Una testimonianza che non si può ignorare. Toccante è dir poco... Grazie ad Alessandro Gnocchi e al fatto di poter vedere il Signore all'opera in due anime che si incontrano in Lui.
Università statale di Milano, via Festa del Perdono, un pomeriggio d’esami di metà settembre 1995. Quando l’ho incontrato la prima volta, Mario Palmaro era il dottor Palmaro. Interrogava leggermente proteso in avanti, tenendo la mano destra sul tavolo e la sinistra sul fianco, sotto la giacca aperta, come lo avrei visto fare tante volte nelle conferenze quando, con inesorabile perizia, doveva spiegare a uno stupido quanto fosse stupido. Ci eravamo dati appuntamento in quell’aula perché era appena uscito il mio primo libro su Guareschi e lui mi voleva intervistare per “Il Cittadino” di Monza. Poco dopo, andammo a sederci ai tavolini di un bar in piazza Santo Stefano. Si stava bene là fuori, sotto il cielo di Lombardia, così bello come ormai lo è di rado. Lo ricordo come fosse oggi, quel tepore che un po’ scendeva dall’alto e un po’ si formava nel parlare di un uomo che entrambi amavamo allo stesso modo e per gli stessi motivi. Non mi fece le domande che avrebbe fatto uno del mestiere, ma da quel parlare cavò un pezzo veramente bello. Bravo, dottor Palmaro, io e te diventeremo amici.
Monza, via Santa Maddalena, la sera di domenica 9 marzo 2014. Quando l’ho visto per l’ultima volta, Mario era il mio fratello piccolo. Così sofferente, ma soprattutto così affaticato nel respiro e più ancora in quello sguardo che si aggrappava agli occhi più vicini. Quella sera in via Santa Maddalena mi resi conto per la prima volta di quanto sia abissale e tremenda l’espressione “sta morendo”. L’uomo che “sta morendo” non è il pusillanime accidioso che rifiuta il suo destino o l’orgoglioso iracondo che detta i tempi e i modi della sua uscita di scena in luogo di Dio. L’uomo che “sta morendo” è il servo umile e inutile che compie l’azione di morire così come il Signore gli ha chiesto nel suo disegno amoroso. Gli occhi di Mario, che non potrò mai dimenticare, ora mi dicono che lui “stava morendo”, stava bevendo fino in fondo il calice che gli veniva offerto.
Ma me lo dicono solo ora. A me, quella sera, pareva indifeso, se mai si possa pensare di difendersi da quanto la Provvidenza vuole per il nostro bene. Ne percepivo la sofferenza, da non riuscire sempre a reggere il suo sguardo, e non sapevo neppure come e da cosa metterlo al riparo. Ma non era indifeso, Mario era solo. Era giunto nell’attimo in cui l’ausilio sublime delle creature celesti e quello faticoso dei poveri mortali si ferma sulla soglia di ciò che ogni uomo è stato e di ciò che vuole essere per sempre.
Chissà cosa avviene in quell’attimo tremendo, che rimane così misterioso per coloro che continuano vivere in questo mondo. Ma, fino a un istante prima, quando era ancora possibile dire qualcosa con gli sguardi e con la preghiera, su quel letto ho visto sempre lui, il mio fratello piccolo. L’ho riconosciuto fino all’ultimo istante in cui si possa dire anche solo una parola al fratello che “sta morendo”.
Poco tempo prima, quando anche l’ultima speranza di un intervento era tramontata, gli avevo scritto che, se avessi potuto avere un fratello, lo avrei voluto proprio come lui. Non ho avuto fratelli di sangue, ma immagino che cosa si provi quando il più piccolo legge i tuoi stessi libri, vede i tuoi stessi film, tifa la tua stessa squadra e persino il tuo stesso ciclista, combatte e detesta proprio tutto quello che combatti e detesti tu. Non ho avuto fratelli di sangue, ma la Provvidenza mi ha fatto un regalo ancora più grande facendomi incontrare un uomo che amava e combatteva tutto ciò che io avevo cominciato ad amare e combattere qualche anno prima di lui, solo perché ero il fratello grande.
Saranno anche rustiche cose da maschi, ma quanto manca il fratello piccolo quando se ne va! Manca sempre di più, ogni anno che passa, ogni 9 marzo che Dio manda in terra. E allora cerchi di capire che cosa ti ha lasciato in cambio dei libri, dei film, delle partite dell’Inter a San Siro, delle battaglie, delle botte prese e di quelle date. Ci sono arrivato tardi, ma ci sono arrivato. Mario mi ha insegnato l’umiltà, che non è l’abitudine, pur buona, di suonare un’ottava sotto. L’umiltà, quella vera, quella che ci rende simili a Cristo, diventa parte di noi stessi solo attraverso le umiliazioni. Bisogna stare dentro un corpo malato, bisogna essere un corpo malato per andare a scuola di umiltà. Allora non si suona, ma si vive un’ottava sotto, e anche di più. Quando impari a essere qualcosa di meno agli occhi del tuo prossimo, anche e soprattutto di chi ti vuole bene, allora sei sulla strada dell’umiltà. Ma non ci sei ancora arrivato, neppure se lo accetti di buon grado per amore di Dio e del prossimo. Ci sei solo quando ti sembra giusto che nessuno lo riconosca, nessun uomo, neanche il tuo fratello grande. Ed è ancora niente, neanche Dio, al quale sai di non avere il diritto di chiedere nulla. È la notte oscura nella quale Mario è passato per arrivare fino sulla soglia dell’attimo tremendo. E ci è passato sapendo di non potere nemmeno scambiare le sue sofferenze con il bene dei suoi cari, perché tutto è del Signore e ciò che è degli uomini è vanità di vanità Questa è la vera povertà del cristiano.
All’avvicinarsi di questo 9 marzo, ho pensato a lungo a un libro che non ho avuto il tempo di passare al mio fratello piccolo. È la vita di Silvano del Monte Athos, che comincia con una sublime e soave dichiarazione di inutilità: “La vita del beato staretz Silvano trascorse senza alcun fatto di particolare importanza”. E poi conduce tutto nel finale, quando lo staretz Silvano è in vista dell’attimo tremendo: “Allora sorge poco a poco, nell’anima dell’uomo, l’esigenza di superare la menzogna della propria vita e di condurre la preghiera fino all’ultima verità, che si raggiunge solo con la morte. Non si può vivere da cristiani, si può solo morire da cristiano”.
Non ho avuto il tempo di dare questo libro dell’anima al mio fratello piccolo. Ma non fa niente, lui lo sapeva già che cosa c’è scritto.
Alessandro Gnocchi - 9 marzo 2018
http://www.lanuovabq.it/it/strega-in-classe-invoca-gli-spiriti-genitori-alloscuro
RispondiElimina
RispondiEliminaOT. https://www.antoniosocci.com/nella-chiesa-le-gerarchie-ancora-la-fede-cattolica-lhanno-persa-ne-vergognano-la-nascondono-gli-applausi-del-mondo/?
In occasione dei primi 5 anni di pontificato di Papa Francesco, Il Tempo confeziona un numero speciale con una prima pagina quasi interamente dedicata a Bergoglio. Molti commenti sul Pontefice e sul suo operato, tra i quali anche quello di Marcello Veneziani, "Un vicario per tre crisi". L'editorialista parla chiaramente di "svolta radicale", ma lo fa in termini critici. E scrive: "È un Papa avvertito come figlio del suo tempo più che della Chiesa, figlio della globalizzazione più che della tradizione". E ancora: "Un Papa aperto ai più lontani, che ama il prossimo più remoto, aperto agl'islamici prima che ai cristiani, ai protestanti prima che ai cattolici, ai poveri più che ai fedeli, ai singoli - anche gay - più che alle famiglie".
RispondiEliminaMarcello Veneziani
Karl Lehmann, addio all'anima del cattolicesimo progressista europeo . Per Papa Francesco "ha contribuito a plasmare la vita della chiesa e della società". Chi era il cardinale che fece penare Giovanni Paolo II e che è morto domenica .
RispondiEliminahttps://www.ilfoglio.it/chiesa/2018/03/12/news/karl-lehmann-morte-anima-cattolicesimo-progressista-183553/
Ma una Chiesa che proclama “della morte non abbiamo spiegazioni da offrire, che possano servire a consolare” e aggiunge “non chiedetemi quindi ragioni per capire, argomenti per giustificare, motivi per essere consolati. Posso solo piangere con voi”, una Chiesa così – dicevo – a cosa serve?
RispondiEliminahttp://itresentieri.it/selezione-cattolica-lomelia-di-betori-tra-compiacimento-al-mondo-e-dimenticanza-della-fede/
Ma che gli e' preso a tutti ? Questo tipo di rassicurazione ero capace di darla anch'io !