminaSi riferisce ad un articolo apparso oggi su Il Foglio che parla dello "stupore" collegato alla "bergoglite" imperante:
Fabiola ha detto...
Per favore, lasciate stare don Giussani.
Non gli si può attribuire la responsabilità dell'utilizzo unilaterale che, alcuni dei suoi, fanno delle parole che gli erano care.
Certo, Giussani, ci ha invitato, spesso allo "stupore" per l'incontro con Cristo, citando Gregorio di Nissa ed altri. Ma ci ha parlato anche di più della ragionevolezza della fede, della imprescindibile necessità che il "sentimento" (stupore) fosse ben messo a fuoco attraverso un'ascesi rigorosa così da favorire uno sguardo sulla realtà più appassionato alla Verità che alla risonanza emotiva che essa ci suscita. Ci ha invitato, sempre, all'esperienza. Cioè ad uno stare dentro la vita giudicando ogni cosa con l'intelligenza della fede e trattenendone il valore. E l'organo della conoscenza e del giudizio è la ragione, non lo "stupore". (Ha ragione Mic).
Il senso religioso per il Gius è, innanzitutto, il vertice della ragione non la rinuncia ad essa. Certo una ragione non come "misura di tutte le cose" ma come finestra aperta (ricordate il bunker?) su tutti i fattori della realtà (il grande mondo di Dio). Un Papa, di cui adesso mi sfugge il nome l'ha chiamata "allargata".
Crippa è "uno dei suoi" che sceglie, unilateralmente, un aspetto dell'insegnamento del Gius perché gli corrisponde. Siamo tentati di farlo un po' tutti. L'et et cattolico è un equilibrio sempre a rischio di spezzarsi. Come camminare su un filo a 100 metri d'altezza.
Ma l'amico del Gius si chiamava Ratzinger. A lui sottoponeva regolarmente, perché correggesse o confermasse, le intuizioni con cui accompagnava il cammino di fede di coloro che gli erano stati affidati. E Ratzinger corresse e confermò. Una strada sicura.
Oggi il papa è Francesco. CL, educata da don Giussani a riconoscere in Pietro la roccia dell'unità, ascolta e segue. Ma Crippa [l'autore dell'articolo de "il Foglio"] non è CL come ciascuno di noi, da solo,non è la Chiesa.
26 maggio 2013 13:59