Marcel De Corte (1905-1994) ha scritto numerose opere di filosofia speculativa aristotelico/tomistica ed altre di filosofia morale e politica.
L’editore Effedieffe, dopo aver ristampato nel 2014 La grande eresia (riguardante il modernismo teologico), presenta nel febbraio del 2015 la ristampa de L’intelligenza in pericolo di morte1, il saggio filosofico in cui l’Autore mette a nudo il malessere di cui soffre la società moderna e contemporanea e ne analizza i princìpi remoti (Cartesio e Kant) e prossimi (il neo-modernismo e Teilhard de Chardin). Il mondo contemporaneo, spiega De Corte, è stato costruito sulle sabbie mobili del soggettivismo filosofico (cartesiano) e teologico (modernista); perciò non è più un mondo reale, ma è una costruzione mentale, alla quale ha fatto sèguito la distruzione demenziale nichilistica post-moderna. L’uomo moderno è stato disabituato a pensare con il proprio cervello e a confrontare il suo pensiero con la realtà, ha preferito l’illusione o il sogno dubitativo cartesiano ed ha rinunciato alla capacità dell’intelligenza di penetrare la realtà dell’ente contingente (il creato) per elevarsi poi all’Essere per essenza (Dio). La conseguenza pratica è stata la perdita della vera libertà dell’uomo di fare il bene ed evitare il male poiché la volontà libera segue l’intelligenza retta dalla quale è illuminata: “Nihil volitum nisi praecognitum/nulla è voluto se prima non è conosciuto” (Aristotele).
Il “male” (S. Pio X, Pascendi, 1907) o “la strana malattia” (M. De Corte, L’intelligenza in pericolo di morte) di cui soffre il mondo moderno è soprattutto “un male dell’intelligenza: l’agnosticismo”, secondo il quale il trascendente può anche esistere, ma è assolutamente inconoscibile. Per l’idealismo, nota De Corte, persino la realtà è inconoscibile. Dunque, se vogliamo guarire da tale male, che pone l’intelligenza in “pericolo di morte”, dobbiamo ritornare al realismo della conoscenza. De Corte nel libro in esame affronta il problema alla luce della dottrina aristotelica, della quale è un ottimo e profondo conoscitore, e lo risolve mirabilmente.
L’intelletto umano è capace di conoscere la realtà; è un fatto evidente a tutti gli uomini forniti di retta ragione ed onestà intellettuale e morale. Spesso l’errore intellettuale ha un’origine pratica o morale, ossia ci si vuol sbagliare e non si vuol ammettere la realtà per non dover cambiar vita: “noluit intellegere ut bene ageret” (Salmo).
Il pensiero moderno è impregnato di soggettivismo, relativismo, agnosticismo. In breve è caratterizzato da una “contro-filosofia”, che nega o relativizza al massimo la possibilità della ragione umana di conoscere la realtà, giungere alla verità e vivere da vero uomo, ossia da “animale razionale” (Aristotele), il quale deve “fare il bene e fuggire il male: questo è tutto l’uomo” (Sal., XXXIV, 15).
Non si può dubitare di tutto. Infatti nel momento in cui dico di dubitare, implicitamente affermo che son certo almeno di una cosa: della mia asserzione di dubitare di tutto.
La filosofia realista, spiega De Corte, eleva il buon senso, comune a tutti gli uomini capaci di intendere e volere, a scienza filosofica, la quale si basa sulla convinzione che esiste una realtà oggettiva indipendente dal pensiero dell’uomo, il quale ha un’intelligenza che non lo inganna, ma coglie il suo oggetto senza deformarlo, anche se non lo conosce totalmente e perfettamente.
Perciò la verità esiste e consiste nell’adeguamento dell’intelletto alla realtà. L’idealismo, la sofistica, l’agnosticismo, lo scetticismo (che negano la capacità umana di conoscere la realtà) si servono pur sempre della ragione per criticare la ragione umana come se l’unica ragione ragionevole fosse la loro, ma così facendo pongono l’intelligenza umana in “pericolo di morte” ed abbassano l’essere umano al livello dell’animale.
Come si vede, vi sono sostanzialmente due correnti filosofiche. La prima sostiene - secondo il buon senso e la retta ragione - che esiste una realtà oggettiva e che la si può conoscere in quanto esiste in sé ed è posta davanti al soggetto conoscente (il realismo e l’intelligenza in piena salute). La seconda è sostanzialmente una (l’irrealismo) ed accidentalmente composita: crede o che sia il pensiero umano a porre in essere la realtà (l’idealismo) o che l’uomo non abbia la capacità di conoscere la realtà (l’agnosticismo) o che debba dubitare di tutto (lo scetticismo). L’esito finale di tale errore, in tutte le sue sfumature, è la morte dell’intelligenza, la quale invece, per definizione, legge dentro (intus legit) le apparenze fenomeniche e conosce con certezza la realtà.
La vita normalmente vissuta di ogni uomo presuppone la concezione realistica della conoscenza perché ogni uomo dotato di sanità mentale ritiene che esistano più soggetti e non uno solo (‘monismo’), più oggetti e non uno solo (‘panteismo’). Inoltre l’uomo normale sa che le cose reali esistono fuori del suo pensiero e indipendentemente da esso e che le conosce come sono in se stesse e non applicando loro una propria forma soggettiva (come vorrebbe Kant).
Ciò vale per gli stessi filosofi idealisti almeno nella vita pratica. Essi in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo della conoscenza, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti.
Gli astronomi sono convinti di studiare delle realtà che son fuori di qualsiasi coscienza o soggetto pensante e così i fisici, i chimici, i geografi.
Tutti gli storici considerano Giulio Cesare e il pugnale di Bruto come realtà oggettive e non come prodotti del loro pensiero.
Persino i filosofi più soggettivisti son convinti praticamente, come uomini, che il fosso che si para davanti ai loro piedi è reale e non è il frutto della loro mente e quindi lo evitano accuratamente mentre camminano, anche se teoreticamente, saliti in cattedra, come filosofi continuano ad insegnare che il fosso dipende dal loro pensiero.
In breve ogni uomo, fuori della discussione filosofica, è immancabilmente realista e per l’idealista nell’atto di filosofare vale sempre ciò che scriveva Aristotele riguardo ai sofisti del suo tempo: “non si crede a tutto ciò che si dice” (Metafisica, IV, 3, 1005 b).
Nel filosofo idealista o sofista si realizza immancabilmente una frattura tra la teoria e la pratica. Come uomo nella vita comune e pratica pensa ed agisce da realista, mentre come filosofo, quando sale in cattedra, la pensa da idealista e nega la realtà oggettiva del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto.
Ora, se per fare il filosofo bisogna cessare di esser uomo, è meglio smettere di fare il filosofo altrimenti si dà la morte all’intelligenza.
Per esempio Kant filosofeggiando dice che l’uomo non conosce la cosa com’è in sé, ma la conosce come gli appare avendo applicato ad essa una sua categoria o forma soggettiva, ma così “uccide” l’intelletto e la conoscenza umana. Tuttavia per arrivare a dire ciò prima egli ha indagato su quella cosa in sé che è la conoscenza umana e sul soggetto conoscente, ossia su Kant in sé e non su come ci appare. Se si negasse ciò, si arriverebbe a dire che ogni teoria filosofica non ha nessun valore, che è del tutto soggettiva e relativa (la “morte” della filosofia e dell’intelligenza).
L’uomo comune e il filosofo realista sanno che esistono e che vi sono oggetti reali al di fuori di loro. Per esempio, mentre sto scrivendo, so perfettamente che le mie mani sono appoggiate alla tastiera del computer, i piedi sono appoggiati sul pavimento, i libri sono davanti a me. Quindi sono convinto pre-filosoficamente che esistono oggetti reali distinti da me, al di fuori del mio pensiero e distinti tra loro.
La scrivania resta ferma al suo posto anche se io mi alzo ed esco; perciò io e il tavolo siamo due realtà oggettivamente e realmente distinte e il tavolo non dipende dal mio pensiero.
È un fatto indubitato che esistono più realtà tra loro distinte. Quindi il monismo, che identifica in un solo ente ogni cosa, è falso. Parimenti il mio io è distinto da tutta la realtà, che non dipende dal mio ‘ego’.
Gli oggetti reali e i soggetti conoscenti distinti da me non consistono nell’essere pensati da me (come vorrebbe l’idealismo), ma esistono indipendentemente dal mio pensiero, il mio pensiero non li pone, ma li suppone e poi li conosce.
Perciò, spiega De Corte alla scuola di Aristotele, conoscere significa apprendere una realtà posta davanti a me come soggetto conoscente, realtà che la mia conoscenza presuppone e non pone in essere, quindi realtà indipendente dalla conoscenza.
Conoscere presuppone un oggetto, un qualcosa di reale. Infatti conoscere nulla significa non conoscere. Quindi c’è un oggetto reale che io come soggetto pensante posso conoscere. Lo si chiama oggetto (ob-jacere) poiché sta (jacet) davanti a me (ob). Questo oggetto è una res, qualcosa di reale.
Ogni uomo normale si rende conto che non è il suo pensiero che produce questa realtà, ma si tratta di una realtà già costituita ontologicamente in se stessa prima che egli la conosca.
La filosofia moderna e il conseguente “pericolo mortale” per l’intelligenza, come esaltazione del Soggetto pensante e dell’Idea, iniziano con Cartesio e terminano con Hegel, che ha risolto il mondo nell’Io o Idea assoluta ed ha unificato l’umano e il divino e viceversa. La modernità sfocia, quindi, immancabilmente, in una sorta di monismo panteista: non vi è nulla di reale al di fuori del Pensiero e non esiste alcunché di trascendente, ma tutto è immanente al Pensiero assoluto in cui si trova tutto il reale in divenire (Dio e il mondo). Gli individui sono unificati nel Pensiero assoluto. Il Pensiero crea se stesso e il finito è identificato con l’Infinito, che è il Pensiero assoluto. Non vi è distinzione di coscienze e non vi sono libertà individuali, che sono racchiuse nel Pensiero assoluto. Infine non vi è distinzione tra errore e verità, tra bene e male, tra sì e no, poiché lo Spirito nell’atto di pensare è sempre verità e bontà e l’errore o il male sono il passato e il passaggio del Pensiero dalla tesi alla sintesi. Gesù, invece, ci ha insegnato: “il vostro parlare sia ‘sì sì no no’, quel che è di più viene dal Maligno” (Mt., V, 37).
Assistiamo oggi alla fine comatosa della modernità, che prima ha fatto di Dio un uomo e dell’Uomo un “dio”, poi ha “ucciso” Dio per soppiantarlo col Superuomo o l’Umanità ed infine è scivolata nella debolezza nichilistica e autistica, auto-dissolutrice e gerontica. Tale è la parabola dal Cogito al Nihil (cogito ergo nihil sum, perché se il pensiero prende il posto dell’Essere anche esso non è, gli manca un fondamento, un substrato sul quale poggiare e quindi precipita nel nulla: Agere sequitur esse et non praecedit illud).
Conditio sine qua non per ritrovare la retta strada, smarrita a partire dalla Modernità, è combattere contro gli errori della secolarizzazione immanentistica e riaffermare con forza i princìpi della filosofia perenne e della teologia scolastica.
Ora un male così estremo come il Nichilismo distruttore dell’essere (simile al cancro, che distrugge il corpo e la vita) deve essere affrontato energicamente: “A mali estremi, estremi rimedi”. Bisogna, quindi, sradicarlo tramite il recupero dei valori sommi dell’essere (metafisica), della ragione (logica) e della morale (etica).
Infatti l’uomo è un “animale razionale”, fatto per conoscere il vero, e “libero”, fatto per amare il bene. Inoltre è “socievole”, quindi deve vivere assieme ad altri e non isolato (Sartre: “l’altro è l’inferno”) come un “animale selvaggio” (Lévi-Strauss). Di fronte alla Sovversione filosofica razionalistica della Modernità e nichilistica della post-modernità occorre una Restaurazione filosofico/metafisica, che ci faccia tornare ove affondano le nostre radici: la classicità greco/romana e la prima, seconda e terza scolastica.
Oggi gli intellettualoidi post-illuministi sono tutti “Charlie”, ossia sofisti intellettualmente (la negazione della non contraddizione: “bene = male”) e degenerati moralmente (la perdita della sinderesi: “malum faciendum, bonum vitandum”), come i vignettisti parigini di Charlie hebdo (“parce defunctis”). Milioni di post-europei oramai americanizzati scendono in piazza, diretti dalla sinarchia mondialista, per continuare implicitamente ad insultare la SS. Trinità, Gesù, la Madonna, il Papa. Quanto a noi cerchiamo di essere uomini veri, che conoscono la verità e amano il bene, senza offendere e dissacrare la Divinità. L’ironia2 e la satira sono buone, ma debbono essere educate; la volgarità, la bestemmia, l’insulto sono oggettivamente un male. L’occidente americanista è capace di uccidere per il pallone, per il concerto rock, per la discoteca, per la trasgressione, per le gravidanze non desiderate, per le malattie non sopportate, per importare la democrazia e tutto ciò non sciocca nessuno. Solo Dio può, anzi deve essere insultato. L’unica “religione” che non ammette dubbi, interrogativi, dimostrazioni è la “shoah”. Certamente occorre evitare gli eccessi di legittima difesa, ma neppure bisogna osannare chi bestemmia Dio e le cose sacre. L’illuminismo idealista ci ha portato a questi paradossi:
- l’accoglienza di etnie e religioni diametralmente opposte a quella europea (mediterranea, greco/romana e cattolica);
- l’insulto che ferisce ed offende chi si è voluto accogliere, il quale non avendo perso la sua identità risponde in maniera aggressiva e sproporzionata, anche se non totalmente sprovvista di un fondamento: “scherza coi fanti, ma lascia stare i santi!”.
Il Nichilismo vorrebbe, come i dannati dell’inferno, non esistere, auto-distruggersi, ma non può annichilare come non può creare; solo l’Onnipotenza divina può creare dal nulla e ridurre al nulla qualcosa. Quindi il Nichilismo aggrava il problema posto e introdotto dalla Modernità.
Come uscire da questo stato di cose? Si chiede De Corte. Ritornando alla realtà oggettiva, dalla quale la ragione umana ascende con un sillogismo sino all’esistenza di Dio, ad una Società più umana, perché fondata sui princìpi della filosofia perenne o del buon senso che ridà il primato alla scienza speculativa (conoscere per sapere) o metafisica subordinando ad essa la filosofia pratica (conoscere per fare o per agire) ed infine rimette la tecnica (conoscenza sperimentale o empirica) al suo giusto posto, che è il più basso, mentre oggi occupa abusivamente quello più alto rendendo l’uomo una macchina di produzione, che corre affannato e disperato verso un termine che neanche lui sa bene quale sia, verso un arricchimento materiale sempre maggiore, ma che lascia insoddisfatto il cuore umano, poiché è pur sempre un bene finito e creato (anzi “stampato” o “coniato”) mentre “il nostro animo è infelice sino a che non riposa nel Signore” (S. Agostino), che solo, essendo il Summum Bonum, può lenire le ansie e i problemi dell’uomo, il quale è aperto all’infinito e non è limitato al problema economico, visto da “destra” o da “sinistra”.
La cultura contemporanea ha perduto il senso di quei grandi valori che, nell’età antica e medievale, costituivano i punti di riferimento essenziali, e in larga misura irrinunciabili, nel pensare e nel vivere.
Alla filosofia attuale o post-moderna manca la ragion d’essere, il fine e lo scopo di vivere, la risposta al “perché?”. Questo è il Nominalismo nichilistico filosofico, ove i valori supremi (essere, conoscere, morale) si s-valorizzano perché non restano più l’essere per partecipazione e per essenza, la realtà, la verità, il bene; restano solo l’individuo, i sensi e il “nulla”.
Che la lettura di questo libro di Marcel De Corte ci aiuti a recuperare il valore della nostra ragione, della libera volontà, della morale e dell’essere per partecipazione per poter ascendere all’Essere stesso per essenza.
d. Curzio Nitoglia
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1. 260 pagine, 14, 40 euro, si può richiedere a info@effedieffe.com; tel. 0763. 71. 00. 69; Edizioni Effedieffe, Podere Piscino, snc, Proceno (Viterbo).
2. Ironia viene dal greco èiròn: colui che interroga gli altri fingendo socraticamente di non sapere per far sì che essi scoprano la verità. Satira viene dal latino sàtura e significa un componimento poetico che critica con arguzia le debolezze umane. Arguzia viene dal latino arguère, indicare, dimostrare e significa spirito sottile, pronto, intelligente, garbato, piacevolmente mordace (N. Zingarelli). Charlie non è né ironico, né satirico e neppure arguto. È offensivo e insultante, volgare e disgustoso.
Utile questa sintesi di don Nitoglia,che a volo d'uccello ci ricorda principi fondamentali per non impazzire , come impazzita è la cultura in cui siamo immersi :fiducia nell'intelligenza ,in grado di conoscere il reale , primato della filosofia speculativa (metafisica)da cui discende la filosofia pratica ( conoscere per agire).Sentire ribadire tutto ciò come confacente al pensiero cattolico mi conforta molto . Alcune volte mi sono infatti chiesta , vedendo le storture nella Chiesa :non sarò io che traviso tutto , non sarà la mia ragione a doversi , per umiltà , piegare ,ed accettare che quello che essa conosce come storto sia invece dritto perchè così mi viene detto dall'autorità (alta o altissima )?Grazie per l'aiuto a conservare la sanità mentale .
RispondiEliminaGrazie, don Nitoglia.
RispondiEliminaLimpido come sempre. Lo stamperò e lo distribuirò a figli e nipoti liceali, quale antidoto contro i veleni che troppo spesso inoculano negli istituti secenti "di istruzione".
Anna
http://www.lastampa.it/2015/03/12/blogs/san-pietro-e-dintorni/sinodo-cordes-contro-marx-v26SU2hzwYI1mNkrE6pgnM/pagina.html
RispondiEliminaL'uomo ha un’intelligenza che non lo inganna, ma coglie il suo oggetto senza deformarlo, anche se non lo conosce totalmente e perfettamente. Perciò la verità esiste e consiste nell’adeguamento dell’intelletto alla realtà. L’idealismo, la sofistica, l’agnosticismo, lo scetticismo (che negano la capacità umana di conoscere la realtà) si servono pur sempre della ragione per criticare la ragione umana come se l’unica ragione ragionevole fosse la loro, ma così facendo pongono l’intelligenza umana in “pericolo di morte” ed abbassano l’essere umano al livello dell’animale.
RispondiEliminaquoto
Purtroppo le cose non sono così semplici come Don Nitoglia spesso le fa apparire: realismo=bene; idealismo=male. Basti ricordare che la grande tradizione Patristica è tutta impregnata di filosofia platonica; e così non mi sembra che per S.Agostino la verità fosse "adeguazione dell'intelletto alla cosa", o che Duns Scoto e Rosmini siano esattamente gli ultimi arrivati in fatto di metafisica.
RispondiEliminaIn realtà il realismo, la bella "oggettività" aristotelica, è la base più prospera al naturalismo stesso, in quanto che non dialettizzando l'essere (reale-ideale), perde nella natura fisica il principio metafisico -e ciò è panteismo-, riducendo la mente fatta a immagine del Logos a un ricettore su cui gli intelligibili vengono come a sbattere, in simbiosi con la percezione sensoriale. Né si dimentichi che Aristotele inizia a mettersi filosoficamente in proprio per congedare, schernendole, le celebri "Idee" del maestro, "vane metafore poetiche", con ciò dimostrando di non coglierne l'esemplarismo, ossia queste istanze di fondo: col mondo non spieghi il mondo; il conoscere rimanda necessariamente a un "oltre" il conosciuto.
L'errore idealistico è all'opposto quello di reificare le idee. Ma se è vero, come dicono i Padri, che col Dio-Creatore ex nihilo a Platone sarebbero tornati tutti i conti, è invece un fatto che al sorgere dell'aristotelismo in Europa, solo il genio enorme di S.Tommaso poté sganciare lo Stagirita dall'ipoteca averroistica. E il neo-tomismo ci ha molto ben mostrato quanto peso (a lungo sottovalutato) abbia avuto in questa operazione la forza della tradizione patristica, che si direbbe "idealista". Che poi l'idealismo in salsa tedesca sia una peste, nulla quaestio.
Questo è quanto, senza pretese e senza polemiche. Scelgo l'anonimato perché non farò su questo blog altre sortite (fuorché, se gli sviluppi lo richiedessero, in questo thread); blog che tra l'altro seguo da tempo e con riconoscenza.
Solo vorrei vedere un Cattolicesimo che finalmente libero da certi schematismi i quali certo, se non sono modernismo (ed è già tanto, di questi tempi!), pure sono il segno di un ripetere stanco, di un resistere da nicchia, di un pensiero che non attinge il profondo delle sue cristiane potenzialità. Non l'arretramento, non una formula: l'errore va battuto in breccia, sfidato sul suo campo perché fiduciosi del fatto che in quanto cattolici, non ci manca neppure un'arma all'occorrenza. Vorrei che lo zelo per la verità fosse vera esigenza interiore, non posa, come spesso vedo nel mondo del tradizionalismo.
Grazie dello spazio.
Saluti.
condivido l'intervento di anonimo
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