Sommario: 1. Lo Stato ha come fine precipuo il bene comune di un popolo. 2. Il bene comune, fine dello Stato, è sia materiale che spirituale. 3. La falsa contrapposizione della c.d. “nazionalità spontanea” allo Stato. 4. Bene comune e bene del singolo. 5. Il bene comune di un popolo è costituito innanzitutto dalla sua stessa esistenza e sopravvivenza. 6. Bene comune materiale e bene comune in senso spirituale.
1. Lo Stato ha come fine precipuo il bene comune di un popolo
Il bene comune e non la felicità individuale, il cui perseguimento deve sempre accordarsi con le esigenze del bene comune. E nemmeno la giustizia in sé e per sé, ideale del tutto astratto se inteso all’insegna del motto: fiat iustitia, pereat mundus, inapplicabile allo Stato. Lo Stato, più realisticamente, dovrà cercare sempre di perseguire il suo fine specifico senza violare i princìpi fondamentali della giustizia, sia nel senso della giustizia conforme alle leggi di natura e divine che nel senso di quella risultante dai rapporti di correttezza tra gli uomini civili, nei rapporti con i singoli e con gli altri Stati. Ma il suo fine specifico è il bene comune, da perseguirsi per quanto possibile secondo giustizia. Il bene comune di un popolo non quello degli altri popoli o dell’umanità nella sua totalità, prospettive chimeriche e megalomani, oggi tornate di moda grazie alla crisi dei valori dilagante.
Che la giustizia sia un principio da non applicarsi qui in modo assoluto, a meno che non risultino violate la legge di natura o quella divina, si ricava da queste semplici riflessioni.
La norma pacta sunt servanda è un principio cardine del diritto internazionale, ma temperato dall’aggiunta: rebus sic stantibus, se si mantengono le condizioni presenti, quelle che hanno condotto alla firma degli accordi. Ora, è capitato che uno Stato si sia rifiutato di entrare in una guerra considerata rovinosa, cosa che era obbligato a fare da un precedente trattato, trovandosi così affibbiata la taccia di traditore dallo Stato suo partner, che si attendeva l’entrata in guerra e negava l’applicabilità della clausola rebus sic stantibus. Insomma: per salvare lo Stato, e mantenere in tal modo al popolo il bene comune della pace, non si è a volte costretti a violare un trattato, ossia ad andar contro il giusto principio del pacta sunt servanda in nome di un principio ritenuto più alto, anch’esso giusto, quello del mantenimento del bene comune di tutto un popolo, che non si vuole mettere a repentaglio in una guerra che si presenta gravosa e rovinosa?
Pertanto, l’idea di giustizia cui fa riferimento sant’Agostino in una sua famosa frase, va interpretata in modo appropriato. “Eliminata la giustizia – ha scritto – cosa sono i regni se non grandi associazioni criminali?”[1]. Giusto. Ma di quale giustizia di tratta? Di quella propria dello Stato, si intende, secondo i fini naturali per i quali esiste l’autorità di governo dello Stato, voluti e approvati da Dio (Rm 13, 1-7). I valori di questa giustizia possono confliggere, dal punto di vista pratico, con il valore rappresentato dal bene comune del popolo, da mantenere e difendere ad ogni costo.
Tale conflitto non ha, invece, luogo se uno Stato, per fare un esempio riferito al nostro drammatico presente, si rifiuta di accogliere grandi quantità di stranieri che arrivino clandestinamente sui suoi confini terrestri e marittimi, con la motivazione di essere profughi o di fuggire dalla miseria. L’accoglienza di elementi estranei, e in gran numero, non può certo essere un dovere per uno Stato, né in senso morale né giuridico, proprio perché il dovere fondamentale dello Stato (che ne giustifica l’esistenza) è esclusivamente quello di provvedere al bene dei propri cittadini (o sudditi). Può naturalmente soccorrere ed accogliere gli stranieri che arrivino illegalmente ma unicamente per generosità, non perché sia obbligato, in quanto Stato.
Quell’accoglienza può diventare un dovere giuridico, solo se lo Stato si è impegnato con un trattato internazionale ad una accoglienza di questo tipo. Si tratterebbe comunque di un cattivo trattato, da ripudiare. Infatti, il dovere elementare dello Stato è di provvedere in primo luogo al bene comune dei suoi cittadini, il che implica la difesa da ogni invasione, quali che siano le sue motivazioni. Una “accoglienza” di elementi stranieri per motivi umanitari può naturalmente aver luogo ma non può comunque costituire un diritto (un “diritto umano”, che obblighi lo Stato a tutelarlo) né tantomeno esser indiscriminata: deve esser discriminata a seconda delle risorse a disposizione dello Stato e del calcolo delle conseguenze che tale invasione comporterebbe sul piano dei valori (usi e costumi, religione, qualità della vita).
1.2 Oggi lo Stato, innanzitutto come valore, è contestato in gran parte di quello che si chiamava un tempo Occidente, diventato una sorta di cosmopolita e nello stesso tempo atomistica, sfilacciata comunità euro-americana pervasa dallo spirito mercantile e dall’edonismo più sfrenati, senza morale e senza Dio. Da più parti si auspica il superamento ed anzi la scomparsa dello Stato-nazione, come dicono; accusato di provocare o alimentare il nazionalismo, con i suoi passati disastri, e di non curarsi dei c.d. “diritti umani” nel modo dovuto. Accusa a ben vedere superficiale, dal momento che la I Guerra Mondiale, sempre imputata agli sfrenati nazionalismi, ebbe come causa profonda la lotta spietata che quattro grandi imperi europei, padroni di mezzo mondo, stavano da anni conducendo, divisi in due alleanze, tra di loro e ai danni del moribondo impero ottomano. Le aspirazioni e i calcoli di dimensione imperiale furono assai più decisivi, quale causa di guerra, degli impulsi nazionalistici di una Francia o di un’Italia e perfino di una Serbia.
Di questi tempi, si vorrebbe che lo Stato si lasciasse “superare” da due lati. Dall’esterno, sottomettendosi alla sovranità di organizzazioni sovranazionali (ONU, UE, WTO, OMS, etc), incluso il “mercato globale” dominato dalla finanza internazionale, e ai loro enti; dall’interno, frammentandosi in regioni o mini-stati sottoposti alle medesime organizzazioni sovranazionali. Dall’interno e dall’esterno è in azione un movimento a tenaglia contro lo Stato, il cui diritto all’esistenza è simultaneamente negato in nome del particolarismo e dell’universalismo, tra loro contraddittori ed ugualmente spuri perché frutto di astratte e faziose ideologie assai più che dei bisogni reali dei popoli.
Lo Stato però, come istituzione che realizza ancora in qualche modo il prevalere del bene della nazione (del bene comune) sugli interessi individuali o di parte, resiste e si mantiene rivelandosi ancora indispensabile per tanti aspetti essenziali della vita in comune, in modo diretto ed indiretto: pensiamo all’ordine pubblico e alla difesa, all’amministrazione della giustizia, al sistema sanitario, al sistema scolastico, agli interventi nell’economia, allo sport. Ma il pensiero politico e giuridico attuale non sembra trovare argomenti concettualmente validi per giustificare questa tenace sopravvivenza, aiutato, in questa sua latitanza, da una concezione del diritto che appare sempre più astratta ed utopistica. Infatti, si tende a far prevalere su tutto l’idea dei “diritti umani” di ogni individuo, concepito atomisticamente come entità completamente disancorata da ogni connessione territoriale, sociale, culturale, ossia da una nazione che sia effettiva comunità di vita, quale si esprime in un ordinamento giuridico statuale concreto, secondo il ben noto rapporto ordinamento statale-territorio-popolo; per farne, del diritto, un attributo della persona individuale, astrattamente intesa; di un soggetto di diritti senza storia e senza individualità, nei fatti inesistente; quell’autentica chimera che è il “cittadino del mondo” concepito assurdamente, il mondo, come “villaggio globale”.
Si ha qui certamente un uso iperbolico della nozione dei “diritti umani”, nozione assai più ideologica che giuridica, filosoficamente figlia del consunto, antropocentrico “giusnaturalismo” degli “Immortali princìpi” della Rivoluzione Francese. La negazione della validità dell’esigenza posta dallo Stato, come istituzione concreta, ha contribuito pertanto ad una concezione a mio avviso addirittura irreale del diritto. Il fenomeno giuridico non può, evidentemente, identificarsi con il diritto posto dallo Stato (come ritenevano le vecchie scuole positivistiche) ma nemmeno può esser disancorato dal “concreto” rappresentato dal territorio di un determinato popolo, governato da un ordinamento giuridico statuale specifico, quale che sia il suo grado di sviluppo, sul quale incombe il dovere di mantenere integro il territorio con il popolo che vi abita[2].
2. Il bene comune, fine dello Stato, è sia materiale che spirituale
Un primo argomento da ribadire, in sé non certo nuovo ma oggi del tutto dimenticato, è dunque il seguente: lo Stato esiste per realizzare il bene comune dei suoi componenti, cittadini o sudditi che siano. Concetto che si può esprimere anche servendosi dell’antica, famosa massima dei Romani: Salus populi suprema lex esto: la salvezza del popolo sia la legge suprema, per i magistrati o governanti, e quindi per lo Stato e le sue leggi[3]. La “salvezza” del popolo ne realizza il bene comune.
Il discorso sullo Stato va pertanto ripreso muovendo dalla considerazione del fine, dalla sua causa finale, per esprimerci in termini aristotelici.
A qual fine esiste lo Stato?
Per realizzare il bene comune di un determinato popolo. Questo popolo costituisce di per sé una società i cui caratteri culturali, storici, estetici, linguistici, religiosi l’individuano anche come nazione. Popolo e nazione sono comunque termini usati come sinonimi.
Ma come qualificheremo il “bene comune” di un popolo, dal punto di vista del suo contenuto? Quali ne sono gli elementi costitutivi? Si intende qui, ovviamente, sempre il bene comune dal punto di vista terreno, non di quello della salvezza eterna delle anime, di competenza della Chiesa e non dello Stato, che comunque, come si avrà modo di ribadire, deve anch’esso concorrervi, sia pure senza uscire dalla sua sfera di competenza e quindi indirettamente.
Il bene comune di un popolo è sia materiale che spirituale, attiene cioè a tutti gli aspetti giuridici, economici, politici della vita quotidiana di un popolo, senza ovviamente poter escludere quelli spirituali ad essi collegati nella forma di ciò che chiamiamo valori della morale, della cultura, dello spirito in generale.
Nel bene comune in senso “materiale” va anzitutto ricompreso il bene dell’esistenza stessa fisica e sopravvivenza nelle generazioni di un popolo: ordinata, pacifica e moralmente elevata, secondo i princìpi della laica virtù del cittadino e dell’etica fondata sulla religione. Per la realizzazione del bene comune così inteso, l’unità dello Stato rappresenta un modo di essere imprescindibile, senza voler considerare la forma più o meno rigida nella quale si attui, se cioè in forma burocratico-centralizzatrice o che lasci spazi più o meno ampi all’autogoverno locale (federalismo o confederazione).
3. La falsa contrapposizione della c.d. “nazionalità spontanea” allo Stato unitario
Popolo, nazione, società sono elementi da considerare unitariamente, in relazione alla forma-Stato che ne attua la sintesi e il superamento. Essi costituiscono di per se stessi concetti portanti della filosofia politica e del diritto moderna e contemporanea. E spesso sono stati e sono visti in contrasto tra loro.
Ricordiamo la marxistica contrapposizione tra società e Stato: quest’ultimo sarebbe solo la sovrastruttura politica dei rapporti materiali di produzione che nella società si innervano ai rapporti e alla lotta di classe; sovrastruttura destinata a sparire una volta realizzatasi la rivoluzione proletaria e comunista, che avrebbe socializzato completamente i rapporti di produzione, abolendo la proprietà privata e dando il potere ai proletari. Ciò avrebbe comportato l’estinzione dello Stato.
L’utopia marxiana contrapponeva la società allo Stato, attribuendo al comunismo, sua forma del tutto idealizzata (profetizzata, anche se in termini necessariamente vaghi, quale inevitabile stadio finale e definitivo della storia), la capacità di sostituirsi completamente allo Stato. Mai profezia si rivelò più tragicamente fallace, come sappiamo.
Ma esiste anche il filone che contrappone la nazione allo Stato. Così si tende oggi a contrapporre allo Stato nazionale, unitario, burocratizzato, la c.d. “nazionalità spontanea”. La polemica antiunitaria italiana attuale (e non solo italiana) contrappone allo Stato unitario democratico-parlamentare centralizzato l’esigenza del riconoscimento delle diverse “nazionalità spontanee” che si troverebbero diffuse per l’Italia. Cosa significa ciò? L’alternativa istituzionale concreta proposta da questi polemisti resta sempre nel vago ma la si può facilmente immaginare: dar vita ad un sistema di autonomie locali ancorate alle attuali Regioni, che sia ancora più sviluppato dell’attuale, pur ampio. Ma bisogna chiedersi: quali “nazionalità” dovrebbe riconoscere lo Stato italiano?
3.1 Dal punto di vista della lingua, della cultura, della religione – elementi tipici dell’entità che si suol chiamare “nazione” – lo Stato italiano non ha da riconoscere una “nazionalità” diversa da quella italiana, diffusa in maniera uniforme in tutto il Paese, caratterizzante lo Stato e la società come italiani. L’elemento cosiddetto “spontaneo” nella cultura e nella lingua è costituito in Italia, come nelle altre nazioni, dal sostrato dialettale e dal folklore, tratti tipici in senso popolare di regioni e città, in ogni Stato. Il teatro e la letteratura dialettale esistono da sempre in Italia e nessuno li ha mai toccati, nemmeno durante il fascismo. Si tratta di una cultura popolare “spontanea” che ha sempre convissuto pacificamente con quella italiana nel senso proprio ed elevato del termine. Riconoscere adesso questa cultura a livello della forma istituzionale dello Stato, in quanto espressione di una “nazionalità spontanea” che imporrebbe la suddivisione del nostro Stato in tante piccole “nazionalità” istituzionalmente separate e protette da una normativa nazionale-internazionale, ciò significherebbe regredire a livelli addirittura grotteschi di organizzazione politica e subcultura, come fanno fede i dilettanteschi tentativi della Lega Nord, qualche anno fa, di istituire una scuola leghista (accanto al “matrimonio celtico”) in sostituzione della scuola italiana, con l’insegnamento di dialetti lombardi o veneti al posto dell’italiano e di autori dialettali al posto delle opere dei nostri classici, di un Foscolo, un Leopardi, un Manzoni! Per non parlare di Dante.
Culturalmente, nel senso ampio ed elevato del termine, l’Italia è sempre stata u n a e lo è tuttora. Inoltre, dal punto di vista qualitativo, dei contenuti, è sempre esistita una cultura italiana “nazionale” dall’ampio respiro ben distinta dalla cultura “regionale” del nostro Paese, esprimentesi in italiano ma di mentalità ristretta ed incapace di approfondire[4]. Ed è sempre stata u n a l’Italia anche dal punto di vista religioso, cioè cattolica. Forse le “diversità spontanee” da riconoscere sarebbero quelle delle tradizioni amministrative ed economiche degli Stati prenunitari? Ma sono scomparse da centocinquant’anni, spazzate via per l’appunto dal centralismo sabaudo. E il vigente sistema economico-politico consentirebbe forse di riprodurle? L’attuale Regione, ricettacolo della supposta “nazionalità spontanea” riproduce ex Constitutione la medesima struttura politica e burocratica dello Stato centralizzato, ne è il doppione in miniatura, e ne mostra più i difetti che le virtù, dato che la base “regionale” ha permesso per l’appunto una reviviscenza mai vista del sistema clientelare tipico dell’Italia preunitaria, fondato sul paludoso “notabilato” locale, mantenutosi (con qualche limitazione) nell’Italia unita e oggi ben più diversificato e vasto di un tempo, a causa dell’aumento consistente dei gruppi di potere o lobbies.
3.2 Su di un piano più generale, il concetto della “nazionalità spontanea” vuole esprimere una contrapposizione netta tra Stato e nazione, all’insegna del concetto che la nazione viene prima e gli Stati dopo, ragion per cui questi ultimi dovrebbero riconoscere la nazionalità pre-esistente, nelle sue varie forme.
Questa visione non è ovviamente errata, contiene un elemento di verità, ma solo un elemento. Il processo storico reale è molto più complesso. La storia, infatti, ci mostra raramente il dispiegarsi di un rapporto fra Stato e nazione così lineare. Più spesso, la nazione, nel suo farsi, si costituisce sin dall’inizio già come Stato, anche rozzamente, quando non è lo Stato a costituire la nazione, con l’opera audace (e anche spregiudicata) di una classe dirigente (aristocratica o borghese) in possesso di un potere e di un’organizzazione statali e di un buon esercito
“In nessuna parte d’Europa la nazione è stata l’elemento primario e lo Stato l’elemento derivato. Più antico della nazione francese è lo Stato francese – i suoi fondatori sono la monarchia e l’episcopato, non la nazione. Più antico della nazione tedesca è l’Impero tedesco d’impronta franco-orientale e sassone…” [5].
3.3 Per non allontanarmi troppo dal mio tema, rinvio l’approfondimento di questo importante punto ad un intervento successivo, anche per ciò che riguarda l’Italia. Per ora limitiamoci a dir questo: dietro la rivendicazione antiunitaria della cosiddetta “nazionalità spontanea” è riapparso nel nostro Paese il fantasma dell’antico e feroce spirito municipale italiano, fonte primaria di tutte le innumerevoli divisioni, lotte e guerre civili dei secoli passati. Il termine stesso di “nazionalità” è qui ambiguo. La nazione italiana, prima dell’unificazione, era appunto quella che si esprimeva nella lingua e nella letteratura nazionale, nella cultura unitaria; la cosiddetta “nazionalità spontanea” ne sarebbe stata, invece, il sostrato multiforme, l’elemento grezzo che non va oltre il dialetto e il folklore, dimensioni puramente locali, campanilistiche, grette.
E questa supposta “identità” della “nazionalità” conculcata e nascosta, è stata anche creata artificialmente. Pensiamo alla “identità celtica” della cosiddetta Padania, inventata dal rozzo e truculento on. Bossi e compagni di ventura, con le risibili, farsesche cerimonie paganeggianti lungo il corso del “dio Po”, le kermesse a base di paccottiglia “celtica”, il “matrimonio celtico” et similia. Un “celtismo fatto in casa” da contrapporre a Roma, simbolo della latinità e dell’odiato potere centrale, anche alla Roma Sede bimillenaria del Cattolicesimo (nei primi tempi i leghisti vaneggiavano a tratti di una “Chiesa celtica o padana”). Il mondo dei fumetti del gallico Asterix è stato qui rivenduto sotto forma di sagra paesana, ma con il fine abietto di distruggere l’unità nazionale per rendersi un domani indipendenti nell’Unione Europea, sì da poter aumentare (si crede) il proprio già grande benessere materiale (come se tale benessere non fosse dipeso in misura consistente anche dall’appartenenza allo Stato italiano).
Ma la storia, questa sconosciuta, ci mostra che i barbari Celti della pianura padana, conquistati dai Romani dopo un secolo abbondante di guerre reciprocamente feroci, si assimilarono rapidamente alla superiore civiltà dei conquistatori, dando assai presto validi contributi alla poesia latina, tanto per fare un esempio. Nel primo secolo a. C. accorrevano ad arruolarsi a frotte nelle legioni di Cesare, che andavano a combattere in Gallia. I celti romanizzati furono una delle etnie che contribuirono validamente all’Italia romana, la quale resistette come Stato unitario sino alla fine delle Guerre Gotiche, cioè alla metà del VI secolo; erano ben italiani e furono uno dei sostegni principali dell’impero romano, assieme ai Celti di Gallia e Hispania.
4. Bene comune e bene del singolo
Ma torniamo a bomba. Rispetto al popolo, alla società, alla nazione, cosa caratterizza ciò che chiamiamo Stato? Un’organizzazione pubblica composta da un sistema di istituzioni, il cui significato è impersonale o trascendente perché vi si attua l’idea di una personalità che rappresenta la totalità delle parti senza identificarsi in nessuna di esse: infatti esiste, questa persona pubblica, per il loro bene comune. Questo significato trascendente, nel quale si attua il necessario superamento del punto di vista egoistico dell’io individuale, empirico, che è in ognuno di noi, può forse apparire a prima vista astratto, se non nebuloso, per la mentalità odierna. Ma la cosa si chiarirà proprio riflettendo sul concetto di bene comune.
Il bene comune non sarà ovviamente quello del singolo bensì quello della comunità, di un intero popolo o nazione che dir si voglia. Esiste ciò che è bene per tutto il popolo e ciò che è bene per l’individuo singolo. I due aspetti del bene possono coincidere ma anche divergere, come insegna l’esperienza. Dal punto di vista ideale, governante perfetto sarebbe colui che riuscisse a far sempre coincidere il bene comune e quello dei singoli. Ma tale perfezione raramente si riscontra. La realtà ci mostra, all’opposto, un frequente contrasto tra i due, sia in atto che in potenza.
Spesso il bene del singolo viene sacrificato al bene comune. In ogni caso, il rapporto tra i due tipi di bene implica sempre delle limitazioni e dei sacrifici, soprattutto da parte del singolo. Lo vediamo già nell’àmbito della famiglia, cellula fondamentale di ogni vita associata; si intende, la famiglia naturale, creata dal maschio e dalla femmina che si uniscono stabilmente, secondo forme riconosciute dal diritto (matrimonio), al fine di procreare vivendo assieme sotto lo stesso tetto, allevando e mantenendo i figli secondo la tradizionale divisione di compiti tra il marito e la moglie. I genitori fanno in genere tanti sacrifici per i figli limitando le loro proprie aspirazioni, i loro desideri, insomma tutto o molto di ciò che sarebbe per essi soggettivamente un piacere e un bene. E fanno questo in nome per l’appunto del bene comune rappresentato qui dal bene della famiglia e dei figli.
Possiamo dire che una regola generale sia questa: quando prevale il bene individuale nei confronti di quello comune, allora la società e lo Stato sono in decadenza e si stanno disgregando. Fioriscono, invece, quando il bene comune prevale ma senza sacrificare integralmente il bene individuale, lasciandogli cioè il giusto spazio. La logica del sacrificio individuale è comunque sottesa al rapporto bene del singolo – bene comune. Non solo per ciò che concerne la relazione tra Stato e individui ma anche in ogni forma associata naturale organicamente costituita, a cominciare per l’appunto dalla famiglia.
5. Il bene comune materiale di un popolo è costituito innanzitutto dalla sua stessa esistenza e sopravvivenza
Come definiremo, allora, il bene comune, comune in quanto costituente il bene di un intero popolo o nazione o società che dir si voglia? Piuttosto che premetterne una definizione omnicomprensiva, procederò elencandone alcuni essenziali tratti.
Bene comune ovvero un bene comune a tutto un popolo, che per realizzarlo avrà bisogno di quello che chiamiamo Stato, sarà costituito dalla sua stessa esistenza fisica come popolo, dalla sua sopravvivenza nelle turbinose vicende della storia (guerre, invasioni straniere, guerre civili, pesanti sudditanze economiche, spopolamento, epidemie, carestie). Come dicevano gli antichi romani: primum vivere deinde philosophari.
A tal fine il popolo dovrà organizzarsi in modo da:
- alimentarsi e vestirsi a sufficienza mediante l’agricultura, l’allevamento del bestiame, il commercio interno ed esterno, l’industria;
- mantenersi nella sua consistenza fisica, etnica, mediante i matrimoni, una sana vita familiare e una procreazione di figli che superi sempre le morti;
- esser capace di difendersi contro i nemici interni, cioè i criminali, mediante l’amministrazione della giustizia civile e penale, ed esterni mediante l’istituzione e il mantenimento di forze armate.
6. Dal bene comune materiale a quello spirituale
Il mantenimento dell’esistenza fisica del popolo è dunque, si potrebbe dire, il fondamento stesso dell’idea del bene comune di un popolo. È tale idea nella sua forma elementare o, se si preferisce, è il contenuto elementare di tale idea. L’aspetto materiale dell’esistenza di un popolo ricomprende, elevandoli a valori, il mantenimento e la sopravvivenza del medesimo. Tuttavia, questa componente materiale del bene comune non è effettivamente separabile da quella spirituale dello stesso. Infatti, come diceva Aristotele, gli uomini in società non si contentano semplicemente di vivere (tranne forse durante i tempi di particolare calamità, come risulta dalla risposta dell’abate Sieyes a chi gli chiedeva che cosa avesse fatto, sempre nascosto durante il Terrore, appena terminato: J’ai vécu, disse). Gli uomini vogliono in realtà e cercano sempre di “viver bene”o in modo “felice” nel senso più ampio e completo del termine, che ricomprende anche le esigenze della morale e dello spirito (quindi, “bene” non in senso bassamente edonistico).
“La comunità che risulta di più villaggi è lo Stato, nel senso pieno del termine, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice [eu zên]”[6].
Da ciò si comprende che il mantenimento dell’esistenza fisica e sopravvivenza di un popolo nelle generazioni, non è un affare solamente materiale, di sola organizzazione amministrativa, politica, militare. Infatti, sono i matrimoni la cui santità venga rispettata a costituire il presupposto di quella sana vita familiare così benefica per la società e fomite di numerosa figliolanza e cittadinanza. Ma tale presupposto, implicando la fedeltà e l’adempimento dei doveri reciproci di marito e moglie in tutti i campi, si rivela essere per sua natura morale o etico che dir si voglia. Non sono solo le esigenze della famiglia, sono anche quelle della morale che obbligano a respingere e punire l’adulterio e a condannare il commercio carnale fuori del matrimonio. Pertanto lo Stato, se vuole adempiere al suo dovere di mantenere la sanità fisica del popolo e l’abbondanza della popolazione, deve vigilare con le sue leggi sulla purezza del matrimonio, punendo gli adulteri e i fedifraghi, perseguendo quei costumi e quelle abitudini che favoriscano il diffondersi della licenza. Deve naturalmente perseguire tutto ciò per l’esigenza morale stessa, che comanda alla coscienza di difender la morale con le sanzioni imposte dall’autorità costituita e con il promuovere un’educazione e una cultura volte ad instillare l’amore della virtù.
Ma in ogni caso, lo Stato deve agire così già in relazione al fine suo proprio, la realizzazione del bene comune. Senza sani costumi diffusi nella società non è possibile una sana vita familiare, che a sua volta promuove quei costumi; non è possibile avere famiglie ordinate, belle e numerose, si diffonde la corruzione nelle famiglie e la conseguente denatalità. Ma i “sani costumi” sono il risultato di determinati principi morali, che vengano concretamente applicati, anche con l’aiuto delle leggi.
“Bisogna che la legge sia la castigatrice dei vizi e la stimolatrice delle virtù, e che da essa si tragga la dottrina del vivere”[7]. L’autorità di governo che sia compos sui deve quindi mantenere e far osservare i giusti principi morali, quali già risultano dalla morale naturale, se vuole che matrimoni e famiglie prosperino, e con esse il popolo, la società, tutto lo Stato. Pertanto, se i nostri odierni Stati fossero ben ordinati, i loro governanti chiuderebbero tutti i siti pornografici; proibirebbero gli spettacoli indecenti, immorali, orripilanti e violenti; sanzionerebbero la mancanza di modestia e pudore che spadroneggiano nella moda femminile; ostacolerebbero in ogni modo il libertinaggio diffuso, insomma perseguirebbero implacabilmente le molteplici aberrazioni delle quali si compiacciono ahimé le nostre società, a cominciare da quella rappresentata dal libero aborto volontario ammesso dalle leggi dello Stato.
Lo Stato non può disinteressarsi della virtù dei suoi cittadini. Senza per questo diventare oppressivo e invadente deve comunque approntare tutte le difese necessarie per proteggere la morale dall’attacco che le portano di continuo le forze del male. Questo è il dovere morale dello Stato, di ogni Stato degno di questo nome, attuando il quale lo Stato realizza il bene comune in senso spirituale: difendere in primo luogo la morale, sia come morale naturale (senso del pudore, ripudio dell’adulterio, del libertinaggio, dei rapporti contronatura, difesa della famiglia, etc.) sia come insieme di princìpi etici il cui fondamento è di norma religioso.
Paolo Pasqualucci, martedì 10 ottobre 2017 - [Iter]
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[1][1] De civ. Dei, IV, IV: “Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?”.
[2] È stata completamente dimenticata la lezione di realismo di Carl Schmitt, che costituisce uno dei suoi contributi più importanti alla comprensione del fenomeno giuridico: il nesso inscindibile del diritto con la terra, nel senso di spazio concreto, territorio determinato, abitato da un popolo con la sua storia e i suoi bisogni, sul quale il diritto si esercita nella forma di consuetudini e norme positive. Vedi: Carl Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum [La legge della terra nel diritto internazionale del diritto pubblico europeo], 1950, Duncker & Humblot, 1960, tutto il primo capitolo (pp. 11-51) dedicato a Cinque corollari introduttivi e in particolare il corollario n. 1: Das Recht als Einheit von Ordnung und Ortung, il diritto come unità di ordinamento e determinazione di luogo, op. cit., pp. 13-20.
[3] Il passo è riportato da Cicerone nel De legibus, nel riprodurre il contenuto della legislazione della Roma arcaica, quella delle XII Tavole. Dopo aver elencato i poteri civili e miitari dei consoli, carica suprema dello Stato o res publica, vien loro intimato: “Ollis [illis] salus populi suprema lex esto” (Marco Tullio Cicerone, Le leggi, con testo latino a fronte, a cura di Filippo Cancelli, Mondadori, Milano, 1969, p. 219). Tale massima riecheggia nel principio fondamentale della Chiesa Cattolica, per la quale, si è sempre detto, salus animarum suprema lex [esto].
[4] Per la differenza tra queste due mentalità e culture, vedi le precise osservazioni di Giovanni Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, 1917, ora in ID., Opere complete, vol. XXX, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Sansoni, Firenze, 1985, 2a ediz. riveduta e accresciuta, pp. 108-109.
[5] Werner Kaegi, Meditazioni storiche, a cura e con una presenetazione di Delio Cantimori, Laterza, Bari, 1960, p. 38. L’illustre storico svizzero (1901-1979) ha offerto penetranti riflessioni sul piccolo Stato nella storia europea, sulla sua importanza, sul rapporto tra Stato e nazione.
[6] Arist., Pol., 1252 b ; La Politica, tr. it. introduz., note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, p. 8.
[7] Cic., Le leggi, tr. it. cit., p. 114.
Per quanto riguarda il necessario fondamento delle leggi positive nella legge naturale e di questa nell'esistenza di Dio (verità esplicitamente rifiutata dai post-neotomisti attuali, contro lo stesso San Tommaso, che ne parla esplicitamente specialmente nel Tractatus de beatitudine della Summa Theologiae, I-II, q. 1-5), segnalo l'opera di Padre Reginaldo Pizzorni, teologo e filosofo del diritto domenicano, scomparso, purtroppo, da qualche anno: https://it.wikipedia.org/wiki/Reginaldo_Maria_Pizzorni
RispondiEliminaA proposito di Stato e bene comune, oggi si festeggia Sant'Edoardo il Confessore (Islip, 1002 – Westminster, 5 gennaio 1066), Re d’Inghilterra.
RispondiElimina"Tu rappresenti il popolo in cui Gregorio il Grande vide l’emulo degli Angeli, tanti sono i re santi, le vergini illustri, i grandi vescovi, i monaci celebri che fecero la sua gloria e sono oggi la tua corte. Mentre tu e i tuoi regnate per sempre nel ciclo, giudicando le nazioni e dominando i popoli (Sap. 3, 8), le dinastie dei tuoi successori di quaggiù, invidiando la Chiesa, favorendo lo scisma e l’eresia, si sono spenti, l’uno dopo l’altro, resi sterili dalla collera di Dio, in una vana fama della quale il libro della vita non conserva traccia. Come sono migliori e più durevoli, o Edoardo, i frutti della tua santa verginità! Insegnaci a vedere nel mondo presente la preparazione dell’altro, che non finisce, a stimare gli avvenimenti umani solo in ragione dei loro risultati eterni."
Dom Prosper Guéranger
Sono stato discepolo del prof. Pasqualucci all'Università di Napoli, quando egli era giovane assistente del Prof. Antonio Villani, titolare della cattedra di Filosofia del Diritto. Sostenni l'esame proprio con Pasqualucci ed ho ancora conservato il libretto universitario con la sua firma. Ne ho un buon ricordo. Poi ho trovato i suoi scritti anche in rete sul sito www.riscossacristiana.it - Egli è uno dei firmatari della "Correctio filialis". Un cattolico coraggioso che si batte per la Verità.
RispondiEliminaMax Fati
Credo che la contrapposizione tra nazionalità spontanea e Stato unitario emerga in maniera evidente quando:
RispondiElimina1)si nega dignità alla storia più piccola di popoli-comunità macinati entro il turbine di chi, sulle loro teste, ha deciso per loro, mettendo in non cale il loro bene, che è anche rispetto della loro storia e cultura;
2)quando lo stato unitario mostra che l'unico bene che persegue è quello degli amici dei miei amici e non quello comune.
Queste contrapposizioni, sono sempre campanelli di allarme che lo stato unitario dovrebbe ascoltare, esaminare ed infine comprendere cosa le "nazionalità spontanee" stanno cercando di dirgli, invece di ignorarle dall'alto della sua supposta superiorità rispetto a chi si pretende di "mentalità ristretta ed incapace di approfondire".
Carissimo prof. Pasqualucci, se chiamarla "maestro" le sembra inopportuno, come posso esprimere la mia gratitudine per l'insegnamento che ci rivolge con un esposizione tanto chiara quanto esaustiva?
RispondiEliminaMi permetto di fare una considerazione, che è propedeutica ad una domanda, su questa sua affermazione: "Per la realizzazione del bene comune così inteso, l’unità dello Stato rappresenta un modo di essere imprescindibile, senza voler considerare la forma più o meno rigida nella quale si attui, se cioè in forma burocratico-centralizzatrice o che lasci spazi più o meno ampi all’autogoverno locale (federalismo o confederazione)".
Considerazione: noto una ripresa assurda ed antistorica dei pregiudizi fra italiani del nord ed italiani del sud, con vagheggiamenti di indefinite autonomie e proclami di secessione regionali, proprio quando siamo sul punto di perdere l'Italia intera per le ragioni che tutti conosciamo.
Domanda: se riusciremo noi italiani a tenerci la nostra Italia unita in uno Stato sovrano, non crede che sia la volta buona per riconsiderare la sua palingenesi nella forma federalista?
Sono consapevole che non è questo il problema dell'oggi, ma per un meridionale che ha convinzioni federaliste, non è facile accettare di impegnarsi ancora per uno Stato centralista che in oltre un secolo e mezzo non è riuscito a realizzare giustamente il bene comune.
RispondiEliminaRisposte sul federalismo e la "nazionalità spontanea"
Avevo preparato risposte articolate, spendendoci non poco tempo, ma mi sono saltate al momento di inviarle. Cercherò di rispondere domani, sperando che il mio vecchio computer non faccia di nuovo le bizze.
Ringrazio sentitamente per i generosi apprezzamenti. Ma, lo ripeto, non chiamatemi Maestro. Come ho già detto, Uno solo è il Maestro.
PP
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RispondiEliminahttp://www.iltimone.org/36502,News.html
Politica telecomandata , stampa telecomandata , chi comanda i telecomandati ? Gli UFO ?
@PP
RispondiElimina13 ottobre 2017 21:12
Per quel che mi riguarda, non si dia pensiero di elaborare un commento corposo; mi premeva soltanto evidenziare che le contrapposizioni denunciano sempre problemi che non si vogliono vedere e/o non si sanno risolvere.
Grazie sempre per la sua disponibilità.
"Le Nazioni sono eterne (nei limiti, s'intende, di quanto è umano) e naturali. Gli Stati NO. Gli Stati non sono né eterni, né naturali, ma sono generati da circostanze o volontà o casualità storiche" (Giovan Battista VICO).
RispondiElimina
RispondiEliminaIrina, Alfonso, "Vico"
Rispondo allora in modo veloce, più che altro per porre i problemi.
1. C'è un problema di carattere generale ed è quello del rapporto tra Stato e nazione. Tale rapporto non è così semplice come potrebbe sembrare a prima vista. Le due realtà si implicano a vicenda anche se a volte l'una sembra venir "prima" dell'altra. Modificherei in questo modo la frase di G.B. Vico: le nazioni durano in genere più degli Stati. Ma mutano anche loro e anche loro si estinguono. Ma la questione che vorrei sollevare è questa: esiste storicamente una nazione senza Stato, concependo lo Stato anche come istituzione rudimentale? Secondo me, non esiste. Allora, venendo a noi, non si tratta tanto di contrapporre la 'nazionalità spontanea' allo Stato centralizzato quanto di contrapporre un tipo di Stato ad un altro, un'Italia "federale" che si sostituisca allo Stato unitario con le regioni assunte a piccoli Stati.
2. E difatti, questa è la via che stanno approntando in modo furbesco Lombardia e Veneto, piaccia o meno. Dicono i giornali che nella propaganda per il referendum del 22 ott. prossimo le autorità locali usino anche il dialetto. Appunto: l'unica "nazionalità spontanea" [Irina] che riesco a vedere in Italia (lasciando stare le bubbole sui Celti) è quella del dialetto e del folklore locali. A questo vogliamo tornare? Anzi, cadervi per la prima volta: gli antichi Stati preunitari non utilizzavano forse l'italiano nei loro documenti?
3. Come riformare allora lo Stato unitario in crisi?[Alfonso] Con quale "progetto"? Limitiamoci a dir questo, per il momento: se di federalismo si tratta, la strada non è certo quella dell'amplimento delle attuali già ampie autonomie. Un vero federalismo deve unire meglio non dividere meglio. Unire con una struttura statale più agile ma più efficiente, che non si limiti a coordinare le "autonomie". Mi sembra poi eccessivo dire che lo Stato unitario non è riuscito a realizzare mai giustamente il bene comune. Ora l'ha realizzato (anche per il Meridione) ora no; ora siamo in una fase fortemente negativa, nella quale la nostra classe dirigente sta mettendo a nudo tutti i suoi gravi limiti. La sua colpa più grave (che ricade soprattutto sulla sinistra) è quella di non aver voluto fare le necessarie riforme costituzionali a suo tempo: una repubblica presidenziale adatta all'Italia, con un esecutivo forte ma sempre costituzionale (era il programma di Pacciardi, uno dei primi a parlare, già negli anni Sessanta, di imprescindibile "riforma dello Stato").
PP
@PP
RispondiElimina"...l'unica "nazionalità spontanea" [Irina] che riesco a vedere in Italia (lasciando stare le bubbole sui Celti) è quella del dialetto e del folklore locali. A questo vogliamo tornare? ..."
Nei dialetti è inscritta gran parte della storia dei popoli. Tempo fa, per esempio, parlando con un insegnante pugliese di lettere mi disse che, in una certa zona di Puglia, il dialetto ricalcava, più o meno, il greco della koinè lasciato dai greci. E per venire alla storia ci sono, viventi, tanti storici validissimi di cui nulla sappiamo, chi si occupa della storia della Chiesa locale, chi di politica, chi di economia, chi di eroici imprenditori di cui nulla sappiamo; esistono letterati, poeti, romanzieri che non conosciamo assolutamente, neanche dopo morti, perchè non passano attraverso la 'cultura' imposta; seri latinisti e grecisti nel meridione, tanto bistrattato, di cui nessuno sa. Pochi esempi tanto per sottolineare che occuparci della nostra storia minuta, insieme a quella ufficiale, non potrebbe che rinforzarci nella nostra autostima. Non è vero che siamo solo cafoni, mafiosi, bauscia, traditori e saltimbanchi. Non è vero. Quindi guardare il bene che abbiamo, imparare ad apprezzarlo, a coltivarlo darebbe a tutti noi esempi ben diversi da quelli importati o addirittura a noi subdolamente proposti a buon mercato. Mi rallegro nel veder fiorire tante nuove piccole case editrici, lontane dal capitale che foraggia l'editoria egemone, dal loro lavoro artigianale, serio, costante dipende la "nostra" cultura di domani e forse la nostra stessa esistenza come nazione e come stato.
RispondiEliminaRisposta di PP
Non sono un nemico dei dialetti e del folklore, della musica popolare (quella autentica), delle tradizioni locali. Ricordo che della censurata battaglia di Gela, luglio 1943, dove le male armate truppe italiane si batterono valorosamente contro gli strapotenti angloamericani, sono stati i "cantastorie" locali a salvarne la memoria, nel loro dialetto.
Qui non si tratta tanto di rivalutare culturalmente i dialetti e la cultura popolare locale quanto di stabilire se ha senso distruggere lo Stato unitario per sostituirlo con una pluralità di Stati a base regionale, legittimatisi in base alla cultura locale ossia al dialetto, al folklore etc. Stati, di fatto se non di diritto, pronti eventualmente (a seconda di come gira il vento) ad "entrare in Europa" come entità sovrane! Al momento la spinta in questo senso viene comunque più dal Nord Italia che dal Sud. Se ho ben capito, al Sud penserebbero più (certi ideologhi, almeno) a ricostituire il Regno delle Due Sicilie e al diavolo il resto d'Italia.
Secondo me, il tentativo di costruire un'ideologia neoborbonica è anche una reazione agli insulti scriteriati e senza senso che lombardisti e venetisti, Bossi auspice, hanno rivolto per anni agli italiani del sud. Ma, a parte questo, contrapporre alla politica suicida che sta facendo l'attuale classe dirigente, l'alternativa dell'Italia delle autonomie, di fatto quasi Stati indipendenti, non è un'alternativa, è una continuazione del "suicidio assistito" cui sta andando incontro da tempo la nostra nazione. (Forse che la regione Veneto, promotrice di referendum per la c.d. "autonomia differenziata" a fini fiscali, cerca di combattere il libero aborto di Stato? Risulta? Ho letto da qualche parte che il tasso di aborti del Veneto è secondo in Italia solo a quello dell'Emilia Romagna).
Sul rapporto tra cultura nazionale e cultura regionale o locale, prendendo spunto dalla cultura siciliana, ho trovato pagine illuminanti nel testo di Gentile che ho citato e che raccomando alla lettura, anche se è di difficile reperimento. E'nel volume XXX delle Opere Complete di G. Gentile, Sansoni, Firenze, casa editr. estinta. Titolo: "Il tramonto della cultura siciliana", pp. 216. Originariamente uscito nel 1917. Nelle biblioteche si dovrebbe trovare.
PP
@ PP,
RispondiElimina15 ottobre 2017 10:00
Quello che sto cercando di dire è che noi, a parte il caricaturale che ci viene trasmesso dall'informazione ufficiale, ben poco sappiamo della cultura 'alta' e/o 'povera' della nostra gente. Questa 'non conoscenza', pilotata sotto forma di onniscenza, comincia già nella scuola con i libri di testo, che di tutto dicono senza dire nulla di essenziale, che venga il desiderio di ricordare. Abbiamo accennato ai dialetti, alla storia, alla letteratura, parliamo della geografia, ai miei tempi quando ancora reggeva la riforma Gentile, e ancora debolmente resiste malgrado le valanghe di riforme che 'scientemente' le si son buttate sopra per seppellirla, la geografia partiva dai fatti: monti, pianure, fiumi, laghi, confini, regioni, province e città. Negli anni si studiava l' Italia, poi l' Europa, e a seguire gli altri continenti, sempre con la stessa scansione di argomenti, che venivano esercitati sia con disegni, sia sulle famose cartine mute nelle interrogazioni e nelle verifiche. Ora non è più così. Gran spazio è dedicato, fin da piccoli, alla geografia economica e quando sono più grandicelli alle organizzazioni internazionali xy presenti in quell'area a diverso titolo. Ci sono anche le nozioni orografiche ed idrografiche, tutte assemblate però in un paio di paragrafetti e divise per grandi regioni continentali. Spariti dunque i confini, nazioni e stati; dei monti, pianure, fiumi , laghi e mari rimane un gran minestrone. E così i nostri ragazzi si formano le loro competenze con quiz e crocette, con pc e l'inglese ad esso legato.
Concludendo, come il bambino parte(partiva) dal conoscere la sua mamma, il suo papà, la sua stanzetta e poi piano piano imparava a conoscere la sua casa, il suo quartiere e via ampliando fino ad arrivare ai viaggi usuali e poi quelli grandi, che per molti restavano entrambi di fantasia per tutta la loro vita, ma tutti sapevano quali erano e dove erano i grandi scenari delle loro avventure immaginarie. E da adulti capivano, senza che nessuno lo spiegasse loro, il perchè economico e/o strategico di certi conflitti internazionali.
Quindi se vogliamo 'veramente' aprirci all'altro, cominciamo a conoscere bene la nostra famiglia, la nostra casa e la nostra storia, solo questo ci mette in condizione di conoscere i tratti essenziali del prossimo vicino o lontano che sia. La storia, la geografia ufficiale, 'i saperi statali' non ci aiutano più.
onniscienza
RispondiEliminaerrata corrige
Carissimo prof. Pasqualucci, i suoi chiarimenti sono graditissimi stimoli per approfondire le questioni in esame. Sul come riformare lo Stato unitario, avevo una certezza forte: dare all'Italia "unita" una costituzione federalista. Circa 25 anni fa, scrivevo: "Camillo Benso di Cavour, all'indomani dell'unificazione, temendo le spinte centrifughe ancora vitali nel nuovo Stato, preferì usare il pugno di ferro nella speranza che al più presto sarebbero state eliminate tutte le competizioni fra gli ex Stati preunitari. Purtroppo, "quello che toccò all'Italia fu un Risorgimento mancato, da cui nacque uno Stato autoritario che seppe accelerare solo l'unificazione amministrativa della penisola, non certo la sua crescita democratica e la sua integrazione economica". Lo Stato centralista, che certo non era nella preferenza della maggioranza degli italiani, non fu all'altezza della situazione. Riuscì a consolidare l'indipendenza e l'unità politica, ma mancò nel compito di realizzare l'unità economica, sociale e culturale. Non riuscì in definitiva "a fare gli italiani", compito questo che lo stesso Cavour aveva assegnato allo Stato italiano. Già nella fase del trapasso dagli ordinamenti dei vecchi Stati preunitari a quelli dello Stato unitario si evidenziò la diffusa ostilità alla soluzione istituzionale centralista. La maggioranza degli uomini politici delle vecchie provincie auspicava una forma di Stato che tenesse conto della particolare situazione dell'Italia che si era presentata all'appuntamento unitario profondamente divisa non solo politicamente, ma anche con "ordinamenti tanto diversi quanto forse non lo furono mai, tra loro, le Costituzioni delle principali nazioni europee". La classe dirigente dell'ex-regno delle Due Sicilie, ad esempio, temeva un colpo di mano piemontese che imponesse le istituzioni, le leggi e l'amministrazione sabaude, togliendo così ogni autonomia al Mezzogiorno. Pertanto, gli uomini politici napoletani, fra cui anche molti cavouriani, si levarono a difesa delle istituzioni meridionali, non convinti della tesi secondo cui era impossibile rinnovare politicamente il Mezzogiorno senza trasformare la struttura giuridico-amministrativa del vecchio Stato borbonico. Uomini politici autorevoli, fra cui il Bonghi, direttore del "Nazionale" e Scialoja, stimatissimo esperto finanziario, già ministro delle Finanze nel governo dittatoriale, si dichiaravano preoccupati per l'imminente unificazione, troppo rapida ed indiscriminata."
RispondiEliminaOggi, non ho più certezze, perchè la situazione storica si è talmente aggrovigliata che l'unica mia preoccupazione è quale contributo posso dare per salvaguardare l'identità storica della "nazione" italiana con tutte le sue peculiarità "regionali" in uno Stato unitario che in qualsiasi forma istituzionale sia vero e giusto tutore del bene comune di tutte le "genti" italiche.
PS: in questa impensabile situazione di annichilimento della nostra identità "italiana", per avere un ancoraggio identitatrio certo, ho ripreso a parlare il dialetto "nocerino", che nella babele odierna non temo di definire la mia lingua madre!
RispondiEliminaTornare all'Italia dei dialetti sarebbe la fine, il compimento del nostro suicidio
Quello che lei mi spiega, caro Alfonso, mi conferma in questa mia opinione. E a chi farebbe piacere, la frammentazione dell'Italia nel pulviscolo dei suoi dialetti, nella dissoluzione del suo Stato unitario, se non ai c.d. Poteri Forti, massonerie sinistre sinistrate incluse, che stanno procedendo all'annientamento etnico e morale dell'Europa?
Sugli errori del Risorgimento e dello Stato unitario. Il "pugno di ferro" lo impose Cavour o furono i successori immediati? Comunque, su questo "difetto d'origine" dell'imposizione affrettata del centralismo piemontese (G.Volpe) pesò molto la situazione internazionale. Il Papa chiedeva insistentemente l'intervento straniero (austriaco) per esser rimesso nei suoi Stati, l'esercito italiano non era certo quello prussiano, tutta l'Europa era ostile al nuovo Stato, tranne l'Inghilterra, che aveva fatto buon viso a cattivo gioco per "stoppare" il piano di Nap. III di ampliare il Piemonte a danno dell'Austria ma per mettere l'Italia (divisa in tre Stati principali) sotto tutela francese. Insomma, occorreva un consolidamento interno amministrativo e militare rapido e deciso. Così si pensò. Certo, la mentalità piemontese tendeva in quella direzione, è ovvio.
Il Meridione fu certamente sacrificato, anche se la grande emigrazione successiva (non solo meridionale) non dipese solo dai mali dell'unificazione; forse maggiormente dalla grave crisi agricola che investì tutta l'Europa per colpa del basso prezzo dei cereali statunitensi.
L'Italia liberale non era comunque "l'Italietta" delle diatribe politiche. L'unificazione amministrativa ebbe notevoli meriti: fu lo strumento (il maestro, il prefetto, il carabiniere) con il quale si combatterono efficacemente analfabetismo (enorme nel Sud rurale, ma esteso anche nel Nord rurale), malaria, brigantaggio (endemico, dalle Romagne alla Calabria, per secoli). Una minoranza borghese e in piccola parte proletaria (artigiani) aveva fatto l'Italia, con l'apporto determinante dello Stato sabaudo. Ma non è vero che gli italiani non cominciassero a farsi. L'Italia borghese cominciò a crescere e a crederci, a svilupparsi, a costruirsi un impero coloniale; contribuì validamente alla vittoria nella I g.m. (un'impresa notevole, vigliaccamente calunniata oggi), che completò finalmente l'unità nazionale, chiudendo il conto che gli Asburgo, nostri nemici storici, avevano aperto tre secoli e mezzo prima, conquistandoci o sottomettendoci con le famigerate Guerre d'Italia e trattandoci sempre come una razza inferiore.
Guardiamo le cose in una prospettiva più ampia, dirigiamo lo sguardo su di un orizzonte più vasto! Dopo Caporetto l'Italia, anche il popolo, reagì compatto e lottò sino alla vittoria.
Quando ci fu imposto il Diktat, il Trattato di pace 70 anni fa, in modo particolarmente umiliante, l'indignazione nazionale fu vasta,collettiva. Il sentimento patriottico ancora c'era, nonostante i disastri del 43-45. E'venuto meno negli anni per colpa dell'azione corrosiva dei comunisti, culturale e politica, e di altri fattori, compreso lo scarso senso dello Stato di troppi cattolici. Devo abbreviare:
Non è vero che non possiamo risorgere, bisogna però crederci. Non guardiamo all'indietro, ma in avanti. Per me, la via della rinascita è una sola: rinnovare l'unità rifondando lo Stato secondo i valori del vero cattolicesimo, facendo così della necessaria restaurazione religiosa la missione storica dell'Italia attuale. PP
Carissimo professore, è la risposta che mi aspettavo e che corrisponde alle mie speranze di ieri e di oggi. Non penso assolutamente ad un ritorno all'Italia preunitaria, quella del dialetto e dello analfabetismo. Prima della battaglia decisiva, tutti noi dovremmo fare una intima riflessione sul nostro passato e sul futuro che si vuole realizzare. Sapere da dove si viene e chi siamo adesso ci può dare la forza per vincere. Prima del tuffo in acque profonde, un ampio respiro è necessario. Ecco, Il richiamo al dialetto natio è il respiro prima dellla immersione nella purificata italianità sovrana e cristiana.
RispondiEliminaE il sole splende
RispondiEliminahttp://www.ilgiornale.it/news/politica/famiglia-piena-debiti-che-incassa-milioni-i-migranti-1453983.html