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venerdì 1 aprile 2016

don Curzio Nitoglia. Il Succo dell'Apocalisse / 3

IL SUCCO DELL’APOCALISSE
Prima - Seconda - Terza - Quarta - Quinta - Sesta - Settima puntata



Capitolo XIV (1-20)

Il capitolo XIV si apre con il quarto segno: l’Agnello e i vergini. Esso è preceduto da tre segni nei capitoli XII e XIII, che già abbiamo visto su questo stesso sito qualche tempo fa e che ora riassumo brevemente. 

Nel capitolo XII è apparso il primo segno: la donna (Maria/la Chiesa) e il dragone rosso (il diavolo); nel capitolo XIII il secondo e il terzo segno: la bestia che sale dal mare (l’Anticristo finale) e la bestia che sale dalla terra (i falsi profeti e gli eresiarchi). Siccome abbiamo già visto il significato del capitolo XII e XIII, ora ci soffermiamo sul XIV.

Dopo le due terribili visioni del dragone e dell’Anticristo, l’Apostolo per dare un po’ di respiro ai fedeli descrive la gloria e la felicità degli eletti in compagnia di Gesù (v. 1). Infatti egli vede l’Agnello (Gesù) sul monte Sion (la sede del Messia; Sal., II, 6; Lc., I, 32) assieme a 144 mila persone, che portavano scritto sulle loro fronti il nome dell’Agnello (Gesù) e del Padre suo (Dio Padre). 

Inizia adesso il giudizio della città terrestre (Babilonia) in opposizione con la Gerusalemme celeste o la Città di Dio, giudizio iniziale che si concluderà con il giudizio universale: la definitiva condanna dei malvagi e la glorificazione degli eletti.

L’Agnello sta in piedi, non più come ucciso (cfr. cap. V, 6), ma come un re circondato da tutta la sua splendida corte. L’Agnello sta sul monte Sion, che era la parte più sacra di Gerusalemme e simbolicamente rappresenta la casa del Messia: il cielo e la Chiesa (la Gerusalemme celeste), ed è circondato da 144 mila (numero indefinito che indica una grande moltitudine) persone, che rappresentano la turba magna degli eletti di ogni popolo e nazione segnata in fronte dagli angeli (VII, 2-9). Infatti nella Nuova Alleanza bastano la fede in Cristo e le buone opere per salvarsi e non è più necessaria l’appartenenza al popolo d’Israele. Questi eletti hanno impresso sulla loro fronte il nome di Dio Figlio e di Dio Padre, i quali essendo consustanziali sono inseparabili. Si noti come viene affermata, contro le future eresie, la consustanzialità del Padre e del Figlio in questo 1° verso del capitolo XIV dell’Apocalisse. I santi, perciò, partecipano al giudizio finale di Gesù, dopo aver dato testimonianza a lui e aver partecipato alle sue tribolazioni.

Gli eletti in cielo cantano con voce forte, che sorpassa ogni rumore, come il fragore di molte acque, che scendono a cascata ed assieme con una voce sonora come quella di un tuono,  ma anche armoniosa come il suono delle cetre (v. 2).

Essi cantano dinanzi al trono di Dio un cantico nuovo (v. 3), ossia il canto della redenzione del genere umano operata nella Nuova Alleanza dalla morte in croce di Gesù. Infatti nessuno poteva esprimere o ripetere quel cantico se non quei 144 mila vergini (vedi v. 4) i quali furono comperati (riscattati/redenti) col sangue dell’Agnello da questa terra presa qui in senso spregiativo, ossia dal mondo che odia Cristo.  

Al verso 4 l’Apostolo specifica che la turba dei 144 mila eletti è composta di vergini: “costoro sono quelli che non si son macchiati con donne poiché son vergini”. Ora la verginità di cui si parla qui è interpretata dai Padri in diversi modi:
  1. Sant’Agostino (De sancta Virginitate, XX, 7) e S. Girolamo (Adv. Jovin., I, 40) ritengono che si tratti della verginità fisica in senso stretto, che ha portato costoro ad astenersi per amore di Gesù dalle gioie lecite del matrimonio;
  2. invece Bossuet, Crampon, Brassac ritengono si tratti della verginità spirituale o religiosa, cioè di coloro che non hanno fornicato spiritualmente con gli Dei pagani cadendo nell’idolatria.
Qui si parla solo di “macchiarsi con donne” (v. 4) in quanto le donne rappresentano
  1. le gioie legittime del matrimonio, secondo la prima tesi sostenuta dai Padri della Chiesa; oppure
  2. le divinità pagane, le dottrine false e le dissolutezze morali, nella seconda tesi sostenuta dagli autori moderni citati sopra.
Padre Sales asserisce di preferire la prima tesi, senza voler disprezzare la seconda, sia per la maggiore autorità di cui godono i Padri ecclesiastici, sia perché corrisponde meglio al contesto (nota 4, cap. XIV).  

Inoltre occorre interpretare il versetto “non si son macchiati con donne” (v. 4) non in senso dispregiativo. Infatti il matrimonio in sé è cosa santa, ma è inferiore alla verginità (di ambo i sessi) scelta per amor di Dio.  
“Costoro seguono l’Agnello ovunque vada” (v. 5), ossia formano la sua corte d’onore e son sempre vicini a Gesù nella gloria del cielo per la loro rinuncia ai legittimi piaceri di questa terra. Essi “furono comperati (riscattati dalla prigionia del peccato originale e attuale) di tra gli uomini come primizie a Dio e all’Agnello”, ossia come una parte eletta o prima del gregge di Gesù, la quale è consacrata, mediante la verginità, in maniera speciale a Dio.

Inoltre (v. 5) “non si è trovata menzogna nella loro bocca”, ossia hanno custodita la vera fede e non hanno proferito false dottrine.

La scena dell’Agnello glorioso sul monte Sion con i suoi fedeli fa da sfondo al giudizio tremendo che Gesù sta per compiere sul mondo inteso in senso peggiorativo in quanto opposto a Dio e al Vangelo.
Ecco il quinto segno: “Vidi un altro angelo, che volava nell’alto del cielo, ed aveva il Vangelo (qui ha il senso di messaggio/decreto) eterno (immutabile, come lo sono i decreti divini) per evangelizzare  gli abitanti della terra e ogni nazione, tribù e lingua” (v. 6), vale a dire un angelo che diversamente da quelli apparsi sino ad ora, volava nella parte più alta del cielo per essere inteso da tutti gli uomini di questa terra. Quest’angelo ha il “Vangelo eterno”, ossia un libro in cui è scritto il decreto eterno e immutabile di Dio di salvare gli uomini mediante l’Incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo, decreto che l’angelo deve far conoscere a tutti prima del giudizio finale. 

Pertanto si ha qui un appello alla conversione dal peccato per conseguire la vita eterna.
L’angelo dice ad alta voce: “temete Dio e dategli onore perché è giunto il tempo del suo giudizio” (v. 7), cioè l’angelo sprona gli uomini a prepararsi al loro giudizio particolare e a quello universale, invitandoli al santo timor di Dio e a dargli l’onore che gli spetta poiché il giudizio (particolare e universale) si avvicina.

Segue (v. 8) ancora un altro angelo diverso dal precedente il quale annuncia all’universo intero che è caduta “la gran Babilonia” (la città del male), la quale “ha abbeverato tutte le genti col vino dell’ira della sua fornicazione”. Si noti che l’angelo usa il passato profetico: “è caduta” per denotare la certezza di questo avvenimento futuro. 

Babilonia (la Gerusalemme deicida o la Roma pagana, secondo gli autori, cfr. XVIII, 1 ss.) ha fatto bere  a tutte le genti il vino  della sua fornicazione[1] spirituale, ossia le ha ubriacate con l’idolatria e l’infedeltà, portandole a rinnegare il vero Dio e Gesù Cristo. Questo è il motivo della vendetta divina. Perciò il vino della fornicazione o dell’idolatria è detto vino d’ira, poiché ubriacando con l’infedeltà attira la collera di Dio sugli idolatri.  

Babilonia rappresenta la sintesi delle abominazioni pagane. Gerusalemme deicida e Roma pagana vi sono simboleggiate ampiamente. In ogni caso il giudizio divino annichilatore di Babilonia trascende Roma, che è diventata cristiana ed è la città santa della Nuova Alleanza, avendo rimpiazzato Gerusalemme così come il Nuovo Testamento ha rimpiazzato l’Antico. Tuttavia si ritiene da parte di molti autori che durante il regno dell’Anticristo anche a Roma penetrerà la “grande apostasia” e lo spirito anticristiano, per cui anch’essa dovrà subire i castighi divini. 

Quindi arriva un terzo angelo (v. 9) che dice ad alta voce: “Se qualcuno adora la bestia (l’Anticristo) e la sua immagine e riceve il carattere sulla sua fronte o sulla sua mano, anch’egli berrà il vino dell’ira divina, versato puro nel calice dell’ ira divina”.  Gli apostati che per sfuggire alla persecuzione rinnegheranno Cristo e idolatreranno l’Anticristo (XIII, 4 ss.), avendo bevuto il vino dell’idolatria, come Babilonia saranno castigate dall’ira divina (v. 10). La giustizia divina è manifesta: come Babilonia ha sparso a destra e a manca il “vino della sua prostituzione” ai suoi seguaci, questi dovranno bere “il vino della collera di Dio” non diluito o mescolato, ma puro e quindi col massimo della pena.

La santa collera di Dio è paragonata al vino puro anche perché nulla potrà diminuire la sua forza. Quindi i castighi che Dio infliggerà agli adoratori dell’Anticristo saranno gravissimi e non edulcorati. Infatti l’Apostolo continua: “Saranno tormentati col fuoco e con lo zolfo”, vale a dire nell’inferno eterno, poiché “il fumo dei loro tormenti  si alzerà nei secoli dei secoli e non avranno riposo né di giorno né di notte” (v. 11), ossia in questo fuoco inestinguibile le pene dei dannati saranno continue ed eterne. 

Quindi l’Apostolo contrappone la sorte felice dei santi con la disperata caduta del regno satanico e anticristico;  incoraggia i fedeli annunziando dopo la rovina degli empi impenitenti la felicità degli eletti: “Qui sta la pazienza dei santi, i quali osservano i precetti di Dio e la fede di Gesù” (v. 12), cioè i veri fedeli, che non solo hanno la retta fede nella divinità di Cristo, ma ne osservano anche i Comandamenti dacché “la fede senza le opere è morta”, si salveranno l’anima mediante la sopportazione paziente delle persecuzioni senza piegare il ginocchio davanti all’Anticristo e rinnegare Gesù. Perciò in mezzo a tanta rovina c’è sempre la speranza di salvarsi e andare in cielo per tutta l’eternità, restando pazientemente fedeli alla fede e alla morale cristiana: “In patientia vestra possidebitis animas vestras”.  

Una voce dal cielo, che è quella di Cristo, conferma quanto appena detto: “Beati i morti che muoiono nel Signore (in grazia di Dio). È proprio così, conferma lo Spirito Santo[2], infatti essi riposano dalle loro fatiche poiché le loro opere buone li seguono” (v. 13), vale a dire che la morte per essi è una gioia e un gran riposo dopo le grandi fatiche delle persecuzioni che han dovuto subire con pazienza, poiché il merito delle opere buone che hanno fatto su questa terra li accompagna nell’aldilà: “Chi avrà perseverato sino alla morte sarà salvo” (Mt., X, 22). “Talis vita, mors ita”. Immediatamente dopo la morte è fissato per ognuno il suo destino di gloria o dannazione eterna in base alle opere compiute (Mt., XXIV, 42 ss.; 1 Tess., V, 1 ss.; Rom., XIII, 11 ss.). La morte per la dottrina cristiana è paragonabile ad un  placido sonno in cui è assente ogni pena. Dopo la morte ci seguono solo le opere buone o cattive che abbiamo fatto in vita, null’altro potremo portar via con noi da questo mondo.

Siam giunti al sesto segno: “Ecco una candida nuvola e sopra la nuvola uno che sedeva simile al Figlio dell’uomo, il quale aveva sulla sua testa una corona d’oro e nella sua mano una falce tagliente” (v. 14). È certo che qui si parla di Gesù, il Figlio dell’uomo, il quale ha predetto che un giorno sarebbe venuto sulle nuvole del cielo con gran potere (Mt., XIII, 30), infatti ha una corona aurea sul capo simbolo di potere regale. Inoltre ha una falce ben affilata e tagliente[3] perché verrà per punire i malvagi (come viene rappresentata comunemente nell’arte cristiana la morte che miete le vittime con la falce) ponendo fine alla loro cattiva esistenza nel giudizio particolare e, analogamente, a quella del mondo con il giudizio universale (Mt., XII, 39).

Esce un altro angelo dal tempio, ossia dal paradiso, che è il seggio di Dio (v. 15) gridando a voce alta a Colui che siede sopra la nuvola (Gesù) di girare la sua falce e di mietere poiché è giunta l’ora della mietitura. Quest’angelo, in breve, porta a Gesù (seduto sulla nuvola) l’ordine di Dio Padre (padrone del cielo e della messe: gli uomini buoni e cattivi, che dovranno passare attraverso la morte per ottenere il castigo o il premio eterno). Ora l’ordine del Padre eterno è questo: “Gira la tua falce e mieti perché è giunta l’ora della mietitura in quanto la messe è secca” (v. 15), ossia Gesù deve iniziare a punire i malvagi poiché il numero degli eletti è compiuto ed oramai è venuta l’ora dell’ira divina e della fine del mondo. E Colui che siede sulla nuvola (Gesù) getta la sua falce e comincia a tagliare e a mietere sulla faccia della terra, cioè a raccogliere i buoni nel granaio e i malvagi in fascine da ardere (Mt., XIII, 30)  “e la terra fu mietuta” (v. 16), vale a dire venne distrutta tutta l’umanità ribelle a Dio. 
Uscì anche un altro angelo (v. 17) dal tempio (cielo) avendo anch’egli una falce tagliente, come per aiutare Gesù a compiere la mietitura. 

Un altro angelo ancora (v. 18) uscì dall’altare (sotto il quale stavano i martiri invocando giustizia, cfr. VI, 9; VIII, 3), il quale aveva potere sopra il fuoco dell’altare, sul quale nella Vecchia Alleanza venivano consumati gli olocausti, figura dell’Olocausto per eccellenza: quello di Gesù crocifisso; ossia quest’angelo sovrintendeva alla liturgia celeste e gridò a quello che aveva la falce tagliente: “usa la tua falce tagliente e vendemmia i grappoli della vigna della terra poiché l’uva è matura” (v. 18); i grappoli da spremere rappresentano i malvagi impenitenti, che si trovano nel corridoio del pozzo dell’abissale inferno (cfr. Is., LXIII, 3). 

Il castigo tremendo dei malvagi è descritto come una vendemmia cui segue la pigiatura, la quale si conclude in un orribile straripamento di sangue (cfr. Gioele, IV, 13 ss.).

Quindi l’angelo usò la sua falce sopra la terra (v. 19) e vendemmiò la vigna (le anime) della terra e “gettò la vendemmia nel grande tino dell’ira di Dio”. La collera di Dio è simboleggiata da un tino, un corridoio, uno strettoio di un pozzo, in cui vengono spremuti o schiacciati gli empi proprio come si pigiano i grappoli d’uva per fare il vino. Allora “il tino fu pigiato fuori della città (di Dio, che non deve sentire alcun dolore, né il peso dell’ira divina, né la contaminazione della presenza dei cadaveri degli empi) e dal tino uscì sangue sino all’altezza dei freni dei cavalli per milleseicento stadi” (v. 20). Gli autori ritengono che si accenni qui con “fuori della città di Dio” al giudizio che avverrà nella valle di Giosafat che sta fuori Gerusalemme, che è la città di Dio dell’Antica Alleanza  (cfr. Gioele, IV, 12; Ez., XXXIX, 1 ss.; Zac., XIV, 2 ss.). È terribile questa immagine del tremendo giudizio di Dio. Gesù spreme gli empi in maniera così forte che il sangue scorre e arriva sino alle staffe dei cavalli e forma una specie di lago lungo uno spazio di 1600 stadi, ossia 296 chilometri.  Il fatto che si accenni alle staffe dei cavalli è interpretato nel senso che Cristo affronta i suoi nemici nel giudizio finale in qualità di guerriero a cavallo e quindi il sangue dei suoi nemici arriva sino alle staffe dei cavalli ed è esteso per 1600 stadi, che simbolicamente - 4 x 4 (il quadrato cosmico) x 100 (il culmine quantitativo) - indicano l’infinita potenza di Cristo vittorioso (A. Romeo).

Qui non si dice da chi fu pigiato il tino, ma poi il Libro sacro (XIX, 15) specifica che l’esecutore della pigiatura e del castigo divino è Gesù Cristo. 

Tutta questa parte (capp. XII-XIV) di visioni-chiave dell’Apocalisse ci porta verso la rivelazione della fine del mondo. 

Capitolo XV (1-8)

Con il capitolo XV si conclude il ciclo dei segni. Il nuovo prodigio delle sette coppe (capp. XV-XVI) conduce direttamente alla parusia che sarà descritta nel capitolo XIX (vv. 11-16).

Infatti dal verso 1 al 4 l’Apostolo vede il settimo e ultimo segno: “sette angeli che portavano le sette ultime  piaghe: perché con queste si sazia l’ira di Dio” (v. 1), ossia queste sono le ultime piaghe sia per opposizione a quelle iniziali descritte nei capitoli VI-IX sia perché comprendono l’ultimo sconvolgimento della fine del mondo con la quale l’ira di Dio troverà termine e sarà saziata.

L’Apostolo vede come un mare di vetro misto a fuoco (v. 2); esso simboleggia la distanza infinita che separa Dio dall’Apostolo poiché il mare è talmente vasto che non si può vedere l’altra sua sponda; inoltre questo mare è trasparente come il cristallo e permette a Dio di penetrare ogni cosa e all’Apostolo di contemplare Dio e le sue rivelazioni delle cose future. Questo mare, inoltre, è misto al fuoco, ossia è di colore rosso, quindi si fa allusione
  1. alla misericordia di Dio: il Mar Rosso attraversato a piedi asciutti dagli ebrei che con Mosè lasciavano l’Egitto;
  2. alla sua giustizia: poiché il Mar Rosso si richiuse sugli egiziani e li affogò. Il fuoco indica e conferma la collera di Dio nei riguardi degli empi.
Inoltre San Giovanni vede coloro che avevano vinto la bestia (l’Anticristo) star dritti sul mare di vetro tenendo cetre divine (v. 3), vale a dire destinate ad accompagnare i cantici di Mosè e dell’Agnello che gli eletti intonano in cielo in onore di Dio, con cui si celebra la redenzione compiuta da Gesù (l’Agnello scannato), prefigurata dalla liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto. I santi sono detti “vincitori” della bestia del mare in quanto avendo attraversato la grande tribolazione e superato il mondo con le sue tre concupiscenze, escono dalla Chiesa militante per costituire la Chiesa trionfante, che sono vitalmente unite e resistono (in battaglia la prima e in pace la seconda) vittoriosamente al potere della contro-chiesa di satana, dell’Anticristo e dei falsi profeti, che imperversa in questo mondo.

Il contenuto dei cantici inneggia alla grandezza delle opere di Dio, cioè alla redenzione e alla restaurazione della bellezza del regno di Dio rovinata dal peccato originale; alla  giustizia delle sue vie, vale a dire alla rettitudine dei suoi giudizi nel punire i peccatori e nel premiare i buoni.

Per cui conclude l’Apostolo: “Chi non ti temerà o Signore e non loderà il tuo nome?” (v. 4), onde come conseguenza della santità divina vi sarà un capovolgimento della situazione dell’umanità e “Tutte le nazioni verranno e si incurveranno davanti a te” (ivi, cfr. Sal., LXXXVI, 9).

Dopo ciò “si aprì il tempio nel cielo e sette angeli che portavano le sette piaghe uscirono dal tempio del tabernacolo del testimonio” (v. 5-6). Il  cielo è rappresentato come l’antico tabernacolo del tempio di Gerusalemme in cui si conservavano le tavole dei 10 Comandamenti, che (Es., XXV, 16) presso Israele son chiamate “testimonianza di Dio”. Il tabernacolo del testimonio fu costruito su precise indicazioni date da Dio a Mosè ed Aronne, mentre traversavano il deserto.

“I sette angeli, che portavano le sette piaghe, uscirono dal tempio” (v. 6), cioè escono dalla parte del cielo in cui son contenuti i decreti divini relativi ai destini dell’umanità e si apprestano a eseguirli.

Infatti “Uno dei quattro animali (cfr. IV, 6-8) diede ai sette angeli sette coppe d’oro ripiene dell’ira di Dio”, ossia queste sette coppe contengono la pienezza (simboleggiata dal numero sette) delle piaghe con cui Dio, mediante il ministero degli angeli, punirà gli empi. Spesso nella S. Scrittura l’ira di Dio è paragonata alla coppa che nei grandi banchetti si mandava in giro e alla quale tutti dovevano bere.

Allora “Il tempio si empì di fumo per la maestà di Dio” (v. 8). Il fumo è il segno della maestà incomprensibile di Dio ed anche della sua ira poiché ove c’è fumo c’è anche il fuoco. Perciò “nessuno poteva entrare nel tempio”, cioè
  1. nessuno poteva avvicinarsi a Dio per scrutare i suoi decreti né tantomeno per arrestare la loro esecuzione; e
  2. non era ammessa nessuna intercessione per placare l’ira divina, “finché non fossero compiute le sette piaghe dei sette angeli”, in quanto oramai il castigo è inevitabile e sta per scoccare la sua ora. 
Capitolo XVI (1-21)

L’Apostolo ode una gran voce dal tempio (cielo) che diceva ai sette angeli: “Andate e versate le sette coppe dell’ira di Dio sulla terra” (v. 1). Le sette coppe simboleggiano i mali che Dio manderà sulla terra (quale sede degli uomini) prima del giudizio universale e sono versate sulla terra dagli angeli. Queste piaghe sono molto più gravi delle dieci piaghe dell’Egitto (Esod., VII, 1 ss.) perché essendo cresciuta l’empietà è cresciuta anche l’ira di Dio. Gli autori reputano che la voce la quale ordina all’angelo di versare le coppe sia quella di Dio.

Il primo angelo versa la prima coppa sulla terra (v. 2) e ne viene un’ulcera o una piaga maligna ed infetta, la quale colpisce gli uomini che avevano il marchio della bestia (l’Anticristo) e ne avevano adorata l’effigie.

La seconda coppa viene versata da un altro angelo nel mare (v. 3), che diviene come il sangue infetto e putrido di un cadavere. Si tratta secondo gli autori di vero e proprio sangue e probabilmente di sangue umano (“come di un morto”). 

La terza coppa viene versata nei fiumi e nelle acque (v. 4) e così anche l’acqua dolce diviene sangue.
Quindi l’Apostolo sente l’angelo delle acque  dire: “Sei giusto o Signore a giudicare così, perché hanno sparso il sangue dei santi e dei profeti e hai dato loro da bere sangue ed infatti ne sono degni” (v. 5). L’angelo che ha inquinato le acque salate e dolci approva il giudizio operato da Dio, anche se produce tremendi castighi: siccome hanno ucciso i santi è giusto che a loro volta vengano uccisi.

Poi il quarto angelo versa la sua coppa nel sole “e gli fu dato di affliggere gli uomini col calore e col fuoco” (v. 8). Il sole già aveva perso un terzo della sua luce (VIII, 12), adesso il castigo aumenta, perché il suo calore diventa intensissimo e affligge gli uomini  anche col fuoco; addirittura il testo greco recita: “gli fu dato di bruciare gli uomini col fuoco”. Tuttavia gli uomini non si convertono, anzi quelli che “bruciarono per il gran calore, bestemmiarono il nome di Dio” (v. 9), vale a dire si ostinano nel male come il faraone dopo le piaghe d’Egitto ed attirano, così, sulle loro teste castighi anche peggiori.

Il quinto angelo versa la sua coppa “sul trono della bestia” che è l’Anticristo (v. 10), trono che gli è stato dato dal dragone (satana, cfr. XIII, 2). Dio ora attacca direttamente e frontalmente il  capo degli empi, il cui trono, ossia il suo regno (di 3 anni e mezzo), diventa tenebroso, cioè sta per finire, sia per il dolore causato dalle tenebre, sia per quello procurato dalle quattro piaghe precedenti. I suoi adepti che prima spadroneggiavano e perseguitavano i fedeli ora, nella disperazione di un dolore senza fondo,  “si mordono le proprie lingue per la disperazione”, ma non fanno penitenza delle loro opere e muoiono disperati come Giuda, perché: “bestemmiarono il Dio del cielo a motivo dei dolori e delle loro piaghe” (v. 11). La conversione, la penitenza e le opere sono il motivo morale che percorre l’intera Apocalisse, che è tutta un invito alla conversione.

Il sesto angelo versa la sua coppa nel fiume Eufrate (v. 12), sul quale si trovava Babilonia, la città empia per antonomasia che è figura dei nemici di Dio. La sesta coppa non produce immediatamente una piaga, ma prepara la battaglia dei re del mondo del male contro Dio, in cui si avverano la vittoria sfolgorante di Cristo e l’annichilamento tremendo dei perversi. Quindi “le sue acque vennero prosciugate, affinché si preparasse la strada ai re dell’oriente”.  Avviene qui un miracolo simile ma di senso opposto al prosciugamento del Mare Rosso. Lì infatti il mare si asciugò per far passare indenni i fedeli di Dio e per la distruzione dei malvagi; qui invece il mare si asciuga per far passare i perversi e questo è il flagello. Il fatto che le sue acque sono asciugate significa che è vicina una prossima guerra e un’invasione dall’oriente verso l’occidente poiché nell’antichità tutti gli eserciti invasori per entrare in Palestina, in Grecia e nell’Impero romano dovettero traversare l’Eufrate. Gli autori ritengono, perciò, che i re dell’oriente, idolatri e infedeli, si uniranno coi loro popoli all’Anticristo per combattere contro Dio. Tuttavia occorre tener a mente che il richiamo all’oriente è un simbolo di una realtà molto più vasta nel tempo e nello spazio: si tratta di tutto il mondo del peccato con le sue pompe e la sua potenza, che sino alla fine si ostina a combattere la restaurazione del regno spirituale di Dio, sfigurato dal peccato originale e dai peccati attuali. Tuttavia Dio permettendo che la totalità degli empi si riunisca in un sol luogo li disperde più facilmente con un sol colpo (cfr. XIX, 19). 

L’Apostolo, a questo punto, ha una visione terrificante: ricompare apertamente (dopo il capitolo XIII) la triade maligna (una specie di “contro-Trinità”), rimasta dietro le quinte: il dragone, la bestia e i falsi profeti. 

“Vidi uscire dalla bocca del drago (il diavolo) e dalla bocca della bestia del mare (l’Anticristo) e dalla bocca del falso profeta (la bestia della terra) tre spiriti immondi (demoni) simili alle rane” (v. 13), che son viscide e vivono nel fango; questi spiriti sono immondi e sporchi come le rane. Questi tre diavoli mostrano l’influenza che il dragone (satana), l’Anticristo (la bestia del mare) e i falsi profeti (la bestia della terra), dalle cui bocche sono usciti, eserciteranno sugli ultimi avvenimenti che riguardano la fine del regno dell’Anticristo e precedono la fine del mondo.

Questi tre demoni sono strumenti della triade maligna (dragone, Anticristo e falsi profeti) che li dota dei suoi poteri e li rende partecipi della sua missione: reclutare adepti, occultarsi, infittire le proprie trame, diventare maggioranza: questa è la chiave dei piani segreti di satana (A. Romeo).

L’Apostolo-profeta ne spiega la ragione: “Poiché sono spiriti di demoni, che fanno prodigi, e se ne vanno ai re di tutta la terra per congregarli a battaglia nel gran giorno di Dio onnipotente” (v. 14), cioè il giorno del giudizio e dell’ira di Dio (“die irae, dies illa”). 

I tre spiriti maligni del verso anteriore sono demoniaci e riescono a riunire tutti i malvagi in un solo esercito (la contro-chiesa) per combattere contro Dio, i suoi fedeli e la sua Chiesa. Questa battaglia viene descritta per quanto riguarda l’Anticristo nel capitolo XIX (vv. 11-12) e per quanto riguarda il dragone (il diavolo) nel capitolo XX (vv. 8-10). Tuttavia le parole “il gran giorno di Dio onnipotente” ci fanno capire subito che la vittoria appartiene a Dio solo. Infatti questi tre spiriti maligni son simili alle rane che possono  gracchiare e gonfiarsi, ma nulla di più; così questi tre demoni potranno unire i malvagi, ma non potranno nulla contro Dio poiché sono già stati giudicati.

Ora l’Apostolo, dopo aver rivelato queste visioni tremende, infonde coraggio e speranza ai fedeli scrivendo: “Ecco che Io vengo come un ladro. Beato chi veglia e tiene cura delle sue vesti, per non andare nudo, onde vedano la sua bruttezza” (v. 15), ossia alla vista dei pericoli per l’unione dei malvagi, guidati dal demonio, dall’Anticristo e dai falsi profeti, il profeta di Patmos riprende un insegnamento del Vangelo (Lc., XII, 35) esortando i fedeli alla vigilanza. Infatti Gesù verrà a giudicarci all’improvviso nel dì della nostra morte, come quando si presenta un ladro in casa quando meno ce lo aspettiamo. Quindi dobbiamo vigilare sulle nostre vesti, ossia sullo stato di grazia per non perderlo e non comparire spogli di meriti davanti a Cristo giudice, in peccato mortale di modo che si veda tutta la nostra bruttezza spirituale e siamo condannati al fuoco dell’inferno. “L’Apocalisse abbonda in tali inattese pause o capovolgimenti sinfonici”  (A. Romeo).

L’Apostolo alla fine di questa raccomandazione, chiusa la parentesi, continua la descrizione iniziata al v. 13 aggiungendo al versetto 16: “e li radunerà nel luogo chiamato in ebraico Armagedon”, vale a dire Dio radunerà i re malvagi in un luogo che in ebraico significa città di Magedo (città alle falde dei monti che prolungano il Monte Carmelo) e qui li punirà tutti assieme in un sol colpo. Secondo gli autori si fa riferimento al luogo ove si raduneranno i seguaci dell’Anticristo e i nemici di Dio che sarà per loro una seconda Magedo (infatti in passato nella pianura di Magedo fu sconfitto l’esercito del re Giosia, l’oppressore d’Israele; cfr. Giudici, IV, 7; 2 Re, XXIII, 29), ossia un luogo di vendetta e di strage, perché sopra di essi si scatenerà la collera di Dio con tutta la sua potenza distruttrice. Non è sicuro che ciò debba prendersi alla lettera in senso stretto, forse indica genericamente la coalizione della contro-chiesa e la sua totale disfatta. 

Infine arriva il momento della settima e ultima coppa (vv. 17-21), che conduce alla fine del dramma terrestre: “e il settimo angelo versò la sua coppa nell’aria” (v. 17) e perciò si ebbero grandissime perturbazioni atmosferiche. Dal tempio (il cielo) uscì una gran voce proveniente dal trono (di Dio), che diceva: “è fatto”, ossia l’ordine degli eventi prestabilito da Dio (la volontà di Dio) è compiuto (“consummatum est”), questa è l’ultima piaga e poi arriverà immantinente il giudizio di Dio. Questo compimento è la consumazione con cui si chiude il tempo e si entra nell’eternità e viene chiamato anche “la fine” (1 Cor., XV, 24). Esso ha un aspetto negativo: l’eliminazione dei nemici di Cristo ed uno positivo: l’universo rinnovato e trasfigurato dalla conflagrazione finale o tranmsutatio in melius (“solvet saeculum in favilla”). 

Allora seguirono folgori, voci e tuoni e si scatenò un gran terremoto come non era mai avvenuto da quando gli uomini sono sulla terra (v. 18), il mondo nemico di Dio precipita nello sconquasso dopo aver spadroneggiato nel corso dei secoli. Quindi “la grande città” (che è Gerusalemme, così già chiamata al capitolo XI verso 8, e rappresenta la capitale del regno dell’Anticristo)  “si squarciò in tre parti” (v. 19), ossia fu rovinata completamente. 

S. Agostino (De Civitate Dei, XIV, 28), in senso lato, la chiama la città terrena, che per amor di sé odia Dio; opposta alla Città di Dio, in cui per amore del Signore si rinnega il proprio io. Essa di volta in volta riveste le sembianze della Gerusalemme deicida, della Roma pagana ed ora riceve definitivamente il nome di Babilonia la grande.  

Anche le città dei pagani ostili a Dio e a Cristo “caddero a terra”, crollarono totalmente, e Dio chiamò davanti a Sé Babilonia per “darle il calice del vino della sua ira”, ossia il Signore giudicò esser venuto il momento di colpire la grande Babilonia, che è simbolo di tutta la società anticristiana, incarnata man mano in varie città (Gerusalemme, Roma…). Queste parole preparano le descrizioni che si trovano nei capitoli XVII e XVIII.

Allora “tutte le isole fuggirono e sparirono i monti” (v. 20). Viene qui  descritto lo sconvolgimento finale del mondo; isole e montagne sono rimosse, in realtà è tutto il mondo che scompare ed è trasmutato e glorificato dal fuoco del giudizio universale.

Infine “cadde dal cielo sugli uomini una grandine grossa come un talento” (v. 21) che presso gli ebrei pesava 42 chilogrammi, e perciò il castigo è veramente terribile. Ma, invece di convertirsi, “gli uomini bestemmiarono Dio per la piaga della grandine”. 

Si abbatte sul mondo nemico di Dio un flagello inaudito che porta la vendetta di Dio al culmine. L’iniquità umana da una parte e le misure vendicative di Dio dall’altra parte hanno raggiunto l’apice. Siamo alla fine del dramma, alla catastrofe. Questo versetto apre alle visioni che dipingono l’immoralità di Babilonia e il castigo che Dio le riserva inevitabilmente come monito ai fedeli per la loro conversione e come contrappasso delle tribolazioni dei martiri, i quali saranno glorificati dopo aver tanto sofferto. 
d. Curzio Nitoglia
(segue)
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1. Nella S. Scrittura la fornicazione indica l’idolatria (cfr. Osea, II, 2; Mt.,  XII, 39).
2. Ora si esprime la consustanzialità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, mentre all’inizio del capitolo XIV si era annunziata solo quella tra Padre e Figlio.
3. Già nel Vangelo il giudizio è paragonato alla mietitura (cfr. Mt., XIII, 39), mentre nell’Antico Testamento era paragonata alla vendemmia (Gioele, IV, 12 ss.).

5 commenti:

  1. La FSSPX: Francesco ci spaventa. Eppur ci piace.

    http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351262

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  2. La pretesa superiorità alla Parola di Dio, si manifesta, in questo pontificato, in modo sempre più forte, avendo la pretesa di unire ciò che non si può unire: gli opposti e di imporre i suoi pensieri e distorsioni come fossero di Dio. Ogni gesto e parola di Bergoglio, sono un pugno al cuore, non si capisce quindi come faccia a suscitare ammirazione, entusiasmo, pare più un plagio molto sottile e astuto, che si impone poco alla volta, dove trova brecce aperte: basta ci sia un piccolo interesse per tutto ciò che è umano e che si pone prima di quello che è dovuto a Dio e vieni preso al laccio, fai parte della schiera degli adulatori, per mero interesse umano. In fondo è la giusta retribuzione per chi ha sempre anteposto i suoi interessi e desideri a quelli di Dio. L' apocalisse e il grande intervento di Dio nella storia umana, per ripulire tutto ciò che è marcio, a questo punto, diviene salutare. Dobbiamo temere chi ha il potere di far perire sia l'anima che il corpo e chi si pone consapevolmente o meno, al suo seguito.

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  3. Malgrado i rimandi, non ho trovato il commento al capitolo XII, che mi pare manchi (in definitiva, un capitolo oramai superato dai fatti). In ogni caso, è vero che l'Apocalisse parla dell'instaurazione del Regno di Cristo, però nemmeno mi sembra venga citato in che modo ciò potrà avvenire. Attendiamo il commento ai capitoli finali. L'Apocalisse parla in concreto delle Nozze dell'Agnello con la Gerusalemme nuova, sua Sposa. L'ultimo libro della Bibbia dà senso alla promessa genesiaca "saranno un'unica carne" (Gn 2,24). La Bibbia intera tratta di questo Sacro Vincolo tra Dio e le sue creature, che si attua nell'Incarnazione del Figlio e si completa alla fine dei tempi con le Nozze promesse sin dal Principio, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Una sola Carne, ma anche un solo Spirito.

    Dunque l'Apocalisse parla di un Matrimonio, il quale potrà essere celebrato tra lo Sposo e la Sposa promessa ab eterno, mediante il sangue dell'Agnello. Ci sono quelli che ostacolano questo progetto divino, e li vediamo all'opera tutti i giorni. Ciò in defintiva spiega, nel più profondo, gli attacchi portati al vincolo sacramentale tra l'uomo e la donna, alla famiglia, alla specificità di genere: maschio e femmina li creò (Gn 1,27).

    Nozze che rimandano al “segno” di Cana, quando la Madre si mostrò nella sua funzione di Mediatrice e Avvocata: «Non hanno più vino». In verità questa penuria si rende drammaticamente attuale anche in questi tempi, poiché appare sempre più sotto attacco quel “vino” che rinsalda l’amore, che in definitiva ritroviamo nel Sacramento dell’altare. Ed allora, ci avvediamo che tutto si comprende: è la Messa l’obiettivo del demonio, quel “segno” sponsale che allieta i nostri giorni, che potrebbe effettivamente venire a mancare. E poi, quando tutto sembrerà compromesso, avremo finalmente il “miracolo”: ancora la Madre della Chiesa domanderà per i suoi figli l'intervento divino, che è quel Trionfo del suo Cuore Immacolato, il quale altro non è che la generazione del sangue, in cui è la salvezza …

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  4. Ho completato col link nel testo. Il commento è questo:
    http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2014/12/don-curzio-nitoglia-apocalisse-2.html

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  5. Grazie. Ho rivisto anche i miei commenti, un tantino acerbi ...

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