Eppure il pensiero forte del Novecento, alla fine, fu salvato dalle donne. Mentre gli ultimi pensatori dichiaravano il naufragio della filosofia o il tramonto della civiltà, le donne riprendevano a tessere il pensiero sposato al mondo. L’epifania del pensiero forte è al femminile. Non mi riferisco alle celebri donne che vissero di luce riflessa per i loro ménage intellettuali ed esistenziali. Come Lou-Andreas Salomè, anello di congiunzione vivente tra Nietzsche, Rilke e Freud. O come Simone de Beauvoir, che ha lasciato sì scritti notevoli, ma pur sempre all’ombra del suo sodalizio con Sartre. E nemmeno alle donne in politica o alle leader del movimento femminista.
Dico invece di quelle donne che hanno lasciato un’orma profonda nel pensiero, riconosciuta solo negli ultimi anni. Le donne che abitarono il cuore del Novecento filosofico non furono femministe, atee e radical progressiste; furono intrepidi “cuori pensanti” che si dedicarono alla metafisica, al sacro e alla trascendenza, a volte perfino alla mistica, all’estasi e alla santità. Figure delicate, a volte celestiali, vogliose d’assoluto e cercatrici di luce. Parlo di Simone Weil, l’intelligenza metafisica più pura ed acuta del Novecento, ma anche di Marìa Zambrano, allieva di Ortega y Gasset ma rapita da Heidegger; di Vittoria Guerrini alias Cristina Campo, che “filosofa” non fu; di Hannah Arendt, che fu tra le più grandi pensatrici non solo etico-politiche del secolo ma anche esistenziali; di Edith Stein e di Etty Hillesum, morte nei campi di sterminio, ebree come Weil, Arendt e come Rachel Bespaloff, potente esegeta dell’Iliade come “poema della forza”. Per certi versi vi fa parte anche Marguerite Yourcenar, che alla sensibilità storico-letteraria unì, a latere, una passione filosofico-alchemica e un’amore per la tradizione. E alle poetesse pervase di pensiero metafisico, come Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. O Antonia Pozzi. O studiose del sacro e del paganesimo come Marie Reimschneider e della “luce del Medioevo” come Régine Pernoud. Ad alcune di loro ha dedicato un libro, Cuori pensanti (l’espressione è di Hetty Hillesum) Laura Boella, ora edito da Chiarelettere.
Di fronte al declinare del pensiero al maschile, perduto tra dichiarazioni di morte della filosofia medesima, agonie e nichilismi, fino all’epilogo del pensiero debole, il pensiero forte è stato rappresentato soprattutto dalle donne, pur considerate quasi straniere nei territori della filosofia, senza permesso di soggiorno. Di fronte all’emorragia del pensiero, furono donne come Simone Weil a riproporre il problema della verità e di Dio, dell’essere e dell’assenza. O come Marìa Zambrano, a ripensare alla metafisica della luce e alla necessità di un pensiero aurorale, luogo d’incontro tra poesia e filosofia. O come Edith Stein, a passare dalla filosofia alla fede religiosa, dall’ebraismo alla conversione cristiana, assumendo da carmelitana in clausura il nome di Teresa Benedetta della Croce. O come Hannah Arendt, che non solo analizzava le origini del totalitarismo e la banalità del male, ma si addentrava anche nella vita della mente, riproponendo l’esigenza di un primato del conoscere sull’agire, della contemplazione sulla prassi. Con il pensiero femminile tornano nel Novecento Platone e Pitagora, il tema dell’immortalità dell’anima e l’orizzonte della trascendenza, la riflessione filosofica sulla religione e sul divino, l’amor fati e il sacro. L’espressione più alta e più pura di questa linea metafisica fu espressa in Italia da Cristina Campo, letterata traduttrice e poetessa, studiosa di saperi tradizionali, liturgici e simbolici. La sua lievità di figura e densità di espressione, lo splendore dei suoi pensieri, la ricerca di Dio con un’attenzione spirituale e una grazia che sembrano provenire da altri mondi a cui comunque si riferiscono. La sua tensione verso la perfezione che costa “vigilie notturne, duri mattutini, voti di castità, obbedienza e povertà”, il suo “distacco quasi totale dai beni di questa terra, la costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza alle forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose”… Cristina Campo esprime una linea scandalosamente divergente dal suo tempo e dal nostro. “Il mondo d’oggi – scrive in una lettera a Mita – ha un fiuto infallibile nel tentar di schiacciare ciò che è inimitabile, inesplicabile, irripetibile, tutto ciò che non gli può somigliare”.
Le donne pensarono la filosofia in rapporto al divino e alla sua assenza, il suo ritirarsi dal mondo. In quello strano secolo da cui proveniamo, a filosofare con il martello e ad assumersi la croce di un pensiero divergente, profondamente antagonista, scandaloso, sono state loro, le donne. Sia benedetto il loro pensiero forte, ben oltre l’astioso rivendicazionismo del gender. Si occuparono della condizione umana, non solo di quella delle donne.
Marcello Veneziani, La Verità 5 gennaio 2021
Non sono convinta di questa dicotomia pur nella eccellenza degli esempi proposti. Viceversa sono convinta che dietro una donna vi sia sempre un uomo, padre fratello figlio maestro amico marito forse a tempo, ma fecondante; come sono certa che dietro ogni uomo vi sia una donna, madre sorella figlia maestra amica moglie forse a tempo,ma sempre ispiratrice. Credo in Eva costola di Adamo e in Gesù Cristo figlio di Maria sempre Vergine.
RispondiEliminaNon sono convinta di questa dicotomia pur nella eccellenza degli esempi proposti. Viceversa sono convinta che dietro una donna vi sia sempre un uomo, padre fratello figlio maestro amico marito forse a tempo, ma fecondante; come sono certa che dietro ogni uomo vi sia una donna, madre sorella figlia maestra amica moglie forse a tempo,ma sempre ispiratrice. Credo in Eva costola di Adamo e in Gesù Cristo figlio di Maria sempre Vergine.
RispondiElimina''Eppure il pensiero forte del Novecento, alla fine, fu salvato dalle donne.''
RispondiEliminaAh, che fortuna...
E io che pensavo di vivere nell'epoca funesta e apocalittica della Grande Apostasia.
Sarà...
RispondiEliminaMa quale sarebbe il "pensiero forte"?
Veneziani mette nel calderone visioni
filosofiche contrapposte o comunque
assai diverse tra loro (p.e. Edith
Stein e Simone de Beauvoir o anche
Edith Stein e Simone Weil), per finire
alla fine con l'apologia di una poetessa,
rispettabile finché si vuole, ma della cui
filosofia nulla si saprebbe dire.
Il ragionar di Veneziani
manca qui di rigore.
''quale sarebbe il "pensiero forte"?''
RispondiEliminaboh, i 'conservatori' non sanno bene neanche loro quel che faccia mistieri che si conservi
''La donna sarà salvata partorendo figli.''
RispondiElimina@ 8 gennaio 2021 18:30
RispondiElimina''La donna sarà salvata partorendo figli.''
Che in realtà è il meno. Allevarli, educarli, seguirli da lontano quando vanno per la loro strada ma, sempre a disposizione; eppoi stanchi si muore contenti di aver fatto il proprio dovere di padri e di madri.
Vero. È il succo della vita, che allena all'altruismo. Vedere che si passa il testimone, che si viene superati dai propri figli in forza, altezza, e, si spera, bontà e carità. Un'osservazione: la donna sarà salvata partorendo, e l'uomo generando.
RispondiEliminaOT
RispondiEliminahttps://www.chiesadimilano.it/news/chiesa-diocesi/la-qualita-delleducare-negli-oratori-346426.html
@ Marisa
RispondiEliminaHo letto. Quando leggo questi percorsi universitari, para universitari, orari, presenze, programmi, bollini, quote di partecipazione e altro, nel quale anch'io entrai ed uscii col pezzo d carta, quando leggo di questi percorsi rimpiango il tempo in cui si parlava di 'vocazione' per ogni tipo di vocazione appunto e tra le prime quella pedagogica. In realtà bisogna dire che era comune allora che l'adulto parlasse spontaneamente della vocazione per qualsiasi arte e/o lavoro intellettuale. Evidentemente era un valore allora conosciuto e trasmesso. Lo si trasmetteva con l'esempio degli atti e delle parole, si consigliavano inoltre libri biografie o romanzi che trattavano della vocazione dell'artigiano, dell'avvocato, del pittore, del medico, dello sportivo, dell'industriale, del contadino, del musicista, del Santo; ogni vita era ed è un approfondire la propria vocazione attraverso lo studio, la pratica a cui lo studio fa riferimento e l'affinamento di se stessi attraverso l'esercizio dell'arte propria e attraverso le relazioni nel proprio ambiente. Dietro queste letture esisteva una 'educazione religiosa' che era stata familiare, scolastica, ecclesiale, quindi veniva naturale abbinare a qualsiasi vocazione un alone sacrale, un compito, un'abilità che nasceva con ogni persona. Il lavoro stesso è una vocazione nella quale i più umanamente preparati finiscono per riconoscere la propria vocazione. Ognuno capisce sempre meglio la propria vocazione vivendo la sua vita, a patto che la vocazione non venga schiacciata dalla ripetitività che l'esercizio della pratica sempre richiede e sempre rischia di pietrificarla; e la pratica pietrifica gli entusiasmi se si pretende che tutto debba dipendere da noi soltanto e che non esistano aiuti dall'Alto a volte soavi, a volte ruvide cadute quasi rovinose, che indicano sempre un qualcosa che ci riguarda e che va compreso.
@ Marisa
RispondiEliminaHo letto. Quando leggo questi percorsi universitari, para universitari, orari, presenze, programmi, bollini, quote di partecipazione e altro, nel quale anch'io entrai ed uscii col pezzo d carta, quando leggo di questi percorsi rimpiango il tempo in cui si parlava di 'vocazione' per ogni tipo di vocazione appunto e tra le prime quella pedagogica. In realtà bisogna dire che era comune allora che l'adulto parlasse spontaneamente della vocazione per qualsiasi arte e/o lavoro intellettuale. Evidentemente era un valore allora conosciuto e trasmesso. Lo si trasmetteva con l'esempio degli atti e delle parole, si consigliavano inoltre libri biografie o romanzi che trattavano della vocazione dell'artigiano, dell'avvocato, del pittore, del medico, dello sportivo, dell'industriale, del contadino, del musicista, del Santo; ogni vita era ed è un approfondire la propria vocazione attraverso lo studio, la pratica a cui lo studio fa riferimento e l'affinamento di se stessi attraverso l'esercizio dell'arte propria e attraverso le relazioni nel proprio ambiente. Dietro queste letture esisteva una 'educazione religiosa' che era stata familiare, scolastica, ecclesiale, quindi veniva naturale abbinare a qualsiasi vocazione un alone sacrale, un compito, un'abilità che nasceva con ogni persona. Il lavoro stesso è una vocazione nella quale i più umanamente preparati finiscono per riconoscere la propria vocazione. Ognuno capisce sempre meglio la propria vocazione vivendo la sua vita, a patto che la vocazione non venga schiacciata dalla ripetitività che l'esercizio della pratica sempre richiede e sempre rischia di pietrificarla; e la pratica pietrifica gli entusiasmi se si pretende che tutto debba dipendere da noi soltanto e che non esistano aiuti dall'Alto a volte soavi, a volte ruvide cadute quasi rovinose, che indicano sempre un qualcosa che ci riguarda e che va compreso.