Laudetur Jesus Christus!
Continuiamo ad approfondire i prodromi di ciò che il concilio Vaticano II ha traghettato e di cui oggi, nella temperie in cui siamo, subiamo le conseguenze. Per questo riproponiamo l’importante testo di R. Garrigou-Lagrange pubblicato mesi fa nell’originale francese con le “note di commento” in italiano di P. Pasqualucci [qui]. L’attualità dell’articolo dell’insigne teologo ci sembra fuori discussione, così come la sua capacità di fornire utilissimi spunti di riflessione. Lo riproponiamo pertanto in versione italiana, effettuata ad opera della nostra Redazione. Le “note di commento” sono state riviste e modificate dall’Autore, in particolare la n. 4. È stata aggiunta una “nota” interamente nuova, la n. 7, dedicata alla confutazione di chi vuol negare il concetto della sostanza per poter poi respingere il dogma della transustanziazione. Tema particolarmente cogente, oggi.
Richiamo, in particolare l'attenzione sulle preziose "note di commento" di Paolo Pasqualucci nonché sulla peculiarità dell'apporto del suo approccio interdisciplinare. Egli non esita ad affrontare anche gli aspetti della fisica moderna che possono aiutarci nella comprensione delle idee e teorie sviluppatesi e dunque della realtà che veicolano, per meglio conoscere la Realtà, quella vera.
Richiamo, in particolare l'attenzione sulle preziose "note di commento" di Paolo Pasqualucci nonché sulla peculiarità dell'apporto del suo approccio interdisciplinare. Egli non esita ad affrontare anche gli aspetti della fisica moderna che possono aiutarci nella comprensione delle idee e teorie sviluppatesi e dunque della realtà che veicolano, per meglio conoscere la Realtà, quella vera.
GARRIGOU-LAGRANGE, Réginald:
Dove va la Nuova Teologia? Ritorna al modernismo♣
Redazione e “Note di commento” di Paolo Pasqualucci
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In un recente libro di Padre Henri Bouillard, Conversion et grâce chez saint Thomas d’Aquin, 1944, p. 219, si legge: “Quando lo spirito evolve, una verità immutabile si mantiene solo grazie a un’evoluzione simultanea e correlativa di tutte le nozioni, che preservi lo stesso rapporto tra di esse. Una teologia non attuale sarebbe una falsa teologia”[1].
Ora, nelle pagine precedenti e in quelle successive sostiene che la teologia di San Tommaso, in molte delle sue parti importanti, non è più attuale. Per esempio, San Tommaso ha concepito la grazia santificante come una forma (principio radicale di operazioni sovrannaturali che hanno come principio prossimo le virtù infuse e i sette doni): “I concetti utilizzati da San Tommaso non sono altro che concetti aristotelici applicati alla teologia” (Ibid., p. 213 ss.).
Qual è la conseguenza? “Rinunciando alla Fisica aristotelica, il pensiero moderno ha abbandonato i concetti, gli schemi, le opposizioni dialettiche che avevano senso solamente in funzione di essa” (p. 224). Esso ha dunque abbandonato la nozione di forma.
Come potrà evitare il lettore di concludere che la teologia di San Tommaso non essendo più attuale, sia una falsa teologia?
Ma allora, come mai i Papi ci hanno raccomandato così spesso di seguire la dottrina di San Tommaso? Come afferma la Chiesa nel Codice di Diritto Canonico, [del 1917], can. 1366, n. 2: “Philosophiae rationalis ac theologiae studia et alumnorum in his disciplinis institutionem professores omnino pertractent ad Angelici Doctoris rationem, doctrina, et principia, eaque sancte teneant”a.
Inoltre, com’è possibile che “una verità immutabile” sussista, se i due concetti che essa unisce con il verbo essere sono essenzialmente mutevoli?
Un rapporto immutabile è concepibile solamente se vi è qualcosa d’immutabile nei due termini che esso raccorda. Altrimenti, sarebbe come affermare che una gabbia di ferro possa immobilizzare le onde del mare.
Indubbiamente, i due concetti che vengono uniti in un’affermazione immutabile vengono in primo luogo confusi e poi distinti, come il concetto di natura, di persona, di sostanza, di accidente, di transustanziazione, di presenza reale, di peccato, di peccato originale, di grazia, etc. Ma se nella loro essenza fondamentale questi concetti non fossero immutabili, come potrebbe essere immutabile l’affermazione che li unisce tramite il verbo essere? Come si potrebbe sostenere che la presenza reale della sostanza del Corpo di Cristo nell’Eucaristia richieda la transustanziazione, se tali concetti fossero essenzialmente mutevoli? Come si potrebbe sostenere che il peccato originale che è in noi dipende da una colpa volontaria del primo uomo, se il concetto di peccato originale fosse essenzialmente instabile? Come si potrebbe sostenere che il giudizio particolare dopo la morte sia irrevocabile per l’eternità, se tali concetti sono destinati a cambiare? E infine, come si può sostenere che tutte queste proposizioni siano immutabilmente vere, se la stessa nozione di verità dovesse cambiare, e se fosse necessario sostituire la definizione tradizionale della verità (la conformità del giudizio alla realtà extramentale e alle sue leggi immutabili) con quella proposta negli ultimi anni dalla filosofia dell’azione: la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione o della vita umana che evolve continuamente?
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1. Le stesse formule dogmatiche conservano la loro immutabilità?
Il padre H. Bouillard, op. cit., p. 221, replica: l’affermazione che si esprime in esse rimane. Ma aggiunge, ibid.: “Probabilmente ci si chiederà forse se sia ancóra possibile considerare contingenti i concetti implicati nelle definizioni conciliari. Ciò non significherebbe forse compromettere il carattere irrevocabile di tali definizioni? Il Concilio di Trento, sess. 6, cap. 7, can. 10, per esempio, ha impiegato il concetto di causa formale nel suo insegnamento sulla giustificazione. Per questo stesso fatto, esso non ha forse consacrato questo uso e conferito al concetto di grazia formale un carattere definitivo? Niente affatto. Non era certamente intenzione del Concilio quella di canonizzare un concetto aristotelico, e nemmeno un concetto teologico concepito sotto l’influsso di Aristotele. Esso voleva semplicemente affermare, contro i protestanti, che la giustificazione è un rinnovamente interiore… A questo scopo ha utilizzato dei concetti comuni nella teologia del tempo. Ma essi possono essere sostituiti con altri, senza modificare il senso del suo insegnamento”. (Il corsivo è nostro.)
Indubbiamente il Concilio non ha canonizzato il concetto aristotelico di forma insieme a tutte le sue relazioni con gli altri concetti dello Stagirita. Ma l’ha approvata come un concetto umano stabile, nel senso in cui tutti definiscono ciò che costituisce formalmente una cosa (in questo caso la giustificazione)[2]. In questo senso, esso distingue la grazia santificante dalla grazia attuale, affermando che essa è un dono sovrannaturale, infuso, inerente all’anima e tramite il quale l’uomo è formalmente giustificato (cfr. Denzinger, 799, 821). Se i Concili definiscono la fede, la speranza, la carità come virtù infuse permanenti, il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante) dev’essere anch’esso un dono infuso permanente, e pertanto distinto dalla grazia attuale o da una mozione divina transitoria.
Come si può sostenere il senso di questo insegnamento del Concilio di Trento: “la grazia santificante è la causa formale della giustificazione”, se “si sostituisce il concetto di causa formale con un altro”? Non dico “se lo si sostituisce con un equivalente verbale”; dico, seguendo il ragionamento del padre H. Bouillard, “se lo si sostituisce con un altro”.
Se è un altro, non è più il concetto di causa formale: quindi, non è più vera l’affermazione del Concilio: “la grazia santificante è la causa formale della giustificazione”. Bisogna accontentarsi di dire: la grazia è stata concepita all’epoca del Concilio di Trento come causa formale della giustificazione, ma oggi è necessario concepirla diversamente; questo concetto passato non è più attuale e quindi non è più vero, perché una dottrina che non è più attuale, si è detto, è una falsa dottrina[3].
Si ribatterà: si può sostituire il concetto di causa formale con un altro equivalente. Qui si gioca con le parole (insistendo in un primo momento su un altro e poi su equivalente), dal momento che non si tratta solamente di equivalenza verbale, ma di un altro concetto. Cosa diventa, in tal modo, il concetto stesso di verità?[4]
Dunque si riaffaccia di nuovo una questione molto grave: la proposizione conciliare è mantenuta come vera “per conformitatem cum ente extramentali et legibus eius immutabilibus, an per conformitatem cum exigentia vitae humanae quae semper evolvitur”b?
È palese il pericolo insito nella nuova definizione della verità, non più adaequatio rei et intellectus, ma conformitas mentis et vitae. Quando Blondel, nel 1906, propose questa sostituzione, non ne aveva previsto tutte le conseguenze nel campo della fede. Con tutta probabilità, egli stesso ne sarà stato successivamente spaventato, o per lo meno molto turbato[5]. A quale vita ci si riferisce in questa definizione: “conformitas mentis et vitae”? Alla vita umana. E come evitare la proposizione modernista: “Veritas non est immutabilis plusquam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso et per ipsum evolvitur”c (Denz. 2058)? Si comprenderà ora perché Pio X abbia detto a proposito dei modernisti: “aeternam veritatis notionem pervertunt”d (Denz. 2080).
È molto pericoloso affermare: “i concetti cambiano, le affermazioni restano”. Se il concetto stesso di verità cambia, le affermazioni non rimangono più vere allo stesso modo, né mantengono lo stesso senso. Quindi il significato di ciò che è stabilito nei Concili non è più conservato, come si pretende.
Disgraziatamente, la nuova definizione della verità si diffonde tra quanti dimenticano ciò che aveva detto Pio X: “Magistros autem monemus, ut rite hoc teneant Aquinatem vel parum deserere, praesertim in re metaphysica, non sine magno detrimento esse. Parvus error in principio, sic verbis ipsius Aquinatis licet uti, est magnus in fine”e. (Enc. Pascendi.)
A maggior ragione se si disprezza ogni metafisica, ogni ontologia, e se si tende a sostituire la filosofia dell’essere con quella del fenomeno, o con quella del divenire, o con quella dell’azione.
A maggior ragione se si disprezza ogni metafisica, ogni ontologia, e se si tende a sostituire la filosofia dell’essere con quella del fenomeno, o con quella del divenire, o con quella dell’azione.
Quella che si può trovare nella nuova definizione della teologia non è forse una nuova definizione della verità: “La teologia non è nient’altro che una spiritualità o un’esperienza religiosa che ha trovato la sua espressione intellettuale”? Cosa dovremmo dunque pensare di affermazioni come la seguente: “Se la teologia ci può aiutare a comprendere la spiritualità, quest’ultima a sua volta sconvolgerà in molti casi i nostri quadri teologici, e ci costringerà a concepire diversi tipi di teologia... Ad ogni grande spiritualità è sempre corrisposta una grande teologia”. Ciò vuol forse dire che due teologie possono essere vere, anche se si oppongono contraddicendosi sulle loro tesi capitali? Si risponderà di no, se si conserva la definizione tradizionale della verità. Si risponderà di sì, se si adotta la nuova definizione del vero concepito non in rapporto all’essere e alle sue leggi immutabili, ma in rapporto a differenti esperienze religiose. Ciò ci avvicina singolarmente al modernismo.
Si ricorderà che il 1º dicembre 1924 il Sant’Uffizio condannò dodici proposizioni estratte dalla filosofia dell’azione [di Blondel]; tra di esse era inclusa, al n. 5, la nuova definizione della verità: “Veritas non invenitur in ullo actu particulari intellectus in quo haberetur conformitas cum obiecto, ut aiunt scholastici, sed veritas est semper in fieri, consistitque in adaequatione progressiva intellectus et vitae, scil. in motu quodam perpetuo, quo intellectus evolvere et explicare nititur id quod parit experientia vel exigit actio: ea tamen lege ut in toto progressu nihil unquam ratum fixumque habeatur”f. L’ultima di queste proposizioni condannate è la seguente: “Etiam post fidem conceptam, homo non debet quiescere in dogmatibus religionis, eisque fixe et immobiliter adherere, sed semper anxius manere progrediendi ad ulteriorem veritatem, nempe evolvendo in novos sensus, immo et corrigendo et quod credit”g[6] .
Molti ritornano oggi a questi errori, senza alcuna cautela.
Ma allora, come si può sostenere che la grazia santificante sia essenzialmente soprannaturale, gratuita, per nulla dovuta alla natura umana o a quella angelica?
Ciò è ben chiaro per San Tommaso, che alla luce della Rivelazione ammette questo principio: le facoltà, gli “habitus” e i loro atti sono specificati dal loro oggetto formale: ora, l’oggetto formale dell’intelligenza umana e persino quello dell’intelligenza angelica sono immensamente inferiori all’oggetto proprio dell’intelligenza divina: la Divinità o la vita intima di Dio (cf. Iª, q. 12, a. 4). Ma se si trascura ogni metafisica per accontentarsi dell’erudizione storica e dell’introspezione psicologica, il testo di San Tommaso diviene incomprensibile[7]. Da questo punto di vista, cosa si potrà conservare della dottrina tradizionale sulla distinzione non contingente ma necessaria dell’ordine della grazia e di quello della natura?
Su questo soggetto, nel recente libro del padre H. de Lubac [1896-1991], Surnaturel (Études historiques), 1946, p. 164, a proposito della probabile impeccabilità degli angeli nell’ordine naturale[8], si legge: “Niente annuncia in San Tommaso la distinzione che forgerà più tardi un certo numero di teologi tomisti, tra ‘Dio autore dell’ordine naturale’ e ‘Dio autore dell’ordine sovrannaturale’... come se la beatitudine naturale... dovesse risultare, nel caso degli angeli, da un’attività infallibile, impeccabile”. Item, p. 275.
Al contrario, san Tommaso distingue spesso il fine ultimo sovrannaturale dal fine ultimo naturale, e per quanto riguarda il demonio afferma, De malo, q. 16, a. 3: “Peccatum diaboli non fuit in aliquo quod pertinet ad ordinem naturalem, sed secundum aliquid supernaturale”h. Item, Iª, q. 63, a. 1, ad 3.
In questa maniera, si arriva a disinteressarsi completamente delle pronunciata maiora della dottrina filosofica di San Tommaso, vale a dire delle ventiquattro tesi tomiste approvate nel 1916 dalla Sacra Congregazione degli Studi.
Non solo, ma il padre Gaston Fessard S.J., in Les Études del novembre 1945, p. 269-270, parla del “felice assopimento che protegge il tomismo canonizzato, ma anche, come diceva Péguy, ‘seppellito’, mentre sopravvivono i pensieri votati, nel suo nome, alla contraddizione”.
Nel numero di aprile 1946 della stessa rivista, si dice che il neotomismo e le decisioni della Commissione biblica sono un “argine, ma non una risposta”. E cosa viene proposto in luogo del tomismo, come se nell’enciclica Aeterni Patris Leone XIII si fosse sbagliato e come se nell’enciclica Pascendi Pio X, rinnovando questa stessa raccomandazione, fosse andato fuori strada? Dove va a parare questa nuova teologia con i nuovi maestri ai quali s’ispira? Dove, se non nello scetticismo, nella stravaganza e nell’eresia? Sua Santità Pio XII ha affermato recentemente, in un discorso pubblicato dall’Osservatore romano del 19 settembre 1946: “Plura dicta sunt, at non satis explorata ratione, ‘de nova theologia’, quae cum universis semper volventibus rebus, una volvatur, semper itura, nunquam perventura. Si talis opinio amplectenda esse videatur, quid fiet de nunquam immutandis catholicis dogmatibus, quid de fidei unitate et stabilitate?”i.
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2. Applicazione dei nuovi princìpi alle dottrine del peccato originale e dell’Eucarestia.
Qualcuno dirà che esageriamo, ma anche un piccolo errore sulle nozioni prime e sui primi principi ha delle conseguenze incalcolabili, non previste dagli erranti. Le conseguenze delle nuove tesi di cui abbiamo appena parlato devono andare dunque ben al di là delle previsioni degli autori che abbiamo citato. Sarebbe difficile non riuscire a vedere tali conseguenze in alcuni fogli dattilografati che vengono distribuiti (alcuni a partire dal 1934) al clero, ai seminaristi, agli intellettuali cattolici: vi si trovano le asserzioni e le negazioni più singolari sul peccato originale e sulla presenza reale.
Prima di menzionare queste novità si avvisa il lettore dicendogli che per quanto esse di primo acchito possano sembrare folli, a guardarle da più vicino non sono prive di verosimiglianza; inoltre, sono ammesse da più persone. Le intelligenze superficiali vi si lasciano sedurre, e la formula “una dottrina che non è più attuale non è più vera” si fa strada. Alcuni sono tentati di concludere: “la dottrina dell’eternità delle pene dell’inferno non è più attuale, a quanto sembra, e perciò non è più vera”. È scritto nel Vangelo che un giorno la carità di molti si raffredderà e che molti saranno sedotti dall’errore.
Rispondere è uno stretto obbligo di coscienza per i teologi che difendono la Tradizione della Chiesa. In caso contrario, essi mancherebbero gravemente al loro dovere, e ne dovrebbero rendere conto di fronte a Dio.
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Nei fogli ciclostilati distribuiti in Francia in questi ultimi anni (almeno a partire dal 1934, a giudicare da quelli che abbiamo sotto mano) si insegnano le dottrine più stravaganti e false sul peccato originale.
In essi, l’atto di fede cristiana non è più concepito come un’adesione sovrannaturale e infallibile alle verità rivelate propter auctoritatem Dei revelantisj, ma come un’adesione dello spirito a una prospettiva generale dell’universo. È la percezione di ciò che è possibile e più probabile ma non dimostrabile. La fede diviene un insieme di opinioni probabili. Da questo punto di vista, Adamo sembra essere non l’individuo da cui discende il genere umano, ma piuttosto una collettività.
Quindi non si vede più come si possa mantenere la dottrina rivelata del peccato originale così come viene spiegata da San Paolo, Rom 5, 18: “Sicut per unius delictum in omnes homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam in omnes homines in justificationem vitae. Sicut enim per inobaedientiam unius peccatores constituti sunt multi, ita per unius oboeditionem iusti constituentur multi”k. Tutti i Padri e la Chiesa, interprete autorizzata della Scrittura, tanto nel suo magistero ordinario come in quello solenne, hanno sempre inteso che Adamo sia stato un individuo, come Cristo, e non una collettività[9]. Quel che ci si propone ora è di prendere in considerazione una tesi contraria all’insegnamento dei Concili d’Orange e di Trento (Denz. 175, 789, 791, 793)[10].
Oltretutto, da questo nuovo punto di vista l’incarnazione del Verbo sarebbe un momento dell’evoluzione universale.
L’ipotesi dell’evoluzione materiale del mondo viene estesa all’ordine spirituale: il mondo sovrannaturale sarebbe in evoluzione verso l’avvento plenario del Cristo.
Il peccato in quanto realtà che colpisce l’anima è qualcosa di spirituale e quindi atemporale. Poco importa agli occhi di Dio, dunque, che esso abbia avuto luogo al principio della storia dell’umanità o nel córso dei secoli.
Il peccato originale non sarebbe più, dunque, in noi, un peccato che dipende da una colpa volontaria del primo uomo, ma proverrebbe dalle colpe degli uomini che hanno influito sull’umanità.
In questo modo si vuole cambiare la natura stessa della teologia – non solo il suo modo d’esposizione; e ancor più quella del dogma, che non è più considerato dal punto di vista della fede infusa nella Rivelazione divina, interpretata dalla Chiesa nei suoi Concili. Non si prendono più in considerazione i Concili stessi, ma si adotta qui il punto di vista della biologia, integrata dalle elucubrazioni più stravaganti, che ricordano quelle dell’evoluzionismo hegeliano, il quale a sua volta dei dogmi cristiani non conserva più altro che il nome.
Così facendo si seguono i razionalisti e si fa ciò che i nemici della fede desiderano: si riduce la fede stessa a un insieme di opinioni in costante cambiamento e che non hanno più alcun valore. Cosa resta della parola di Dio data al mondo per la salvezza delle anime?
In questi fogli, intitolati Comment je crois [Come io credo], si legge, a p. 15: “Se noi cristiani vogliamo conservare al Cristo le qualità che fondano il Suo potere e la nostra adorazione, non potremmo far altro o miglior cosa che accettare fino in fondo i concetti più moderni dell’Evoluzione. Sotto la pressione combinata della Scienza e della Filosofia, il Mondo s’impone sempre più alla nostra esperienza e al nostro pensiero come un sistema interconnesso di attività che si elevano gradualmente verso la libertà e la coscienza. L’unica interpretazione soddisfacente di questo processo è quella di considerarlo irreversibile e convergente. Così si delinea davanti a noi un Centro cosmico Universale in cui tutto termina, tutto si comunica, tutto si integra. Ebbene, a mio avviso è in questo polo psichico dell’Evoluzione universale che è necessario porre e riconoscere la pienezza del Cristo... Scoprendo un vertice del mondo, l’Evoluzione rende il Cristo possibile, esattamente come il Cristo, dando un senso al Mondo, rende possibile l’Evoluzione.
“Sono perfettamente cosciente di cosa ci sia di vertiginoso in questa idea... ma immaginando una simile meraviglia, non faccio altro che trascrivere in termini di realtà psichica le espressioni giuridiche in cui la Chiesa ha racchiuso la sua fede... Mi sono lanciato per conto mio, senza esitare, nell’unica direzione verso cui mi sembra possibile far progredire e quindi salvare la mia fede.
“Il cattolicesimo mi aveva deluso, a prima vista, per le sue rappresentazioni ristrette del Mondo e per la sua mancanza di comprensione del ruolo della Materia. Ora riconosco che, seguendo il Dio incarnato che esso mi rivela, non posso essere salvato in altro modo che formando un’unità con l’universo. In un sol colpo vengono soddisfatte, rassicurate e guidate le mie aspirazioni ‘panteiste’ più profonde. Il Mondo intorno a me diventa divino...
“Una convergenza generale delle religioni verso un Cristo universale, che, nel fondo, le soddisfi tutte; questa mi sembra essere l’unica conversione possibile per il Mondo e la sola forma immaginabile per una Religione dell’avvenire”[11].
Quindi il mondo materiale si sarebbe evoluto verso lo spirito, e il mondo dello spirito evolverebbe naturalmente, per così dire, verso l’ordine sovrannaturale e verso la pienezza del Cristo. Così, l’Incarnazione del Verbo, il corpo mistico, il Cristo universale sarebbero delle tappe dell’Evoluzione, e – secondo questo punto di vista – di un progresso costante sin dall’origine; non sembra che si sia verificata una caduta all’inizio della storia dell’umanità, ma un progresso costante del bene che trionfa sul male secondo le leggi stesse dell’evoluzione. Il peccato originale sarebbe in noi la conseguenza delle colpe degli uomini che hanno esercitato un’influenza nefasta sull’umanità.
Ecco cosa rimane dei dogmi cristiani in questa teoria che si allontana dal nostro Credo nella misura in cui essa si avvicina all’evoluzionismo hegeliano.
Nei fogli citati si afferma: “Mi sono lanciato nell’unica direzione verso cui mi sembra possibile far progredire e quindi salvare la mia fede”. La fede stessa si salverebbe dunque solo se progredisce, e cambierebbe così tanto che non si potrebbe più riconoscere in essa la fede degli Apostoli, dei Padri e dei Concili. Si tratta di un modo di applicare il principio della nuova teologia: “una dottrina che non è più attuale, non è più vera”, e per alcuni è sufficiente che essa non sia più attuale in certi àmbiti. Ne segue che la verità è sempre in fieri, mai immutabile. Essa è la conformità del giudizio non con l’essere e con le sue leggi necessarie ma con la vita che evolve continuamente. Si vede bene dove ci conducono le proposizioni condannate dal Sant’Uffizio il 1º dicembre 1924, e che abbiamo citato qui sopra: “Nulla propositio abstracta potest haberi ut immutabiliter vera”l. “Etiam post fidem conceptam, homo non debet quiescere in dogmatibus religionis, eisque fixe et immobiliter adhaerere, sed semper anxius manere progrediendi ad ulteriorem veritatem, nempe evolvendo in novos sensus, immo et corrigendo id quod credit”m. Cfr. Monitore ecclesiastico, 1925, p. 194.
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Troviamo un esempio di simile deviazione a proposito della Presenza reale in alcuni fogli dattilografati che circolano da qualche mese all’interno del clero. Vi si afferma che fino ad ora il vero problema della Presenza reale non è stato ben posto: “Per rispondere a tutte le difficoltà che ci si è creati, si è detto: il Cristo è presente a modo di sostanza... Questa spiegazione evita il vero problema. Aggiungiamo che, nella sua chiarezza ingannevole, essa sopprime il mistero religioso. A dire il vero, non v’è più qui un mistero, ma solo un prodigio”.
Sarebbe stato dunque San Tommaso a non aver saputo porre il problema della presenza reale, e la sua soluzione: praesentia corporis Christi per modum substantiae [presenza del Corpo di Cristo al modo della sostanza], sarebbe illusoria; la sua chiarezza sarebbe una chiarezza ingannevole.
Ci si avverte che la nuova spiegazione proposta “implica evidentemente che, come metodo di riflessione, si sostituisca il metodo scolastico con quello cartesiano e spinoziano”.
Un po’ più avanti si legge: per quanto riguarda la transustanziazione, “questo termine non è privo d’inconvenienti, come anche l’espressione ‘peccato originale’. Esso corrisponde al modo in cui gli scolastici concepiscono questa trasformazione, e la loro concezione è inammissibile”.
Qui non è più solo da San Tommaso che ci si allontana, ma dal Concilio di Trento, sess. XIII, cap. 4 e can. 2 (Denz. 877, 884), poiché esso ha definito la transustanziazione una verità di fede, ed ha persino detto: “quam quidem conversionem catholica Ecclesia aptissime transubstantiationem appellat”n. E oggi questi nuovi teologi vengono a dirci: “questo termine non è privo di inconvenienti... risponde a una concezione inammissibile”.
“Secondo il punto di vista della Scolastica, la realtà della cosa è ‘la sostanza’; la cosa non potrà pertanto mai cambiare realmente se la sostanza non cambia... per mezzo della transustanziazione. Secondo la nostra prospettiva attuale... allorquando, in virtù dell’offerta che ne è stata fatta secondo un rito stabilito dal Cristo, il pane e il vino sono divenuti il simbolo efficace del sacrificio del Cristo, e di conseguenza della sua presenza spirituale, il loro essere religioso è cambiato”, non la loro sostanza[12]. E si aggiunge: “È questo ciò che possiamo designare col termine di transustanziazione”.
Ma è chiaro che non si tratta più della transustanziazione definita dal Concilio di Trento, “conversio totius substantiae vini in Sanguinem, manentibus duntaxat speciebus panis et vini”o (Denz. 884). È evidente che il significato stabilito dal Concilio non viene mantenuto dall’introduzione di queste nuove nozioni. Il pane e il vino sono diventati solamente “il simbolo efficace della presenza spirituale del Cristo”. [Sono intesi come il simbolo di una presenza spirituale, non c’è più la presenza reale].
Ciò ci avvicina singolarmente alla posizione modernista, che non afferma la presenza reale del Corpo di Cristo nell’Eucarestia. Essa si limita a dire, da un punto di vista pratico e religioso: abbi nei confronti dell’Eucarestia lo stesso atteggiamento che hai nei confronti dell’umanità del Cristo.
Negli stessi fogli, il mistero dell’Incarnazione viene inteso in modo simile: “Nonostante il Cristo sia veramente Dio, non si può affermare che per mezzo di lui vi fosse una presenza reale di Dio nella terra di Giudea... Dio non era presente in Palestina più di quanto non lo fosse altrove. L’unica cosa che possiamo affermare è che il segno efficace di tale presenza divina si è manifestato in Palestina nel primo secolo della nostra era”[13].
Si aggiunge infine: “il problema della causalità dei sacramenti è un falso problema, generato da una maniera equivocata di porre la questione”.
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Non crediamo che gli autori di cui abbiamo appena parlato abbiano abbandonato la dottrina di San Tommaso: semplicemente, essi non vi hanno mai aderito e non l’hanno mai compresa adeguatamente. Ciò è doloroso e inquietante.
Con questo modo d’insegnare, cos’altro si può fare se non formare degli scettici? Infatti, non viene proposto nulla di stabile per rimpiazzare la dottrina di San Tommaso. E poi si pretende di essere sottomessi alle direttive della Chiesa; ma in cosa consiste tale sottomissione?
Un professore di teologia ci scrive: “In effetti è sul concetto stesso di verità che verte il dibattito e, senza che ci se ne renda ben conto, si giunge al modernismo tanto nel pensiero come nell’azione. Gli scritti di cui Lei mi parla sono molto letti in Francia. Essi esercitano una grande influenza, è vero, sugli spiriti mediocri: le persone serie non abboccano. Bisogna scrivere per coloro che hanno il sincero desiderio di essere illuminati”.
Secondo alcuni, la Chiesa avrebbe riconosciuto l’autorità di San Tommaso solamente nel campo della teologia, e non direttamente in quello della filosofia. Al contrario, l’enciclica Aeterni patris di Leone XIII parla soprattutto della teologia di San Tommaso. Anche le ventiquattro tesi tomiste proposte nel 1916 dalla Santa Congregazione degli Studi sono di ordine filosofico, e se queste pronunciata maiora di San Tommaso non fossero certe, cosa potrebbe valere la sua teologia, che vi ha costantemente fatto ricorso?
Infine, come abbiamo già ricordato, Pio X ha scritto: “magistros autem monemus, ut rite hoc teneant Aquinatem vel parum deserere praesertim in re metaphysica non sine magno detrimento esse. Parvus error in principio magnus est in fine”p.
Da dove provengono queste tendenze? Un sagace osservatore mi scrive: “si raccolgono i frutti della frequentazione senza precauzioni dei corsi universitari. Si vuole frequentare i maestri del pensiero moderno per convertirli e ci si lascia convertire da loro. Si accettano poco a poco le loro idee, i loro metodi, il loro sdegno della scolastica, il loro storicismo, il loro idealismo e tutti i loro errori. Se questa frequentazione è utile per degli spiriti già formati, è sicuramente pericolosa per gli altri”.
C o n c l u s i o n e
Dove va la nuova teologia? Torna al modernismo. Perché ha accettato la proposta che le è stata fatta: quella di sostituire la definizione tradizionale della verità, adaequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, con la definizione soggettiva adaequatio realis mentis et vitae. Ciò viene espresso più esplicitamente nella proposizione sopra citata, estratta dalla filosofia dell’azione e condannata dal Sant’Uffizio il 1º dicembre 1924: “Veritas non invenitur in ullo actu particulari intellectus in quo haberetur conformitas cum obiecto ut aiunt scholastici, sed veritas est semper in fieri, consistitque in adaequatione progressiva intelletctus et vitae, scil. in motu quodam perpetuo, quo intellectus evolvere et explicare nititur id quod parit experientia vel exigit actio : ea tamen lege ut in toto progressu nihil unquam ratum fixumque habeatur”q (Monitore ecclesiastico, 1925, t. I, p. 194).
La verità non è più la conformità del giudizio col reale extramentale e con le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze dell’azione e della vita umana che evolve continuamente. Si sostituisce la filosofia dell’essere o ontologia con la filosofia dell’azione che definisce la verità in funzione non più dell’essere ma dell’azione.
Si sfocia così nella posizione modernista: “Veritas non est immutabilis plus quam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso et per ipsum evolvitur”r (Denz. 2058). Per questo Pio X affermava dei modernisti: “aeternam veritatis notionem pervertunt”s (Denz. 2080).
È ciò che aveva previsto il nostro maestro, padre M. B. Schwalm, nei suoi articoli sulla Revue thomiste, 1896, p. 36 ss., 413; 1897, p. 62, 239, 627; 1898, p. 578, a proposito della filosofia dell’azione, del dogmatismo morale del padre Laberthonnière, della crisi dell’apologetica contemporanea, delle illusioni dell’idealismo e di quanto queste minaccino la fede.
Ma molti, pensando che il padre Schwalm esagerasse, hanno poco a poco dato diritto di cittadinanza alla nuova definizione della verità ed hanno più o meno cessato di difendere la definizione tradizionale del vero: la conformità del giudizio con l’essere extramentale e con le sue leggi immutabili di non contraddizione, di causalità, etc. Per loro, il vero non è più ciò che è, ma ciò che diviene e cambia continuamente.
Ora, cessare di difendere la definizione tradizionale della verità, permettere che si affermi che essa sia chimerica, che bisogna sostituirla con un’altra vitalista ed evoluzioniata, porta al relativismo più completo, e questo è un grave errore.
Inoltre – e questo è un fatto su cui non ci si sofferma mai – ciò porta a dire esattamente quel che i nemici della Chiesa vogliono sentir dire. Quando si leggono le loro opere più recenti, la contentezza che essi ne traggono è evidente, ed essi stessi propongono interpretazioni dei nostri dogmi, in materia di peccato originale, del male cosmico, dell’Incarnazione, della Redenzione, dell’Eucarestia, della reintegrazione universale finale, del Cristo cosmico, della convergenza di tutte le religioni in un centro cosmico universale[14].
Si comprende pertanto perché il Santo Padre, nel suo recente discorso riportato dall’Osservatore Romano del 19 settembre 1946, si sia espresso in questi termini a proposito della “nuova teologia”: “Si talis opinio amplectenda esse videatur, quid fiet de numquam immutandis catholicis dogmatibus, quid de fidei unitate et stabilitate?”t. D’altra parte, poiché la Provvidenza permette il male solamente per un bene superiore e poiché si può osservare in molti un’eccellente reazione contro gli errori che abbiamo appena sottolineato, ci si può aspettare che queste deviazioni saranno l’occasione per un vero rinnovamento dottrinale e per uno studio approfondito delle opere di San Tommaso, il cui valore spicca sempre di più, quando lo si compari alla deriva intellettuale contemporanea[15].
_________________________________Note di commento, di Paolo Pasqualucci
Queste “note” riguardano solo alcuni punti dell’articolo di Garrigou-Lagrange.
1. La necessaria aggiunta nel titolo.
La frase “elle revient au modernisme”, di cui al titolo dell’articolo, non si trova nel titolo originale ma nel testo, ove il concetto che essa esprime è ribadito più volte. L’ho aggiunta al titolo al fine di render subito chiaro il contenuto dell’articolo.
2. La nuova traduzione italiana dell’importante libro di Garrigou-Lagrange sul “senso comune”.
Ricordo che l’opera sua propria citata dall’autore alla nota n. 2, ossia “Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques”, è stata di nuovo tradotta in italiano nella Biblioteca di Sensus communis, n. 10, fondata e diretta da mons. Antonio Livi: Réginald Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, Nuova edizione italiana a cura di Antonio Livi e Mario Padovano, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma, 2013, pp. 296, € 23,00. Si tratta di un testo importante, essenziale per coloro che vogliono partecipare con cognizione di causa alla lotta in corso per la difesa del dogma della fede. Nella Nota editoriale del volume, mons. Livi sottolinea opportunamente quanto segue: “Il dogma – sostiene giustamente l’autore di questo trattato – è una formulazione della verità rivelata che implica la verità del senso comune (perché la rivelazione divina si rivolge all’intelletto di ogni uomo) e allo stesso tempo adopera necessariamente le categorie concettuali della metafisica. Di conseguenza, l’unica ermeneutica corretta delle “formule dogmatiche” è quella che non adotta schemi concettuali incompatibili con il senso comune, quali sono – e qui Garrigou-Lagrange si limita a indicare quei sistemi filosofici che ai suoi tempi inficiavano la riflessione teologica e mettevano a rischio l’ortodossia – l’agnosticismo kantiano, l’idealismo hegeliano, il pragmatismo e l’intuizionismo bergsoniano” (op. cit., pp. 7-9; p. 8; vedi anche, più estesamente, il Saggio introduttivo di Mario Padovano, ivi, pp. 11-23). A quei “sistemi”, dobbiamo oggi aggiungere le variegate e sempre più deteriori forme dello scientismo contemporaneo e dell’esistenzialismo, promotrici di un risorgente e sempre più aggressivo ateismo.
3. L’errore del falso ecumenismo appare già diffuso negli scritti anonimi dei neomodernisti degli anni Trenta del XX secolo.
L’articolo dell’illustre teologo prende in esame il fenomeno, al tempo evidentemente diffuso, dei ciclostilati anonimi che venivano divulgati ad arte tra il clero, fin nei seminari, per diffondervi dubbi e tesi eterodosse di ogni tipo, propalate in tono più accorto nei lavori a stampa dei vari Bouillard, de Lubac, Teilhard de Chardin. Era la vecchia e consolidata tecnica di infiltrazione dei modernisti, di qualche decennio prima: stroncati da san Pio X, stavano rialzando la testa. Ma di chi potevano essere i ciclostilati in questione? Uno dei maggiori indiziati era Teilhard de Chardin, facilmente riconoscibile per il carattere peculiare delle sue “visioni” sul “Cristo cosmico”, diffuse da alcuni di quei ciclostilati. Riconducibili in parte, quelle visioni, al “pancristismo” di Blondel, cioè al Cristo eone cosmico che, con l’Incarnazione, avrebbe già salvato tutti senza bisogno di conversione alla Chiesa cattolica. L’errore pazzesco del “Cristo cosmico” sembra anche preludere alla falsa dottrina rahneriana dei “cristiani anonimi”: se il Cristo, incarnandosi, ha per ciò stesso già salvato tutti, allora si può dire che nasciamo tutti “cristiani” senza saperlo. Questo singolare errore, che annullava la distinzione tra natura e Grazia (tra il Sovrannaturale e la natura), rendendo superflua l’esistenza stessa della Chiesa visibile e gerarchica, ora anzi ostacolo da abbattere, faceva strame, oltre che del Nuovo Testamento e dell’insegnamento della Chiesa, anche del senso comune dal momento che attribuiva la salvezza a priori all’intero genere umano, a prescindere (quale assurdità!) dal libero arbitrio, dall’intenzione, dalla volontà e dalla condotta di ciascuno. In tal modo, il Cattolicesimo diventava una cosa poco seria: non più l’austera e grandiosa religione del vero Dio, Uno e Trino, che ci concede la salvezza e la vita eterna dopo averci messo alla prova nella lotta quotidiana contro noi stessi e aver sorretto con la Grazia il nostro intelletto e la nostra volontà in questa terribile lotta, ma una religiosità-pappa-del-cuore, incline perciò ad ogni latitudinarismo e sentimentalismo, ad ogni sorta di falsa misericordia, alla democrazia universale e ai “diritti umani”, alla realizzazione in qualche modo di una sorta di regno di Dio in terra, con la partecipazione di tutte le religioni.
Altri indiziati degli scritti anonimi dovevano ritenersi lo stesso de Lubac e comunque tutti coloro che propalavano dottrine errate sul significato dei Sacramenti, diffuse in particolare nel Movimento Liturgico tra le due guerre. Nelle esternazioni anonime di Teilhard de Chardin compare dunque il principio del falso ecumenismo professato oggi dalla Gerarchia cattolica, a partire dal pastorale Vaticano II ossia dall’indirizzo “pastorale” imposto al Concilio dal “buon Papa Giovanni”, elevato da poco alla gloria degli altari non si sa con quali criteri, visto che né risulta una sua particolare santità di vita né che si possa attribuirgli alcun miracolo, per tacere del ruolo nient’affatto positivo da lui svolto nella fase iniziale del Vaticano II, in quanto supremo defensor fidei. Il principio del falso ecumenismo risulta nella frase dell’anonimo che recita: “Una convergenza generale delle religioni verso un Cristo universale, che, al fondo, le soddisfa tutte; tale mi sembra essere la sola conversione possibile per il Mondo e la sola forma immaginabile di una Religione dell’avvenire”. Era l’aspirazione esaltata dei modernisti ad una Chiesa cattolica che, senza più convertire nessuno, si identificasse per l’appunto con l’umanità e si dissolvesse in essa e nella democrazia universale, ad esser qui riproposta. Teilhard de Chardin innestò l’evoluzionismo darwiniano sul pancristismo di Blondel: da qui le demenziali sue esternazioni sull’umanità in marcia unitaria verso il “punto omega” di una cosiddetta “noosfera”, rappresentato il punto dal “Cristo cosmico”. L’attuale Gerarchia postconciliare usa un linguaggio meno esplicito, in questo senso, ma l’utopia (non cattolica) di un’unità del genere umano da realizzarsi all’insegna del cosiddetto “Cristo universale”, pur vi compare, anche se in una forma linguistica che rinvia alle utopie millenaristiche del passato. Ciò già risulta dalla Allocutio ‘Gaudet Mater Ecclesia’, con la quale Roncalli inaugurò il Concilio, l’11 ottobre 1962. Proponendosi di realizzare l’unità tra i cristiani, non esitò egli a dire, il Concilio “quasi prepara e consolida la via verso quell’unità del genere umano, che si richiede quale necessario fondamento, perché la Città terrestre si componga a somiglianza di quella celeste” (AAS, 54, 1962, pp. 786-795; p. 793-794. Corsivi miei. Si veda anche l’art. 1 della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa.). Il Vaticano II sarebbe stato la Nuova Pentecoste che avrebbe aggiornato la missione della Chiesa, indirizzandola, invece che alla conversione delle anime, alla realizzazione dell’unità del genere umano, nella pace e nella fratellanza universali!
4. Il pensiero di san Tommaso sistematicamente deformato dai neomodernisti.
Colpiscono le ripetute deformazioni del pensiero di san Tommaso da parte di questi neomodernisti, colte implacabilmente da Garrigou-Lagrange. È difficile dire se si trattasse di ignoranza o malafede. In ogni caso il loro pregiudizio verso la Scolastica e Aristotele appare tipico di chi non vuol capire perché animato dall’odio inguaribile dell’eretico per la verità rivelata e (conseguentemente) per la metafisica basata sulla recta ratio e il senso comune, donatici dal Creatore affinché potessimo, tra le altre cose, comprendere le verità da Lui rivelate, per quanto possibile al nostro intelletto sorretto dalla Grazia.
Come preannunciato, elenco qui la traduzione dei passi tomistici riportati da Garrigou-Lagrange alla nota n. 8, nei quali si distingue nettamente tra fine naturale e sovrannaturale delle creature. Ia, q. 23, a. 1: “Il fine al quale le cose create sono ordinate da Dio è duplice. Il primo eccede la proporzione della natura creata e le sue facoltà: questo fine è la vita eterna, che consiste nella visione divina; cosa al di là della natura di qualsiasi creatura, come si è detto sopra Ia, q. 12, a.4. L’altro fine, invece, è proporzionato alla natura creata, nel senso che la cosa creata può realizzarlo secondo le capacità [sec. virtutem] della sua natura”. Del pari: Ia IIae, q. 62, a. 1: “Esiste infatti una doppia beatitudine o felicità nell’uomo, come si è già detto, q. 3, a. 2 ad 4; q. 5., a. 5. Una proporzionata alla natura umana, alla quale cioè l’uomo può pervenire seguendo i principi della sua natura. L’altra, è quella che eccede la natura umana”. Ed infine: de Veritate, q. 14, a. 2: “Infatti il bene ultimo dell’uomo è duplice. Uno è proporzionato alla natura…si tratta della felicità della quale hanno parlato i filosofi…L’altro è un bene che eccede la proporzione della natura umana”.
Assurda appare poi l’accusa (vedi supra, nota n. 7 ) mossa da Bouillard a san Tommaso di non servirsi della “causalità reciproca” quando spiega il concetto della giustificazione, causalità della quale si era invece sempre servito nelle opere precedenti. Il termine “causalità reciproca” può apparire oscuro. Ma, come spiega Garrigou-Lagrange nella stessa nota, essa indica le quattro forme interconnesse (reciproche) della causalità, messe in rilievo da Aristotele (vedi nota di commento n. 7, cit).
5. Il falso concetto di verità dei neomodernisti, derivato dalla “filosofia dell’azione” di Blondel.
È evidente come i neomodernisti traessero ispirazione dalla “filosofia dell’azione” di Blondel, la cui condanna, pur firmata dal cardinale Merry Del Val, restò confinata a fonti di secondaria importanza. Non posso qui dilungarmi sulla filosofia dell’azione di Blondel. Mi corre tuttavia l’obbligo di sottolineare la superficialità e la vaghezza del concetto di verità proposto da quel filosofo. Egli accusa il tradizionale concetto aritostelico-tomistico della “adaequatio rei et intellectus” di essere “chimerico”. Non “chimerico” ed invece “realistico” sarebbe, al contrario, quello da lui proposto: “adaequatio realis mentis et vitae”. Ora, se c’è un concetto esemplarmente “chimerico” nella sua ondivaga vaghezza è proprio quello di “vita”. Che vuol dire? Ci si può far rientrare di tutto. La “vita” sarebbe poi soprattutto “azione”, per Blondel. Ma “azione”, come? Come comportamento razionale secondo princìpi morali che trascendono l’azione stessa, rispondente ai canoni della causalità, del principio di contraddizione e di ragion sufficiente, o come “slancio vitale” che produce il proprio principio ispiratore per il fatto stesso del suo “slancio” e quindi sulla base del sentimento, del cuore, dell’indeterminato accavallarsi delle passioni e degli impulsi? La “filosofia dell’azione”, in quanto fondata sulla categoria della “vita”, sul “vitalismo”, appare del tutto irrazionale. Rimanda alla “filosofia della vita” di pensatori come Schleiermacher, al tendere indeterminato e narcisistico dei Romantici verso l’indefinibile Assoluto. In Germania, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fu articolata in particolare da pensatori come Wilhelm Dilthey, che costruì il concetto dello spirito come “vita” nel senso di “esperienza vissuta” (Erlebnis) dalla coscienza individuale, da interpretarsi sempre storicamente e quindi secondo lo spirito del proprio tempo, la temporalità nella quale il soggetto si trova sempre immerso. Da ciò un concetto storicistico di verità, sempre condizionata dal proprio tempo, le esigenze del quale si riflettono nell’esperienza vissuta, nella “vita” appunto. Tale concezione risulta chiaramente incompatibile con l’idea stessa di una verità rivelata da Dio, in quanto tale immutabile, perché le verità religiose e morali che essa annunzia (per esempio, l’indissolubilità del matrimonio) non possono per definizione esser sottoposte alla temporalità, ossia al giudizio che ne possa dare, nel tempo storico determinato, la mutevole coscienza dell’esperienza vissuta dal soggetto.
Si può dire che, storicamente, le filosofie della “vita”, dello “slancio vitale”, dell’azione abbiano rappresentato una reazione inevitabile contro i dogmi angusti e superficiali del positivismo dominante a fine Ottocento, con il suo scientismo, il suo materialismo, il suo determinismo, la sua irreligiosità, la sua generalizzata aridità spirituale. Tuttavia, al di là di un’azione di rottura, cosa offrivano esse di costruttivo, soprattutto per il cattolico? Nulla, a ben vedere. Non rifiutavano il mito positivista del progresso, lo rinverdivano in una spiritualità confusa, narcisistica e sincretistica, incompatibile con il vero spirito religioso. Inoltre, contribuivano ad inquinare la giusta concezione della verità, sia metafisica che religiosa, dissolvendo l’una e l’altra nell’irrazionale dello “slancio vitale” fine a se stesso e quindi nel soggettivismo del sentimento, ivi incluso il “sentimento religioso”, in nome di una spiritualità fasulla che azzerava tutte le religioni, riducendole a mere istanze del sentimento individuale della “vita”.
Va ribadito, invece, ad ulteriore sostegno degli ottimi argomenti di Garrigou-Lagrange, che il concetto del vero come “adaequatio “ o “concordantia rei et intellectus” ha un valore universale, immutabile, paradigmatico. Nella scienza, esso resta fondamentale. Albert Einstein non ha avuto il premio Nobel per la sua teoria della relatività ma per la sua teoria (all’epoca rivoluzionaria) sulla trasmissione della luce in pacchetti di energia o “fotoni”, presenti nel treno d’onde elettromagnetiche che pur costituisce il raggio di luce. E questo, perché? Perché la sua ipotesi sull’esistenza dei fotoni è stata sperimentalmente comprovata mentre la teoria della relatività è rimasta una teoria, per quanto geniale e stimolante anche per chi non la condivida. È mancata per quest’ultima la conferma sperimentale ossia “la concordanza tra l’intelletto [l’ipotesi] e la cosa [qui la realtà esteriore, in una sua determinata configurazione]”.
Noi applichiamo questo concetto del vero (nel quale la res, quale essa sia, rappresenta una realtà oggettivamente diversa dal pensiero che la indaga e della quale esso deve dimostrare l’effettiva natura) nella vita di tutti i giorni, nella nostra filosofia pratica, nelle previsioni contenute nei giudizi con i quali ci conduciamo nei negozi quotidiani, verificate o meno queste previsioni dal loro avverarsi o meno secondo lo schema causale adoperato dal nostro intelletto: “se A, allora B”. Secondo uno schema causale che considera sempre e la causa efficiente (chi l’ha fatto questo, cosa l’ha prodotto) e quella finale (perché, a qual fine). Non secondo un’idea indeterminata di “vita”, cioè di realtà in continuo e magmatico progresso, posseduta da un movimento che l’intelletto sia sempre costretto a rincorrere, registrandone magari a caso ciò che via via vi appare, come se costituisse l’unico vero da esso conoscibile. E questo falso concetto di verità, che rende il nostro intelletto del tutto passivo di fronte alla cosiddetta “vita”, dominata dalle forze dell’azione, comprese le più oscure, si dovrebbe applicare anche alle verità di origine sovrannaturale della nostra religione!
Ma valga il vero: la concezione evolutiva della verità, che la concepisce come un riflesso della “vita” in (supposta) perenne evoluzione, comporta per logica conseguenza il rifiuto di accettare il carattere immutabile del dogma e quindi, a ben vedere (magari anche senza rendersene conto) il dogma in quanto tale, dato che per quella concezione l’esistenza del dogma non impedisce affatto la ricerca costante del soggetto verso una “verità ulteriore”, che contenga “nuovi significati” e pertanto la possibilità di continue rettifiche. Si è visto che la dodicesima delle proposizioni della filosofia dell’azione condannate, recitava: “Anche se possiede la fede, l’uomo non deve adagiarsi nei dogmi della religione, e aderirvi in modo fisso ed immobile, ma darsi sempre pena di progredire ad una verità ulteriore, sia facendo evolvere verso nuovi significati sia correggendo ciò in cui crede”. Ora, i modernisti affermavano in genere la loro fede nei dogmi insegnati dalla Chiesa e tuttavia li volevano mantenere aperti alla possibilità di “nuovi significati”, da esplorare con il contributo del pensiero moderno, forte delle sue metodologie scientifiche. Ma un dogma che ammetta, da parte di teologi e fedeli, la ricerca continua di una “verità ulteriore” rispetto a quella da esso proclamata, non è più un dogma. I modernisti non sembravano rendersi conto dell’intima contraddizione nella quale erano caduti, irrisolvibile per chi aveva fatto causa comune con il soggettivismo e l’immanentismo del pensiero moderno, nemico del principio di identità e non-contraddizione. Essi si trovavano anche disarmati di fronte all’empirismo brutalmente positivista della scienza moderna, che dovevano subire acriticamente, rifugiandosi nell’irrazionale (si pensi alla popolarità che godeva presso di loro quella torbida manifestazione della “vita” rappresentata dalla teosofia).
Oggi, AD 2015, l’errato concetto di verità come semplice adattamento alla “vita” e quindi ai costumi del Secolo miscredente, anche i peggiori, viene professato dalla parte deviata della Gerarchia cattolica (non si saprebbe quale altro aggettivo attribuirle) in modo solo in apparenza differente. Infatti, non si parla di adottare nuovi concetti o di ricavare “verità ulteriori” dai dogmi; anzi, si proclama l’intangibilità della dottrina. Tuttavia, si invoca l’applicazione di una pastorale che la contraddice apertamente, come è evidente nel caso clamoroso della recente proposta di amministrare la S. Comunione ai divorziati risposatisi, cioè a fedeli viventi consapevolamente ed apertamente in una situazione di peccato mortale e di pubblico scandalo, in spregio al Vangelo e agli insegnamenti del Magistero, situazione dalla quale non intendono uscire e che vogliono anzi veder riconosciuta proprio mediante atti quali la somministrazione della Comunione. Concedere la Comunione a costoro vorrebbe dire disconoscere nei fatti l’indissolubilità del matrimonio, stabilita ipsis verbis da Nostro Signore Gesù Cristo, legittimare il tradimento e l’adulterio, violare la dottrina cattolica sul Sacramento della Comunione, che prescrive l’aver ricevuto l’assoluzione dei propri peccati nella confessione auricolare, prima di accostarsi all’Ostia consacrata, se non si vuol commettere sacrilegio. Ora, invocare una pastorale che contraddice apertamente la dottrina della fede, che altro è se non proporre una nuova dottrina, svincolata dal dogma e ad esso contraria? La nuova dottrina è già nell’infame proposta! E questa nuova dottrina che altro è se non una “perversione della nozione dell’eterna verità”, come spiegava san Pio X a proposito dei modernisti da lui giustamente condannati e cacciati dalla Chiesa?
6. Il tentativo di eliminare il concetto di “causa formale” dalla definizione del dogma della giustificazione.
Si è visto che Bouillard dichiarava apertamente nel 1944 potersi ed anzi doversi sostituire la nozione aristotelico-tomistica di “causa formale”, impiegata dal Concilio di Trento nella definizione del dogma della giustificazione (sess. 6, capp. 6, 7 e can. 10).
“Forse per il fatto stesso – scriveva – dell’impiego di questo termine, il Concilio di Trento ha conferito un carattere definitivo alla nozione di grazia come forma [à la notion de grâce-forme]?” In nessun modo, rispondeva. E perché? Perché “non era certamente intenzione del Concilio canonizzare una nozione aristotelica e nemmeno una nozione teologica concepita sotto l’influenza di Aristotele. Esso voleva solamente affermare, contro i protestanti, che la giustificazione è un rinnovamento interiore [mentre per gli eretici essa resta esteriore, dipendendo solamente dalla nostra fede nei meriti della Croce, senza che ad essa consegua il nostro rinnovamento interiore, ritenendo erroneamente Lutero esser l’uomo irrimediabilmente corrotto dal peccato originale]”. Perciò il Concilio di Trento, continuava il Nostro, si era limitato ad “utilizzare nozioni comuni alla teologia del tempo. Ma ad esse se ne possono sostituire delle altre, senza modificare il senso dell’insegnamento del Concilio”.
Dunque, l’uso di nuovi concetti (che sono sempre quelli del “proprio tempo”, come percepito nell’esperienza “vitale” del soggetto) non modificherebbe il senso dell’insegnamento e quindi non inciderebbe sul dogma. Si tratterebbe di cambiare la forma senza incidere sul contenuto, il rivestimento esteriore non la sostanza della dottrina, per esprimermi nel posteriore linguaggio della roncalliana Allocutio, sopra ricordata (essa propugna anche quest’ulteriore e pericoloso, non cattolico principio, come tutti sanno). Bouillard riteneva evidentemente possibile trovare dei nuovi concetti teologici, svincolati dalla metafisica classica, che non modificassero il senso dell’insegnamento.
La concezione di Bouillard implicava chiaramente una concezione evolutiva della verità, da applicarsi al dogma. Perché proponeva il cambiamento di concetti? Perché – questo era il suo principio generale – ogni definizione dogmatica si esprime sempre secondo concetti del proprio tempo: ne consegue, allora, che il Concilio di Trento ha usato la categoria aristotelica in questione solo perché era corrente al suo tempo, non perché volesse dare un “carattere definitivo” alla sua definizione. Ma far intendere una cosa del genere, non è come dire – osservo – che non esiste un concetto di verità che sia indipendente dalle necessità e dalle idee dominanti al proprio tempo e quindi che possa esser definito in modo da acquistare un “carattere definitivo”? E se non può mai acquistare tale carattere, allora la verità è perpetuamente in evoluzione. Dovremmo poi ritenere che anche i Padri di Trento fossero convinti del fatto che il concetto del vero è sempre figlio delle necessità del proprio tempo e quindi non può acquisire mai un carattere “definitivo”, dal momento che essi hanno usato della categoria aristotelica solo perché era ancora in voga a quell’epoca? Sembrerebbe di sì, dalle parole di Bouillard.
Ma attribuir loro, anche implicitamente, un’intenzione simile è palesemente assurdo, come ognuno può ben capire. E difatti Garrigou-Lagrange ha buon gioco nel replicare che il Tridentino non si preoccupava di canonizzare concetti aristotelici in quanto tali. Invece, esso approvò l’impiego di quel concetto (della “causa formale”) “come una nozione umana stabile, nel senso nel quale noi tutti [senza saper nulla di Aristotele] indichiamo ciò che costituisce formalmente una cosa: qui, la giustificazione. In questo senso il Tridentino parla della grazia santificante [che è la causa formale della giustificazione] distinta dalla grazia attuale, specificando che essa è un dono sovrannaturale, infuso, che inerisce all’anima e per il quale l’uomo è formalmente giustificato [cioè considerato alla fine giusto da Dio e accolto nel Suo Regno: DS, 1529,1560]”. Se i Concili, prosegue Garrigou-Lagrange “definiscono la fede, la speranza, la carità come delle virtù permanenti, il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante) deve anch’esso esser inteso come un dono infuso permanente e pertanto distinto dalla grazia attuale [che è temporanea] o da un influsso [motion] divino transitorio”.
La replica di Garrigou-Lagrange mi sembra ineccepibile. Il Tridentino non voleva certamente mettersi a filosofare e tuttavia voleva giustamente servirsi di una “nozione umana stabile”, non soggetta a mutamenti od evoluzione checchesia. E questa nozione è quella di “ciò che costituisce formalmente una cosa”. Formalmente, in che senso? Non nel senso di esteriormente, l’unico oggi attribuito all’espressione, ma in quello della compiutezza di ciò che si configura come esistente, si tratti di realtà sensibile o spirituale. E quindi, nel senso di ciò che si costituisce secondo la sua forma specifica, quella che ne esprime compiutamente la natura o essenza. Come quando diciamo che la forma-uomo, nella quale si esprime la sua natura di uomo, individua l’uomo rispetto a tutto il resto (forma dat esse rei).
È stato Aristotele a cogliere questo significato nel concetto della forma. Nelle celebri pagine della Fisica nelle quali espone i quattro tipi di causalità, egli dice che nella natura si ha sempre la “forma e il modello” grazie al quale ciò che è nella natura è ciò che è[16]. La “forma” di una cosa è, pertanto, da un certo punto di vista, “causa” di una cosa. Gli Scolastici hanno poi chiamato “causa formale” l’azione causale di questa “forma”. Nell’esempio di scuola, la forma della coppa d’argento è l’idea o modello in base al quale viene plasmato l’argento, che è causa materiale della coppa stessa, essendone nell’esempio la materia da cui viene tratta. La materia viene costituita in un ente od oggetto secondo una forma che è il modello (qui, la coppa) su cui la materia si plasma, ad opera dell’artefice (causa efficiente) per un determinato fine (causa finale). Essa è dunque causa del fatto che l’argento assume quella determinata forma, la forma di quella coppa.
La causa formale non è qualcosa di secondario o accidentale, che può esserci o non esserci: la forma è intesa qui nel senso dell’idea o modello, di quell’immagine in base alla quale la materia viene organizzata (l’immagine o idea ha infatti necessariamente una forma). Senza di essa la materia resterebbe appunto informe, un caos senza capo né coda e non potrebbe nemmeno esser causa di nulla. La causa formale è all’opera in tutta la realtà sia organica che inorganica ed opera già dentro il mondo della materia. L’elettrodinamica quantistica ha rivelato la straordinaria stabilità della materia (secondo precise simmetrie) anche nel suo più intimo sostrato, costituito dal mondo delle particelle subatomiche, stabilità che è il risultato di un ordine (una forma) che può originarsi solo dall’azione di una causa formale e quindi dall’azione consapevole di un Agente. Pertanto, possiamo dire che la realtà materiale, biologica, della pianta implica l’idea o la forma ad essa anteriore della pianta; la realtà fisica, biologica dell’uomo, l’idea dell’uomo. La materia necessita di una forma determinata nella quale attuarsi e quindi di una causa formale che, come tale, è qualcosa di diverso dalla materia stessa e la precede. Infatti, una cosa è la materia di cui è fatta la coppa, altra cosa l’idea stessa della coppa, per cui la coppa reale va concepita come una sintesi di materia e forma.
Tornando al nostro argomento, la “materia “ è qui del tutto spirituale, è l’anima dell’uomo. Essa deve assumere quella forma gradita a Dio, che è costituita dalla perfezione interiore, se vuole esser giustificata e salvarsi. E come raggiunge l’uomo questa forma, come riesce ad essere ciò che deve essere in relazione al fine per il quale l’uomo è l’uomo? Ovvero in relazione al fine della salvezza, che gli consente di godere per l’eternità della Visione Beatifica? Con le sue sole forze? Impossibile, ci insegna la dottrina della Chiesa (“Senza di Me non potete far nulla”, Gv 15, 5). L’ottiene mediante l’opera della “grazia santificante”, causa formale della giustificazione. La Grazia santificante, inerendo gratuitamente alla nostra anima, integra in modo decisivo l’azione del nostro libero arbitrio, costituendoci formalmente come ciò che dobbiamo essere secondo la nostra vera natura, di esseri creati da Dio per regnare un giorno con Lui “in patria”, cioè in Cielo: costituendoci cioè come giusti, secondo la terminologia tradizionale.
Ora, si chiede Garrigou-Lagrange, come è possibile mantenere il senso di questo insegnamento del Tridentino, cioè che “la grazia santificante è la causa formale della giustificazione”, se “si sostituisce una diversa nozione a quella di causa formale?”. Non è possibile. Lo possiamo ben confermare noi, dopo cinquant’anni di interpretazioni pastorali del dogma, aggiornate alle esigenze della “vita” ossia del sentimento e del pensiero del “proprio tempo”, che è il sentire, il pensare moderno, improntato al principio d’immanenza, notoriamente avido di ogni sperimentazione e novità, anche in campo etico: la maggioranza dei cattolici crede oggi che il male non esista, che tutti gli uomini siano già stati giustificati dall’Incarnazione di Cristo Nostro Signore. Tutti salvati. Todos caballeros. La salvezza si è già realizzata per tutti e l’Inferno (se esiste) è in realtà vuoto.
7. La ripulsa del concetto della “sostanza” per eliminare quello della transustanziazione dell’Ostia consacrata, sostituita dal simbolo di una “presenza spirituale” e non più “reale”.
Si è visto che gli anonimi diffusori di ciclostilati pieni di veleno contro la dottrina della Chiesa non accettavano più il concetto della sostanza, perché di origine aristotelica, appartenente quindi ad una filosofia da considerarsi superata. Pertanto il pane e il vino consacrati (“in virtù dell’offerta che ne è stata fatta”, dicevano gli anonimi) non mutano la loro sostanza ma solamente il loro significato. Diventano il “simbolo efficace” del Sacrificio di Cristo, ma simbolo della sua “presenza spirituale”. Anzi, simbolo della sola presenza spirituale, che non è certo quella (reale) definita a Trento come “corpo, sangue, anima e divinità”.
Il termine “presenza spirituale” è piuttosto vago ed è tipico degli eretici, applicato alla Consacrazione; nel senso che essi, ove ammettano forme di consacrazione, attribuiscono loro unicamente l’effetto di far acquistare al pane e al vino un “significato” nuovo, meramente simbolico, della “presenza spirituale” di Cristo o del suo Sacrificio. Queste concezioni eretiche sono state riprese da tutte quelle teorie che in ambito cattolico, dopo il Vaticano II, hanno tentato di reinterpretare la transustanziazione in termini di “trans-significazione” e simili, applicandovi nozioni correnti nel pensiero contemporaneo, tratte ad esempio dalla fenomenologia.
7.1 Transustanziazione e sostanza. Niente transustanziazione, dunque. O comunque stravolta nel suo significato. Oggi, con la crisi delle fede che c’è, quanti sono i sacerdoti che ancora vi credono effettivamente? Questa ripulsa della transustanziazione ha un presupposto metafisico: la ripulsa dell Scolastica perché legata alla metafisica e alla fisica di Aristotele. Distrutta completamente la seconda dalla scienza moderna (così si crede), viene a cadere anche la prima. Viene allora a cadere anche il concetto della sostanza, che appartiene alla fisica ma anche alla metafisica dello Stagirita.
Perché la Chiesa ha scelto ad un certo punto questo concetto di transustanziazione? È un parolone, di origine erudita, adottato nel Medio Evo per spiegare ancor meglio (contro le eresie) il miracolo della “conversione” totale del pane e del vino nel corpo e nel sangue, nell’anima e nella divinità di Nostro Signore in conseguenza della Consacrazione delle sacre specie operata dal sacerdote, agente in persona Christi grazie al potere dell’Ordine di cui è investito, che gli permette di attuare la rinnovazione incruenta del Sacrificio cruento del Calvario. Se la parola sembra intimorire, il concetto che essa esprime è tuttavia molto semplice e chiaro: il mutamento completo della sostanza di una cosa, mutamente in questo caso non percepibile dall’esterno. La “cosa” è qui il pane, il vino. In seguito alla Consacrazione, pur mantenendo il loro aspetto esteriore immutato, mutano tuttavia completamente la loro sostanza e divengono “corpo, sangue, anima e divinità” ossia “presenza reale” di Nostro Signore.
Questo mutare, convertirsi in altro da ciò che si era, è un mutare di sostanza, un trans-mutare: un andare al di là (trans) sino al punto da trans-sostanziare, se così posso dire, al punto da convertirsi in un’altra sostanza. Ma sempre conservando la forma esteriore intatta, nel nostro caso. L’avverarsi di questo fatto ad ogni Santa Messa validamente celebrata, lo crediamo per fede. Ed è stato confermato da alcuni noti miracoli eucaristici. Per capire il concetto della transustanziazione, che spiega il fatto nella sua dinamica, non occorre comunque aver studiato filosofia e tanto meno Aristotele. Anche nel parlar comune delle persone meno colte si usa la differenza tra la sostanza e l’apparenza, sia in senso proprio o materiale, che in senso figurato: “questo cibo è privo di vera sostanza, anche se si presenta ben cotto”; “la sostanza della cosa è diversa da come sembra”; “in sostanza, si tratta della stessa cosa, nonostante le apparenze diverse”; e così via.
Considerando il concetto della sostanza solo in relazione alle cose materiali, non v’è dubbio che tra la sostanza e l’aspetto esteriore delle cose stesse noi stabiliamo ora concordanza ora opposizione mediante l’indagine del nostro intelletto, che sempre scruta, osserva, distingue ed unifica a seconda dei casi. Aristotele ha definito la sostanza degli esseri (ousia, in greco) in se stessa e in relazione ai concetti di essenza, sostrato materiale, materia, accidenti o qualità degli esseri o enti che dir si voglia. Come definizione della sostanza si cita in genere un passo della Metafisica: la sostanza “è ciò che è in sé e non in altro” (Met., 1046 a 26). Vale a dire ciò che trova in se stesso la sua propria ragion d’essere, non in qualcos’altro. San Tommaso ha approfondito il concetto in un noto passo della Summa: “Illa enim subsistere dicimus, quae non in alio sed in se existunt” (Ia , q. 29 a 2c: “Diciamo infatti che sussistono quelle cose che esistono in se stesse, non in altro”). Non la semplice esistenza delle cose ma il loro esistere in quanto sussistenti in loro stesse ; la loro sussistenza, concetto che rispecchia il sussistere della “sostanza” nel senso aristotelico del termine; l’esser in sé che è la sostanza, come esser uno e indipendente di quell’ente specifico, quale esso sia, è “ciò che esiste in sé” come quella realtà che è solo sua e non si confonde mai con altro. Tale “sussistere” non è pertanto meramente descrittivo, ma indica l’esistere di ciò che si pone come sostanza ossia realtà in sé determinata ed indipendente, solo sua e non confondibile con altra. Il “sussistere” delle cose è quindi l’esistere secondo la propria sostanza specifica, grazie alla quale abbiamo le differenze qualitative tra tutti gli enti esistenti. Nell’ambito materiale, non possiamo infatti confondere tra loro uomini, animali, piante, insetti, carne, sangue, etc. Il pane e il vino, che qui ci interessano in modo particolare, sono il risultato di una modificazione apportata dal lavoro dell’uomo a certi prodotti della natura, che di per se stessi sono già degli enti o cose determinate secondo la loro natura specifica, che si configura come la loro ousia o substantia, tale da non permettere di confonderli in nessun modo (l’uva, il grano).
Del pane in quanto cosa finita e determinata dobbiamo dunque ammettere che ha una natura che è solo sua, che è, in quanto pane, ciò che è in sé e giammai in altro, per esprimerci alla maniera di Aristotele, e quindi sussiste individualmente in atto secondo questo suo esser in sé ciò che è, nella sua specifica individualità, per esprimerci alla maniera di san Tommaso. Il termine greco e ancor più quello latino rinviano anche all’idea della sostanza come sub-stans, sub-sistit rispetto all’apparenza che pur si riscontra nella medesima cosa della quale la sostanza è sostanza: la sostanza è ciò che sta sotto, ciò che costituisce l’essenza della cosa stessa, la sua natura più profonda, e si mantiene inalterato pur nel mutare degli “accidenti” (termine delle Scuole) o qualità esteriori che lo caratterizzano in quanto ente concreto, in quanto individuo (uomo, animale, pianta con i loro “accidenti” o qualità) o comunque in quanto realtà determinata, indipendente, che può esser anche quella di un ente collettivo, come la Chiesa, onde si parla di sostanza in senso spirituale, ma non per questo meno reale (la sostanza della Chiesa consiste nell’essere il Corpo Mistico di Cristo).
Come esempio dell’immutabilità della sostanza, pensiamo all’essere umano. La sua natura profonda e sostanza specifica la chiameremo humanitas: ciò che fa esser l’esser umano uomo e donna e non animale, pianta, insetto, frutto, minerale, etc.; e che non muta pur nel mutare degli accidenti o qualità esteriori e persino interiori, onde diciamo che un vecchio, nonostante l’indebolirsi (il mutare) delle sue capacità fisiche e mentali, non è certo meno uomo di un giovane, perché la sua sostanza di uomo, la sua humanitas rimane inalterata. Ora, in questa costruzione concettuale che cosa c’è di sbagliato, da doverla rifiutare, in nome della scienza moderna? Si potrà dire che nel concetto della sostanza resti qualcosa di indimostrabile, del quale lo stesso Aristotele era perfettamente consapevole. Disse infatti che della sostanza “non si dà dimostrazione” (Met. 997 a, 14). E difatti, per restare al pane, come “dimostro” che la sostanza del pane, ciò per cui esso è pane e non altro, è nient’altro che il semplice fatto dell’esser pane? La “dimostrazione” è in un certo senso nella cosa stessa, nel suo sussistere in atto, individualmente determinata e distinta di fronte a me, direbbe un san Tommaso, con le sue caratteristiche specifiche, uniche. La negazione dell’esistenza della sostanza mi ricorda quella dell’esistenza dell’anima da parte dei materialisti dell’Ottocento: facendo l’anatomia del corpo umano, dicevano, non si trova niente che possa apparire come anima: l’anima dunque non esiste.
7.2 La fisica contemporanea nega l’esistenza della sostanza. Ma si può dire che tale concetto sia insostenibile alla luce delle scoperte della scienza contemporanea, che ne avrebbe dimostrato la falsità e comunque l’inutilità? E in ogni caso: quid ad nos? Voglio dire con questo: qualsiasi cosa la fisica contemporanea pensi della struttura della materia, non ci impedisce di credere ad un evento soprannaturale come la transustanziazione, che produce una trasformazione radicale della natura del pane e del vino mediante una causa che agisce sovrannaturalmente all’interno della natura stessa perché costituita questa causa (efficiente) da Dio stesso, che ha creato la natura e le sue leggi.
La fisica contemporanea, costretta in gran parte dalle sue stesse scoperte, è tornata a professare un sostanziale atomismo, dal momento che la struttura intima della materia appare costituita dall’universo quantico, dal mondo delle particelle subatomiche. Sin dall’inizio del secolo scorso si è discettato sulla fine del concetto della sostanza in fisica e sulla sua sostituzione con quello della “funzione”. Il neo-kantiano Ernst Cassirer scrisse nel 1910 un saggio al tempo importante su questo tema, intitolato proprio “Concetto di sostanza e concetto di funzione”. Il brillante matematico Hermann Weyl, uno dei tanti seguaci di Einstein, scrisse nel 1923 un saggio (all’epoca molto citato) sulla natura della materia, nel quale attaccava a fondo il concetto di sostanza in fisica, dichiarandolo ormai tramontato, impossibile da applicarsi di fronte alla realtà svelata dal mondo delle particelle, inquadrabile solo secondo il ben noto “principio di indeterminazione” che rende praticamente impossibile applicare la categoria della causalità al modo della fisica classica. Anche se ciò, osservo, sembra dipendere più che altro dalla limitatezza dei nostri strumenti: se determiniamo la posizione dell’elettrone non possiamo simultaneamente coglierne la velocità e viceversa, ragion per cui dobbiamo elaborare delle misurazioni su base statistica, che non sono false ovviamente, ma solamente non precise come richiederebbero la meccanica classica e la natura stessa della cosa.
In questa sede non posso addentrarmi in un’analisi particolareggiata. Mi limito ad alcune considerazioni di carattere generale, sperando che qualcuno le ritenga meritevoli di approfondimento. Weyl, pur criticando qua e là Aristotele, per il suo approccio metafisico, partiva da Kant, il quale, pur scorgendo nella “movibilità” la caratteristica della materia, ancora accettava pienamente il concetto della sostanza come permanere immutabile della materia al di là del carattere mutabile dei fenomeni con i quali essa si presenta a noi. Nella stabilità della materia la materia stessa appariva come sostanza, che è per definizione l’immutabile essenza dell’ente individualmente determinato. Ora, scriveva Weyl, in tutte le concezioni della sostanza, sin dai tempi di Aristotele, si nota questo schema concettuale: si ammette un soggetto o ente “portatore” (Träger) di determinati fenomeni che resta sempre immutato pur nel variare dei fenomeni. Il “portatore” sarebbe appunto la “sostanza”, che mai non muta. Ma questo “portatore”, si chiedeva Weyl, dov’è mai, se la materia è in realtà composta di atomi ed anzi (diciamo oggi) di particelle subatomiche in perenne movimento? Gli atomi, sottolineava Weyl, “sono individui separati” sempre in moto, separati quantitativamente non per le loro qualità, come se fossero sostanze. Sono le combinazione di queste “quantità” a creare le qualità che appaiono nelle cose. E come si può mantenere l’immutabilità della materia (e quindi il concetto della sostanza) nel moto continuo delle particelle che la costituiscono? Questo mondo di particelle, che a noi appare anzi dominato dal Caso, si può spiegare solo in termini di “funzioni”; funzioni matematiche, ricavabili dalle rilevazioni statistiche delle proprietà del mondo quantico, grazie al calcolo infinitesimale. Al posto della “sostanza” allora la “funzione”, l’equazione che stabilisce matematicamente il rapporto tra il quantum di energia e l’onda elettromagnetica che esso stesso costituisce, le leggi statistiche dei “pacchetti di onde”. In conclusione: il neo-atomismo professato dalla fisica contemporanea e confermato dalle scoperte, renderebbe impossibile il concetto stesso della sostanza. Pertanto: basta con il dogma della transustanziazione, non esiste una “sostanza” da “transustanziare”! Questo il pensiero dei vari Teilhard de Chardin, de Lubac e compagnia cantante. Weyl scriveva: “la materia non è sostanza che si è fatta carne”[17].
Chiosava Cassirer, in un altro suo lavoro sulla filosofia della fisica moderna: “che la materia non possa più pretendere di essere “sostanza incarnata”, ciò risalta chiaramente [secondo quest’impostazione] nel passaggio alla teoria del campo. Il campo [elettromagnetico] infatti è un insieme di pure azioni, di pure relazioni fra “linee di forza” [dell’energia] che non sono più legate necessariamente a un substrato materiale, bensí definiscono l’accadere fisico quasi in libera congiunzione reciproca. Nella teoria del campo, come ha detto Weyl, in un certo senso il continuo spazio-temporale si è addossato il concetto della sostanza”[18]. E questo era proprio il punto di vista dello spinoziano Einstein, che (senza riuscirvi) cercò per tutta la sua lunga vita di estendere il concetto del “campo” all’intera realtà fisica, in modo da poter concepire quello che chiamiamo l’oggetto o l’individuo determinato, l’ente con la sua sostanza e le relative qualità, come un semplice aumento di densità dell’energia di campo, privo quindi di vera e indipendente sostanzialità: una sorta di increspatura nello spazio curvo della materia-energia illimitata ma finita che costituirebbe il cosmo.
Ma si può accettare l’idea che “il continuum spazio-temporale” ossia il campo, nelle sue varie accezioni, dal campo elettromagnetico a quello gravitazionale, si sostituisca al concetto della sostanza, sempre riferito alla materia? È possibile “definire l’accadere fisico” come “un accadere in libera congiunzione reciproca”? Libera “congiunzione” di che cosa? Delle sterminate energie del “campo”, che per ogni punto delle “linee di forza” che costituirebbero l’universo, si incrociano infinite estendendosi all’infinito con i loro pacchetti d’onde, determinabili solo attraverso il calcolo di “funzioni” matematiche di enorme complessità ed astrattezza? In questo modo, la realtà fisica effettiva, quella corposa del nostro mondo e dello stesso universo, non sembra perdere ogni connotato reale e scorrerci tra le dita come energia (è il caso di dire) che si cerchi di afferrare con le mani?
7.3 La negazione della sostanza contraddice la stabilità della materia e dell’energia. Il fatto è che, sostituendo “il campo” alla “sostanza” si rende la realtà empirica incomprensibile. Concependo gli eventi del mondo fisico come “libera congiunzione reciproca” delle onde di energia o, più modernamente ancora, come “un mondo di avvenimenti, non di cose”[19], come se le “cose” potessero scomparire, sostituite dall’avvenimento, un avvenimento che però non lo è di una cosa [!], si trascura il fatto che la stabilità della materia è una realtà impossibile a negarsi. Essa si fonda a sua volta sulla stabilità dell’energia. E dove c’è s t a b i l i t à c’è la sostanza, poiché solo ciò che sussiste non dipendendo da altro per essere ciò che è (ossia la sostanza), può esser stabile nel mutare dei suoi componenti o accidenti.
Nel suo libro autobiografico Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1920-1965, dedicato agli “incontri” con gli scienziati protagonisti della fisica contemporanea, Werner Heisenberg, a sua volta “protagonista”, mette in bocca queste riflessioni a Niels Bohr, nel periodo 1920-1922, nell’ambito di una discussione sulla “peculiare stabilità della materia quando venga esposta ad agenti esterni”.
“Col termine ‘stabilità’ intendo indicare il fenomeno per cui le stesse sostanze hanno sempre le stesse proprietà: cristallizzano sempre nello stesso modo, reagiscono con altre sostanze secondo modalità sempre uguali…In altre parole, un atomo di ferro, per quanto sottoposto ad ogni sorta di manipolazioni e combinazioni, resta sempre un atomo di ferro, con le stesse proprietà... La natura tende a produrre forme specifiche – naturalmente il termine ‘forme’ va inteso nell’accezione più generale – e a riprodurre queste forme ogni volta che esse vengono modificate o distrutte. È quanto avviene in biologia: pensi alla stabilità degli organismi viventi, a come le strutture più complesse si riproducono sempre uguali, specie per specie…Pensiamo invece alle strutture più semplici delle quali si occupano la fisica e la chimica. L’esistenza di sostanze uniformi e di strutture stabili – i corpi solidi, ad esempio – dipende dalla stabilità degli atomi”[20].
Ora, se un atomo di ferro resta sempre tale nonostante le manipolazioni che possa subire, ciò significa che un qualsiasi pezzo di ferro mostra di possedere quella stabilità, derivantegli dalla coesione dei milioni di atomi di ferro che lo compongono, che permette, sul piano del concetto, di individuare l’esistenza della ferrinitas ossia della sostanza del ferro in quanto tale. O, se preferisce, l’esistenza del ferro come sostanza di un ente in sé e per sé determinato, distinto da tutto il resto.
E per la stabilità della materia organica dovremmo forse ragionare diversamente? Non si vede perché. Il grano, l’uva, il sangue, la carne, il frutto, l’animale etc. per tutta la durata del ciclo vitale cui è sottoposto l’organico (assai più breve dell’inorganico) mantengono sempre la loro stabilità, che è quella delle molecole e degli atomi che li costituiscono: mantengono quindi la loro sostanza, che ne individua e mantiene la differenza con ogni altro ente, diverso da loro stessi.
Tuttavia, potrebbe osservare qualcuno, se si deve ammettere che la materia è stabile, non dobbiamo forse ammettere che l’energia non lo è, a causa del suo moto perpetuo, che a noi appare sottoposto al principio di indeterminazione e in definitiva al Caso? Ma il mondo delle particelle subatomiche, che a noi può sembrare caotico, possiede anch’esso la sua stabilità.
Einstein teorizzò l’esistenza del “fotone” ossia della struttura quantistica del raggio luminoso, ipotizzando che l’energia di ogni fotone fosse inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda, cosa poi dimostrata dalle misurazioni. A partire dalla scoperta di Einstein consideriamo la radiazione luminosa come composta di “fotoni”. Ma quale sarà il rapporto tra il tutto e la parte ossia fra il “treno d’onde”, come si suol dire, e i singoli fotoni che lo compongono? Si tratta di un rapporto ordinato in un certo e stabile modo: l’energia del treno d’onde è sempre un multiplo di una quantità definita ovvero dell’energia di un “singolo fotone”. I fotoni hanno massa uguale a zero e carica elettrica uguale a zero, tuttavia possiedono energia, momento, spin di rotazione nella direzione del moto. E come avviene l’interazione fra queste particelle e i nuclei atomici? Avviene a un “quanto” alla volta. Ciò si deduce dal fatto che la luce di oggetti posti nello spazio a 10 miliardi di anni luce ci raggiunge perfettamente. La trasmissione della luce nello spazio mostra dunque la presenza di un ordine, di una stabilità non inferiore a quella della materia, con le sue sostanze. Un altro esempio di ordine stabile nel mondo dell’energia è il seguente: La densità media della carica elettrica è zero in tutto l’universo. Se la terra e il sole avessero un eccesso di cariche positive sulle negative e viceversa pari a una parte su 1036 [1 seguito da 36 zeri, 6 volte un milione], la repulsione elettrica tra di loro sarebbe più grande dell’attrazione gravitazionale. Inoltre: l’energia totale delle particelle che entrano in collisione si conserva sempre, anche se ci può essere uno scambio di energia tra una particella e l’altra[21]. Altri esempi si potrebbero addurre.
La materia e l’energia trapassano l’una nell’altra ma sono state costituite entrambe secondo un ordine che permette di parlare per l’una e per l’altra di una stabilità che sempre si mantiene. E per la materia la stabilità ci conduce al concetto della sostanza, che pertanto conserva diritto di cittadinanza in fisica.
È evidente che il neo-atomismo impostoci dalla scienza contemporanea non ci obbliga a rinunciare al concetto della sostanza e per logica conseguenza al dogma della transustanziazione, che quel concetto presuppone. Ci obbliga a precisarne ancor meglio il fondamento, servendosi proprio delle scoperte della scienza moderna. Le quali dimostrano che è in realtà impossibile rinunciare al concetto della sostanza; tale rinuncia provocherebbe quella del concetto di “stabilità della materia”, con il risultato di rendere incomprensibile la realtà, che si dovrebbe allora considerare nient’altro che un coacervo caotico di particelle, senza capo né coda.
Naturalmente, il discorso deve esser ulteriormente approfondito, introducendovi (come fa giustamente Aristotele) il principio di causalità, nelle sue varie forme, dal momento che “ciò che è in sé e non in altro”, lo è sempre in conseguenza dell’azione di una causa efficiente che opera secondo un fine e quindi in relazione ad una causalità finale, che in ultimo risale sempre a Dio. La presente nota mi sembra comunque sufficiente per una prima confutazione degli errori circolanti, che dalla filosofia trapassano poi nella teologia, cadendo infine nell’eresia.
8. Domanda finale: perché l’autorità suprema non ha saputo combattere il risorgente modernismo, di chi soprattutto la colpa? Risposta: del successore di Pio XII, Giovanni XXIII.
Il lettore si chiederà a questo punto: ma l’autorevole e documentata denuncia di Garrigou-Lagrange è rimasta inascoltata? In realtà, non lo è stata. Il Papa allora regnante, Pio XII, intervenne dopo qualche anno con la famosa enciclica Humani generis, del 12 agosto 1950, definita da qualcuno (Romano Amerio) “il terzo sillabo”. In essa, il Romano Pontefice denunciava “alcuni gravi errori contro la fede cattolica, particolarmente dannosi se professati o insegnati da docenti cattolici, nelle scuole cattoliche”. L’enciclica, come è noto, censurava numerosi indirizzi del pensiero moderno e metteva sotto accusa, pur non chiamandoli per nome, quei teologi che avevano l’errata ed assurda pretesa di “esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema”. Riprovava inoltre altre storture che si professavano in campo esegetico e liturgico. Invitava infine le autorità competenti a prendere gli opportuni provvedimenti. E difatti, i vari de Lubac, Bouillard, Rahner, Congar, Küng e sodali furono costretti al silenzio, sospesi dall’insegnamento, le loro opere tolte dalla circolazione. Ma il linguaggio dell’enciclica era moderato, non si pronunciavano condanne solenni, non si facevano nomi, i provvedimenti contro i teologi fedifraghi furono in genere presi in modo informale. Costoro si misero comunque a recitare la parte dei perseguitati senza abiurare uno che fosse uno dei loro numerosi e gravi errori. Tacquero ed attesero, forti delle protezioni di cui pur godevano presso ben noti cardinali austro-tedeschi, alcuni dei quali poi esponenti di spicco della fazione neomodernista al Concilio. E difatti le cose cambiarono completamente con il pontefice successivo, Giovanni XXIII, l’uomo del “dialogo”. Asceso al sacro soglio nell’autunno del 1958, nel gennaio del 1959 indisse il Concilio, in seguito, disse, ad un’improvvisa ispirazione dello Spirito Santo. Ora, il concilio preparato in tre anni di duro lavoro dai teologi della Curia, ascoltati i pareri di tutti i vescovi che avessero voluto darli, sotto la supervisione del Papa, del cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio e del segretario di quella Congregazione, il gesuita olandese P. Sebastian Tromp, non si contrapponeva di certo alla Humani generis; anzi, ne ampliava e perfezionava l’impostazione. In almeno due degli schemi di costituzione dogmatica, la condanna degli errori moderni, sui quali faceva leva il risorgente modernismo, era ampia, articolata, netta e radicale, anche se espressa con i toni sfumati imposti dall’irenismo professato da Roncalli. E ugualmente netta era la censura delle deviazioni che si andavano profilando nell’esegesi e nella teologia cattoliche. Si batteva in breccia anche la corruzione dei costumi che cominciava a diffondersi nella società consumistica (edonismo di massa e rivoluzione sessuale agli inizi). Se il Concilio avesse potuto seguire il suo naturale e doveroso corso di concilio dogmatico, ben preparato com’era stato dai migliori teologi ortodossi, sì da potersi concludere con le opportune condanne solenni dei numerosi errori circolanti, per i neomodernisti sarebbe stata una disfatta di proporzioni immani, forse definitiva. Invece essi, rappresentati in Concilio dai ben noti cardinali della cosiddetta “Alleanza europea” (e più esattamente renana: franco-belga-olandese-tedesca-austriaca) con appendici in Italia (Montini, Lercaro), Sud America (Câmara) e Nord America; pur essendo una minoranza, riuscirono a rovesciare la situazione grazie all’acquiescenza complice di Papa Roncalli. Ciò risulta dai seguenti fatti, che espongo qui succintamente:
- Giovanni XXIII permise che nella fase preparatoria fossero inseriti tra gli esperti o “consultores” della commissione che si occupava dello schema di costituzione sulla riforma liturgica, proprio i teologi censurati e costretti al silenzio sotto Pio XII per le loro cattive e mai ritrattate dottrine. Notò lo storico Levillain: “La composizione di questa commissione faceva vedere che si era praticata una larga apertura. Tra i consultori si notava la presenza dei Padri Congar, de Lubac, Hans Küng etc. Tutta la squadra dei teologi condannati implicitamente dall’enciclica Humani generis nel 1950 era stata chiamata a Roma per volontà di Giovanni XXIII. Il Concilio si apriva in un’atmosfera di riconciliazione…”[22]. Di “riconciliazione” con l’errore, bisognerebbe dire, visto che nessuno degli erranti “riconciliati” si era pentito e pubblicamente ritrattato!
- Lasciò che i cardinali novatori, con una serie di iniziali e ben studiati colpi di mano procedurali, alterassero illegalmente lo svolgimento del Concilio, riuscendo a conquistare la maggioranza nelle dieci commissioni incaricate di redigere gli schemi dei documenti da votare in aula. In tal modo furono mandati al macero tutti gli schemi preparatori, tranne quello sulla liturgia perché parzialmente gradito ai novatori, grazie anche alla massiccia presenza nella fase preliminare della sua elaborazione della torva genìa appena menzionata qui sopra, al § 1. Le nuove commissioni cominciarono a riscrivere i documenti da votare secondo un’impostazione che rivelava l’infiltrazione neomodernista. Cominciò così una dura, triennale battaglia contro la minoranza “conservatrice”, mentre la palude, cioè la stragrande maggioranza dei vescovi, stava a guardare, cercando di capire da quale parte si sarebbe schierato il Papa. Paolo VI, proseguendo nel solco tracciato da Roncalli, si schierò con i neomodernisti, dei quali per temperamento e sensibilità faceva parte (era un devoto ammiratore di de Lubac, come del resto Giovanni Paolo II, suo amico personale, che lo fece addirittura cardinale). Tuttavia, come Papa e per salvaguardare almeno in parte il potere che gli derivava (per diritto divino) dal primato petrino, Paolo VI dovette intervenire più volte per temperare certi eccessi (anche se in genere questi suoi interventi non erano spontanei ma provocati dalla pressione della minoranza che difendeva il dogma). Alla fine, pur costretta a qualche compromesso, vinse, come sappiamo tutti, la “nouvelle théologie” vanamente denunciata a suo tempo da Garrigou-Lagrange, improntando di sé non solo lo stile, l’atmosfera dei documenti conciliari ma anche le loro dottrine, ambigue ed erronee su punti essenziali della nostra fede[23].
Tutti quelli che credono poter rinascere un domani la Chiesa senza dover preliminarmente mettere in discussione e riformare o cassare il pastorale Vaticano II; senza dover passare per le fiamme di un’autentica e radicale purificazione dottrinale, errano grandemente. Sono come il moscone che va a sbattere continuamente ed inutilmente contro i vetri trasparenti della finestra chiusa che lo separa dalla libertà, non rendendosi conto della loro esistenza.
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♣ [NOTA DEL CURATORE: Si tratta del famoso e fondamentale articolo apparso sulla rivista Angelicum, 23, 1946, pp. 136-154, nel quale il grande teologo domenicano (1877-1964), esponente di spicco del neotomismo anche in campo filosofico, denunciava il riapparire subdolo del modernismo fra i teologi, a partire dall’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, in libri a stampa e in ciclostilati che circolavano anonimi tra il clero, seminando dubbi ed incertezze sulle verità di fede. L’attualità dell’articolo mi sembra fuori discussione. Le inserzioni tra parentesi quadre sono mie. Le traduzioni dal latino sono riportate in note contrassegnate da lettere: a, b, c, etc.
1. Il corsivo è nostro. [Henri Bouillard, gesuita, 1908-1981, esponente di rilievo della “nuova teologia” unitamente ai confratelli Henri de Lubac, Teilhard de Chardin etc.].
a “Negli studi di filosofia razionale e di teologia e nella formazione degli alunni in dette discipline i professori seguano interamente il metodo, la dottrina e i princìpi del Dottor Angelico, e vi si attengano religiosamente”.
2. Lo abbiamo spiegato più diffusamente in Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques, 4e éd., 1936, p. 362 ss.
3. Del resto è stato definito che le virtù infuse (soprattutto le virtù teologali), che derivano dalla grazia abituale, sono delle qualità, sono princìpi permanenti di opere sovrannaturali e meritorie; è necessario quindi che la grazia abituale o santificante (tramite la quale siamo in stato di grazia), da cui queste virtù procedono come dalla loro radice, sia essa stessa una qualità infusa permanente e non una mozione come la grazia attuale. Ora, la fede, la speranza e la carità sono state concepite come virtù infuse molto prima di San Tommaso. Cosa c’è di più chiaro? Perché perder tempo a mettere in dubbio le verità più certe e fondamentali con il pretesto di far avanzare i concetti? È un indice della deriva intellettuale del nostro tempo.
4. MAURICE BLONDEL [1861-1949] scriveva negli Annales de Philosophie chrétienne, 15 giugno 1906, p. 235: “Si sostituisce l’astratta e chimerica adaequatio rei et intellectus con la ricerca metodica in questo senso: l’adaequatio realis mentis et vitae”. Definire chimerica la definizione tradizionale della verità ammessa da secoli nella Chiesa e suggerire di sostituirla con un’altra in tutti gli àmbiti, compreso quello della fede teologale, implica una grande responsabilità. Le ultime opere di M. Blondel correggono queste deviazioni? Si è visto che non lo si può affermare. Egli scrive ancóra, L’Être et les êtres, 1935, p. 415: “Nessuna prova intellettuale – nemmeno quella dei princìpi assoluti in sé, dotati necessariamente di un valore ontologico – si impone con una certezza spontanea e infallibilmente cogente”. Per ammettere il valore ontologico di tali princìpi, bisogna operare una scelta libera. Prima di tale scelta, il loro valore ontologico è quindi solamente probabile. Ma bisogna ammetterli per le esigenze dell’azione secundum conformitatem mentis et vitae. Non potrebbe essere altrimenti se si sostituisce la filosofia dell’essere o ontologia con la filosofia dell’azione. La verità viene dunque definita non più in funzione dell’essere, ma dell’azione. Tutto è cambiato. Un singolo errore nel concetto primario di verità provoca errori a catena in tutto il resto. Vedi anche: Blondel, La Pensée (1934), t. I, p. 39, 130-136, 347, 355; t. II, p. 65 ss. op, 96-196.
b In conformità con la realtà extramentale e alle sue leggi immutabili o in conformità con le esigenze della vita umana che è in continua evoluzione?
5. Un altro teologo che citeremo più avanti ci invita a dire che all’epoca del Concilio di Trento si concepiva la transustanziazione come il cambiamento, la conversione della sostanza del pane in quella del corpo di Cristo, ma che oggi conviene concepire la transustanziazione senza tale cambiamento di sostanza, concependo tuttavia che la sostanza del pane, che resta, divenga il segno efficace del Corpo di Cristo. E si pretende ancóra di voler conservare il significato dei dogmi definiti al Concilio?
c “La verità non è immutabile più di quanto non lo sia l’uomo, poiché evolve con lui, in lui e per lui”.
d “Pervertono il concetto eterno della verità”.
e “Ammoniamo coloro che insegnano a persuadersi che l’allontanarsi anche di poco dall’Aquinate specialmente in questioni metafisiche comporta un grave danno. Un piccolo errore nei princìpi, per utilizzare le parole dello stesso Aquinate, implica grandi conseguenze”.
f “La verità non si trova in nessun atto particolare dell’intelletto, nel quale si avrebbe la conformità con l’oggetto, come dicono gli scolastici, ma la verità è sempre in divenire e consiste nella progressiva adeguazione dell’intelletto alla vita, ovvero in un certo moto perpetuo tramite il quale l’intelletto si sforza di spiegare ciò che l’esperienza partorisce o ciò che l’azione esige; in modo tale, però, che in tutto il progresso non ci sia nulla di definito o stabile”.
g “Anche dopo aver concepito la fede, l’uomo non deve riposare nel dogma della religione e aderire ad essa fissamente e immobilmente, ma deve rimanere sempre ansioso di progredire verso un’ulteriore verità, con l’evolvere verso nuovi significati, anzi anche correggendo quel che crede”.
6. Queste proposizioni condannate si trovano nel Monitore ecclesiastico, 1925, p. 194; nella Documentation catholique, 1925, t. I, p. 771 ss. e nelle Praelectiones Theologiae naturalis del padre Descops, 1932, t. I, p. 150, t. II, p. 287 ss. [L’ultima proposizione è la n. 12].
7. Il padre H. Bouillard, op. cit., p. 169 ss., giunto al nucleo del suo argomento, afferma per esempio che San Tommaso Iᵃ IIᵃᵉ, q. 113, a. 8 ad Iᵐ, circa la disposizione immediata alla giustificazione, “non fa più appello alla causalità reciproca” come nelle sue opere precedenti. Al contrario, risulta chiaro ad ogni tomista che è proprio di essa che parla San Tommaso, ed è proprio essa a chiarire tutta la questione. Del resto – ed è elementare – la causalità reciproca si verifica ogniqualvolta le quattro cause intervengono, vale a dire in ogni divenire. Qui si dice: “Ex parte Dei justificantis, ordine naturae prior et gratiae infusio quam culpae remissio. Sed si sumantur ea quae sunt ex parte hominis justificati prius est liberatio a culpa quam consecutio gratiae justificantis” [Dal punto di vista di Dio che giustifica, secondo l’ordine della natura anche l’infusione della grazia viene prima della remissione della colpa. Ma dal punto di vista dell’uomo giustificato, la liberazione dalla colpa è anteriore alla conseguenza della grazia giustificante”]. Qualsiasi studente di teologia che abbia ascoltato la spiegazione del trattato della grazia di San Tommaso articolo per articolo deve considerare che ci si trova di fronte a una verità che non è permesso ignorare.
8. Cf. Iª, q. 23, a. 1: “Finis ad quem res creatae ordinantur a Deo est duplex. Unus, qui excedit proportionem naturae creatae et facultatem, et hic finis est vita aeterna, quae in divina visione consistit: quae est supra naturam cuiuslibet creatura, ut supra habitum est Iª, q. 12, a. 4. Alius autem finis est naturae creatae proportionatus, quem scil. res creata potest attingere sec. virtutem suae naturae”. Item Iᵃ IIᵃᵉ, q. 62, a. 1: “Est autem duplex homini beatitudo, sive felicitas, ut supra dictum est, q. 3, a. 2 ad 4; q. 5, a. 5. Una quidem proportionata humanae naturae, ad quam scil. homo pervenire potest per principia suae naturae. Alia autem est beatitudo naturam hominis excedens”. Item de Veritate, q. 14, a. 2: “Est autem duplex hominis bonum ultimum. Quorum unum est proportionatum naturae... haec est felicitas de qua philosophi locuti sunt... Aliud est bonum naturae humanae proportionem excedens”. Se non si ammette più la distinzione classica tra l’ordine della natura e quello della grazia, si dirà che la grazia è il compimento normale e obbligato della natura, ma nemmeno la concessione di un tale favore rimane gratuita – come la creazione e tutto ciò che ne segue –, perché la creazione non era affatto necessaria. A questa tesi il padre Descoqs S.J. risponde molto giustamente nel suo piccolo libro Autour de la crise du Transformisme (Sulla crisi del Trasformismo), 2ª ed. 1944, p. 84: “Questa spiegazione ci sembra essere in opposizione manifesta con i dati più certi dell’insegnamento cattolico. Essa suppone anche una concezione evidentemente sbagliata della grazia. La creazione non è affatto una grazia nel senso teologico della parola. Nella prospettiva secondo cui la grazia può essere concepita solo come presupposto della natura, l’ordine sovrannaturale sparisce”. [Con “trasformismo” si intendeva l’evoluzionismo pre-darwiniano o anche quest’ultimo. Per la traduzione di questi testi tomistici, vedi le Note di commento, § 4].
h “Il peccato del diavolo non fu in qualcosa che apparteneva all’ordine naturale, ma secondo qualcosa di sovrannaturale”.
i “Sono state dette molte cose, ma non con sufficiente ponderatezza, circa una ‘nuova teologia’, che si evolverebbe parallelamente al continuo evolversi di tutte le cose, e che sarebbe sempre in ricerca senza raggiungere mai la meta. Se quest’opinione dovesse essere abbracciata, che cosa ne sarebbe della perenne immutabilità dei dogmi cattolici? Che ne sarebbe dell’unità e della stabilità della fede?”.
j Per autorità di Dio rivelatore.
k “Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita [eterna]. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”.
9. Cfr. L’Épître aux Romains, del padre M. J. Lagrange O.P., 3ª ed., Commento del cap. V.
10. Le difficoltà sul fronte delle scienze esatte e della paleontologia sono esposte nell’articolo Polygénisme del Dict. de théol. cath. Gli autori di questo articolo, A. e J. Bouyssonie distinguono precisamente, col. 2536, l’àmbito della filosofia, “in cui il naturalista, in quanto tale, è incompetente”. Sarebbe stato auspicabile che l’articolo avesse trattato la questione da tre punti di vista: quello delle scienze esatte, quello della filosofia e quello della teologia, in particolare riguardo al dogma del peccato originale. Secondo molti teologi, l’ipotesi secondo cui sarebbero esistiti sulla terra, anteriormente ad Adamo, degli uomini la cui razza si sarebbe estinta, non sarebbe contraria alla fede. Ma secondo la Scrittura il genere umano che popola la superficie della terra discende da Adamo, Gn, 111, 5.20, Sap 10, 1; Rom 5, 12.18.19; At 17, 26. Inoltre, dal punto di vista filosofico, è stato necessario un intervento libero di Dio per creare l’anima umana, e anche per predisporre il corpo a riceverla. Un ente generatore di natura inferiore non può produrre tale predisposizione superiore alla propria specie; il superiore discenderebbe dall’inferiore, contrariamente al principio di causalità. Infine, com’è detto nell’articolo citato, col. 2535, “per i mutazionisti (odierni) la nuova specie nasce all’interno di un germe unico. La specie è inaugurata da un individuo eccezionale”.
11. Il corsivo è nostro. Idee quasi altrettanto stravaganti si trovano in un articolo del padre TEILHARD DE CHARDIN [1881-1955], Vie et planètes, apparso in Les Études del maggio 1946, soprattutto pp. 158-160, e 168 – Vedi anche Cahiers du Monde nouveau, agosto 1946: Un grand Evénement qui se dessine: la Planétisation humaine, dello stesso autore. Si è citato recentemente un testo dello stesso scrittore, estratto da Études 1921, t. II, p. 543, in cui egli parla della “impossibilità per il nostro spirito – nel punto in cui si trova – di concepire, nell’ordine fenomenico, un inizio assoluto”. – A cui Salet e Lafont hanno giustamente risposto in L’Évolution regressive, p. 47: “Non è forse la creazione un inizio assoluto?”. Ora, la fede ci insegna che Dio crea quotidianamente anime di bambini, e che originariamente egli ha creato l’anima spirituale del primo uomo. Del resto il miracolo stesso è un inizio assoluto che non contraddice in nulla la ragione. Su questo punto, cfr. il padre DESCOQS S.J., Autour de la crise du transformisme, 2ª ed. 1944, p. 85. Infine, come sottolinea lo stesso padre DESCOQS, ibid., p. 2 e 7, i teologi devono ormai smetterla di parlare tanto di evoluzionismo e di trasformismo, adesso che anche i più grandi esperti, come per esempio il padre Lemoine, professore al Museum, scrivono: “L’evoluzione è una sorta di dogma a cui i suoi sacerdoti non credono più, ma che mantengono in piedi per il loro gregge. Bisogna avere il coraggio di dirlo affinché gli uomini della prossima generazione orientino le loro ricerche in un altro modo”. Cfr. Conclusion del t. V della Encyclopédie Française (1937). Anche il Dr. H. Rouvière, professore alla Facoltà di Medicina di Parigi, membro della Académie de Médecine, scrive in Anatomie philosophique. La finalité dans l’Évolution, p. 37: “Si è verificato un vero tracollo nella dottrina trasformista... La maggioranza dei biologi si sono allontanati da essa perché i difensori del trasformismo non hanno mai apportato la benché minima prova in appoggio alla loro teoria e perché tutto ciò che si sa a proposito dell’evoluzione parla contro di essa”.
l “Nessuna proposizione astratta può essere tenuta come immutabilmente vera”.
m “Anche dopo aver concepito la fede, l’uomo non deve riposare sui dogmi della religione e aderire ad essi fissamente e immobilmente, ma deve rimanere sempre ansioso di progredire verso un’ulteriore verità, con l’evolvere verso nuovi significati, persino correggendo quel che crede”.
n “La quale conversione [del pane e del vino] la Chiesa definisce con molta esattezza transustanziazione”.
12. Ci vien detto allo stesso punto: “Nella prospettiva scolastica il concetto di cosa-segno si è smarrita. In un universo di prospettiva agostiniana, in cui un oggetto materiale non è solo sé stesso, ma anche un segno delle realtà spirituali, si può concepire come una cosa, che è per volontà di Dio il segno di un’altra cosa, sia potuta diventare essa stessa un’altra senza che la sua apparenza sia cambiata”. In realtà, nella prospettiva della Scolastica il concetto di cosa-segno non si è mai smarrito. San Tommaso afferma, Iª, q. 1, a. 10: “Auctor S. Scripturae est Deus, in cuius potestate est, ut non solum voces ad significandum accomodet (quod etiam homo facere potest) sed etiam res ipsas [l’Autore della S. Scrittura è Dio, che ha il potere di conferire significato non solo alla voce – come l’uomo – ma anche alle cose stesse]”. Così, Isacco che sta per essere immolato è la figura del Cristo e la manna è una figura dell’Eucarestia. San Tommaso lo fa notare parlando di questo sacramento. Ma attraverso la consacrazione eucaristica il pane non diviene solamente il segno del Corpo di Cristo, e il vino solo il segno del Suo Sangue, come hanno pensato i sacramentaristi protestanti, cfr. D.T.C. art. Sacramentario (controversie, su); ma, come è stato definito formalmente al Concilio di Trento, la sostanza del pane viene convertita in quella del Corpo di Cristo, che è reso presente per modum substantiae sotto le sembianze del pane. E non si tratta semplicemente qui del modo in cui i teologi dell’epoca del Concilio concepivano la consacrazione: si tratta bensì della verità immutabile definita dalla Chiesa.
o “La conversione di tutta la sostanza del vino nel Sangue, mentre rimangono solo le apparenze del pane e del vino”.
13. San Tommaso aveva nettamente distinto tre tipi di presenza di Dio: 1. La presenza generale di Dio in tutte le creature, che Egli conserva in esistenza (Iª, q. 8, a. 1); 2. La presenza speciale di Dio nei giusti per mezzo della grazia: Egli si trova in loro come in un tempio in qualità di oggetto quasi sperimentalmente conoscibile (Iª, q. 43, a. 3); 3. La presenza del Verbo nell’umanità di Gesù per mezzo dell’unione ipostatica. E allora è certo che dopo l’Incarnazione Dio è stato più presente nella terra di Giudea che altrove. Ma se si ritiene che San Tommaso non abbia nemmeno saputo porre questi problemi, ci si lancia in ogni avventura possibile, e si giunge al modernismo con la disinvoltura che si può osservare in queste pagine.
p Vedi nota e.
q Vedi nota f.
r Vedi nota c.
s Vedi nota d.
14. Autori come Téder et Papus, nella loro esposizione della dottrina martinista, insegnano un panteismo mistico e un neo-gnosticismo secondo il quale tutti gli esseri scaturiscono da Dio per emanazione (vi è così una caduta, un male cosmico, un peccato originale sui generis), tutti aspirano a reintegrarsi nella divinità e tutti vi riusciranno. È lo stesso concetto del Cristo moderno, della Sua pienezza di luce astrale che si trova in molte opere occultiste recenti, in un senso che non è più affatto quello della Chiesa e che ne è anzi la contraffazione blasfema, poiché si tratta sempre della negazione panteistica del vero sovrannaturale, e a volte persino della negazione della distinzione tra il bene morale e il male morale, lasciando sussistere solamente quella tra il bene dilettevole o utile e il male cosmico o fisico, che, con la reintegrazione di tutti senza eccezioni, sparirà.
t Vedi nota i.
15. Ammettiamo senza dubbio che la vera esperienza mistica – che nell’uomo giusto proviene dai doni dello Spirito Santo, soprattutto da quello della saggezza – conferma la fede, perché essa ci mostra che i misteri rivelati corrispondono alle nostre aspirazioni più profonde e ne suscitano di più elevate. Vi è in questo, lo riconosciamo, una verità di vita, una conformità dello spirito con la vita dell’uomo di buona volontà, e una pace che è il segno della verità. Ma quest’esperienza mistica suppone la fede infusa e l’atto di fede suppone esso stesso l’evidente credibilità dei misteri rivelati. Allo stesso tempo, come afferma il Concilio Vaticano, possiamo avere la certezza dell’esistenza di Dio autore della natura tramite la luce naturale della ragione. Ma per questo è necessario che i princìpi di queste prove, in particolare quello di causalità, siano veri per conformitatem ad ens extramentale, e che siano certi di una certezza oggettivamente sufficiente (anteriore alla libera scelta dell’uomo di buona volontà) e non solamente di una certezza soggettivamente sufficiente come quella della prova kantiana dell’esistenza di Dio. Infine, la verità pratica della prudenza per conformitatem ad intentionem rectam suppone che la nostra intenzione sia veramente retta in rapporto al fine ultimo dell’uomo, e il giudizio sul fine dell’uomo deve essere vero secundum mentis conformitatem ad realitatem extramentalem. Cfr. Ia IIae , q. 19, a. 3, ad 2.
16. Aristotele, La Fisica, tr. it. note e introduz. di A. Russo, Laterza, Bari, 1968, p. 36, 194b, 25).
17. Hermann Weyl, Was ist Materie? Zwei Aufsätze zur Naturphilosophie (1924), ora in ID., Mathematische Analyse des Raumproblems, rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1977, pp. 1-88 della seconda sezione del libro; pp. 1-18, per la teoria della materia come sostanza.
18. Ernst Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna (1937), tr. it. di G. A. De Toni, present. di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 193.
19. Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, p. 41.
20. Werner Heisenberg, Fisica e oltre, Mondadori, Milano, 2010, pp. 157-413; p. 200; pp. 204-205.
21. Per tutti questi esempi, dal fotone alla carica elettrica, alla collisione tra le particelle: Steven Weinberg, The First Three Minutes. A Modern View of the Origin of the Universe, updated edit., 1993, Basic Books, New York, pp. 53-54; p. 89; p. 93.
22. Philippe Levillain, La mécanique politique de Vatican II. La majorité et l’unanimité dans un concile, con prefaz. di R. Rémond, Beauchesne, Paris, 1975, p. 77.
23. Per chi volesse approfondire sulle gravi responsabilità di Papa Roncalli circa l’andamento anomalo del Concilio, mi sia consentito rinviare a: Paolo Pasqualucci, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II, Fede & Cultura, Verona, 2014, pp. 123. Il “Concilio parallelo” è quello che Roncalli, nella decisiva fase iniziale, è riuscito ad imporre al Concilio preparato dalla Curia, per soddisfare le esigenze di “aggiornamento” della fazione neomodernista, da lui evidentemente condivise.
Salve a tutti,
RispondiEliminaDa non mancare quest'articolo:
LA REALTA' DEL SINODO E IL DELIRIO DEI TURIFERARI
http://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/533-la-realta-del-sinodo-e-il-delirio-dei-turiferari.html
Buona lettura a tutti e serena festa di Tuttisanti
Agli amici di Rosso Porpora
RispondiEliminaGrazie per la segnalazione. Ottimo articolato testo che avevamo già esaminato nelle nostre discussioni e da tener ben presente per la chiarezza dell'analisi e delle conclusioni.
Quanto al testo proposto oggi, richiamo in particolare l'attenzione sulle preziose "note di commento" di Paolo Pasqualucci nonché sulla peculiarità dell'apporto del suo approccio interdisciplinare. Egli non esita ad affrontare anche gli aspetti della fisica moderna che possono aiutarci nella comprensione delle idee e teorie sviluppatesi e dunque della realtà che veicolano, per meglio conoscere la Realtà, quella vera.
RispondiEliminaMic,
RispondiEliminaGrazie per quest'articolo. Questo è da leggere da tutti i religiosi e tutto il clero!
Ottimo!
Romano
(segue)
RispondiEliminaOltre che nelle suggestioni già evocate, sia pure in maniera più soft, l'inganno è nella parola d’ordine 'misericordia' di chi afferma di non apportare novità alla dottrina ma solo maggiore comprensione per i divorziati risposati, da valutare caso per caso. Ma è proprio in quel “da valutare caso per caso”, che nel foro interno la Chiesa non ha mai trascurato che si colloca la 'dicotomia' attuale tra due diverse visioni della fede.
Perché non affermare apertis verbis che Cristo è venuto a portare all’uomo - attraverso la sua morte e risurrezione - la salvezza dalla schiavitù del peccato, che significa una vita ontologicamente diversa da quella solo umana, orientata dalla Legge sì, ma che fa i conti con la propria ferita originaria che lo inclina al male e lo rende fragile e incostante, incapace di salvarsi da solo? E' per questo che Cristo Signore dice: "Senza di me non potete far nulla". E dunque si impone la scelta o con Cristo o senza di Lui. E allora, non dipende dalla durezza di cuore dei pastori, ma da un dato di fatto. E non c'entra il 'foro interno' che può essere valutato solo individualmente nella cura spirituale dei singoli casi. La Chiesa nell'insegnare i principi, deve tener conto del 'foro esterno' e del pubblico scandalo, anche se oggi non è più visto come tale e sono in molti che tendono ad uniformarsi al lassismo imperante. Se ci si mettono pure i vescovi con in testa il papa, che senso ha cercare un‘unione intima col corpo di Cristo che si è infranta se si vuol continuare a tenerla infranta?
In questi casi negare la comunione non è una forma di punizione, ma una semplice constatazione della verità, che è anche pienezza di giustizia. Chi ha scelto di vivere secondo criteri umani, pur con tutta la comprensione per le difficoltà immani che si incontrano, non viene messo in condizioni di ricevere e accogliere la vera Buona Notizia della salvezza in Cristo con Cristo e per Cristo, che in questi casi esige la conversione e un cambiamento di vita.
Avrei voluto questa sera leggere con calma il post di oggi ma...
RispondiEliminaSono tante le persone misericordiose, accoglienti e accompagnanti,ne esisterà certamente una che può dare una visione d'insieme dei problemi della famiglia.
Sono certa che oltre quel problema che si ripropone quotidianamente, con tanta solerzia, ne esistono altri importanti, impotantissimi come l'educazione dei figli, la presenza di persone anziane, di malati, di malati mentali, le difficoltà economiche per chi ha più figli da crescere, far studiare, fare grandi insomma. Ed oggi l'affanno della famiglia,con tutte le sue forze tesa verso la Verità, verso il Signore, che si trova a dover vivere nell'aria ammorbata da un livello altissimo di ipocrisia.
Ringrazio chi può concretamente dire qualcosa di reale sulla famiglia senza gonfiare problemi e numeri.