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venerdì 8 maggio 2015

don Curzio Nitoglia. LA METAFISICA DI ARISTOTELE

.: Parte prima : Platone, Aristotele, S. Agostino e S. Tommaso - Una metafisica sostanzialmente simile e accidentalmente diversa.
.: Parte seconda : Causalità e partecipazione Secondo Platone, Aristotele e S. Tommaso
.: Parte terza : La Metafisica di Aristotele
.: Parte quarta : Originalità e Perfezione della Filosofia Tomistica. Rispetto al Platonismo e all’Aristotelismo

La metafisica di Aristotele

Platone guarda direttamente in alto e Aristotele lo corregge partendo dal basso per giungere in alto.

L’affresco di Raffaello sulla scuola di Atene, presente nelle Stanze vaticane, nel particolare che rappresenta Platone ed Aristotele va bene interpretato. Infatti mentre Platone alza direttamente il dito verso il cielo o il mondo delle Idee, Aristotele, che guarda dritto negli occhi Platone, non lo abbassa verso la terra (come si dice comunemente), ma tiene la mano destra con il palmo sospeso tra cielo e terra alzando l’estremità della sua mano verso l’alto (analogamente ad un aereo che decolla) come ad indicare che dal sensibile occorre ascendere al meta-sensibile[1]. Ed infatti non è corretto rappresentare la filosofia aristotelica come mero empirismo naturalista e quella platonica come puro “idealismo” classico, in totale contrapposizione tra loro.

Gli scritti per il pubblico e per la sola scuola di Aristotele

Gli scritti di Aristotele[2] si dividono in due gruppi:
  1. quelli scritti per la pubblicazione (in forma dialogica e destinati al pubblico) che sono andati persi quasi interamente e dei quali resta solo qualche frammento[3]; 
  2. quelli scritti per la sua scuola e i suoi allievi che sono stati salvati da Silla e Andronico di Rodi [4] e ci son pervenuti nella quasi totalità.
Aristotele “il discepolo più genuino di Platone”

Aristotele è stato “il più genuino dei discepoli di Platone”[5] nel senso che muove dalle dottrine del maestro lasciandone intatta la sostanza e cercando di risolverne le imperfezioni nello spirito del maestro e perciò va oltre e non contro di lui[6].

In questo articolo cerco di esporre il pensiero di Aristotele[7] facendo notare le affinità e le divergenze tra lo Stagirita e Platone[8], mentre nell’articolo precedente su Platone ho cercato soprattutto di mostrare che non vi è differenza sostanziale tra i due e solo conseguentemente ho esposto i capisaldi della dottrina platonica.

Aristotele corregge la dottrina delle Idee di Platone

Certamente Aristotele ha criticato e corretto la dottrina delle Idee e dei Princìpi di Platone, ma non bisogna isolare tale critica e correzione dal contesto metafisico o ultra-sensibile in cui entrambi si son mossi. Aristotele non nega la istanza meta-fisica platonica, anzi ammette la realtà sopra-sensibile ma ne dà un’altra dimostrazione. Quindi si può dire che quanto alla sostanza i due filosofi convergono mentre differiscono quanto al modo di argomentare e dimostrare il loro pensiero.

Il Motore Immobile di Aristotele

Secondo lo Stagirita la realtà sopra-sensibile esiste ed essa è il Motore Immobile[9], l’Intelligenza suprema, il Pensiero di Pensiero[10] e non l’Idea del Bene e il Principio dell’Uno platonici. Inoltre Platone studia soprattutto la natura del mondo trascendente e non quella del mondo sensibile. Aristotele[11], partendo dal mondo sensibile e risalendo a quello meta-fisico, fa notare che se i Princìpi e le Idee sono totalmente “separati” dal mondo sensibile, allora difficilmente si spiega come possano essere causa di esso. Sappiamo che Platone, però, negli ultimi Dialoghi[12] considera le Idee non più  forme intrinseche ma forme estrinseche o cause esemplari e modelli guardando ai quali il Demiurgo produce il mondo sensibile, come un pittore contempla un paesaggio e poi ispirandosi a quel modello lo dipinge su tela. Perciò Platone è ricorso al Demiurgo come causa efficiente non creatrice, ma plasmatrice del mondo sensibile nel quale cala le Idee e i Princìpi. Invece Aristotele parla del Motore Immobile come causa non efficiente, ma solo finale del mondo che attrae a sé quale oggetto di amore ogni cosa (“l’Amor che move il mondo e l’altre stelle”)[13].

Da notare anche che il Motore Immobile di Aristotele  è oggetto di amore, ma non conosce né ama gli individui in quanto tali, ossia con le loro limitazioni e deficienze. Infatti essi non meritano l’attenzione del Pensiero divino, data la loro particolarità e empiricità. Quindi il Dio aristotelico è conosciuto e amato, ma non conosce né ama gli uomini. È impensabile che l’Assoluto conosca e ami qualcos’altro da sé.

Causa formale intrinseca

La causa formale o essenza di una cosa sensibile è, secondo Aristotele, la forma intelligibile della cosa sensibile. Quindi lo Stagirita rivaluta il mondo sensibile come trampolino per ascendere a quello intelligibile (“per visibilia ad invisibilia”), mediante la conoscenza della quiddità intelligibile della cosa sensibile che si trova in essa intrinsecamente come causa formale, la quale attua e specifica la materia (“nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu”)[14].

Platone e Aristotele concordano nell’affermare che senza il sopra-sensibile non esisterebbe il mondo materiale, ma discordano quanto al modo di provare l’esistenza del sopra-sensibile: Platone parte da esso e lo presuppone intuìto parlandone poi sotto forma dialogica e poetica; Aristotele vi arriva dopo esser partito dalla costatazione sperimentale della realtà fisica contingente che non può essere la sua propria ragion  d’essere e richiede quale ragion d’essere un qualcosa di assoluto.

Se Platone intendeva il mondo meta-sensibile come la vera realtà intelligibile e trascendente, Aristotele intende il sopra-sensibile come Intelligenza trascendente o Pensiero di Pensiero, Pensiero che pensa se stesso, ed introduce la causa formale intrinseca come struttura intelligibile del reale ad esso interna. Così il mondo materiale è il contenitore delle forme intelligibili. Quindi lo Stagirita mantiene la dottrina platonica della priorità metafisica delle forme, ma le rende intrinseche al mondo materiale e ne fa la quiddità o essenza intelligibile del sensibile. Dunque, come diceva Diogene Laerzio, “Aristotele è il più genuino dei discepoli di Platone” e non il suo avversario come si è voluto intendere soprattutto a partire dall’Umanesimo rinascimentale[15].

Il cuore della filosofia di Platone ed Aristotele è il medesimo: la meta-fisica; ciò che cambia è la via o il metodo per giungervi: Platone parte dall’intuizione[16] (che poi prova anche se non rigorosamente come lo Stagirita) del mondo delle Idee; mentre Aristotele parte dal mondo materiale, ma ne astrae la forma o essenza intelligibile intrinseca ad esso e risale (mediante ragionamenti probanti) al mondo trascendente o meta-fisico. Inoltre Platone si serve sostanzialmente del metodo dialogico, ossia di un discorrere (poetico, elegante, bello e affascinante) tra vari personaggi, in maniera sempre aperta e continua verso il trascendente e come un ricercare senza posa; mentre Aristotele sistematizza (in maniera arida, sistematica, scientifica, schematica, densa di concetti e definizioni) organicamente le nozioni, i concetti, le definizioni, i sillogismi per provare ciò che asserisce, congiungendo assieme tutti i termini e dando una sistemazione stabile dei problemi filosofici.

“In conclusione, i rapporti tra Aristotele e Platone non sono di antitesi: sono invece tali che portano il discepolo ad un superamento del maestro, che è inveramento[17] delle sue conquiste metafisiche. E, oltre a questo inveramento, in Aristotele c’è anche un completamento che porta alla sistemazione del sapere filosofico”[18].

Il primato ontologico della sostanza in Aristotele

Per Aristotele la natura materiale o sensibile di questo mondo è vera realtà e vero essere. Quindi la “fisica” aristotelica contiene potenzialmente l’ontologia e la metafisica, ossia il risalire dall’ente finito a quello infinito. Tuttavia per Aristotele l’essere fondamentale della filosofia metafisica è la sostanza (ousìa)[19], che per lui è “l’essere più forte e più vero”[20]. Aristotele parte dalla sostanza e arriva a Dio.

Invece per S. Tommaso “l’essere è la realtà più perfetta, […] l’attualità di tutte le cose e delle forme stesse”[21]; “L’essere è atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione”[22]; “L’essenza non sarebbe nulla se l’essere non la rendesse tale”[23]; L’essere è “l’atto ultimo e la perfezione di ogni essenza”[24]; “Tra tutte le cose l’essere è la più perfetta (esse est inter omnia perfectissimum). […]. L’essere è l’attualità di ogni atto e quindi la perfezione di ogni perfezione”[25]; “L’essere è l’atto ultimo o perfettivo, che è partecipabile da tutti, mentre l’essere non partecipa ad alcunché. L’essere è partecipato e non partecipante (Ipsum esse est actus ultimus, qui partecipabilis est ab omnibus; ipsum esse autem nihil participat)”[26]; “L’essere è la più perfetta di tutte le cose, poiché è l’atto di ogni ente e di ogni forma o essenza. Quindi l’essere sta all’ente come il ricevuto o partecipato al recipiente o partecipante”.
La metafisica tomistica poggia su tre pilastri:
  1. l’essere come atto ultimo di ogni atto, di ogni sostanza e come perfezione di ogni perfezione, letto alla luce dell’analogia
  2. il principio di partecipazione letto alla luce della causalità efficiente creatrice; 
  3. l’ente come essenza che riceve l’essere e lo limita.
Diversità di vie per giungere all’essere meta-sensibile

Anche per Aristotele[28] come per Platone non esiste solo l’essere sensibile ma anche quello sopra-sensibile; la differenza è che per il primo tutti e due sono veri enti anche se gerarchicamente subordinati come la materia alla forma e la potenza all’atto, mentre per il secondo il vero essere è solo il sopra-sensibile e quello sensibile è un’ombra o un’apparenza di esso.  Per Aristotele l’essere o la sostanza ultima e perfetta è il Motore Immobile (Dio), che è oggetto della metafisica e possiede al massimo grado la conoscenza metafisica o la sapienza[29].

Inoltre dal punto di vista gnoseologico Platone ritiene che le idee o i concetti universali (logoi), separati dal mondo e dall’intelligenza dell’uomo, sono còlti o intuìti direttamente dall’intelletto umano che di fronte ad essi sarebbe totalmente passivo; mentre Aristotele[30] insegna che l’intelletto umano astrae logicamente l’essenza intelligibile dalla cosa sensibile, che prima è stata percepita dai sensi esterni e interni dell’uomo (momento astrattivo).

Dopo l’astrazione delle idee Aristotele si pone delle obiezioni o dei dubbi (momento aporetico) ai quali deve rispondere per avanzare nella ricerca filosofica: “Giova discutere i dubbi e risolverli per giungere ad una soluzione buona”[31].

Quindi lo Stagirita, non fermandosi alle aporie come Kant[32] ma andando alla soluzione dei problemi, risponde ai dubbi e alle obiezioni (momento teoretico), risolvendoli e dimostrando la verità della sua asserzione. Si può ben dire che Aristotele confutando il razionalismo dei naturalisti presocratici e il realismo esagerato di Platone, arriva ad una sintesi che partendo dal sensibile giunge per dimostrazione logica al meta-sensibile mediante un realismo moderato, per cui l’intelletto arriva alla verità conformandosi alla realtà, còlta astraendo l’idea intelligibile dalla cosa sensibile.

Le quattro cause

Studiando in maniera assai precisa le quattro cause (materiale, formale, efficiente e finale) Aristotele[33] assegna al Motore Immobile solo quella finale e non quella efficiente, che è la spiegazione o la causa ultima di ogni  movimento: il Motore Immobile attira a sé gli enti contingenti come oggetto di amore ma non agisce su di essi né li muove come causa efficiente.

L’Analogia dell’essere aristotelica

La concezione aristotelica dell’essere è analogica, non univoca né equivoca[34]. Platone non era giunto alla dottrina dell’analogia  dell’essere[35]. L’analogia aristotelica insegna che l’essere esprime significati diversi, ma che hanno tutti relazione con un unico principio. Per esempio il concetto di salute è analogo e perciò ha molteplici significati, che si assomigliano in quanto tutti si riferiscono all’uomo sano: la passeggiata è detta sana non in sé ma in quanto mantiene la salute dell’uomo; il bel colorito è segno di buona salute dell’uomo; l’urina analizzata si dice sana se indica la salute dell’uomo… Così è dell’essere, che è predicato del minerale, del vegetale, dell’animale, dell’uomo, dell’angelo e di Dio, ma di Dio in quanto è l’Essere stesso per se sussistente e degli altri analogati in quanto sono enti per partecipazione o ricevono, hanno, partecipano l’essere parzialmente da Dio[36].

Aristotele, dunque, è il padre dell’analogia[37]. Tuttavia il termine “analogia” fu coniato da Platone, mentre Aristotele usa “termine non totalmente univoco o equivoco”. Platone, inoltre, ha trattato solo l’analogia di proporzionalità, ossia la somiglianza di relazione tra i quattro elementi: il fuoco sta all’aria, come l’aria sta all’acqua, come l’acqua sta alla terra. Anche Aristotele usa il termine analogia, ma raramente[38] e la studia relativamente all’essere (termine universale analogo), che si predica o attribuisce a diversi soggetti (analogati secondari), ma con riferimento ultimo ad un unico principio supremo (analogato principale)[39]. Per Aristotele l’analogato principale è la sostanza, mentre per S. Tommaso, e giustamente, è l’esse ut actus ultimus omnium essentiarum.

L’analogia aristotelica come quella tomistica, inoltre, non sono principalmente di proporzionalità (l’essere sta all’atto come l’essere sta alla sostanza; l’essere sta al sasso come l’essere sta all’animale, come l’essere sta all’uomo), ma di attribuzione “secundum prius et posterius”. Infatti la proporzionalità dice poco, ossia il fatto (“quia”) che il sasso, la pianta, l’uomo son dotati di essere e quindi vi è una certa proporzione tra di loro, mentre l’attribuzione “secondo il prima e il poi” dice esplicitamente ciò che è contenuto solo implicitamente nella proporzionalità e cioè il perché (“propter quid”) l’essere si attribuisce all’uomo (analogato secondario) perché egli lo riceve da Dio (analogato principale).

La usiologia aristotelica

Per Aristotele il principio che unifica il concetto di essere è la sostanza (ousìa). Egli non vede l’essere come distinto dalla sostanza. Tutti gli enti son detti essere in relazione alla sostanza: “L’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento alla sostanza”[40]. Quindi “L’essere in quanto essere significa in Aristotele la sostanza e tutto ciò che, in molteplici modi, si riferisce alla sostanza”[41]. Così l’accidente è detto essere in quanto inerisce ad una sostanza che gli fa da soggetto. La sostanza sussiste di per sé, l’accidente non sussiste per sé ma in una sostanza. Noi li distinguiamo tra di loro, ma in realtà la sostanza materiale esiste sempre accompagnata e circondata da accidenti, che sono realmente distinti da essa. Per esempio la sostanza uomo sarà distinta dagli accidenti alto/basso, magro/grasso/, bianco/nero… tuttavia non esiste un uomo senza l’altezza, la grandezza, il colore… è per questo che la metafisica aristotelica è detta usiologia  (ousiologìa) o metafisica della sostanza[42].

La sostanza è non la sola materia o la sola forma (tranne che nelle forme pure), ma è un sìnolo, un tutt’uno, di materia e forma[43]. Inoltre è sostanza solo ciò che è in atto. L’essere nel significato più forte è la sostanza, che nel senso più genuino è la forma, la quale attua la materia formando con essa un sìnolo. La forma è più essere della materia e anche del sìnolo poiché informando la materia lo fa esistere[44]. Aristotele chiama la forma “causa prima dell’essere”[45]. La sostanza aristotelica è la forma o essenza intrinseca delle cose e non è - come per Platone -  un universale astratto, un’Idea universale e separata o pura che non ha nulla a che fare con il mondo sensibile.

Potenza e atto

Come la forma è più nobile della materia in quanto la attua o informa, così l’atto è più nobile della potenza poiché la fa passare dalla capacità di essere all’atto di essere (per esempio il legno che, lavorato, diventa statua e riceve dall’artista la forma di statua è meno nobile della statua in atto)[46].
Il divenire[47] è il passaggio non solo spaziale o cosmologico da un luogo ad un altro, ma ontologico: dalla potenza (atto imperfetto) all’atto perfetto[48].

Politeismo aristotelico

Oltre il Motore Immobile lo Stagirita pone altre cinquantacinque sostanze pure o spirituali e sopra-sensibili, immobili, eterne, che muovono gli enti materiali analogamente al Motore Immobile, ossia come cause finali e non efficienti. Questa è una forma di politeismo, poiché per il pagano - greco o romano, aristotelico o platonico - la Divinità designa una sfera molto ampia nella quale rientrano molteplici realtà. Per Platone “Divino” son le Idee, i Princìpi, il Demiurgo, le anime spirituali. Per Aristotele il Motore Immobile è Divino, così pure le sostanze sopra-sensibili e l’anima razionale umana. Divino è tutto ciò che è eterno e incorruttibile. Per il mondo pagano greco non vi è contraddizione tra l’unità e la molteplicità nella Divinità.

Tuttavia Aristotele filosoficamente ha intuito la debolezza del politeismo ed  ha tentato un’unificazione del Divino. Infatti ha chiamato Dio in senso forte e stretto solo il Motore Immobile[49]. Le altre forme pure immateriali o divinità son concepite gerarchicamente inferiori al Motore Immobile[50]. Giovanni Reale parla di un monoteismo aristotelico “esigenziale più che effettivo poiché il primo Motore Immobile è stato staccato nettamente dalle altre sostanze separate. Ma questa esigenza si infrange perché in Aristotele vi sono cinquantacinque sostanze motrici eterne e immateriali, anche se subordinate gerarchicamente tra loro e al Motore Immobile. Solo con la scolastica medievale esse diverranno sostanze angeliche create”[51].

L’etica aristotelica

La filosofia pratica aristotelica[52] riguarda la condotta dell’uomo e il fine che egli può raggiungere mediante la sua condotta, sia individualmente (etica o morale individuale[53]) sia socialmente (politica e economia[54]).

La morale viene chiamata dallo Stagirita anche “filosofia delle cose o dell’agire dell’uomo”[55] che poi suddivide in etica individuale (morale), politica (etica sociale) ed economia (etica familiare).
Secondo lo Stagirita “la felicità della Città dipende dalla virtù, ma la virtù vive in ciascun cittadino, e perciò la Città può diventare  ed essere felice nella misura in  cui diventi e sia virtuoso ciascun cittadino”[56]. Aristotele si avvicina, e di molto, alla concezione della regalità sociale di Dio e della sua Legge già in questo mondo e mediante la  sana vita politica.

Tuttavia la filosofia greca non avendo ancora chiaro il fine soprannaturale dell’uomo tendeva ad assorbirlo totalmente nella Società civile (collettivismo totalitario e statalista di Platone) o ad intendere lo Stato come al di sopra dell’uomo e della famiglia (Aristotele, Stato autoritario ma non totalitario), senza distinguere l’uomo dotato di anima spirituale ed elevato all’ordine soprannaturale, che in quanto tale è ontologicamente superiore allo Stato, il quale è solo di ordine naturale, dal cittadino che, in quanto parte della città, moralmente è subordinato allo Stato.

Solo con la Scolastica si arriverà alla vera soluzione. La persona è ordinata al bene comune della Società ed inoltre è subordinata alla Società come la parte al tutto (per es., la mano all’uomo); quindi vi è una certa superiorità o priorità del bene comune sulla persona. Tuttavia, la persona non è la rotella di un orologio, completamente subordinata al funzionamento di esso, o un’ape subordinata all’alveare. La persona non è solo un animale politico o sociale, non è solo un membro della società o un  pubblico cittadino, essa  è anche e soprattutto animale razionale, dotato di anima immortale, di intelletto per conoscere la Verità Somma e di volontà per amare il Sommo Bene.

Allora bisogna distinguere
  1. la persona umana (moralmente) in quanto cittadino, che è subordinata alla Società. Poiché l’uomo - scrive S. Tommaso - “è parte della Società, in quanto parte appartiene al tutto. Infatti la natura sacrifica la parte per salvare il tutto (la mano si leva spontaneamente per salvare il corpo aggredito da un coltello o da un sasso)”[57];
  2. la persona (ontologicamente) in quanto animale razionale e spirituale, che è superiore alla Società terrena o civile, ed è ordinata alla città celeste o divina, che trascende la Società civile. “L’uomo non è ordinato alla Società politica secondo tutto se stesso... ma tutto ciò che l’uomo è, può ed ha è ordinato  a Dio”[58].
In breve:
  1. in quanto cittadino che tende ad un benessere temporale e terreno, l’uomo, è ordinato alla Società, come una parte al tutto (date a Cesare ciò che è di Cesare); ma 
  2. in quanto persona razionale e spirituale è ordinato solo a Dio ed ha una finalità superiore alla Società terrena (date a Dio ciò che è di Dio). Il bene della singola persona (Dio fine ultimo), dunque, è superiore al bene della Società (benessere temporale), ma ciò non significa che la persona in sé considerata sia più nobile dello Stato in sé considerato[59].
Tuttavia Aristotele è stato il filosofo pagano che più di tutti si è avvicinato alla sana dottrina sui rapporti tra persona e Stato. Infatti  D. Ross scrive: “man mano che Aristotele procede nella sua Etica il rapporto tra individuo e Stato minaccia di rovesciarsi e alla fine dell’opera parla come se lo Stato avesse una semplice funzione ancillare e non più architettonica o di comando rispetto alla vita morale dell’individuo, ossia lo deve aiutare a asservire i suoi istinti alla ragione per vivere virtuosamente”[60]. Ma, conclude Giovanni Reale, questa tendenza non viene portata da Aristotele al livello di consapevolezza critica e non vengono da lui tratte quelle conclusioni che avrebbero rotto la concezione greca della polis come superiore al singolo uomo[61].

Nell’Etica a Nicomaco[62] Aristotele affronta il problema del fine dell’uomo e risponde che è la felicità. Ma in cosa consiste la vera felicità? Essa non consiste nei piaceri dei sensi, che rendono l’uomo simile alle bestie[63]. Non consiste neppure nell’onore poiché “esso è qualcosa di esterno e non intrinseco all’uomo, mentre il bene o la felicità è qualcosa di intimamente proprio e inalienabile”[64]. Inoltre l’onore consiste nel riconoscimento pubblico della bontà interna di una persona. Quindi la onestà dell’uomo è più nobile dell’onore. Infine la felicità non consiste soprattutto nell’ammassare ricchezze. Infatti l’avarizia o crematistica/finanziaria (arte di arricchirsi sempre di più come fine della vita umana) non ha neppure le apparenze di bene o di felicità che sembrano avere la ricerca dei piaceri e degli onori. Aristotele scrive: “piaceri e onori son ricercati in se stessi, invece le ricchezze no. Quindi la vita spesa ad ammassare ricchezze è contro natura, è la più assurda, la più inautentica, perché consumata a ricercare cose che valgono come mezzi utili in funzione di uno scopo e non come fini”[65].

Aristotele divide i beni in cui consiste la felicità
  1. in esterni, che non possono far conseguire la beatitudine intrinseca all’uomo e tra questi pone le ricchezze; 
  2. in interni del corpo, che essendo la parte meno nobile dell’uomo non può essere quella che gli fa ottenere il fine ultimo o la felicità e tra questi pone i piaceri, che sono meno contro-natura delle ricchezze; 
  3. in interni spirituali, che sono “beni nel senso più proprio e nel grado più alto”[66].
Il bene attuabile dall’uomo, senza l’ordine soprannaturale sconosciuto a Aristotele, non può essere l’Idea del Bene trascendente, poiché questo trascende, per definizione, le capacità umane[67]. Quindi l’uomo deve tendere a possedere un bene proporzionato alle sue capacità. Ora come l’occhio è finalizzato alla vista, l’orecchio all’udito, così l’uomo che è un animale razionale è finalizzato alla conoscenza del vero[68]. Né si dimentichi che per Socrate, Platone[69] e Aristotele[70] la vera e suprema conoscenza è la contemplazione, che porta non solo alla pura conoscenza ma alla vita virtuosa. Infatti Platone e Aristotele insegnano che la metafisica non è un astratto pensare, ma deve incidere profondamente sulla vita pratica e morale individuale e sociale. Quindi il vero filosofo, per Platone e Aristotele, deve avere non solo la conoscenza ma anche uno stile di vita moralmente corretto, ossia una coerenza tra pensiero e pratica e la sapienza, per Platone come per Aristotele, consiste nella conoscenza amorosa di un oggetto nobile (Bene/Motore Immobile). Giovanni Reale conclude che Aristotele finisce per “concordare con Socrate e Platone molto più di quanto non si creda comunemente”[71].

L’uomo ha bisogno anche di beni inferiori come di mezzi

A differenza di Platone, Aristotele ritiene che l’uomo per vivere virtuosamente debba possedere un minimo di beni esteriori e di mezzi materiali sufficiente a dargli il tempo e la tranquillità di dedicarsi alla socratica “cura dell’anima”. Questi beni non danno di per sé la felicità, ma la loro totale assenza potrebbe guastarla o comprometterla almeno parzialmente[72].

La virtù etica o morale consiste nel giusto mezzo non di mediocrità ma di vertice al di sopra degli eccessi e dei difetti; in breve è il loro superamento[73]. Quindi la virtù pratica è la giusta misura che la ragione impone ai sentimenti che senza il controllo della ragione tenderebbero verso l’eccesso o il difetto.

La virtù dianoetica o speculativa riguarda la parte superiore dell’anima, ossia l’intelletto. La sapienza (sophìa) riguarda ciò che è al di sopra dell’uomo, ossia la meta-fisica[74].

La politica secondo Aristotele

La politica è la virtù di prudenza applicata allo Stato”[75]. Il bene del singolo uomo e il bene dello Stato per lo Stagirita coincidono nella virtù e quindi sono della medesima natura[76]. Tuttavia il bene dello Stato è più importante di quello di un solo cittadino. L’uomo per natura è “animale socievole” incapace di vivere da solo[77]. La natura ha distinto gli uomini in maschi e femmine, che si uniscono per formare una famiglia, ma, siccome la famiglia è una società imperfetta che non basta da sola a soddisfare tutte le esigenze dell’uomo, più famiglie si uniscono e formano un villaggio e più villaggi formano lo Stato (società temporale perfetta, che garantisce ai singoli, alle famiglie, ai villaggi la vita virtuosa materiale e intellettuale perfetta o completa[78]). Infatti solo lo Stato - mediante le istituzioni, le leggi, le magistrature e l’autorità - può educare ovvero far uscire l’individuo da se stesso o dal suo egoismo e farlo vivere secondo ciò che è oggettivamente buono e non secondo ciò che gli sembra soggettivamente tale[79].

La Sofistica riduceva lo Stato ad una mera artificiosa convenzione umana, aprendo le porte sia all’anarchia che al totalitarismo. Aristotele, invece, è il convinto assertore della naturalità dello Stato e della socievolezza umana. La tendenza in Aristotele (in Platone è molto più radicale) a fare dello Stato un assoluto deriva anche dal fatto che, non essendovi una Chiesa spirituale e divinamente fondata nella Grecia antica, la polis è qualcosa di meta-biologico[80].

L’economia

L’economia per Aristotele è la prudenza applicata alla famiglia. Essa ha due funzioni essenziali. La prima interna all’ordine ontologico e morale della famiglia stessa: regolare i rapporti tra moglie e marito, padre e figli, padrone e servi; la seconda riguarda l’arte di procacciarsi le ricchezze sufficienti al mantenimento del focolare domestico[81]. La “economia” moderna non ha nulla a che fare con quella classica e medievale, ma è una sua degenerazione: essa è la affaristica, crematistica o pecuniativa[82] e consiste nell’arte di accumular ricchezze come fine dell’uomo, ossia è qualcosa di innaturale e sommamente disprezzabile. Ora, nota Aristotele, la crematistica scambia il mezzo col fine perché ritiene che non esista un limite alle ricchezze o ai beni materiali e vuole accumulare ricchezze all’infinito[83]. Invece la sana economia cerca di procacciare al focolare domestico quanto basta a soddisfare convenientemente i bisogni naturali, che hanno un limite fissato dalla natura[84]. La crematistica o affaristica moderna è quindi intrinsecamente perversa perché fa delle creature o beni materiali l’Assoluto da ricercarsi senza posa. “Quando il denaro da mezzo diventa fine, si capovolge il senso del vivere: si usa la vita per produrre denaro invece che il denaro per vivere”[85].

La concezione economica classica e scolastica, contraddetta da quella liberista, è la seguente. Vi sono tre modi principali per acquistar ricchezze:
  1. la caccia, la pastorizia e l’agricoltura;
  2. il baratto dei beni acquistati nel primo modo; 
  3. il commercio tramite denaro non come puro mezzo di scambio, ma per aumentare senza limiti le ricchezze e questa è la crematistica o affaristica (Aristotele) o pecuniativa (S. Tommaso[86]).
 La democrazia secondo Aristotele

Secondo lo Stagirita come in psicologia metafisica[87] l’anima e la ragione comandano sul corpo  e sui sensi, così in politica gli uomini in cui predominano l’anima e l’intelletto devono governare, mentre quelli che vivono soprattutto secondo il corpo e i sensi o le passioni debbono essere governati[88].

Per essere cittadino in una polis  non basta abitare in un villaggio, ma occorre partecipare al suo governo mediante il diritto e le leggi. È per questo che la politìa[90] è il governo di una moltitudine capace di servire lo Stato nell’esercito e nella magistratura per il bene comune della Società e non è il governo di una sola classe (massa/popolo). La politìa per Aristotele non è il governo di tutti o della massa informe, ma del popolo inteso come la maggior parte dei cittadini (“i più/la moltitudine”), ossia la sanior pars civitatis. La democrazia o governo di tutti  in vista del benessere temporale della massa è per Aristotele una degenerazione della politìa[91] poiché non mira all’interesse comune, ma all’interesse della massa e quindi è vera e propria tirannide della massa o demagogia (dal greco demagogòs capo-popolo, agogòs-dèmos, che si accattiva il favore della massa con promesse di beni difficilmente realizzabili) e rende ingovernabile la polis[92].

“L’errore in cui cade la democrazia è quello di ritenere che, poiché tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto”[93].

Quanto alle classi che compongono la polis Aristotele le divide così:
  1. i coltivatori della terra e gli allevatori di bestiame, che forniscono il cibo alla città; 
  2. gli artigiani, che forniscono strumenti e manufatti ai cittadini; 
  3. i commercianti, che producono ricchezza importando ciò che manca alla città 
  4. la polizia che difende l’ordine interno della città dai delinquenti e i guerrieri, che difendono la città dai nemici esterni; 
  5. i giuristi, che stabiliscono per legge ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per i cittadini, ossia i diritti e i doveri; 
  6. i filosofi che contemplano la verità e i sacerdoti, che rendono il culto alla Divinità[94].
Le prime tre classi (contadini, operai, commercianti) non hanno le capacità e il tempo per dedicarsi alla vita virtuosa, quindi non sono veri cittadini ma servi di essi. Solo le altre tre classi (esercito/polizia; giuristi/magistrati; filosofi/sacerdoti) sono veri cittadini atti a governare la polis e a partecipare alla vita politica scegliendo i governanti. Come si vede la concezione politica di Aristotele non è affatto una concezione democratica in senso moderno[95].

Pur non avendo la concezione di un ordine soprannaturale e di una Chiesa divinamente fondata, Aristotele concepisce il benessere comune temporale dello Stato subordinato a quello spirituale o intellettualmente e praticamente virtuoso. Infatti nell’Etica a Nicomaco e a Eudemo aveva insegnato che i beni sono di due tipi: esterni o materiali (del corpo) e interni o razionali (dell’anima). I primi sono semplici mezzi ordinati ai secondi come al loro fine e “ciò vale sia per l’individuo che per lo Stato. Quindi anche lo Stato deve ricercare il bene comune temporale in maniera limitata o ordinata, cioè in funzione dei beni spirituali, nei quali soltanto consiste la felicità individuale e sociale. Di modo che la polis virtuosa è felice e fiorente. Non può essere felice chi non vive virtuosamente e secondo ragione, sia individuo o Stato. Quindi come il senno e la virtù rendono giusto, saggio e assennato il privato cittadino, così è per la città”[96].

Conclusione

Possiamo ben concludere che Aristotele con Platone è colui il quale ha esercitato il massimo influsso sulla metafisica classica. Ad Aristotele spetta il merito di avere dato una struttura e una metodologia scientificamente e razionalmente rigorosa alla filosofia, mentre Platone si era avvalso soprattutto del metodo dialogico e poetico più bello stilisticamente, ma meno esatto logicamente.

Platone è grande come scrittore e come pensatore. È il primo padre della meta-fisica anche se Aristotele l’ha fatta crescere e ne è stato il maestro più rigoroso raziocinativamente. Solo S. Tommaso li supera ed è il sommo metafisico, che si avvale del vero dell’uno e dell’altro, li corregge ove necessario e si spinge al vertice metafisico, ossia all’esse ut actus ultimus omnium perfectionum. La grandezza di Platone consiste soprattutto nell’aver valicato per primo il mondo fisico ed essere asceso a quello meta-fisico, di esser partito dalla contingenza e di esser giunto alla trascendenza.

La Patristica greca e latina del basso medioevo ha ignorato la filosofia aristotelica (in Europa si conosceva solo la parte logica di Aristotele e si ignoravano gli altri scritti, che saranno conosciuti solo nel XIII secolo grazie ai metafisici arabi) e si è avvalsa unicamente della filosofia di Platone sulla quale ha costruito una teologia soprattutto amorosamente mistica ed affettiva, senza produrre una sua filosofia originale.

La Scolastica dell’alto medioevo (ed in primis S. Tommaso d’Aquino) si è servita anche e soprattutto di Aristotele oltre che di Platone, ma non si è limitata a farne un semplice commento e poi ad innalzare un sistema teologico sulle basi della filosofia aristotelica (come aveva fatto la patristica con Platone). No. Essa ha una sua filosofia originale, che è la metafisica
  1. dell’essere come atto ultimo e perfezione anche della sostanza (alla quale era pervenuto e si era arrestato lo Stagirita) 
  2. dell’analogia aristotelica e 
  3. del concetto platonico di partecipazione. S. Tommaso, inoltre, si è avvalso della conoscenza degli scritti dei Padri della Chiesa, che ha sistematizzato unificandoli, alla luce della filosofia aristotelica corretta tomisticamente e “dei Concili, dei canoni e delle Costituzioni della Chiesa”[97].
Non mi sembra, quindi,  esagerato stabilire un’analogia tra platonismo/patristica e aristotelismo/scolastica. Cioè come Platone è stilisticamente più avvincente di Aristotele, ma scientificamente meno rigoroso così la patristica è molto bella da leggere, particolarmente atta ad infiammare la volontà ad amare il bene ed anche profonda, ma dovrà essere sistematizzata dalla scolastica[98] (specialmente tomistica), anche se in maniera logicamente arida, tecnica e scientifica, sia quanto alla teologia sia specialmente quanto alla filosofia, che non è propria della patristica, ma è sostanzialmente platonica.

Quindi “dobbiamo lodare la teologia positiva o patristica e quella speculativa o scolastica; perché come i Padri della Chiesa o Dottori positivi muovono gli affetti e portano gli uomini ad amare Dio; così è più specifico degli scolastici definire e spiegare in modo completo ai bisogni dei tempi moderni, le cose necessarie alla salvezza eterna e di combattere e manifestare chiaramente tutti gli errori e gli inganni dei nemici della Chiesa di Dio”[99].

Le nostre radici filosofiche sono platonico-aristoteliche e il loro fiore è il tomismo. Non lasciamo seccare le radici del nostro albero metafisico altrimenti non gusteremo i suoi frutti e non ammireremo i suoi fiori.
Lo studio della filosofia greca e romana alla luce del tomismo ci accompagni nel cammino verso la verità, irto di difficoltà e di pericoli.
d. Curzio Nitoglia
_____________________
1. Cfr. G. Reale, Raffaello. La Scuola di Atene, Milano, Idea Libri, 2004.
2. La citazione delle opere aristoteliche viene fatta sulla base dell’edizione di I. Bekker, Aristotelis Opera, Berlino, 1831, rist. a cura di O. Gigon, Berlino, 1960 ss. Il numero romano indica il libro, il primo numero arabico il capitolo, il numero arabico successivo la pagina, le lettere “a-b” indicano le due colonne di sinistra e di destra, i numeri arabici successivi alle lettere indicano le righe della colonna cui si fa riferimento. Per esempio Metafisica, I, 7, 1070, a 13 (libro I, capitolo 7, pagina 1070, colonna di sinistra, rigo 13°  della colonna sinistra). Il miglior commento alla Metafisica di Aristotele è quello di S. Tommaso d’Aquino, ora disponibile con la traduzione in italiano, introduzione, note e testo latino a fronte, 3 voll., Bologna, ESD, 2004-2005; uno dei migliori commenti moderni, con note, traduzione italiana, testo greco a fronte e una esauriente introduzione è quello di Giovanni Reale, Introduzione, traduzione e commentario della Metafisica di Aristotele, Milano, Bompiani, 2004. Quanto all’opera omnia in italiano si può consultare Aristotele, Opere,  a cura di Gabriele Giannantoni, 4 voll., Bari, Laterza, 1973.
3. La migliore ricostituzione di questi frammenti è quella di E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Padova, 1962, II ed., Milano, Vita & Pensiero, 1997. Di essi fanno parte il Protrettico, Sulla filosofia, Sulla retorica, Sulle Idee, Intorno al Bene, Sull’anima. La loro traduzione in italiano è stata fatta da  G. Giannantoni, Aristotele, Opere, Bari, Laterza, 1973. Cfr. W. D. Ross, Aristotelis fragmenta selecta, Oxford, 1955, cfr. anche R. Laurenti, Aristotele. I frammenti dei Dialoghi, Napoli, 1987.
4. La maggior parte di queste opere ci è pervenuta. Per il catalogo completo di esse si veda il lavoro, tuttora insuperato, di P. Moreaux, Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, Lovanio, 1951.
5. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, V, 1;  cfr. Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 1991, rist. Milano, Bompiani, 2000.
6. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. 4, Aristotele e il primo Perìpato, Milano, Bompiani, 2004, p. 13; Id., Introduzione a Aristotele, Bari, Laterza, 1974.
7. Cfr. M. D. Philippe, Introduction à la philosophie d’Aristote, Parigi, 1956, II ed., 1991.
8. Cfr. F. Olgiati, I fondamenti della metafisica classica, Milano, Vita & Pensiero, 1953; E. Oggioni, La filosofia prima di Aristotele, Padova, 1939; J. Owens, The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto, 1957; A. Mansion, Philosophie première, philosophie seconde et métaphysique chez Aristote, in Revue philosophique de Louvain, n. 56, 1958; P. Aubenque, Le problème de l’etre chez Aristote. Essai sur la problematique aristotélicienne, Parigi, 1962; E. Berti, L’unità del sapere in Aristotele, Padova, 1965.
9. Cfr. C. Giacon, La causalità del Motore Immobile, Padova, 1969.
10. Metafisica, I, 7, 1072 b 13.
11. Metafisica, I, 6 e I, 9.
12. Timeo 29 e-30 b; Parmenide, Sofista.
13. Etica Nicomachea, I, 1, 1094 a 3; Metafisica, XII, 7, 1072 b 1 ss.
14. Per Aristotele (Metafisica, VII, 3, 1029 a 33 ss.) l’intelligibile è primo per natura, in sé o ontologicamente, per noi invece viene prima il sensibile, cronologicamente, e poi da esso ci innalziamo all’intelligibile: nihil in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
15. “Dopo la fioritura scolastica dell’aristotelismo venne il ripensamento rinascimentale, che dal secolo XV si protrasse sino alla fine del secolo XVII (soprattutto nell’Università di Padova), e che, nel tentativo di spogliare Aristotele dei panni di cui l’aveva rivestito la Scolastica, in realtà finì per identificare Aristotele con il naturalismo antiplatonico. […]. Aristotele è considerato ancora un punto di riferimento dalle correnti della Neoscolastica” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. 4, p. 280). “Precisiamo che, contrariamente a quanto semplicisticamente si crede da molti, i Neoscolastici non sono interessati a tomistizzare Aristotele, quanto, invece, a comprenderlo nei limiti dell’economia del suo pensiero [usiologico], per meglio intendere le novità di S. Tommaso [metafisica dell’essere]” (G. Reale, Introduzione a Aristotele, Bari, Laterza, 1974, p. 193). Già nell’antichità vi furono divergenze considerevoli quanto all’interpretazione del genuino pensiero di Aristotele. Sostanzialmente si possono distinguere due scuole: 1°) quella naturalista e fisicista che fa di Aristotele l’avversario immanentista della meta-fisica trascendente di Platone. Di questa scuola il primo rappresentante è Alessandro di Afrodisia (II-III sec. d. C.); 2°) quella che concilia Aristotele e Platone mostrando l’unità di intenti (meta-fisici) pur tra le diversità di metodo (dialogico/ raziocinativo). Di quest’altra scuola il primo esponente è Temistio (IV sec. d. C.). Nel medioevo tale divergenza di interpretazione fu rinnovata 1°) da Averroè, che riprese l’interpretazione naturalista e razionalista di Aristotele data da Alessandro di Afrodisia, e 2°) da S. Tommaso d’Aquino, che non solo dà un’interpretazione di non rottura sostanziale tra i due filosofi, ma li studia, li approfondisce ed elabora  una sua metafisica, che perfeziona il meglio dell’uno e dell’altro (cfr. B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, ESD, 1998, 1° vol., p. 270).
16. Intuire o intuizione significa vedere. Ora la vista, in senso stretto, appartiene all’occhio sensibile. Quindi l’uomo non possiede un’intuizione intellettuale della verità (come sosterranno dopo circa mille anni anche gli ontologisti), ma solo una conoscenza razionale dell’essenza intelligibile astratta a partire dalla cosa sensibile (Aristotele, De Anima, III, 7, 431 b 21-432 a 10).
17. Inveramento significa far acquistare realtà a qualcosa.
18. G. Reale, Storia della filosofia greca e  romana, cit., vol. 4, p. 34.
19. Metafisica, I, VII, VII e IX.
20. G. Reale, Storia della filosofia greca e  romana, cit., vol. 4, p. 39.
21. S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3.
22. De Potentia, q. 7, a. 2, ad 9.
23. De Pot., q. 3, a. 5, ad 2.
24. Contra Gent., l. I, cc., 38, 52-54; S. Th., I, q. 50, aa. 2-3; De ente et essentia, c. 5.
25. De Pot., q. 7, a. 2, ad 9.
26. De Anima, q. 6, a. 2.
27. S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3.
28. Metafisica, VI, 1, 1026 a 27-29.
29. Metafisica, VI, 1, 1026 a 18-23; cfr. G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, Rizzoli, 2004.
30. De Anima, III, 7, 431 a 18-431 b 17.
31.Metafisica, III, 995 a 27-28.
32. La filosofia aristotelica e quella platonica non sono il “pensiero debole” popperiano o “aporetico” kantiano, ma sono un “pensiero forte”, che ritiene la ragione umana capace di giungere alla verità e alla conoscenza della realtà còlta mediante le idee. Inoltre Aristotele, seguìto in ciò da S. Tommaso, dopo essersi posto delle obiezioni (“videtur quod”), le confuta (“sed contra / respondeo dicendum quod”) e demolisce una dopo l’altra le dottrine avverse (“ad primum, ad secundum…”).
33. Cfr. Metafisica, I, 3-10; Fisica, II, 194 b 16-195 a 24.
34. Cfr. F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, (1862) tr. it., Milano, Vita & Pensiero, 1995.
35. Cfr. G. Reale, Il concetto di filosofia prima e l’unità della Metafisica di Aristotele, Milano, Vita & Pensiero, VI ed., 1996, L’impossibilità d’intendere univocamente l’essere, pp. 407-446.
36. Metafisica, IV, 2, 1003 b 5-10.
37. Cfr. Categorie, 1 a1-5; 1 a, 6-12; Topici, 110 b 16-11 a 7.
38. Cfr. M. D. Philippe, Analogon and analogia in the Philosophy of Aristotle, in The Thomist, 1969, pp. 1-75.
39. Metafisica, IV, 1003 a 32-1033 b 9; Etic. Nich., 1096 b 21.
40. Metafisica, IV, 2, 1003 a 33-10033 b 6.
41. G. Reale, Introduzione a Aristotele, Bari, Laterza, 1977, II ed., p. 47 e 49.
42. Metafisica, VII, 1, 1028 b 2-7.
43. Metafisica, VII, 3, 1029 a 33; VII, 11, 1037 a 10-17.
44. Metafisica, VI, 12, passim.
45. Metafisica, VII, 17, 1041 b 28.
46. Metafisica, XII, 6-8; IX, 8, 1054 a 4 ss.
47. Cfr. C. Giacon, Il divenire in Aristotele, Padova, 1947.
48. Metafisica, XI, 9.
49. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. 4, p. 98.
50. Metafisica, XII, 8, 1073 b 1-3.
51. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. 4, p. 100.
52. R. Laurenti, Genesi e formazione della “Politica” di Aristotele, Padova, 1955; Id., Studi sull’«Economico» attribuito ad Aristotele, Milano, 1968.
53. Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande Etica, che è un riassunto delle prime due.
54. Politica e Trattato di Economia.
55. Etica Nicomachea, X, 10, 1181 b 15.
56. G. Reale, Introduzione a Aristotele, cit., p. 129.
57. S. Th., I-II, q. 96, a. 4.
58. S. Th., I-II, q. 21, a. 4, ad 3um.
59. Specchietto riassuntivo: lo Stato che è un insieme di uomini (il tutto) è più nobile del cittadino (la parte), ma la persona umana (spirituale) è più nobile del fine dello Stato (benessere temporale); però il singolo cittadino è inferiore allo Stato in sé (insieme di più cittadini). Il bene comune dello Stato è più nobile del bene del cittadino naturalmente e socialmente considerato. Il tutto è più grande della parte e il bene comune è più importante del bene di un singolo uomo. Civis propter Civitatem (moraliter), sed Civitas propter hominem (ontologice).
60. W. D. Ross, Aristotele, Londra, 1923, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1972, p. 280.
61. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. 4, p. 162.
62. EN, I, 1, 1094 a 1-3.
63. EN, I, 5, 1095 b 19 ss.
64. EN, I, 5, 1095 b 24-26.
65. EN, I, 5, 1096 a 5-7. È chiaro che secondo Aristotele (il quale essendo pagano non aveva ancora chiare le nozioni di orgoglio/umiltà e si fermava alla ricerca degli onori come vana-gloria esterna alla vera felicità o ai bene interni all’uomo), l’avarizia o “attaccamento eccessivo ai beni terreni”  è il vizio maggiormente disordinato o contro natura poiché ricerca qualcosa di esterno all’uomo come suo bene mentre i piaceri e gli onori possono sembrar avere una certa apparenza di felicità intrinseca all’uomo. Invece il professor Plinio Correa De Oliveira nel suo libro “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione” (Rio de Janeiro, Catolicismo,1959; tr. it., Torino, Edizioni Dell’Albero, 1964; II ed., Piacenza, Cristianità, 1972) omette di trattare l’Avarizia studiando le cattive “Tendenze” al male ed alla Rivoluzione (personale, familiare e sociale), soffermandosi solamente sull’Orgoglio e la Sensualità. Infatti a pagina 98 della III edizione italiana del 1977 (Piacenza, Cristianità) di Rivoluzione e Contro-Rivoluzione si legge: «due sono le passioni che più la servono [la Rivoluzione, ndr]. L’orgoglio e la sensualità. […]. E, in accordo con il linguaggio corrente, includiamo nelle passioni disordinate tutti gli impulsi al peccato esistenti nell’uomo in conseguenza della triplice concupiscenza: quella della carne, quella degli occhi e la superbia della vita (I Gv., II, 16)». Come si vede, l’Avarizia non è trattata, è solo nominata en passant nella citazione della I Epistola di San Giovanni (II, 16) sulle tre concupiscenze.  L’orgoglio è studiato soprattutto sotto l’aspetto dell’egualitarismo, non solo “tra gli uomini e Dio” (Ibidem, p. 99), ma (e vi si insiste molto) quanto all’uguaglianza “nella struttura sociale” (Ibidem, p. 100) e in quella “economica” (Ivi). Anche la sensualità è vista alla luce dell’egualitarismo: “sensualità e liberalismo. […]. L’egualitarismo nell’anima”. […]. “l’egualitarismo e liberalismo” (Ibidem, p. 102 e 103). Il socialismo è visto come il movimento che favorisce “il soddisfacimento metodico […] delle peggiori e più violente passioni, come l’invidia, la pigrizia e la lussuria” (Ib., p. 104). Nella Summa Theologiae, I-II, q. 77, a. 4, l’Aquinate spiega che l’affetto disordinato alla creatura (per esempio le ricchezze) deriva dal fatto che l’uomo ama disordinatamente o esageratamente se stesso. Perciò in questo senso l’amore smodato o superbo di sé è principio di tutti i peccati, e, può portare sino al disprezzo di Dio (a. 4, in corpore; e ad 1um). Nell’ “articolo 5” San Tommaso cita l’Epistola di San Giovanni (I Jo., II, 16): “Tutto ciò che è nel mondo è Concupiscenza della carne, Concupiscenza degli occhi e Superbia della vita”. Quindi ne conclude che “le tre Concupiscenze indicate sono causa di tutti i peccati” (a. 5, sed contra). Nel “corpo dell’articolo” il Dottore Comune spiega che l’Avarizia è una ‘Concupiscenza’ non direttamente carnale come la Sensualità o Lussuria (ossia l’Avarizia non appartiene all’appetito concupiscibile, il quale ha come oggetto i beni sensibili piacevoli e facilmente conseguibili), ma in un certo modo ‘spirituale’ (“animalis”, la chiama San Tommaso, da “anima” ed inoltre l’Avarizia appartiene all’appetito irascibile, che ha come oggetto i beni ardui o difficili da conseguire come pura la Superbia), ossia che raggiunge l’anima pur se indirettamente mediante il corpo o gli organi percettivi ed appetitivi sensibili, invece la Sensualità direttamente e per se stessa è carnale e si suddivide in Lussuria e Golosità. Dunque l’appetito disordinato del bene arduo mediante l’irascibile si chiama ‘Avarizia’ e ‘Superbia della vita’, la quale è l’appetito sregolato della propria eccellenza. Perciò queste ‘tre Concupiscenze’ sono causa di tutte le passioni, che spingono ai peccati. Infatti alla prima (Sensualità) appartengono le passioni del concupiscibile (Lussuria e Golosità), mentre all’Avarizia e alla Superbia si riconducono tutte le passioni dell’irascibile”. Nella “soluzione della 1a difficoltà” del medesimo “articolo”  l’Aquinate spiega che “l’Avarizia, in quanto include l’appetito di ogni bene, abbraccia anche la Superbia” (a. 5, ad 1um). Ossia, ancora una volta, Avarizia e Superbia non si possono scindere l’una dall’altra, come invece fa, almeno implicitamente,  Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Nella Somma Teologica (I-II, q. 84, a. 1) San Tommaso scrive che «L’Avarizia è “radice di ogni peccato (v. San Paolo, I Epistola a Tim., VI, 10)”» “l’amore smodato delle ricchezze aiuta a far crescere ogni altro cattivo desiderio [compreso l’Orgoglio]” (S. Th., I-II, q. 84, a. 1). Mentre «l’Orgoglio è “inizio o principio di ogni peccato, come dice l’Ecclesiastico, X, 45”» (a. 2)  e spiega il perché: in quanto l’Orgoglio è un amore disordinato della propria eccellenza, che si ottiene soprattutto cercando il maggiore acquisto delle ricchezze temporali e così viene a coincidere con l’Avarizia, che è la radice  di tutti i peccati. Come si vede anche qui Avarizia e Orgoglio, secondo S. Tommaso, “vengono a coincidere” ed Aristotele ha anticipato, anche se imperfettamente, il Dottore Comune.
66. EN, I, 8, 1098 b 12-15.
67. EN, I, 6, 1096 b 32-35.
68. EN, I, 7, 1097 b 22-1098 a 20.
69. Teeteto, 173 d-174 b; Repubblica V, 475 e. Cfr. A. Festugière, Contemplation et vie contemplative selon Platon, Parigi, 1975.
70. Protrettico, fr. 11 Ross. Cfr. M. De Corte, La doctrine de l’intelligence chez Aristote, Parigi, 1934; P. Siwek, La psycophysique humaine d’après Aristote, Parigi, 1930; M. Grabmann, Interpretazioni medievali del «Nous poietikòs», Padova, 1965.
71. G. Reale, Storia della filosofia greca e  romana, cit., vol. 4, p. 168.
72. EN, I, 8, 1009 a 31-b 7.
73. EN, II, 6, 1107 a 6-8.
74. EN, VI, 7, 1141 a 34-b 2.
75. S. Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 47, a. 10.
76. Cfr. R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 2000.
77. Politica, I, 2, 1253 a 20-29.
78. Politica, I, 2, 1252 b 27-1253 a 29.
79. Politica, I, 1.
80. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. 4, p. 199.
81. Politica, I, 4, passim.
82. Politica, I, 8 ss.
83. Politica, I, 9, 1257 b 38-1258 a 2.
84. Politica, I, 10.
85. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., 4 vol., p. 204.
86. S. Tommaso d’Aquino, Commento alla Politica di Aristotele, tr. it., Bologna, ESD, 1996; R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD, 1999.
87. L’Anima, III, 4, 429 e 10-b 10.
88. Politica, I, 5, 1254 b 16-26; III, 5, 1278 a 3.
89. Politica, III, 1.
90. Per Platone la democrazia è “il governo del disordine, della licenza e della lotta di classe” (Repubblica, VIII, 555 b-558 c). Quindi “l’uomo democratico è l’uomo dell’inconseguenza e dell’immoralità” (ivi, 558 c-562 a), le vicende politiche attuali gli danno ampiamente ragione. Cfr. Ivan Gobry, Vocabolario greco della filosofia, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 49.
91. Politica, III, 6, 1278 b 8-10; III, 7, 1279 a 28-31.
92. Politica, III, 11-13; IV, 11, 1295 b 25-38.
93. G. Reale, Introduzione a Aristotele, cit., p. 124.
94. Politica, VIII, 5-6; VIII, 7, 1327 b 23-33; VIII, 8 ss.; VIII, 9, 1329 a 14-17.
95. “Platone nella Repubblica distingue tre classi: i lavoratori delle braccia; i militari e i magistrati/filosofi. A queste due ultime spetta la maggiore responsabilità nella vita politica” (B. Mondin, Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, Milano, Massimo, II ed. 1994, p. 656). Come nel corpo umano il cervello deve dirigere le altre membra senza disprezzarle, ma in cooperazione gerarchicamente subordinata. Così nella Società civile il comando spetta ai saggi e l’obbedienza ai manovali, altrimenti si rischia di ragionare con i piedi. Anche Roma antica aveva la medesima concezione della politica. Si veda Tito Livio (59 a. C. – 17 d. C.) nella sua Storia di Roma: “Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso, ruppero gli accordi con lui e cospirarono dicendo che le mani non avrebbero portato cibo alla bocca, né che la bocca lo accettasse, né che i denti lo masticassero a dovere. Ma mentre cercavano di domare lo stomaco, s’indebolirono anche loro stesse, e il corpo intero deperì. Di qui si vede come il compito dello stomaco non è quello di un pigro, ma che esso distribuisce il cibo a tutti gli altri organi. Fu così che le varie membra del corpo tornarono in amicizia tra loro e con lo stomaco. Così Senato e Popolo, come se fossero un unico corpo, deperiscono con la discordia, mentre con la concordia restano in buona salute” (Ab Urbe condita, II, 32). Inoltre con il Cristianesimo la stessa dottrina è ripresa e sublimata dalla Carità soprannaturale, che non è egualitarismo, dispotismo o ribellione rivoluzionaria. Infatti in S. Paolo è rivelato: «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Né l’occhio può dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi […]. Anzi quelle membra che sembrano più umili sono le più necessarie. […]. Dio ha composto il corpo affinché non vi fosse disunione in esso, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tute le membra soffrono insieme; e se un membro sta bene, tutte le altre gioiscono con lui» (1 Cor., XII, 4-20).
96. Politica, VIII, 1, 1323 b 73.
97. S. Ignazio da Loyola, Regole per sentire con la Chiesa, n. 363.
98. P. Parente, Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, Schema di storia della Teologia dommatica, pp. XIX-XXI.
99. S. Ignazio da  Loyola, Esercizi Spirituali, n. 363, Regole per sentire con la Chiesa.

13 commenti:

  1. Scusatemi se vado completamente fuori tema, ho letto un articolo piuttosto spregiativo da parte del "Mastino", su questo blog e relativi commentatori,sono rimasta perplessa. Teresa

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  2. Io non sono perplessa, avuto riguardo al suo stile 'graffiante' a sue precedenti frequentazioni e articoli 'assurdi' nei miei confronti da lui pubblicati e al suo essere "sopra le righe"; il che mi pare una osservazione obiettiva.
    Il tutto nell'assoluta indifferenza di una commentatrice di questo blog, presente anche in altri contesti analoghi con attenzione all'autore ma indifferente agli insulti e calunnie gratuite a me rivolte, commentatrice che conosco personalmente e che ritenevo amica (si può continuare ad esserlo pur dissentendo su alcune cose).
    Bene, grazie per la segnalazione. Non vado neppure a leggere e non perderò altro tempo a parlarne.
    Dico solo che questo tiro, ormai incrociato e da più versanti nei miei confronti, neppure mi stupisce più. Mi stupirei solo se trovassi chi mi difende, non qui (che potrebbe essere solidarietà ma anche piaggeria, di certo non da parte di chi conosco), ma in quei contesti così stranamente 'ostici'...

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  3. MIC,
    FREGATENE ! poco fine, molto romanesco, se vuoi (ho origini romane, sai), ma pratico. E' ovvio che se vieni letta da tante persone, se vieni invitata ad apparire in certi ambiti, e se pubblichi libri con prefazioni importanti, ti attacchino. Per invidia, gelosia, ira, accecamento ideologico, perché tanta gente non ci sta più con la testa, vuoi per malattia, vuoi per scelte di vita sbagliate (droghe, alcool...non hai idea di quanta gente, giovane e di media età, sia letteralmente rovinata da certi eccessi, passati o ancora presenti, a tutti i livelli sociali) .
    Non val la pena rispondere, si fa loro solo pubblicità. Ti ripeto il consiglio: pubblica SOLO notizie di cui sei certa di prima mano, o al massimo inserisci un link, ma senza pubblicare tu la notizia.
    RR

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  4. Cara rr,
    Quella notizia era considerata attendibile da fonti serie con le quali mi sono confrontata. In ogni caso, vera o non vera che sia e comunque da me data in termini ipotetici, resta l'anomalia della segretezza.
    Il resto invece è storia nota. E pensare che nei confronti di costoro non ho mai mancato di correttezza. Ma, stranamente, persino tra credenti, la correttezza sembra merce rara.
    Inoltre il mio approccio è diverso dal loro perché non faccio solo informazione né apologetica né esercizi letterari né acrobazie dialettiche, ma parlo con argomenti teologici e secondo il magistero cogliendo i punti che mi toccano profondamente e sui quali non riesco a tacere. E, stranamente, in mezzo a tanti strali generici e spregiativi, nessuno li ha mai confutati nel merito. Per contro sto parlando ancor più forte e chiaro da quando sono stata confermata da un pastore di autorità indiscussa e questo mi fa stare tranquilla e serena. Il resto è spazzatura.

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  5. A questo proposito ho detto qualcosa più sotto, in particolare osservo la mancata reazione di quella commentatrice non solo quando colui, che parla di lei come un`amica e anche "consigliera", attacca pesantemente questo blog e chi lo gestisce, ma anche quando diversi blogger, in particolare Josh, prestano attenzione ad un suo commento e prendono il tempo di argomentare.
    Non ha torto mic quando dice:" Mi stupirei solo se trovassi chi mi difende ....in quei contesti così stranamente 'ostici'", io stessa potrei farlo e non lo faccio, riporto qui e reagisco qui, il solo contesto a cui ormai partecipo( salvo ogni tanto da Raffaella), non è per paura o codardia, o per indifferenza, solo una scelta presa da tempo di non più partecipare anche minimamente a certi contesti che hanno ampiamente dimostrato, con offese, calunnie ad personam, menzogne, letture distorte, la loro incapacità di dialogare rispettando l`interlocutore, dovrei dire certi interlocutori, il loro disprezzo "profondamente cristiano" per i loro bersagli, sempre gli stessi, li qualifica e li squalifica.

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  6. Il mastino? In fin dei conti un normalista come tanti, terribile fin che si vuole, ma sempre normalista. Non certo un "cane sciolto". E come ogni buon canide anche lui aspira ad avere un padrone cui donare tutta la sua indiscussa fedeltà.

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  7. Mic, si vede che non hai letto, questa volta confutano il tema dell'aborto in base alle caterinate....

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  8. Ho colto al volo il commento dell'anonimo qui su mentre mi accingevo a richiamare l'attenzione sull'interessantissimo articolo di don Curzio.
    Per quanto riguarda l'aborto e le caterinate salva-papa, mi pare che siamo stati chiari e che non valga la pena tornacii sopra.

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  9. ... Cave canem
    ... Attenti al cane e al suo padrone

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  10. Sssttt! Uniamoci per la supplica alla Madonna :

    http://www.unavoce-ve.it/supplica-pompei.htm

    Dio vi benedica !

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  11. Sarebbe ora di far basta con queste puerili picche e ripicche, ognuno si occupi del proprio blog e basta, senza chiamare in causa altri, è stucchevole e molto poco cristiano, per quel che riguarda tutti gli amorevoli chiosatori del vdr dell'ultima ora, a me frega niente, non lo leggo, non lo guardo, non mi piace né mai mi piacerà e non cerco neanche di farmelo piacere per piaggeria, attendo risvolti futuri, per me, mala tempora currunt, cateriniani e caterinate o cretinate poco cambia, siamo agli sgoccioli. Anonymous.

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  12. Uno dei concetti principali della metafisica aristotelica è quello del "to ti en einai", tuttavia il Filosofo non ne diede una spiegazione del significato, come per altri concetti inclusi nel libro V della Metafisica.
    Guglielmo di Moerbecke lo trasponeva come "quod quid erat esse" e successivamente gli scolastici usavano l'espressione "quidditas".
    Il punto è che qui, in questo concetto, si può trovare i due piani della conoscenza umana indicati nei quattro termini dell'espressione, che in greco era comprensibile. Dalle opere di Aristotele è possibile interpretare il "to ti en einai" come denotando un'entità concreta (per Aristotele "ente" ed "essere" non erano termini tematizzabili) e simultaneamente connotando un tipo di ente, sotto qualche categoria. in questo modo di esprimeva in un unico termine l'esigenza metafisica e gnoseologica dell'astratto e il concreto.
    Saluti!

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  13. τί ᾖν εἶναι --> essentia: "ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non altro".

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