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domenica 4 agosto 2013

Alcune osservazioni sulla Lumen Fidei

Non pensavo di cimentarmi ora in una riflessione, sia pure limitata ad alcuni tratti soltanto, della Lumen Fidei, che di certo richiede una lettura attenta e meditata. Ma la citazione di un lettore, dalla quale prendo le mosse, mi ha colpito e mi ha suscitato pensieri e reazioni immediate e vibranti che cerco di condividere per poi rimandare ad altra occasione l'esplorazione dell'intero testo traendone anche le luci che possono edificarci. Le riflessioni che seguono, infatti, vengono pensate ed espresse non senza sgomento per ciò che è accaduto e ancora accade nella nostra Chiesa.

Lumen Fidei, n. 48. ...L’unità della fede è dunque quella di un organismo vivente, come ha ben rilevato il beato John Henry Newman quando enumerava, tra le note caratteristiche per distinguere la continuità della dottrina nel tempo, il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra,[44] tutto purificando e portando alla sua migliore espressione. La fede si mostra così universale, cattolica, perché la sua luce cresce per illuminare tutto il cosmo e tutta la storia.
Oltre a percepire l'afflato cosmico di Teilhard de Chardin, in questo passo, sia pure preso così a sé, si può cogliere un enunciato quanto meno rischioso se non errato. Sembrano 'sottigliezze' da estrarre col bisturi, ma non di meno possono avere conseguenze svianti. Il brano citato si apre dopo la chiusa del n.47, che è la seguente, il cui enunciato ricompare nelle osservazioni successive e vi sarà sviluppato.
Infine, la fede è una perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito. Nella comunione dell’unico soggetto che è la Chiesa, riceviamo uno sguardo comune. Confessando la stessa fede poggiamo sulla stessa roccia, siamo trasformati dallo stesso Spirito d’amore, irradiamo un’unica luce e abbiamo un unico sguardo per penetrare la realtà.
Qui, sembrerebbe doversi riconoscere un'inversione di fattori: non confessiamo la stessa fede perché siamo fondati sulla stessa roccia; ma poggiamo sulla stessa roccia quando confessiamo la stessa fede? C'è da sottolineare che la comunione - e dunque l'unità - non è determinata dalle nostre buone volontà o dalla Chiesa che si autodetermina come unico soggetto; è solo il Signore a crearla, perché si realizza tra chi in Lui "rimane" nel senso giovanneo del termine.

E alcuni interrogativi anche dalla citazione iniziale:
  1. esiste forse una "dottrina del tempo", cioè a regime variabile?
    La "dottrina", se è autentica, non è "del tempo", è Pane Vivo disceso dal Cielo (e noi sappiamo Chi è!). Essa serve per portare nel tempo il Soprannaturale e interpretare e vivere il tempo con le leggi eterne che da lì vengono e non con quelle mutevoli e ingannevoli "del tempo" stesso.
  2. dove sta scritto che la dottrina deve dispiegare "il suo potere di assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione." ???
Lo stesso S. Paolo ai Tessalonicesi dice: "esaminate tutto e trattenete ciò che è buono". Infatti il Signore ci insegna a distinguere il bene dal male e, una volta riconosciuto il male, ci insegna a chiamarlo col suo nome e rifiutarlo e non ad assumerlo per trasfigurarlo (horribile dictu!).

Il Signore è venuto a vincere il male sulla Croce e lì lo ha già vinto una volta per tutte. Non è venuto a trasfigurarlo, ma a vincerlo! Siamo noi (e le realtà che animiamo) che il Signore trasfigura. E trasfigura di noi ciò che, liberato e purificato perché illuminato e rifiutato dalla e nella "Verità che ci fa liberi", viene assunto e quindi 'configurato' a Lui perché riceviamo dalla Sua pienezza tutto ciò che corrisponde alla volontà del Padre.

Se per distinguere la "Continuità della dottrina nel tempo", la sua caratteristica è quella di "assimilare in sé tutto ciò che trova, nei diversi ambiti in cui si fa presente, nelle diverse culture che incontra, tutto purificando e portando alla sua migliore espressione", diventa una dottrina che porta in sé anche le cose mutevoli del tempo e dunque diventa una "dottrina del tempo".

E ancora: se il criterio per identificare la "continuità della dottrina nel tempo" è la sua capacità di inglobare tutto e trasfigurarlo, una dottrina che ingloba tutto non discrimina e quindi, per ogni tempo, assume tutto (ciò che è buono e ciò che non lo è e cioè bene e male indiscriminatamente) per trasfigurarlo, vien detto.

Ma perché la realtà possa essere trasfigurata, occorre prima espellerne il male, rifiutandolo e la trasfigurazione è la conseguenza della liberazione dal male che restaura la integrità primigenia e di volta in volta, scelta dopo scelta, sviluppa le nuove relazioni (con le persone e col mondo) secondo il disegno di Dio.

Una dottrina che ingloba tutto indiscriminatamente, diviene di conseguenza una "dottrina del tempo", mutevole proprio anche in base a ciò che di volta in volta ingloba e quindi non ha in sé un "criterio di scelta" (che implica anche responsabilità) ma solo un "potere di assimilazione".

Credo invece che la dottrina, che mi dà una verità perenne e non mutevole, sia posta per discriminare e scegliere non per inglobare e, inglobando, mutare nel tempo. Non è la dottrina che muta nei suoi fondamenti perenni, ma alcune modalità di espressione legate alle contingenze.

Ribadisco che il Signore è venuto per vincere il male, non per trasfigurarlo: noi e la realtà che scriviamo con la nostra storia risultiamo in Lui trasfigurati proprio nella misura in cui siamo liberati dal male (nostro, in primis) e guariti, rigenerati e plasmati in Cristo.

Parlare di "potere di assimilazione", mi fa pensare alla necessità di assumere su di sé (il tollit dell'Agnus Dei) il peso delle cose per trasfigurarle (sempre in in Cristo Signore, ovviamente). Ma in questo "assumere" che non è "assimilare", c'è da aver ben presente che Gesù ha preso su di sé le conseguenze del peccato, ma non il peccato ("in tutto simile a noi fuorché nel peccato"). E così noi, in Lui, ci assumiamo le conseguenze del male (nostro e di altri per quello che a ognuno è dato), ma non il male che, in Cristo, rifiutiamo e vinciamo. Ergo, ripeto, discriminiamo e scegliamo non assimiliamo tutto. Tutto ciò che è assimilato entra a far parte di noi e, alla fine, anziché trasfigurare eventuali errori o negatività assimilati, siamo noi a rimanerne inquinati. Vale per noi, vale per la Chiesa "in dialogo indiscriminato col mondo"...

Il discorso si riallaccia al nuovo concetto di tradizione scaturito dal Vaticano II e illustrato da Benedetto XVI del suo famoso discorso del dicembre 2005, ribadito nella catechesi del 2006 citata più avanti.

Attualmente il problema non è solo ermeneutico, è molto più profondo, perché vede di fronte due concezioni diverse del magistero, frutto di una vera e propria rivoluzione copernicana, collegata ad una nuova concezione di Chiesa nata dal concilio, che ha spostato il fulcro di ogni cosa dall’oggetto al soggetto.
  1. La Tradizione bimillenaria della Chiesa può dirsi ‘vivente’ nel senso che trasmette secondo i bisogni di ogni generazione - ma curandone l'integrità nella sostanza: eodem sensu eademque sententia - il Depositum fidei della Tradizione Apostolica, fondamento oggettivo, dato per sempre, pur se sempre ulteriormente approfondito e chiarito nelle sue innumerevoli ricchezze. Esso ovviamente non esclude la soggettività che lo incarna in ogni epoca; ma la costituisce e la forgia, non ne subisce l'evoluzione e dunque non ne è modificato;
  2. la tradizione attuale si dice invece vivente, in senso storicistico, perché portatrice dell'esperienza soggettiva della Chiesa di oggi (che sarà diversa da quella di domani) essendo sottoposta all'evoluzione determinata dalle variazioni contingenti legate alle diverse epoche.
Benedetto XVI ha detto : Udienza generale del 26 aprile 2006
«Il ruolo del magistero è di assicurare la continuità di una esperienza, è lo strumento dello Spirito che alimenta la comunione assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa ».
Ovvio che ad ogni generazione la Tradizione poggia sui successori degli Apostoli e che il Depositum fidei non è in custodia blindata ma incarnato dalle persone in ogni epoca e in ogni generazione. Tuttavia, come ricorda Pio XII nella sua Allocuzione Si Diligis, ai Cardinali Arcivescovi e Vescovi dopo la canonizzazione di San Pio X, del 31 Maggio 1954:
«...Vogliamo tener come santa questa massima dei nostri padri: Nihil innovetur nisi quod traditum est [Non si innovi (introduca) niente se non ciò che è stato tramandato. Citazione patristica tratta da San Cipriano (Ep. 74,1) - ndR]; legge del resto da considerare inviolata in materia di fede, al cui governo devono anche esser orientati quei punti che possono subire cambiamento; d'altra parte in questi in generale vale la regola: non nova, sed noviter. [Non cose nuove, ma in modo nuovo] ».
E ancora Benedetto XVI, nel discorso citato sopra:
« ...Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. »
Il problema sta nel fatto che le cose o parole definite “collezione di cose morte”, nella vulgata modernista vengono riferite al “magistero perenne” che sarebbe diventato “cosa morta” da sostituire col magistero “vivente”, identificato con quello attuale. In tal modo viene conferita al magistero una prerogativa che non gli è propria: quella di essere sempre riferito al “presente”, con tutta la mutevolezza e precarietà propria del divenire, mentre la sua peculiarità è quella di essere, nel contempo, passato e presente, trasmettendo una Verità rivelata che, pur inverata nell’oggi di ogni generazione, appartiene all’eternità. Altrimenti cosa trasmette la Chiesa a questa generazione e a quelle future: solo un’esperienza soggettiva? Mentre le è proprio esercitare una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l'oggetto, ovvero attraverso le verità rivelate e tramandate.

Insomma è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa/Popolo-di-Dio pellegrina nel tempo e di fatto trasferito dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza. È il frutto della dislocazione della Santissima Trinità, come illustra 'sapientemente' Romano Amerio:
« Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. [...] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato al vissuto, della verità alla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade ».
Intuibile il sovvertimento della realtà che ne deriva. Ne abbiamo parlato anche di recente.

Con questo non disconosco il valore dell'esperienza, ma non lo assolutizzo. La fede retta e una spiritualità sana nasce dal connubio equilibrato tra conoscenza ed esperienza, senza che prevalga la sensazione e il richiamo alla concretezza da un lato o l'intellettualismo dall'altro. Se fede-ragione-esperienza non entrano in campo in ugual misura, non vivremo una spiritualità equilibrata e la nostra vita da qualche lato sarà sbilanciata.

Il papa attuale sembra incarnare in pieno l'esperienza assolutizzata a scapito della conoscenza, nella prassi ateoretica e nei discorsi sentimental-pop e privi di approfondimenti e spiegazioni di cui ci inonda.

C'è da aggiungere che nel Capitolo Secondo della Lumen fidei: Se non Crederete, non comprenderete, nel sottotitolo Conoscenza delle verità e amore (punti 26, 27, 28), l'Enciclica sviluppa il rapporto tra verità amore e fede. Ma, nel precedente  punto 20, nel Capitolo Primo: Abbiamo creduto nell'Amore, incontriamo una seria omissione: quella della Passione espiante liberante e redentiva. Lo cito per intero:
20. La nuova logica della fede è centrata su Cristo. La fede in Cristo ci salva perché è in Lui che la vita si apre radicalmente a un Amore che ci precede e ci trasforma dall’interno, che agisce in noi e con noi. Ciò appare con chiarezza nell’esegesi che l’Apostolo delle genti fa di un testo del Deuteronomio, esegesi che si inserisce nella dinamica più profonda dell’Antico Testamento. Mosè dice al popolo che il comando di Dio non è troppo alto né troppo lontano dall’uomo. Non si deve dire: « Chi salirà in cielo per prendercelo? » o « Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo? » (cfr Dt 30,11-14). Questa vicinanza della Parola di Dio viene interpretata da san Paolo come riferita alla presenza di Cristo nel cristiano: « Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? — per farne cioè discendere Cristo —; oppure: Chi scenderà nell’abisso? — per fare cioè risalire Cristo dai morti » (Rm 10,6-7). Cristo è disceso sulla terra ed è risuscitato dai morti; con la sua Incarnazione e Risurrezione, il Figlio di Dio ha abbracciato l’intero cammino dell’uomo e dimora nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo. La fede sa che Dio si è fatto molto vicino a noi, che Cristo ci è stato dato come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano.
Dov'è la Passione e Morte redentrice, che è la sola che libera e salva e introduce nella Risurrezione? È questo il grande vulnus della teologia e della Ecclesiologia odierne: hanno espulso il Sacrificio di Cristo Signore sul Golgota (riprodotto su ogni Altare fino alla fine dei tempi per Sua consegna fin dall'Ultima Cena), che è il vero culmine e fonte di tutto. Se ne parla, ma quasi sfiorandolo, senza più affermare e fondarsi sulla sua vis espiatrice e redentrice. Non si parla più di peccato originale, non si parla più di liberazione dal peccato che porta alla morte spirituale perché è separazione da Dio e dal suo piano di salvezza per noi. La Croce è ritenuta addirittura un concetto doloristico con grande enfasi sul "Mistero pasquale", fulcro della nostra fede che sembra quasi una riscoperta del concilio e presentato come l’anima della riforma liturgica postconciliare [vedi nuova enfasi sul Mistero pasquale].

Ebbene, la “teologia del mistero pasquale” è l'anima della fede cattolica, non della riforma postconciliare. Infatti, il mistero Pasquale è la Passione-Morte-Risurrezione del Signore. La riforma post-conciliare, invece, ha posto l'accento prevalentemente sulla Risurrezione, con il pretesto che la visione di Trento era troppo “doloristica” e si metteva troppo l'accento sulla Croce. Ma questo è un inganno: la Croce è una Realtà ineludibile, vera Pasqua=’passaggio’ verso la Risurrezione, perché rappresenta il fiat di Cristo Signore alla volontà del Padre, quell'obbedienza piena e libera, che ha cancellato un primigenio terribile non serviam e la tragica disobbedienza del primo Adamo e ha permesso il ricongiungimento al Padre dell’umanità redenta.

Nel libro "Introduzione al Cristianesimo" l'allora card. Ratzinger negava il concetto di croce come sacrificio. Cito:
"Da S.Anselmo (1033-1109) la pietà cristiana vede nella croce un sacrificio espiatorio. Ma è una pietà dolorista ... Che Dio esiga da suo figlio un sacrificio umano è una crudeltà non conforme al messaggio d'amore del Vangelo. Se certi testi di devozione sembrano suggerire che la Croce rappresenta un Dio dalla giustizia inesorabile che chiede il sacrificio umano di suo figlio ... nel Nuovo Testamento la Croce appare invece come un movimento dall'alto verso il basso. La Croce non è l'opera di riconciliazione che l'umanità offre a un Dio in collera, ma l'espressione dell'amore di Dio che si dona a noi ... Partendo da questa rivoluzione del senso di espiazione, che si situa nell'asse stessa della realtà religiosa, il culto cristiano riceve una nuova orientazione ... in questo culto non sono le azioni umane che vengono offerte a Dio, il culto consiste piuttosto nel fatto che ci lasciamo colmare da Lui. Non si glorifica Dio apportandogli del nostro, ma accettando i suoi doni e riconoscendolo cosi' come l'unico Signore." [pag 198-199]
Ma il fiat del Figlio non è centrato tanto sulla "collera" di Dio, quanto sulla riparazione(1) della Giustizia violata. Il Verbo si è incarnato, per riparare il peccato di fronte al Padre, atto di cui l'uomo era incapace per l'entità della colpa che lo aveva separato dal Creatore e Signore: "Lui, Dio ha prestabilito mezzo di propiziazione, per via della fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, a motivo della tolleranza per le passate colpe" (Rm 3,25). E anche: "Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (1Gv 4, 10). E ancora: "Tu sei degno, o Signore, di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti" (Ap, 5, 9-10). Ovvio che l'offerta di Gesù sulla Croce è la dimostrazione di un supremo atto di amore ma, insieme, è anche un atto supremo di obbedienza che compie una suprema giustizia.

Ed è la riparazione del peccato che conferisce al Figlio, il Verbo Incarnato, il potere di salvare gli uomini, espiando al loro posto e quindi riscattandoli nel suo Sangue Prezioso: questa è la Redenzione. È questa verità dal valore immenso e ineludibile che risulta omessa negli insegnamenti post-conciliari. E, dal silenzio, rischia di cadere nell'oblìo... Ed è per questo che noi continuiamo a custodirla, viverla e proclamarla!
Vedi, sul blog: I quattro fini della Santa Messa e i Canoni di Trento che sintetizzano la dottrina perenne.
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1. La riparazione è ovviamente intesa nel senso di ripristino della Giustizia violata, che il Signore ha attuato una volta per tutte con il suo "fiat" e la Sua Morte in Croce. Ed è sincronizzata con la rigenerazione, attraverso la Risurrezione, dell'umanità ferita dalle conseguenze della colpa originaria e ricollocata alla destra del Padre con l'Ascensione. Storia di Salvezza culminata nella Pentecoste, con l'invio dello Spirito del Signore Risorto che continua a operare nella Sua Chiesa e servendosi di essa. Non c'è nessuna "Nuova Pentecoste". A cosa dovrebbe servire, se la Chiesa ha già in sé, fin da allora e fino alla fine dei tempi tutta la pienezza del Suo Signore che va solo accolta, vissuta, testimoniata e tramandata in ogni generazione?
Maria Guarini

20 commenti:

  1. Cara Mic,

    Grazie per la vostra riflessione. La stamperò per leggerla meglio e con molta attenzione. Il documento tra Cattolici e Luterani "Dal conflito alla comunione" è ancora disponibile sull'internet in inglese* e me sembra che attraverso questo abbiamo di vedere una applicazione pratica dell'principio del cardinale Newman. Un amico mio tradutore di Chesterton ha detto che il documento è una revisione di tutto il rapporto tra cattolici e luterani dal momento in cui è cominciato la Riforma...

    Un saluto dal Brasile


    *L'indirizzo dove se può leggere il documento: http://www.lutheranworld.org/sites/default/files/From%20Conflict%20to%20Communion.pdf

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  2. Scusa mic, l`OT ma mi sembra importante informare che è stata pubblicata una NOTA UFFICIALE, questa volta, dei FI, in cui si ristabilisce la verità di certi fatti rispetto a ciò che stava passando nei media e anche da noi ripreso con grande sorpresa.
    Mi sembrerebbe importante dare a quella Nota lo spazio e la luce che merita.
    Per il momento metto il link anche qui ma riporto la notizia nel post sul comunicato del Coordinamento.

    http://www.immacolata.com/index.php/it/35-apostolato/fi-news/230-risposta-vatican-insider

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  3. Riproporrò dopo le vacanze la lettura di questo testo, certamente un po' impegnativa ma credo non irrilevante, presto oltrepassata dalla pressante notizia di attualità sui FI, che ho pubblicato poco fa.

    Sarò comunque grata a chi vorrà ugualmente esprimere le sue osservazioni.

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  4. Per Gederson,
    non l'ho espresso perché ho sottolineato i punti più importanti, ma avevo già pensato che l'atteggiamento "inclusivista" e il falso ecumenismo nonché il dialogo ad oltranza con contestuale "calamento di braghe" nei confronti delle altre religioni, rientrino nella visuale che scaturisce dal punto esaminato.

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  5. Alors, pas moderniste, votre si cher Benoît XVI?
    Lire e relire "Pascendi"…

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  6. Pensavamo che "notre cher Benoit", la cui formazione modernista è stata da lui stesso riconosciuta con l'appartenenza all'"alleanza renana", avesse fatto un percorso ulteriore in alcuni tratti rivelato da certi suoi scritti sui quali ci siamo soffermati (ma purtroppo smentito da altri che stiamo prendendo in considerazione).
    Che dire? Quel che vediamo, sottolineiamo...

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  7. "... Chi dei moderni capisce più quelle viete nozioni? Verrà giorno che un Concilio adatti la religione ai nuovi tempi, esponendola secondo le idee ora accettate, come il Concilio di Trento per l'ultima volta la espose secondo le idee scolastiche. Così molti dicono, e più spudoratamente degli altri il Loisy...." (Padre Guido Matiussi)

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  8. Viator riporta una citazione, che pare profetica, fatta anche da Gederson....

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  9. Ho visto che Mattiussi era un gesuita tomista antimodernista del'inizio del '900, un grande apologeta che non conoscevo.
    Mi chiedo chi è più disposto, oggi, soprattutto tra i sacerdoti, a nutrirsi a queste fonti una volta autorevoli e oggi sconosciute e dimenticate.

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  10. Cara Mic, sono sul cellulare e non ho tempo nè condizioni per approfondire il tuo post. Mi permetto solo di intervenire sulla tua interpretazione del brano di Introduzione al Cristianesimo di Ratzinger. Personalmente, sulla base dell'intero Magistero del Cardinale e di Papa Benedetto, non credo affatto che si tratti di una negazione del sacrificio riparativo, quanto piuttosto di un "riorientamento" di quel sacrificio... ovvero ascendente e non discendente... cioè quel che preme al Card.Ratzinger è sottolineare che non c'è un Dio che chiede un sacrificio espiatorio all'umanità, ma è Dio stesso fatto uomo che scende a sacrificarsi per l'umanità. Forse che Dio Padre non soffre la soferenza del Figlio in Croce? Ma Gesù ha detto che Lui e il Padre sono una cosa sola e San Paolo dice "Dio ha tanto amato da mandare Suo Figlio..." L'immagine di un Dio Padre che chiede un sacrificio espiatorio per placare la collera o ottenere riparazione per Sè sarebbe davvero in contraddizione con tutto il resto della Dottrina sul peccato originale. Avevo già postato a suo tempo i brani del CCC novus et vetus che ne parlano. Il male non entra nel mondo per vendetta/punizione di Dio, ma per conseguenza del peccato dell'uomo. Dio non ha chiesto all'umanità di autoredimersi con sacrifici umani, ma è sceso Egli stesso e si è fatto uomo e nella nostra natura si è sacrificato per noi per riscattarci e redimerci, per pagare per noi le conseguenze del nosro male. Tutto questo non ha nulla a che fare con l'adombramento o la negazione del sacrificio di Cristo tipico di certa spensierata lettura postconciliare, ma esalta il sacrificio non come scrificio dell'uomo per Dio, ma come sacrificio di Dio (fatto Uomo) per l'uomo.

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  11. Cara Sam,
    la tua interpretazione mi ha sulle prime allargato il cuore. Poi ho riflettuto un attimo. Convengo sul fatto della "collera", tant'è che io stessa ho sottolineato che il fiat di Gesù è centrato non sulla collera di Dio ma sulla restaurazione della giustizia (lo stesso termine "vendetta" in ebraico ha il significato di "ripristino della giustizia"). Ed è questo che la Chiesa ha sempre insegnato, mettendo contemporaneamente in luce l'amore immenso di Dio all'origine della "discesa" del Figlio... Sta di fatto che non sentiamo più parlare né di espiazione né di redenzione, ma solo del grande amore, che è e resta all'origine di tutto, ma non si riconosce più l'effetto principale dell'azione del Signore: la liberazione dalla schiavitù dal male derivante dal peccato originale, che è il senso autentico della Croce e può far dire: stat crux dum volvitur orbis.
    Sarà anche "doloristica", ma chi di noi può eludere il dolore? Ma non si resta fermi al dolore: gli si dà tuttavia in Cristo un senso salvifico, riparatore ma anche rigeneratore. Non sfocia forse nella vittoria della Risurrezione?

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  12. Tutto questo non ha nulla a che fare con l'adombramento o la negazione del sacrificio di Cristo tipico di certa spensierata lettura postconciliare, ma esalta il sacrificio non come scrificio dell'uomo per Dio, ma come sacrificio di Dio (fatto Uomo) per l'uomo.

    Questo lo dice la tua retta fede, non la spensierata lettura post-conciliare.
    Devo dire per correttezza che Benedetto, in alcune splendide omelie, che mi sono centellinata con grande gioia spirituale come tanti suoi insegnamenti, parla della Croce in termini altissimi.
    Ma in alcuni scritti e in quella che tu chiami "spensierata lettura postconciliare" ciò non avviene...

    Ti chiedi come mai il Crocifisso (che Benedetto XVI peraltro aveva ripristinato) era (e ora lo è di nuovo) sparito dagli Altari divenuti 'mense'?
    Ti chiedi come mai "Domine non sum dignum ut intres sub tectum meum" viene tradotto del tutto arbitrariamente "Signore non son degno di partecipare alla tua mensa"?
    Dobbiamo pensare che l'atteggiamento interiore indotto del "commensale" è diverso da chi si prepara ad accogliere in sé il Signore, che si è fatto "vittima" di espiazione. E' il suo "corpo glorioso che ora riceviamo", ma è sempre il Corpo della Vittima d'Amore e di Espiazione insieme!

    Il Santo Sacrificio, che il Signore ha anticipato, consegnandocelo nell'Ultima Cena e che alla Comunione si trasforma in banchetto-escatologico, è stato ridotto a cena, a convivio-fraterno-e-basta!

    E se il NO resta valido perché contiene la formula Consacratoria, nelle nuove generazioni che non hanno più la nostra pre-comprensione cattolica, il senso del Sacrificio (e l'interpretazione che ho sottolineato) risulta dapprima diluito e, alla fine, scompare. Tant'è che la Messa non è più considerata da molti il Sacrificio del Signore, ma la festa dell'Assemblea...

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  13. A dire il vero non vedo contraddizione tra ciò che diciamo. Appunto sottolienavo che una certa lettura postconciliare banalizza la Croce e la sofferenza riparatrice mentre secondo me Jospeh Ratzinger la esalta, mettendo in luce però non una riparazione dell'uomo per Dio, ma la riparazione che viene fatta da Dio stesso fatto Uomo per l'uomo. Il concetto di riparazione è connesso a quello di giustizia, ma ciò che preme sottolineare è che la dinamica di questa giustizia non è la dinamica colpa / punizione ma la dinamica colpa / conseguenza o anche male〓debito da pagare perchè che il male faccia male è nella natura stessa del male, dell'assenza di Bene, dell'assenza di Dio. Se fosse una punizione di Dio da scontare (ma abbiamo visto che sia il CCC che il CSPX lo negano) non sarebbe reale giustizia che fosse Dio stesso ad "autopunirsi", ma se è una conseguenza da pagare e Dio stesso si fa Uomo in Cristo per poter pagare al nostro posto il debito del male (e non certo per dare una "soddisfazione" a Dio) vediamo che il sacrificio redentivo di Cristo acquista ancor magior valore e significato. In altre parole con la Croce Cristo non "risarcisce" Dio, ma ci riscatta al male a cui con il nostro male ci siamo liberamente consegnati.
    Detto questo, sono certa che Dio come buon Padre, nel nostro quotidiano amministri perfettamente la sua Grazia per il nostro bene, liberandoci o abbandonandoci talora alle conseguenze del male, perchè attraverso le nostre sofferenze partecipiamo al pagamento del riscatto e, come ogni buon genitore sa, punizioni, correzioni, ammonizioni, hanno spesso un insostituibile scopo educativo, quindi non mi indigno affatto quando si parla di "castighi" di Dio seppur con la retta comprensioone del fatto che non è mai Dio che fa il male, ma il male è tutta cosa nostra...
    Concordo Mic che la prospettiva ecclesiale che interpreta la fede e la Liturgia come un perenne festeggiamento escludendo o banalizzando il dolore e la penitenza, di fatto escludendo la Croce (se non materilizzandola e "socializzandola" in gruppi definiti di poveri e bisognosi di cui occuparsi) ha qualcosa di grottesco e a mio avviso anche di offensivo e irridente nei riguardi del grande dono della redenzione dell'uomo ad opera di Dio mediante il Suo Sangue.
    Ma credo che questo attegiamento non abbia mai riguardato Jospeh Ratzinger che in conformità a Cristo si è sempre sottoposto a sputi ed insulti.
    Piuttosto vedo quel rischio in chi (parliamo sempre dell'omelia "più pazza del mondo") sembra proporre di andare spensierati a confessarci, senza mai parlare del termine "pentimento", quasi con l'allegria di accumulare peccati sulla schiena di Cristo (tieni ti do anche questo, che bello... diceva qualcosa del genere sigh!)
    Direi che l'"allegrismo" non è certo meno grottesco e squilibrato del "dolorismo". Abbiamo santi della gioia e del dolore ma nessun santo con gioia senza dolore e in primis il dolore per i peccati, perchè la nostra povertà più grande è la lontananza da Dio.
    Mi scuso se la forma fosse circonvoluta e errata nella sintassi, ma non riesco a rileggere e correggere. Ciao!

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  14. "La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia – un ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice: “Oggi si è adempiuta questa scrittura” (Lc 4, 21). Al centro del testo profetico troviamo una parola che – almeno a prima vista – appare contraddittoria. Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato “a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio.” (Is 61, 2). Ascoltiamo, con gioia, l’annuncio dell’anno di misericordia: la misericordia divina pone un limite al male - ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, “l’anno di misericordia del Signore”. Ma cosa vuol dire Isaia quando annuncia il “giorno della vendetta per il nostro Dio”? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico, non ha pronunciato queste parole – ha concluso annunciando l’anno della misericordia. É stato forse questo il motivo dello scandalo realizzatosi dopo la sua predica? Non lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce. “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce…”, dice San Pietro (1 Pt 2, 24). E San Paolo scrive ai Galati: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede” (Gal 3, 13s).
    La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1, 24)." ( Ratzinger "Missa pro eligendo 18 Aprile 2005)

    Qualcuno, allora, scrisse che quest'omelia sembrava fatta apposta per bruciarsi tutte le possibilità di diventare Papa.

    Io aggiungo un commento da "vedova inconsolabile".
    Benedetto non sta bene proprio a nessuno: tradizionalista per i modernisti, modernista per i tradizionalisti.
    Non so perché (retorico) ma questo mi rassicura.
    Semplicemente cattolico?

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  15. Ringrazio Fabiola e Sam, perché danno la possibilità di completare l'esame dei testi.

    Mi pare che di quel che ho scritto non abbiate notato che sono stata la prima a dire che ho centellinato, gustando spiritualmente, testi di Benedetto XVI che volano alto sulla Croce. Ma nella lettura specifica non ho potuto ignorare ciò che egli ripetutamente nella sua "Introduzione al Cristianesimo", di cui ricordo anche:
    "la ‘infinita espiazione’ su cui Dio sembra reggersi si presenta in una luce doppiamente sinistra… s’infiltra così nella coscienza proprio l'idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio."

    Perché non si infiltri nella coscienza una "luce sinistra su Dio" non dobbiamo eliminare l'espiazione - fatto purtroppo realmente presente nella Chiesa post-conciliare - ma recuperarne il senso biblico profondo che cerco di sintetizzare di seguito:

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  16. Vorrei anche sottolineare che non ho mai avuto
    o e non ho intenzione di mettere in discussione il pontificato di Benedetto, considerando tra l'altro un dramma le sue dimissioni. Ho semplicemente incontrato un passo dell'ultima enciclica che considero monco. Vi ho riconosciuto la consonanza con altri testi e col fenomeno generalizzato. Incontrare suoi testi che lo smentiscono - che in parte già conoscevo - non può che rendermi felice e rammaricata che non abbiano avuto e non abbiano presa sulla vulgata e sui comportamenti liturgici odierni (che non sono affatto secondari).

    A dopo per gli approfondimenti.

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  17. ...comportamenti anche liturgici e non solo...

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  18. Cara MIC, ricordiamoci che la Lumen Fidei NOn e' SOLo di BXVI. Inoltre, se la Mente di Dio e', quella dell' uomo diviene, quindi le posizioni filosofiche- teologiche possono modificarsi nel tempo, da professore di teologi, a cardinale a papa emerito...
    rosa

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  19. ---> segue 12:33

    Cito per approfondire e anche per riprendere il "sacrificio di Dio per l'uomo", giustamente sottolineato da Sam

    Quanto al concetto di espiazione-redenzione:
    Anche in senso biblico l’espiazione (kippùr) non è intesa come una punizione o una pena inflitta da Dio; e nemmeno come l'atto di placare il Signore.

    Essa è invece data e compiuta da Lui a favore dell’uomo in quanto resa necessaria dalle infedeltà di Israele che inficiano il rapporto con Dio, è un evento salvifico che permette di ripristinare questo rapporto. Ed è proprio il Signore Gesù, che "ha preso su di sé il peccato del mondo", che ha operato una volta per tutte il Kippùr definitivo.

    Già nella LXX il verbo che indica l'atto di culto in riferimento alla metafora cultuale kapporeth ("propiziatorio" nell'Arca 'luogo' della Presenza) = ilasterion indica un atto o un insieme di atti compiuti non per placare la divinità (Dio praticamente non è mai oggetto diretto del verbo), ma per eliminare, cancellare, espiare, i peccati (ed è Dio, attraverso il sacerdote, colui che compie l'azione espressa dal verbo). E' questa rimozione, cancellazione, che ripristina la giustizia violata. Ed è questo che la Chiesa ha sempre inteso.
    Se qualcuno ha potuto parlare di "ira" divina, si tratta di un concetto di Dio antropomorfo ed è usato in senso metaforico. La stessa Bibbia esprime il termine in diversi contesti, ma certamente intende l'incompatibilità tra Dio e il peccato. E' un termine spesso usato anche da Paolo, che esplicitamente riconosce di "parlare nella maniera umana". Mi viene in mente Rm 3, 4-8: “Ma si deve riconoscere che Dio è verace, mentre ogni uomo è menzognero, come sta scritto: “Affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole e trionfi quando vieni giudicato”. Ma se la nostra ingiustizia fa risaltare la giustizia di Dio, che dedurremo? Dio è forse ingiusto quando scatena la sua ira? Parlo nella maniera umana."

    Tra altri passi, Rm 3,25 indica esplicitamente la morte espiatrice di Gesù, anche se esprime il senso che veniamo giustificati gratuitamente con la sua grazia e non per merito delle nostre opere, che non sono comunque volte ‘soddisfare’ un Dio che vuole essere placato, ma a rispondere al suo progetto per noi. E' una grazia che ci restituisce la dignità con la capacità di partecipare all’evento dell’espiazione (e della riconciliazione) e delle opere della fede di cui siamo resi capaci perché è il Signore a scriverle nel cuore del credente, a differenza di quelle della legge che discendono da un "dovere" che non salva nessuno.

    Infatti queste "opere della fede" sono rese possibili proprio dalla partecipazione all'offerta e alla sofferenza di Cristo che l'Angelo porta al Trono dell'Altissimo insieme alla sua, una volta compiuto il Sacrificio (vedi l'Unde et memores del VO). Momento altissimo del culto, che poi si traduce in vita concreta, perché è lì che il Signore opera. Leggere qui, cos'è accaduto nella "Sacrosanctum concilium" rispetto alla "Mediator Dei".

    http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/p/notazioni-sul-catechismo-della-chiesa.html

    Dunque, non è biblico (e non è questo che la Chiesa ha sempre insegnato) il concetto di un Dio che riversa sul Figlio la collera destinata a noi, ma quello che ci mostra colui che, fedele fino alla fine sia al progetto salvifico del Padre che alla sua solidarietà con noi, diviene salvatore coinvolgendo tutti noi nel suo "fiat". E così la Croce - che sfocia nella Risurrezione - rappresenta l'evento unico della redenzione.

    E non può essere liquidata come "doloristica", ma è espiativa e per questo salvifica oltre che segno di immensa Misericordia.

    Perdonatemi se in questo momento sono troppo sbrigativa perché non posso soffermarmi, ma vi ringrazio per gli input preziosi che approfondiremo insieme.

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  20. Cara MIC, ricordiamoci che la Lumen Fidei NOn e' SOLo di BXVI.

    Vero Rosa ma lo stile è riconoscibile.

    Ho fatto solo qualche rapida limatura al post precedente. Per gli approfondimenti, alla prossima.



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