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lunedì 14 dicembre 2015

Sapienza cattolica. Chi impara a credere impara ad inginocchiarsi

Le immagini parlano più di lunghi commenti. A seguire uno scritto tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV - Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 - Atteggiamenti, pp. 181-190.

Chi impara a credere impara ad inginocchiarsi

Inginocchiarsi (Prostratio)

Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l’uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all’uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.

Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361 a 36).
Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. 
L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo.

In effetti, l’atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in costumi preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio.

L’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. 
L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia.

* * *

Osservando più attentamente possiamo distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro. 
Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio
I tre atteggiamenti non sono sempre facili da distinguere, anche sul piano linguistico. 
Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l’uno all’altro.

Per ragioni di brevità vorrei citare, a proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall’Antico Testamento, l’altro dal Nuovo.

Quello tratto dall’Antico Testamento è la teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto ardente. Giosuè vede «il capo dell’esercito del Signore» e, dopo aver riconosciuto la sua identità, si getta a terra davanti a lui. In quel momento ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella figura misteriosa del «capo dell’esercito del Signore» il Dio nascosto parla a Giosuè e davanti a Lui questi si getta a terra. È bella l’interpretazione di questo testo data da Origene: «C’è un altro capo delle potenze del Signore oltre al nostro Signore Gesù Cristo?». 
Giosuè adora dunque Colui che doveva venire, il Cristo veniente.

Per quanto riguarda, invece il Nuovo Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a terra (Mt); Luca, invece, che in tutta la sua opera - Vangelo e Atti degli Apostoli - è in maniera particolare il teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.

Questa preghiera, come preghiera introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che per i suoi contenuti. I gesti: Gesù fa sua la caduta dell’uomo, si lascia cadere nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia volontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa sua ogni negazione della volontà dell’uomo e la soffre con il suo dolore; proprio l’uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso della redenzione.

Difatti la caduta dell’uomo si poggia sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana alla volontà divina, che il tentatore dell’uomo fa ingannevolmente passare come condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la tua – è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la nostra volontà diventa vera volontà ed è realmente libera. La sofferenza e la lotta del monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l’unità di ciò che è diviso, per una unione che è la comunione di Dio.

Comprendiamo così che in questo passo si trova anche l’invocazione d’amore del Figlio Padre: Abbà (Mc 14,36). 
Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spirituale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.

Nella liturgia della Chiesa la prostratio appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle consacrazioni.

Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. 
Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.

In occasione delle consacrazioni questo gesto esprime la consapevolezza della nostra assoluta incapacità di accogliere con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con il suo Io. Mentre i candidati all’ordinazione giacciono a terra, l’intera comunità radunata canta le litanie dei santi. 
Resta per me indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione sacerdotale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione bruciante della mia insufficienza, dell’inadeguatezza davanti alla grandezza del compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione sacerdotale. Fu per me meravigliosamente consolante sentire la Chiesa orante invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvolgeva e mi abbracciava fisicamente. 
Nella propria incapacità, che doveva esprimersi corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa presenza di tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una forza meravigliosa, e solo essa poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che mi stava davanti.

* * *

In secondo luogo bisogna ricordare il gesto del cadere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Mc 1,40; 10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein
Partiamo da Mc 1,40. 
Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli dice: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». 
Qui è difficile valutare la portata di questo gesto. 
Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le parole manifestano una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente umana. 
È diverso il caso dell’espressione classica dell’adorazione in ginocchio – proskynein.

Scelgo ancora una volta due esempi per chiarire la questione che si pone al traduttore. Anzitutto la storia di Gesù che, dopo la moltiplicazione dei pani, sosta sulla montagna, in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul mare con il vento e le onde. 
Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Gesù, allora, sale sulla barca e il vento si placa. 
Il testo, poi, prosegue: ma i discepoli sulla barca «gli si prostrarono davanti» e dissero: «veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni scrivevano: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero... 
Ambedue le traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade: quelle recenti l’espressione corporale, quelle più antiche l’avvenimento interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza che il gesto di riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione.

Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo una simile problematica, nel racconto della guarigione del cieco nato. Questa storia, costruita teo-drammaticamente, si conclude in un dialogo tra Gesù e la persona sanata, che può essere considerato il prototipo del dialogo di conversione; inoltre, l’intera storia deve essere intesa come una spiegazione interiore dell’importanza esistenziale e teologica del battesimo. 
In questo dialogo Gesù aveva chiesto all’uomo se credeva nel figlio dell’Uomo. 
Alla domanda del cieco nato: «Chi è, Signore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! 
Ed egli si prostrò davanti a lui» (Gv 9,35-38). 
Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo adorò». 
Di fatto, tutta la scena mira all’atto di fede e di adorazione di Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli occhi dell’amore, ma anche quelli del cuore. 
L’uomo è diventato davvero vedente. 
Per l’interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Giovanni la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). 
Questa conversazione è tutta dedicata al tema dell’adorazione ed è fuori discussione che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comunque – come quello con il cieco sanato – con l'autorivelazione di Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi il significato spirituale e quello corporeo della parola proskynein non sono affatto separabili.

II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.

Quando l’inginocchiarsi diventa pura esteriorità, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si riduce l’adorazione alla sola dimensione spirituale senza incarnazione, l’atto dell’adorazione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l’essenza dell’uomo. 
L’adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l’uomo tutto intero.
Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.

* * *

Con ciò siamo già arrivati al tipico atteggiamento dell’inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi. Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi.

Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. Questo gesto appare in importanti passi dell’Antico Testamento come espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l’assemblea di Israele» (2Cr 6,3). Dopo l'esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a trovarsi Israele dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all’ora del sacrificio della sera: «Poi caddi in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo della Passione («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti dormono sotto terra» (Sal 22,30). 
Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in contesto neotestamentario. 
Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità cristiana (21,5).

Particolarmente importante per la nostra questione è il racconto del martirio di santo Stefano. 
Il primo martire cristiano viene presentato nella sua sofferenza come perfetta imitazione di Cristo, la cui passione si ripete nel martirio del testimone fin nei particolari. 
Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro questo peccato» (At 7,60). 
Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco, aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte degli Ulivi e osserviamo, quindi, che Luca vuole che l’inginocchiarsi del protomartire sia inteso come un entrare nella preghiera di Gesù.

L’inginocchiarsi non è solo un gesto cristiano, è un gesto cristologico. 
Il passo più importante sulla teologia dell’inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11. 
In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche la voce dell’Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l’ha tramandata; torniamo ancora una volta a percepire la profonda unità interiore di Antico e Nuovo Testamento, così come l’ampiezza cosmica della fede cristiana.
L’inno ci presenta Cristo in contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla divinità con le sole sue forze, Cristo non considera come un «tesoro geloso» la divinità, che pure gli è propria, ma si abbassa fino alla morte di croce. 
Proprio questa umiltà, che viene dall’amore, è il propriamente divino e gli procura il «nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Gesù...». 
L’inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23: «Lo giuro su me stesso dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio...».

Nella compenetrazione di Antico e Nuovo Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome che è al di sopra di tutti i nomi» – il nome dell’Altissimo – ed è Egli stesso di natura divina. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profezia dell’Antico Testamento: tutti si pongono in ginocchio davanti a Gesù, Colui che è asceso, e si piegano così davanti all’unico vero Dio, al di sopra di tutti gli dei.

La croce è divenuta il segno universale della presenza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce storica [in virtù dell'Incarnazione: Gesù Vero Uomo, oltre che Vero Dio -ndR] e cosmica [da intendere nel senso di azione divina, soprannaturale -ndR], deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica [azione teandrica di Cristo Signore -ndR], per il fatto che essa piega le ginocchia davanti al Signore crocifisso e innalzato. È questo il centro della vera «cultura» – la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo [da intendere non nel senso evolutivo panteista di Tehilard de Chardin, ma nel senso di 'mondo ordinato' a Dio in Cristo -ndR].

* * *

Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per esempio, la commovente storia che ci racconta Eusebio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica, riprendendo una tradizione che risale a Egesippo (II secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di Gerusalemme e «capo» della Chiesa giudeo-cristiana, aveva sulle ginocchia una sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginocchio, adorava Dio e implorava perdono per il suo popolo (II, 23, 6). 
Oppure il racconto tratto dalle sentenze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu costretto da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto, non aveva le ginocchia. 
L’incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l’essenza stessa del diabolico.

Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. 
Si tratta di una parola specificamente cristiana. 
Con questa osservazione il cerchio si chiude là dove avevamo cominciato le nostre riflessioni. 
Può forse essere vero che l’inginocchiarsi è estraneo alla cultura moderna – appunto nella misura in cui si tratta di una cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario.

Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo [vedi supra], nell’unità con Gesù Cristo stesso. [Fonte]

14 commenti:

  1. http://www.cruxnow.com/faith/2015/12/13/around-the-world-religious-persecution-is-christian-persecution/
    La Porta Santa : la Porta della Croce

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  2. Mi viene in mente il mio parroco il quale insiste che durante le Messe pasquali si stia ritti in piedi durante la Consacrazione, e obbliga la gente a fare come vuole lui (ingenerando tra i fedeli sommovimenti tra quelli che hanno capito e quelli che no, quelli che si adeguano e quelli che non ne vogliono sapere), con la motivazione che, secondo le sue fonti, i primi cristiani stavano in piedi la notte di Pasqua per significare la vittoria di Gesù sulla morte.

    In realtà, se andiamo a consultare il Vangelo in Matteo 28, 8-9 leggiamo:
    "E, essendo andate presto dal sepolcro, con timore e grande gioia corsero ad annunziarlo ai suoi discepoli. Ed ecco, Gesù andò loro incontro dicendo: "Gioite!" Esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e si prostrarono davanti a lui".

    E in Matteo 28, 16-17:
    "Ora, gli undici apostoli andarono nella Galilea, sul monte dove Gesù aveva loro ordinato. E vedendolo si prostrarono; ma essi dubitarono."

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  3. Grazie per averlo postato, un passo di quello splendido libro che è un capolavoro, bello, commovente a tratti, insegna cose non proprio accessibili, anche in termini di traduzione di parole da lingue antiche, con soave leggerezza, impari leggendo senza doverti mai o annoiare, o lambiccare il cervello, la chiarezza espositiva era/è il pregio di Ratzinger, leggerlo e rileggerlo è sempre un ri-scoprire cose nuove......in confronto a certe tematiche spacciate oggi, oro di coppella e non vado oltre. Ancora grazie a Mic. Lupus et Agnus.

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  4. Il non inginocchiarsi davanti al Signore è semplicmente un atto di superbia ed arroganza,di "hubris", tanto per restare in Grecia. E' vero che i Greci non si inginochivano, ma davanti ad altri uomini, perchè l'uomo libero non ha altri al di sopra di sè. Ma quando per es.Priamo va da Achille a chiedere la restituzione del corpo di Ettore (uno degli episodi più belli, se non il più bello dell'Iliade, nel quale già si sente la "pietas" romana, che confluirà nella "pietas" cristiana- pieta sconosciute al mondo orientale), egli "gli prese le ginocchia e le abbracciò". Ora, e difficile prendere le ginocchia di un uomo seduto ed abbracciargliele , specie se si è vecchi, senza inginocchiarsi. Quindi anche ai Greci era noto l'inginocchiarsi del supplice di fronte all'uomo o il dio a cui si rivolgeva la supplica.
    Credo che anche Aristotele, se sapesse di Chi è la casa nella quale si chiede d'entrare, troverebbe qualcosa da ridire sul non inginocchiarsi.
    RR

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  5. Quando il cuore è in tumulto e la mente corre di qua e di là,restare in ginocchio, in silenzio,davanti a NSGC è l'unica preghiera seria, coerente ed autentica possibile:mettere il corpo nell'orazione quando tutte le potenze dell'anima sono nella tempesta, nella desolazione,nello sconforto. Stare in ginocchio davanti a Dio insegna a stare dritti davanti ad ogni uomo ed umana potenza (citazione a memoria di un vecchio libro intitolato "il Cardinale".)

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  6. Recomenda-se : "Escenificación masónica y teología feminista, ad limina apostolorum"

    http://www.adelantelafe.com/escenificacion-masonica-y-teologia-feminista-ad-limina-apostolorum/

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  7. C'è chi si inginocchia davanti a Dio e chi solo davanti a pastori protestanti.

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  8. Introduzione allo spirito della liturgia e' un libro capolavoro. Grazie per averlo postato.
    Neri

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  9. A me viene in mente ciò che testimoniano a Medjugorje i ragazzi di Suor Elvira: arrivano in comunità che hanno disceso l'ultimo gradino della dignità ed, a poco a poco, anche inizialmente dimentichi della Fede, trovano la via della loro salvezza quando, nella Cappella, si inginocchiano davanti al Crocefisso per pregare il Rosario.
    Ed è facile intuirne il motivo: in quel momento ritrovano la loro dignità di figli adottivi di Dio, ricevuta nel Battesimo cristiano.

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  10. e ridaje

    http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lappello-papa-ai-potenti-aprite-ai-migranti-e-amnistia-1204607.html

    "Nel Messaggio per la 49esima Giornata Mondiale della Pace, Bergoglio chiede ai capi di governo di ripensare alle leggi sulle migrazioni. "Vorrei rivolgere un invito - afferma il Pontefice - a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinchè siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità".

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  11. http://www.fatima.pt/portal/index.php?id=14924
    Dal profondo a Te grido....

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  12. Josh,
    bisogna spiegare a chi gli scrive i discorsi, che se vogliono avere qualcuno aRoma per il Giubileo, devono smetterla di romperci con i migranti, perché ormai, a parte i dipendenti della Caritas, e tutti gli altri che ci campano sopra, abbiamo altre cose a cui pensare.

    Ha parlato anche della pena di morte e dell'ecologia, no ?
    Rr

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  13. E dell'amnustia... Ma perchè non la pianta di parlare di politica o di pseudo-scientismo?

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  14. Anonimo 23.35,
    Perché quello so sa, di quello solo gli interessa, e perche' è stato messo li per parlare solo di quello.
    Rr

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