Chi meglio di Alessandro Gnocchi può ricordare Mario Palmaro? Non aggiungo nulla, perché sciuperei la bellezza struggente di questo scritto.
Alla fine ce l’ho fatta, ma sono stati necessari due anni. Ieri ho avuto il coraggio di riaprire la mail con cui Mario mi mandava la solita metà di articolo che, appiccicata alla mia solita metà, ne faceva un intero da mandare al Foglio. “Sandro ecco il file, taglia e procedi. Mario”. Poi non ha scritto più nulla. Era martedì 4 marzo 2014. Il giorno dopo, Mercoledì delle ceneri, sarebbe uscito il nostro ultimo articolo firmato insieme, titolato “Assedio e bandiera bianca” [qui]. Era un commento alla relazione con cui il cardinale Walter Kasper, su richiesta di papa Francesco, aveva anticipato in concistoro le ombre fosche che già si allungavano sul Sinodo per la famiglia.
La sera ci sentimmo per commentarlo. Chiamò Mario, e fu una telefonata dolorosa perché era evidente che, da questa parte del Cielo, gli ultimi granelli di sabbia stavano scorrendo nella clessidra. Fin da quando si scoprì il male che l’avrebbe avuta vinta sul suo fisico, nessuno si era illuso di poter capovolgere quella clessidra una volta di più. Ma in certe amicizie, forti come vincoli di sangue, sono proprio la palese impossibilità di compiere un gesto ulteriore, l’incapacità di forzare il destino a far male. Prima dell’abbandono al Signore, la natura dell’uomo ferita dal peccato, forse si lascia tentare ancora una volta dall’idea di fare da sola. O, forse, chiede di provare dolore per redimersi almeno con un po’ di merito. Poi, tutto si compie, e nella vicenda terrena di Mario tutto si compì la sera di quattro giorni più tardi, dopo il canto del “Salve Regina”.
Le ferite, anche quando si chiudono, lasciano segni attraverso cui il dolore trova meno resistenza, anzi segue quasi una guida sicura per raggiungere i luoghi dell’anima, del cuore e della testa in cui sa di poter fare più male. Per questo, ci sono voluti due anni prima che riuscissi ad aprire nuovamente quel file in cui Mario aveva evidenziato in rosso la sua parte del nostro ultimo articolo. Non ne sono passato indenne, perché lui è lì, sul letto in cui sta per morire e parla del peccato, della morte e della vita eterna. Parla con la chiarezza di chi si trova sul limitare del tempo, con dolore ma serenamente, e dice:
I veri nodi che hanno imbrigliato la teologia cattolica e che l’hanno soffocata sono stati l’abolizione del peccato e la separazione tra fede e sacramenti. Il sacramento è, insieme, vincolo e mezzo per proteggere le creature dal peccare. Ecco qui il tema fondamentale, dimenticato e negletto: il peccato. Ecco lo scandalo, la vergogna senza la quale l’uomo è incomprensibile. Va bene il mistero pasquale, va bene la resurrezione, va bene il trionfo della pietra rotolata. Ma non esiste alcuna garanzia che le nostre anime siano preservate dalla morte ineluttabile. Il peccato porta con sé il mistero della dannazione eterna.
Ed ecco qui spuntare nella storia, insieme all’incarnazione, il sacramento, il mistero che è nello stesso tempo fondamentale per salvare l’uomo dalla sua condizione di peccatore. Una chiesa senza sacramenti è semplicemente impensabile, una terra di nessuno, o se va bene un ospedale da campo, dove l’uomo si salva da sé.
La discussione in corso intorno alla riammissione delle coppie divorziate risposate è estenuante, per certi versi assurda. La vera domanda è molto più semplice: da che cosa l’uomo deve salvarsi? Ma da che cosa si deve salvare, se si predica o si lascia intendere che l’inferno non esiste o, se esiste, è vuoto?
Cristo non si è fatto crocifiggere per salvare gli uomini dalla guerra, dalla povertà, dall’invidia, dal matrimonio andato male, dalla tristezza. Lo ha fatto per salvarli dalla dannazione eterna. E i sacramenti sono il mezzo per uscire da questa terribile malattia.
Scriveva tutto questo e sapeva che poi sarebbe morto. Ferisce il cuore fino quasi a fermarlo il pensiero che tanti sacerdoti, salendo per i rami fino ai vertici della gerarchia, non sono in grado di concepire parole simili neanche essendo in piena salute. E Mario se ne è andato con il peso di questa consapevolezza sul cuore. Ma, ormai, era un peso lieve, diverso da quello che porta chi si illude che la sua fine sia ancora lontana correndo il rischio di affidarsi a uno sguardo sul mondo buono, ma solo naturale. Lo sguardo di Mario, invece, era divenuto quello dell’uomo paziente.
Gregorio di Nissa, in un’operetta che si intitola Fine, professione e perfezione del cristiano, al capitolo sulla “Virtù della pazienza”, sembra tratteggiare il ritratto di quest’uomo che sarebbe morto nella sua stessa fede diciassette secoli dopo di lui. Per conformarci al modello di Cristo, spiega San Gregorio “dobbiamo, nella nostra imitazione della bellezza, usare per quanto è possibile puri i colori delle virtù mescolandoli tra loro ad arte, in modo da diventare immagini dell’Immagine e da riprodurre la bellezza originaria attraverso un’imitazione il più possibile assidua. (…) Se poi occorre distinguere anche uno per uno i colori grazie ai quali si realizza l’imitazione dell’Immagine, diremo che un colore è rappresentato dall’umiltà. (…) Un altro colore è rappresentato dalla magnanimità, che in così larga misura rappresenta l’immagine del Dio invisibile. (…) Allo stesso modo, si possono vedere tutte le altre virtù nell’immagine originaria di Dio: chi la guarda può abbellire in modo evidente il proprio aspetto e diventare anch’egli un’immagine del Dio invisibile, delineata con la virtù della pazienza”.
Il coraggio, la lucidità, la tenacia, che persino certi avversari sono stati costretti a riconoscergli, negli ultimi tempi sono stati sublimati e purificati nella pazienza. Perché pazienza viene da patire. Scrive in proposito Sant’Agostino: “È risaputo che la pazienza retta, degna di lode e del nome di virtù, è quella per la quale con animo equo tolleriamo i mali, per non abbandonare con animo iniquo quei beni per mezzo dei quali possiamo raggiungere beni migliori. Pertanto chi non ha la pazienza, mentre si rifiuta di sopportare i mali, non ottiene d’essere esentato dal male, ma finisce col soffrire mali maggiori. I pazienti preferiscono sopportare il male per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo; così facendo rendono più leggeri i mali che soffrono con pazienza ed evitano mali peggiori in cui cadrebbero con l’impazienza. Ma soprattutto non perdono i beni eterni e grandi, quando non cedono ai mali temporanei e di breve durata poiché, come dice l’Apostolo, i patimenti del tempo presente non meritano d’essere paragonati con la gloria futura che si rivelerà in noi. Egli dice ancora: la nostra sofferenza, temporanea e leggera, produce per noi in maniera inimmaginabile una ricchezza eterna di gloria”.
In un mondo in cui anche tanti cattolici non sanno più come si possa ben vivere, i cristiani esemplari come Mario Palmaro ci dicono che lo si apprende solo con il ben morire.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
Da non perdere l'ultimo articolo uscito su Il Foglio a firma Gnocchi-Palmaro del quale ho messo il link
RispondiEliminahttp://www.corrispondenzaromana.it/notizie-dalla-rete/assedio-e-bandiera-bianca-2/
Un saggio di Andrea Sandri, da non perdere, in memoriam del "filosofo del diritto Mario Palmaro
RispondiElimina[....]
A differenza della giurisprudenza moderna, che prende avvio dall’“uomo-che-vuole”, la giurisprudenza classica - e con classica si intende certamente: perenne - è rappresentata dall’antitetico “uomo-che-conosce” per il quale, proprio perché “conoscere la verità è possibile, e quindi necessario”, la “natura” non ha cessato di essere “un mirabile territorio di ricerca che rimanda al suo Artefice” [...]
Come è noto, conformemente alla metafora del De regimine principum di San Tommaso d’Aquino[31], la previa determinazione della conoscenza e della volontà rispetto al bene e alla verità naturale corrisponde all’arte del carpentiere che costruisce la nave e la governa, mentre la nave per raggiungere il proprio porto ha bisogno del nocchiero. All’interno di questa stessa metafora il carpentiere rappresenta la potestà del principe che deve fondare, dare ordine e guidare lo Stato al bene naturale; il nocchiero l’autorità del Pontefice che indica all’intera società statale, al di là del conseguimento del bene naturale, la via per la contemplazione dell’ulteriore e ultimo bene sovrannaturale, della Verità di Dio.
Soprattutto ai suoi primordi la modernità giuridica ha spesso recepito la metafora di San Tommaso, amputandola tuttavia della parte sul nocchiero. Con tale operazione si è ora voluto neutralizzare il conflitto religioso ora cercare eguali diritti umani (così de Vitoria e Suarez) nella comune umanità.
Ne sono tuttavia scaturite due principali conseguenze. Da una parte, anche se non si è necessariamente dovuto subito proclamare l’etsi Deus non daretur, l’eliminazione del nocchiero dal sistema ha favorito l’inizio del processo di secolarizzazione compiutosi con la reine Rechtslehre; dall’altra assieme al Pontefice è scomparsa dal sistema un’auctoritas capace di pronunciare universalmente il contenuto del diritto con l’ulteriore conseguenza dell’evoluzione delle comunità politiche verso la sovranità – anch’essa, insieme alla secolarizzazione dei principi giuridici, fondamentale momento genetico del positivismo giuridico. Si vuol insomma dire che le comunità politiche, che, per definizione, sono potestates (e non auctoritates), si trovarono nella condizione di pronunciare originariamente il contenuto del diritto non con un atto di autorità, ma di voluntas, dando di fatto inizio alla legislazione moderna.[...]
http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2016/03/su-un-portone-di-via-santa-maddalena.html
Benedizioni nelle scuole a Bologna Don Prodi: «Non acqua ma ovetti»
RispondiEliminaBOLOGNA — «È una polemica assurda, la benedizione deve portare del bene, se porta del male c’è qualcosa che non va. Allora invece che un po’ d’acqua portiamo qualche ovetto da donare». La proposta è di don Matteo Prodi, parroco da dieci anni della chiesa Santa Maria di Ponte Ronca, a due passi da Bologna, nipote dell’ex premier Romano e fratello di Giovanni, presidente del Consiglio di quell’istituto scolastico di Bologna in cui le benedizioni sono diventate un caso. Introdotte con una delibera del Consiglio stesso l’anno scorso, poi cancellate da una sentenza del Tar qualche settimana fa, sentenza che ora è stata sospesa dal Consiglio di Stato. Non solo. A Bologna stanno facendo discutere, con coda polemica rovente, anche le benedizioni negli uffici comunali, che hanno fatto gridare allo scandalo soprattutto Cgil e atei e divisi la città.
LA PROPOSTA — «Il bene si suscita con un po’ di amore donato a qualcuno, vincendo quello che è il male della nostra società, cioè l’indifferenza. Invece che qualche goccia d’acqua, perché negli uffici e nelle scuole non portiamo qualche ovetto (di Pasqua, ovvio; chissà se è laico un ovetto di Pasqua?) suggerendo (con molta delicatezza e garbo) di portarlo a qualcuno? Magari a qualcuno a cui nessuno lo porterebbe mai». Don Matteo lo ha scritto anche in una lettera inviata all’Ansa. «Il gesto, credo, sarebbe del tutto aconfessionale — prosegue il prete — susciterebbe del bene e ai nostri ragazzi insegnerebbe qualcosa; ma non solo a loro. E per chi attende una benedizione da Dio Padre, nessuna benedizione può essere più gradita a Dio di un po’ di attenzione al prossimo». «Sono molto stanco — continua il sacerdote — di leggere sui giornali posizioni così contrapposte e violente; sono particolarmente a disagio, soprattutto perché passo quasi due mesi della mia vita a benedire case, aziende, uffici e negozi; non posso pensare che questo sia capace di portare a tanta rabbia». Quello degli ovetti è «un’idea, un divertissement, — aggiunge —, credo che sia meglio trovare qualcosa che unisce, ad esempio mangiamoci un ovetto insieme, piuttosto che dividersi così»
http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2016/9-marzo-2016/benedizioni-scuole-bologna-don-prodi-non-acqua-ma-ovetti-240152096977.shtml#
Bellissimo e formativo articolo del link di Mic.
RispondiEliminaRiporto il passo che mi ha colpito di più, che coglie l'essenza negativa del modernismo:
"...Come diceva Gilbert Keith Chesterton, una Chiesa siffatta può piacere al mondo, ma non gli fa alcun bene: “La Chiesa non può muoversi coi tempi; semplicemente perché i tempi non si muovono. La Chiesa può solo infangarsi coi tempi e corrompersi e puzzare coi tempi. (…) E la Chiesa ha il compito di salvare tutta la luce e la libertà che può essere salvata, resistere a quella forza del mondo che attrae in basso, e attendere giorni migliori.
Una chiesa vera vorrebbe certo fare tutto questo, ma una Chiesa vera può fare di più. Può fare di questi tempi di oscurantismo qualcosa di più di un tempo di semina; può farli il vero opposto dell’oscurità. Può presentare i suoi ideali in tale e attraente e improvviso contrasto con l’inumano declivio del tempo da ispirare d’un tratto agli uomini qualcuna delle rivoluzioni morali della storia, così che gli uomini oggi viventi non siano toccati dalla morte finché non abbiano visto il ritorno della giustizia. Non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo”.
Intanto, come dice il prode prete Prodi, vero 'cuor di leone', regliamo gli ovetti di cioccolata ai poveri e mangiamoli con loro, "divertissment aconfessionali" che favoriscono il dialogo.
E poi, scusate, volete mettere gli ovetti di cioccolata col digiuno quaresimale?
Pace e bene
Il "baratto" degli ovetti è addirittura con l'acqua Santa e la benedizione.
RispondiEliminaIl problema è che hanno espunto il soprannaturale proprio in coloro che dovrebbero portarlo alla gente...
http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p2s2c4a1_it.htm
RispondiEliminasentite questa, dal diario di Bruno Cornacchiola (veggente delle tre fontane a Roma, che per tutta la vita vide la Madonna ed ebbe delle proferzie che si ricollegano a Fatima). Parla Cornacchiola:21 settembre 1988 "quello che ho sognato non si avveri mai, è troppo doloroso e spero che il Signore non permetta che il Papa neghi ogni verità e si metta al posto di Dio. quanto dolore ho provato nella notte, mi si paralizzavano le gambe e non potevo più muovermi, per quel dolore provato nel vedere la Chiesa ridotta a un ammasso di rovine"
RispondiEliminaAltra visione: 4 gennaio 1992" Signore, tu mi hai fatto vedere una volta, ai primi tempi della grazia ricevuta, sacerdoti in fila che entravano nella chiesa di s.Marcellino in via Merulana e ne uscivano in borghese. Ora me li mostri in talare, ma sono gli uni contro gli altri. Cristiani che si combattono perchè non hanno più un capo che li guidi."
Che Mario Palmaro interceda per noi!
Tengo ancora come ricordo un cartoncino azzurro che hanno distribuito al suo funerale che possiamo considerare il suo testamento spirituale frasi che ricordano l'ovvio , cioè che un bambino nasce per l'amore di mamma e papà.
RispondiEliminabèh, l'ovvio di una volta è diventato straordinario ora con questa tirannia del politicamente (s)corretto
Un ricordo:
RispondiEliminaPiazza San Pietro
Mercoledì, 19 marzo 2014
"... Che san Giuseppe vi benedica e vi accompagni. E alcuni di noi hanno perso il papà, se n’è andato, il Signore lo ha chiamato; tanti che sono in piazza non hanno il papà. Possiamo pregare per tutti i papà del mondo, per i papà vivi e anche per quelli defunti e per i nostri, e possiamo farlo insieme, ognuno ricordando il suo papà ..."
Rimane in fondo al cuore una domanda: siamo pochi e male armati, pochissime le guide, eroi ancor meno, perché Mario non qui?
RispondiEliminaDavanti al Tremendo, non trovo risposta se non un nodo d'assenso in gola.
Ti comprendo, Irina.
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