Ringrazio di cuore Paolo Pasqualucci per la sua serie di "Appunti", ripresa di seguito, mirante a chiarire i concetti di Stato, nazione, popolo etc. - così importante nella temperie odierna -, per forza di cose in polemica rispettosa con i tradizionalisti di ogni forma e colore, ma non solo.
Il testo si delinea come una conferenza ma resta, nelle intenzioni, un "appunto" per la discussione, che dovrebbe interessare, tra i lettori abituali e nuovi, sia pure quella minoranza che cerca di approfondire i concetti essenziali.
1 – Sulla supposta costante artificiosità dello Stato rispetto alla nazione. Critica di un’astratta antitesi.
Sommario : Il pensiero politico cattolico da rifondare e il richiamo alla Tradizione – Rigida contrapposizione tra Stato e Nazione – Lo Stato Moderno prodotto dall’Arte politica solamente? – Critica del dualismo Stato-Nazione – Lo Stato come realtà anteriore alla Nazione, che concorre a costruire – Esempi storici a sostegno di questa tesi – Secondo Aristotele le comunità naturali e lo Stato costituiscono un’unità organica, quando lo Stato agisce secondo il bene comune.* * *
[Il pensiero politico cattolico da rifondare e il richiamo alla Tradizione]
Nella crisi politica e di valori dell’Unione Europea, emersa in modo clamoroso nella complessa vicenda della Brexit e in questioni di carattere etico (per esempio l’opposizione degli organi europei al tentativo polacco ed ungherese di proteggere la famiglia naturale e di salvaguardare la gioventù dalla propaganda omosessualista), quale posizione prende il pensiero politico cattolico? Mi riferisco non a quello per così dire ufficiale, di politici ed intellettuali, laici ed ecclesiastici, appiattiti sull’ideologia ugualitaria, europeista e mondialista dominante; sulla retorica dei “diritti umani” per tutti, anche di quelli impropriamente pretesi in nome della Rivoluzione Sessuale, bensì a quegli intellettuali cattolici che contestano tale ideologia in nome di una concezione che si definisce “organica” della nazione (e quindi dello Stato e della politica). Essi ribadiscono giustamente la necessità di riconoscere l’esistenza di una nazionalità spontanea, di natura per l’appunto organica al modo di vivere socialmente naturale dei popoli. Un modo di vivere anteriore allo Stato e comunque da esso indipendente, che lo Stato avrebbe solo il dovere di riconoscere e proteggere, mantenere. Nazionalità spontaneo-tradizionale i cui costumi sono ovviamente in antitesi a quelli perversi sanzionati dalla sopra citata legislazione europea (ed anche americana).
La riscoperta o riproposizione della nazione spontaneo-organica – professante i valori tradizionali : Dio, Patria e Famiglia – viene dunque giustamente contrapposta alla ultrasecolarizzata costruzione superstatale che è l’attuale Unione Europea. Su questo non si può che esser d’accordo e non solo (credo) dal punto di vista dei cattolici fedeli alla Tradizione della Chiesa. Di fronte a legislazioni che distruggono la famiglia naturale accettando i modelli immorali o contronatura imposti dal femminismo e dalla Rivoluzione Sessuale; che autorizzano l’aborto volontario come diritto della donna addirittura tutelato dallo Stato, riconoscendo in tal modo alla madre naturale un inaudito ed inaccettabile diritto di vita e di morte sul suo nascituro; queste ed altre aberrazioni, è addirittura doveroso respingerle in blocco e contrapporvi non solo la morale cristiana (cattolica) tradizionale ma anche la semplice morale fondata sul diritto di natura.
Dove allora il possibile disaccordo? Sul fatto di espungere, come sembra, il concetto stesso dello Stato dalla proposta di ricostruzione dei valori umani autentici. In altre parole: sul fatto di voler concepire la nazione spontanea come entità sempre e comunque prestatale alla quale lo Stato si sovrapporrebbe in modo sostanzialmente artificioso perché istituzione comunque derivata, sussidiaria, della quale alcuni penserebbero anche di poter fare a meno. Che di per sé il soggetto collettivo “nazione” non sia la stessa cosa dello Stato, è indiscutibile; che tuttavia sia esistito ed esista storicamente sempre e comunque p r i m a dello Stato, come se l’autorità statale, intervenuta sempre d o p o , non avesse mai concorso alla sua formazione e ai suoi fini, ciò non si può a mio avviso sostenere, se si vuol cogliere “la natura effettuale della cosa”.
La contestazione del presente, iniquo ordinamento viene opportunamente ancorata alla speculazione dei classici del pensiero conservatore e “reazionario” di un tempo, già rivelatisi acuti critici della società borghese e democratica impostasi con la Rivoluzione Francese. Ed innervata dagli opportuni richiami alla nostra tradizione classica, quale appare nel pensiero politico di impostazione aristotelico-tomistica.
Questa prospettiva più ampia la vediamo emergere, a mio giudizio, soprattutto negli intellettuali che pubblicano nella collana De Re Publica, edita dalle Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, diretta dal prof. Danilo Castellano. E negli autori moderni più rappresentativi del pensiero cattolico “conservatore” che questa collana pubblica, quali ad esempio Francisco Elías de Tejada (1917-1978), filosofo della politica spagnolo che ha rinverdito, con toni originali, la tradizione di pensiero carlista ovvero della monarchia tradizionale ispanica contro la monarchia liberale, importata in Ispagna nel XIX secolo. Questa collana rappresenta a mio avviso il tentativo oggi scientificamente più valido di ridar vita ad un pensiero politico-filosofico cattolico che sia capace di elaborare una visione del mondo coerente con la tradizione più autentica del pensiero cattolico e nello stesso tempo adatta a rispondere alla peculiari e assai complesse esigenze del nostro drammatico tempo. Non si può che felicitarsi di questo tentativo, indubbiamente coraggioso, se si pensa al clima di odio che oggi circonda il cattolicesimo, alimentato anche dalla fazione neo-modernista al potere nella Chiesa visibile sin dai tempi dello sciagurato Concilio Ecumenico pastorale Vaticano II. Per amor del vero, vanno tuttavia affrontate certe difficoltà teoretiche che, a mio parere, emergono là ove concezioni tendenzialmente manichee del passato e in ogni caso portate ad astrarre dalla storia concreta, sembrano riaffiorare, in particolare quando si vuol sostenere una vera e propria antitesi tra Stato e Nazione.
[Rigida contrapposizione tra Stato e Nazione]
Abbiamo dunque che la nazione, come valore e realtà organica, viene contrapposta allo Stato in quanto tale, voglio dire al concetto e all’ideale stesso dello Stato, così come si contrappone ciò che è naturale a ciò che è artificioso. Lo Stato sarebbe sì una realtà sociologicamente definita ma figlio dell’intellettualismo e del volontarismo, all’opposto della nazione, appunto realtà spontanea di usi e costumi, tradizione conservatasi nelle generazioni. Avremmo qui un’antitesi paragonabile a quella tra natura e cultura, ove la “natura” sarebbe costituita da ciò che è spontaneo, organico, conforme alla natura umana e quindi codificato nei liberi e buoni usi e costumi di un popolo, mentre la “cultura” rappresenterebbe il risultato di una costruzione volontaristica ed intellettualistica, prona alle deviazioni dell’ideologia, non conforme o conforme solo in parte alle esigenze della “natura”, organicamente attuantesi nella “nazione”. L’antitesi tra “natura” e “cultura” ha una lunga storia. Qui mi limito ad usarla per meglio esporre questa rappresentazione dello Stato come un’entità per definizione artificiale (rappresentazione, è superfluo dirlo, che non mi trova affatto d’accordo). Come se l’idea dello Stato, per realizzarsi, si dovesse servire di un’arte politica sempre incline a prevaricare sulla autentica “natura” dell’uomo in società, ulcerandola mediante istituzioni per definizione estranee od ostili all’indole dei popoli.
La contrapposizione tra ciò che si suppone naturale e ciò che si suppone artificioso è intesa in modo rigido. Ne consegue una concezione che possiamo definire riduttiva dello Stato in quanto “istituzione di ordine secondario e successivo rispetto alla famiglia e al municipio” (qui).[1] Tende inoltre a risolvere il concetto dello Stato in quello dello Stato-Nazione uscito dalla Rivoluzione Francese e dalle istituzioni napoleoniche, attribuendo pertanto un carattere universale ed eterno ad una forma di Stato che invece deve considerarsi storicamente condizionata perché risultato di un determinato processo storico. Quel processo che, nell’Europa continentale, si estese dall’assolutismo monarchico, impostosi dalla fine della Guerra dei Trent’anni (trattati di Westphalia, 1648), allo Stato costituzionale di tipo liberale, per entrare in crisi con la I gm, la Rivoluzione Russa e l’avvento dello Stato comunista ovvero totalitario, preso a modello in tutto o in parte da numerose nazioni. Lo Stato liberale costituzionale basato sul parlamentarismo, certi diritti “civili” costituzionalmente garantiti, la tutela della proprietà privata, il principio del “giusto processo”, la certezza del diritto; caratterizzato da un caratteristico stile, fatto di correttezza politica e comportamentale impersonata dal principio di tolleranza e dal dominio della legge, di fronte alla quale siamo tutti uguali – stile tipico di quella che si chiamava la civiltà liberale, fondata sul rispetto dell’opinione dell’altro e sullo Stato di diritto – si affermò a partire dall’Inghilterra, nazione nella quale ebbe luogo la prima rivoluzione moderna, la prima del ciclo borghese delle rivoluzioni. E quindi, solo “dopo che un re era stato decapitato ad un crocicchio”, come ricordava Leone Trotskij ai detrattori della Rivoluzione Bolscevica, ossia dopo anni di torbidi, una sanguinosa rivoluzione e una feroce guerra civile. Ed ugualmente, solo dopo una sanguinosa rivoluzione e la decapitazione di un altro re, si affermò in Francia.
[Lo Stato moderno prodotto dell’Arte politica solamente?]
Era “artificioso” questo tipo di Stato, per molti aspetti ancora esistente, a livello delle istituzioni, nell’Occidente imbarbarito di oggi? Più realisticamente, bisognerebbe forse dire che nella sua istituzione inizialmente rivoluzionaria e violenta si mescolarono esigenze concrete (politiche, economiche, culturali, imposte dall’emergente borghesia), che il vecchio ordine di origine feudale non riusciva più a soddisfare, ed esigenze dottrinarie, frutto di ideologie ispirate ad astratti ed utopistici quanto esaltati ideali -- addirittura convinti, i loro settatori, di poter ricostruire da zero la società e lo Stato in base ai principi della ragione come da loro intesa; incarnati per antonomasia, questi ideali, dai Giacobini, che comunque hanno rappresentato un momento estremo, quello più violento e appunto dottrinario, con le note venature totalitarie, della rivoluzione borghese, rapidamente eliminato dalla rivoluzione stessa.
Ma vengo al dunque, cioè all’affermazione apodittica del dualismo tra Stato e Nazione. Ho letto in un articolo dedicato al problema nazionale apparso su un quotidiano cattolico on-line, che da anni difende valorosamente i principi tradizionali della religione, della morale, della politica cattoliche : “Una nazione è data dalla volontà generale di difendersi, dalla lingua, religione, tradizioni, stirpe, temperamento, arte, territorio comune. Lo Stato invece è ente monopolista tendenziale della violenza ed è un costrutto artificiale affermatosi nell’età degli assolutismi. Fra Stato e nazione non c’è mai stato un matrimonio perfetto”.[2]
Più articolata ma anche più radicale l’opinione espressa da Padre Samuele Cecotti, in un articolo riproducente un suo intervento ad un Convegno milanese del 2019. Al “globalismo” dominante attraverso le istituzioni europee e non solo, egli contrappone la realtà del popolo costituente una nazione, natio, incarnante una patria “con il compreso vincolo morale tra le generazioni nella tradizione”. E questo “vincolo morale” non può esser altro che quello che si è stabilito nei secoli grazie alla religione cattolica come insegnata dalla Chiesa, fondamento dell’etica e dei costumi di tante generazioni. Bisogna quindi, continua, “recuperare il significato vero di popolo, la sua essenza. Tornare alla realtà dell’ordine socio-politico così come colto dalla classicità e dalla cristianità.” Tuttavia, questo necessario “ritorno” ai giusti concetti politici fondamentali per avviare la ricostruzione del nostro disastrato mondo, sembra escludere del tutto il concetto dello Stato, di per sé inteso come realtà estranea e in sostanza ostile ai valori immutabili della Tradizione, impersonata dalla nazionalità spontanea.
“La risposta al globalismo/europeismo, di tutta evidenza, non può essere dunque la riaffermazione dello Stato moderno, prodotto artificiale uscito dalla Rivoluzione (qui tutta l’ingenuità di certa leadership sovranista), sarebbe come voler curare una metastasi cancerosa con una fase precedente della stessa neoplasia” (qui).[3] E difatti, per il P. Cecotti, sono soprattutto la famiglia, la natio, il popolo, la patria ad esser stati messi in crisi dal “globalismo” figlio della Rivoluzione. Della situazione dello Stato nazionale contemporaneo, ugualmente messo in profonda crisi dal “globalismo” predominante, egli non sembra preoccuparsi. E anche per lui, lo Stato, poiché nato dalla Rivoluzione, è un “prodotto artificiale”. Ma proprio questo modo di intendere lo Stato è, per me, inaccettabile, cogliendo esso solamente una parte del fenomeno storico concreto rappresentato dallo Stato, Stato moderno incluso.
[Critica del dualismo Stato-Nazione]
Mi sembra inevitabile far presente in primo luogo che lo Stato, come realtà politico-istituzionale dotata di una sua propria individualità – nei fatti, voglio dire, anche se non ve n’era ancora un concetto definito - esiste ben anteriormente all’“età degli assolutismi”. Nel Medio Evo, età dell’oro delle supposte nazionalità spontanee e dell’autogoverno locale, non esisteva lo Stato? Il Sacro Romano Impero non era e non voleva essere uno Stato? Stato feudale, appunto, ma pur sempre Stato, con la struttura istituzionale di quello che chiamiamo Stato e non nazione, rappresentato in genere da monarchi (Romano Pontefice incluso) sempre in lotta (spesso vana) contro le soverchianti tendenze centrifughe della nobiltà feudale, delle libere città, di intere regioni.
Quando il 27 luglio 1214, le Dimanche de Bouvines, l’esercito del Re di Francia, Filippo Augusto, sconfisse completamente nelle vicinanze del villaggio di Bouvines, presso Lilla, l’esercito imperiale di Ottone IV, i suoi alleati inglesi e i baroni feudali francesi loro associati, celebrando, come si disse, “il battesimo della nazione francese”, perché la vittoria fu sentita ed esaltata, nei domini già vasti della Corona capetingia, come affermazione della libertà e indipendenza della nazione francese, che si salvava da un’invasione incombente - questa “nazione francese” che stava nascendo nelle coscienze dei francesi (al tempo, prevalentemente del Nord del Paese), questa coscienza di appartenere ad un’entità organicamente unita grazie soprattutto all’opera, accentratrice ma di buon governo, della Corona, non era già uno Stato? Voglio dire: l’organizzazione feudale che faceva capo al re di Francia vincitore, monarca fin allora elettivo ma di diritto divino, capo militare e civile, giudice supremo, non era solo quella di una società più o meno organica; era anche quella di ciò che chiamiamo S t a t o , con le sue tipiche istituzioni (capo politico sovrano, governo, giudici, amministrazione centralizzata [prevosti o siniscalchi, baglivi], esercito) che si stava costruendo intrecciato alla nazione. Mi sembra perciò errato voler stabilire tra Stato e Nazione una contrapposizione rigida, quasi ontologica. Contrapposizione che sembra nutrirsi della convinzione di una successione cronologica costante fra Nazione e Stato: prima la Nazione, poi lo Stato.
[Lo Stato come realtà anteriore alla Nazione, che concorre a costruire]
La realtà è più complessa, tant’è che storicamente lo Stato appare esser anche anteriore alla Nazione, nel senso che quest’ultima, se non creata ex novo, venne promossa e sviluppata grazie all’opera delle istituzioni statali e cioè della burocrazia del re, della magistratura del re, della milizia del re; grazie all’operare del governo civile in generale e in accordo con l’azione ugualmente costruttiva della Chiesa, irradiantesi mediante una organizzazione centralizzata e capillare, estesa su tutto il territorio. Insomma, promossa e mantenuta la nazione, preesistente in usi e costumi e attività locali e particolari, ad opera del buon governo del potere sovrano del re, sempre in lotta con le ribelli autonomie dei grandi feudatari - il quale buon governo contribuiva anche a creare spiritualmente oltre che materialmente la nazione stessa. A mio avviso, la si può occultare, questa sostanziale interdipendenza fra Stato e Nazione, solo ricorrendo ad arbitrarie semplificazioni.
“In nessuna parte d’Europa la nazione è stata l’elemento primario e lo Stato l’elemento derivato. Più antico della nazione francese è lo Stato francese – i suoi fondatori sono la monarchia e l’episcopato, non la nazione. Più antico della nazione tedesca è l’Impero tedesco d’impronta franco-orientale e sassone, che anche nelle sue radici più recenti – quella prussiana e quella austriaca – è germogliato assai meno da linfe nazionali che da elementi dinastici e militari. Più antico della nazione spagnola è lo Stato spagnolo, e nella misura in cui dietro la pluralità degli Stati pirenaici del Medioevo c’è l’idea di una unità, si tratta di una idea religiosa, non nazionale, dell’idea della lotta contro gli infedeli, sorretta da una pluralità di leghe cavalleresche. L’Italia, che sembra smentire sotto più d’un aspetto la nostra tesi, poiché in essa è possibile riconoscere – cinque secoli prima della nascita del moderno Stato nazionale – una effettiva coscienza nazionale priva di forma politica, costituisce un unicum singolare. Anche qui, in realtà, una creazione politica primaria è alla base della coscienza nazionale: lo Stato romano, che – certo – per secoli visse soltanto nel ricordo, ma anche in questa forma ideale esercitò un’influenza così forte che gli abitanti della penisola recalcitrarono a qualsiasi ordinamento imposto loro dall’esterno, fosse gotico, longobardo, franco, degli Ottoni e degli Staufen, ispano-asburgico. Ma anche nel secolo XIX quel ricordo di Roma, che viene inteso come idea nazionale, non è in grado – da solo – di dar vita a una nuova, effettiva fondazione: accanto alla culla dello Stato nazionale c’erano la dinastia dei Savoia, l’esercito piemontese e un sorprendente diplomatico, Cavour”.[4]
Così Werner Kaegi, illustre storico svizzero (1901-1979), che, tra altre cose, ha dedicato fondamentali studi all’importanza del piccolo Stato nella storia europea. Prescindiamo per il momento da quello che dice sull’Italia: più che “gli abitanti” in generale furono elementi dell’élite ad opporsi, sul piano culturale e politico-culturale (la “nazione culturale” in assenza di quella “politica”) all’imposizione di modelli stranieri, a vagheggiare la libertà e a volte l’unità d’Italia in termini più che altro ideali, poetici; a tener vivo, anche con ampio uso della retorica, l’ideale di uno Stato unitario e sovrano, rappresentato dall’antica Roma. Importa, io credo, il concetto essenziale espresso dallo storico svizzero.
A mio avviso, egli vuol sottolineare soprattutto come lo Stato, inteso come istituzione, apparato civile e militare, amministrazione e governo, spesso in simbiosi con l’organizzazione ecclesiastica, sia stato, ad un certo punto, il creatore della nazione: il trono e l’altare sono stati gli artefici della nazione francese. Si intende: non dal nulla, ma mediante un’opera graduale di organizzazione e comando che ha fatto venire in essere un’unità, innanzitutto spirituale e di costumi, in quegli elementi spontanei già formatisi, a livello locale, come “la famiglia e il comune”, ma non costituenti ancora come tali una “nazione”. Se la nazione è coscienza collettiva di un’unità di stirpe, valori, tradizioni e interessi, si può dire che, storicamente, quest’unità raramente si forma compiutamente prima dello Stato ad essa corrispondente, per quanto primitivo quest’ultimo possa essere. Potremmo dire che essa da un lato concresce allo Stato, dall’altro è da esso prodotta, grazie all’azione di amministrazione e governo tipica delle istituzioni statali, agenti sulla base di un potere sovrano cioè mediante comandi e tendenzialmente poco inclini a lasciar giudicare il proprio operato da eventuali istanze superiori.
[Esempi storici a sostegno di questa tesi]
Se vogliamo esempi storici, ne troviamo più d’uno, ben prima della nascita dello Stato-nazione, prodotto dalla Rivoluzione Francese. Pensiamo ad esempio allo Stato monarchico accentrato creato dagli Svevi nel Meridione dell’Italia, che continuò quello normanno. Il Meridione d’Italia non conobbe il fenomeno dei Comuni né quello delle Signorie per il semplice fatto che, a partire da una certa epoca, vi dominò sempre il Regno, un regime monarchico accentrato e accentratore. Ora, la nazione meridionale, con i suoi usi e costumi comuni, compattamente cattolica e monarchica, preesisteva forse al Regno o non nasce assieme ad esso ed anche (e forse soprattutto) per opera di quest’ultimo?
Il Regno nasce con i Normanni, razza conquistatrice tra le più astute e spietate. Arrivati in loco nel 1010, all’inizio come pellegrini (armati) che volevano andare in Terra Santa, videro che era più utile e interessante vendersi come mercenari al miglior offerente, nel coacervo di lotte che caratterizzava i piccoli potentati nei quali era diviso il Sud. Data la loro superiorità militare (le battaglie le decideva la cavalleria pesante, nella quale eccellevano, rispetto ai locali), cominciarono ad accrescere le loro forze e a mettersi in proprio, per così dire.
“Nell’Italia meridionale, agli inizi del secolo XI, si avevano nove Stati : il Catapanato bizantino (gran parte delle Puglie e della Basilicata e la Calabria), l’Emirato musulmano di Sicilia, i Principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua, i quattro ducati bizantini di Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento : i quali tutti erano perennemente in guerra tra loro, oltre alle lotte esterne contro il Papato e il S.R. Impero. Tra questi nove Stati si inseriscono, quale decimo elemento, i Normanni, cioè alcuni nuclei di quel popolo avventuriero che, proveniente dalla Scandinavia [pirati ferocissimi, terrore delle coste nel Nord-Europa e delle Isole Britanniche], nell’886, aveva ottenuto da Carlo il Grosso [uno degli ultimi sovrani franchi, che non riusciva a vincerli] la Normandia in Francia e di là aveva invaso l’Inghilterra [nel 1066, ma si erano già abbastanza civilizzati, diventando francesi di lingua e costumi].”[5]
Tralasciamo le imprese italiane dei Normanni, “un’opera di vero e proprio brigantaggio”, quanto ai metodi impiegati, e limitiamoci a ricordare l’importanza storica della loro conquista del Sud, per noi italiani: “essi vietarono ai Bizantini la riconquista delle nostre regioni, impedendo una nuova dominazione orientale che sarebbe stata ben grave all’Italia”[anche, aggiungo io, per motivi religiosi, di difesa dalle eresie], “così come avevano troncata in modo definitivo in Sicilia quella musulmana” e impedirono una travolgente potenza di Venezia per almeno un secolo.[6] L’aver ostacolato la potenza veneziana fu un fatto della storia contingente. Fondamentale, invece, e destinato a durare, l’arresto della dominazione bizantina nel nostro Paese e soprattutto l’eliminazione di quella musulmana. In Sicilia c’era la guerra civile tra gli arabi: alcuni di loro fecero l’errore di assoldare contingenti normanni, i quali misero tutti d’accordo impadronendosi dell’isola.
Ai fini del discorso che qui interessa, bisogna chiedersi: nel Mezzogiorno prima dei Normanni c’era una evidente diversità di religioni e costumi, e non si poteva dire che esistesse una “nazione meridionale italiana” unitaria nel suo modo di vivere e nei suoi valori, come si è costruita ed affermata successivamente. E questa “nazione” non comincia forse a prender forma grazie all’azione dello Stato normanno, una monarchia tendenzialmente assoluta, accentratrice? Voglio con questo dire che il rigido schema: prima la Nazione, poi lo Stato, qui non sembra affatto possibile applicarlo.
Un altro esempio, vorrei dire classico, di nazionalità creata dallo Stato è rappresentato dalla monarchia asburgica. Stato multinazionale, contenente popoli diversissimi tra loro (tedeschi, ungheresi, cèchi, polacchi, slovacchi, ucraini, russi, romeni, croati, sloveni, bosniaci, italiani). Qui la “nazionalità spontanea” di ciascun popolo non attizzava forse le peggiori tendenze centrifughe? Eppure queste nazionalità, superato il periodo delle rivoluzioni e ribellioni, per un lungo arco di tempo si amalgamarono in una sorta di “Austria dello spirito”, si sentirono una nazione grazie alla fedeltà all’imperatore, alla dinastia, all’amministrazione austriaca, all’esercito imperiale, insomma grazie all’opera dello Stato asburgico, al “buon governo” delle sue istituzioni, alla civiltà “mitteleuropea” che esse erano riuscite a creare; Stato che rimase in vita finché le forze centrifughe rappresentate dalle varie “nazionalità” non presero il sopravvento, con la grave crisi provocata dalla sconfitta finale nella I gm.
Se in un impero, realtà quasi sempre multinazionale, ci deve pur essere il sentimento di appartenenza all’impero in quanto nazione che tutti i sudditi abbraccia nei suoi valori comuni, trascendenti quelli delle nazionalità locali per quanto autonome possano essere: ebbene, questa nazione, questa nazionalità imperiale, chi altri se non lo Stato imperiale stesso la costruisce? E la costruisce soprattutto quando governa bene o comunque in modo da soddisfare le esigenze fondamentali dei governati. Nell’impero ottomano il vincolo di fedeltà al Sultano si esprimeva in un patriottismo osmanlı, che faceva sentire i sudditi quali appartenenti ad un’unica nazione, non quella turca pur numericamente prevalente ma appunto quella fondata da Osman, capotribù di una delle tante schiatte turche dell’Asia centrale, iniziatore con le sue conquiste dell’impero e quindi dello Stato multinazionale che portava il suo nome (ottomano, nella forma occidentale).
[Secondo Aristotele le comunità naturali e lo Stato costituiscono un’unità organica, quando lo Stato agisce secondo il bene comune]
Non si tratta, quindi, di rovesciare completamente la tesi del pensiero tradizionalista, che, se l’ho ben interpretata, limita lo Stato (non solo quello partorito dalla Rivoluzione Francese) ad un ruolo secondario, quasi notarile, rispetto alla “nazione” formatasi indipendentemente. Si tratta, invece, di riconoscere (e proprio guardando alla storia) quella che si può chiamare fattiva interdipendenza tra il costruirsi dello Stato e il crescere e il mantenersi della Nazione. Credo che questo dovrebbe essere un primo punto da tener fermo. A riprova, possiamo verificare nel pensiero di Aristotele, che resta, sino a prova contraria, uno dei classici di riferimento del pensiero cattolico tradizionalista, il rapporto tra le istituzioni di formazione spontanea, richiamate da de Tejada [vedi], quale la famiglia e il municipio (“il villaggio”), e la comunità politica più ampia, quella che per i Greci era la polis (lo Stato) con la sua costituzione (politeia). Già nel I libro della Politica viene affermato il carattere organico del loro nesso.
Gli uomini sono socievoli per natura e aspirano sempre e comunque a vivere insieme ma tendono a realizzare questa comunanza di vita in modo sempre più perfezionato, mirando ad un’armonia che trascenda il dato bruto ed immediato delle necessità della sopravvivenza.
“È chiaro perciò che lo Stato non è comunanza di luogo né esiste per evitare eventuali aggressioni e in vista di scambi: tutto questo necessariamente c’è, se dev’esserci uno Stato, però non basta perché ci sia uno Stato: lo Stato è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene: il suo oggetto è una esistenza pienamente realizzata e indipendente. Certo non si giungerà a tanto senza abitare lo stesso e unico luogo e godere il diritto di connubio. Per questo sorsero nelle città rapporti di parentela e fratrie e sacrifici e passatempi della vita comune. Questo è opera dell’amicizia, perché l’amicizia è scelta deliberata di vita comune. Dunque, fine dello Stato è il vivere bene e tutte queste cose sono in vista del fine. Lo Stato è comunanza di stirpi e di villaggi in una vita pienamente realizzata e indipendente: è questo, come diciamo, il vivere in modo felice e bello. E proprio in grazia delle opere belle e non della vita associata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica. Perciò quanti giovano sommamente a siffatta comunità hanno nello Stato una parte più grande di coloro che sono ad essi uguali o superiori per la libertà e per la nascita ma non uguali per la virtù politica, e di coloro che li superano in ricchezza e ne sono superati in virtù”.[11]
Data la natura dello Stato, che porta di per sè a compimento il fine intrinseco alla famiglia e al villaggio, costituenti per noi emblematicamente la “nazione spontanea”, che si innalza dal particolarismo della vita rustica al bene comune grazie all’opera dello Stato, dovrà lo Stato esser governato dai migliori “in virtù politica”, cioè da veri statisti, preoccupati solo del bene comune. Dalla acquisizione della natura organica e quindi secondo natura del nesso tra le istituzioni naturali e lo Stato, scaturisce anche la definizione preliminare del Politico come individuo che deve valere ed esser giudicato solo per i suoi meriti ovvero per l’autentica “virtù politica” che mostra di possedere.
Ma quando il Politico cercherà di imporre una delle forme degenerate di Stato, incapace quindi di attuare il bene comune ed anzi ad esso contraria, il nesso tra le forme naturali della vita sociale e quelle statali si spezzerà e tutta l’opera dello Stato apparirà come una sovrapposizione innaturale alla “nazione spontanea”, che inevitabilmente vedrà nell’autorità statale un nemico che la vuole soffocare e distruggere. Ma questo accade quando appunto si diffonde una decadenza generalizzata, morale e politica, e una forma di Stato, ma anche un’intera società se non di civiltà appaiono addirittura prossime al tramonto. Se la reazione a questo stato di cose vuole essere efficace deve, a mio modesto avviso, tralasciare dualismi e antitesi validi solo per descrivere situazioni patologiche, e recuperare invece, nella teoria politica innanzitutto, il carattere “spontaneo” ovvero “naturale” dello Stato, del vero concetto dello Stato, già intuito e anticipato dal pensiero dei nostri Classici antichi.
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Questa prospettiva più ampia la vediamo emergere, a mio giudizio, soprattutto negli intellettuali che pubblicano nella collana De Re Publica, edita dalle Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, diretta dal prof. Danilo Castellano. E negli autori moderni più rappresentativi del pensiero cattolico “conservatore” che questa collana pubblica, quali ad esempio Francisco Elías de Tejada (1917-1978), filosofo della politica spagnolo che ha rinverdito, con toni originali, la tradizione di pensiero carlista ovvero della monarchia tradizionale ispanica contro la monarchia liberale, importata in Ispagna nel XIX secolo. Questa collana rappresenta a mio avviso il tentativo oggi scientificamente più valido di ridar vita ad un pensiero politico-filosofico cattolico che sia capace di elaborare una visione del mondo coerente con la tradizione più autentica del pensiero cattolico e nello stesso tempo adatta a rispondere alla peculiari e assai complesse esigenze del nostro drammatico tempo. Non si può che felicitarsi di questo tentativo, indubbiamente coraggioso, se si pensa al clima di odio che oggi circonda il cattolicesimo, alimentato anche dalla fazione neo-modernista al potere nella Chiesa visibile sin dai tempi dello sciagurato Concilio Ecumenico pastorale Vaticano II. Per amor del vero, vanno tuttavia affrontate certe difficoltà teoretiche che, a mio parere, emergono là ove concezioni tendenzialmente manichee del passato e in ogni caso portate ad astrarre dalla storia concreta, sembrano riaffiorare, in particolare quando si vuol sostenere una vera e propria antitesi tra Stato e Nazione.
[Rigida contrapposizione tra Stato e Nazione]
Abbiamo dunque che la nazione, come valore e realtà organica, viene contrapposta allo Stato in quanto tale, voglio dire al concetto e all’ideale stesso dello Stato, così come si contrappone ciò che è naturale a ciò che è artificioso. Lo Stato sarebbe sì una realtà sociologicamente definita ma figlio dell’intellettualismo e del volontarismo, all’opposto della nazione, appunto realtà spontanea di usi e costumi, tradizione conservatasi nelle generazioni. Avremmo qui un’antitesi paragonabile a quella tra natura e cultura, ove la “natura” sarebbe costituita da ciò che è spontaneo, organico, conforme alla natura umana e quindi codificato nei liberi e buoni usi e costumi di un popolo, mentre la “cultura” rappresenterebbe il risultato di una costruzione volontaristica ed intellettualistica, prona alle deviazioni dell’ideologia, non conforme o conforme solo in parte alle esigenze della “natura”, organicamente attuantesi nella “nazione”. L’antitesi tra “natura” e “cultura” ha una lunga storia. Qui mi limito ad usarla per meglio esporre questa rappresentazione dello Stato come un’entità per definizione artificiale (rappresentazione, è superfluo dirlo, che non mi trova affatto d’accordo). Come se l’idea dello Stato, per realizzarsi, si dovesse servire di un’arte politica sempre incline a prevaricare sulla autentica “natura” dell’uomo in società, ulcerandola mediante istituzioni per definizione estranee od ostili all’indole dei popoli.
La contrapposizione tra ciò che si suppone naturale e ciò che si suppone artificioso è intesa in modo rigido. Ne consegue una concezione che possiamo definire riduttiva dello Stato in quanto “istituzione di ordine secondario e successivo rispetto alla famiglia e al municipio” (qui).[1] Tende inoltre a risolvere il concetto dello Stato in quello dello Stato-Nazione uscito dalla Rivoluzione Francese e dalle istituzioni napoleoniche, attribuendo pertanto un carattere universale ed eterno ad una forma di Stato che invece deve considerarsi storicamente condizionata perché risultato di un determinato processo storico. Quel processo che, nell’Europa continentale, si estese dall’assolutismo monarchico, impostosi dalla fine della Guerra dei Trent’anni (trattati di Westphalia, 1648), allo Stato costituzionale di tipo liberale, per entrare in crisi con la I gm, la Rivoluzione Russa e l’avvento dello Stato comunista ovvero totalitario, preso a modello in tutto o in parte da numerose nazioni. Lo Stato liberale costituzionale basato sul parlamentarismo, certi diritti “civili” costituzionalmente garantiti, la tutela della proprietà privata, il principio del “giusto processo”, la certezza del diritto; caratterizzato da un caratteristico stile, fatto di correttezza politica e comportamentale impersonata dal principio di tolleranza e dal dominio della legge, di fronte alla quale siamo tutti uguali – stile tipico di quella che si chiamava la civiltà liberale, fondata sul rispetto dell’opinione dell’altro e sullo Stato di diritto – si affermò a partire dall’Inghilterra, nazione nella quale ebbe luogo la prima rivoluzione moderna, la prima del ciclo borghese delle rivoluzioni. E quindi, solo “dopo che un re era stato decapitato ad un crocicchio”, come ricordava Leone Trotskij ai detrattori della Rivoluzione Bolscevica, ossia dopo anni di torbidi, una sanguinosa rivoluzione e una feroce guerra civile. Ed ugualmente, solo dopo una sanguinosa rivoluzione e la decapitazione di un altro re, si affermò in Francia.
[Lo Stato moderno prodotto dell’Arte politica solamente?]
Era “artificioso” questo tipo di Stato, per molti aspetti ancora esistente, a livello delle istituzioni, nell’Occidente imbarbarito di oggi? Più realisticamente, bisognerebbe forse dire che nella sua istituzione inizialmente rivoluzionaria e violenta si mescolarono esigenze concrete (politiche, economiche, culturali, imposte dall’emergente borghesia), che il vecchio ordine di origine feudale non riusciva più a soddisfare, ed esigenze dottrinarie, frutto di ideologie ispirate ad astratti ed utopistici quanto esaltati ideali -- addirittura convinti, i loro settatori, di poter ricostruire da zero la società e lo Stato in base ai principi della ragione come da loro intesa; incarnati per antonomasia, questi ideali, dai Giacobini, che comunque hanno rappresentato un momento estremo, quello più violento e appunto dottrinario, con le note venature totalitarie, della rivoluzione borghese, rapidamente eliminato dalla rivoluzione stessa.
Ma vengo al dunque, cioè all’affermazione apodittica del dualismo tra Stato e Nazione. Ho letto in un articolo dedicato al problema nazionale apparso su un quotidiano cattolico on-line, che da anni difende valorosamente i principi tradizionali della religione, della morale, della politica cattoliche : “Una nazione è data dalla volontà generale di difendersi, dalla lingua, religione, tradizioni, stirpe, temperamento, arte, territorio comune. Lo Stato invece è ente monopolista tendenziale della violenza ed è un costrutto artificiale affermatosi nell’età degli assolutismi. Fra Stato e nazione non c’è mai stato un matrimonio perfetto”.[2]
Più articolata ma anche più radicale l’opinione espressa da Padre Samuele Cecotti, in un articolo riproducente un suo intervento ad un Convegno milanese del 2019. Al “globalismo” dominante attraverso le istituzioni europee e non solo, egli contrappone la realtà del popolo costituente una nazione, natio, incarnante una patria “con il compreso vincolo morale tra le generazioni nella tradizione”. E questo “vincolo morale” non può esser altro che quello che si è stabilito nei secoli grazie alla religione cattolica come insegnata dalla Chiesa, fondamento dell’etica e dei costumi di tante generazioni. Bisogna quindi, continua, “recuperare il significato vero di popolo, la sua essenza. Tornare alla realtà dell’ordine socio-politico così come colto dalla classicità e dalla cristianità.” Tuttavia, questo necessario “ritorno” ai giusti concetti politici fondamentali per avviare la ricostruzione del nostro disastrato mondo, sembra escludere del tutto il concetto dello Stato, di per sé inteso come realtà estranea e in sostanza ostile ai valori immutabili della Tradizione, impersonata dalla nazionalità spontanea.
“La risposta al globalismo/europeismo, di tutta evidenza, non può essere dunque la riaffermazione dello Stato moderno, prodotto artificiale uscito dalla Rivoluzione (qui tutta l’ingenuità di certa leadership sovranista), sarebbe come voler curare una metastasi cancerosa con una fase precedente della stessa neoplasia” (qui).[3] E difatti, per il P. Cecotti, sono soprattutto la famiglia, la natio, il popolo, la patria ad esser stati messi in crisi dal “globalismo” figlio della Rivoluzione. Della situazione dello Stato nazionale contemporaneo, ugualmente messo in profonda crisi dal “globalismo” predominante, egli non sembra preoccuparsi. E anche per lui, lo Stato, poiché nato dalla Rivoluzione, è un “prodotto artificiale”. Ma proprio questo modo di intendere lo Stato è, per me, inaccettabile, cogliendo esso solamente una parte del fenomeno storico concreto rappresentato dallo Stato, Stato moderno incluso.
[Critica del dualismo Stato-Nazione]
Mi sembra inevitabile far presente in primo luogo che lo Stato, come realtà politico-istituzionale dotata di una sua propria individualità – nei fatti, voglio dire, anche se non ve n’era ancora un concetto definito - esiste ben anteriormente all’“età degli assolutismi”. Nel Medio Evo, età dell’oro delle supposte nazionalità spontanee e dell’autogoverno locale, non esisteva lo Stato? Il Sacro Romano Impero non era e non voleva essere uno Stato? Stato feudale, appunto, ma pur sempre Stato, con la struttura istituzionale di quello che chiamiamo Stato e non nazione, rappresentato in genere da monarchi (Romano Pontefice incluso) sempre in lotta (spesso vana) contro le soverchianti tendenze centrifughe della nobiltà feudale, delle libere città, di intere regioni.
Quando il 27 luglio 1214, le Dimanche de Bouvines, l’esercito del Re di Francia, Filippo Augusto, sconfisse completamente nelle vicinanze del villaggio di Bouvines, presso Lilla, l’esercito imperiale di Ottone IV, i suoi alleati inglesi e i baroni feudali francesi loro associati, celebrando, come si disse, “il battesimo della nazione francese”, perché la vittoria fu sentita ed esaltata, nei domini già vasti della Corona capetingia, come affermazione della libertà e indipendenza della nazione francese, che si salvava da un’invasione incombente - questa “nazione francese” che stava nascendo nelle coscienze dei francesi (al tempo, prevalentemente del Nord del Paese), questa coscienza di appartenere ad un’entità organicamente unita grazie soprattutto all’opera, accentratrice ma di buon governo, della Corona, non era già uno Stato? Voglio dire: l’organizzazione feudale che faceva capo al re di Francia vincitore, monarca fin allora elettivo ma di diritto divino, capo militare e civile, giudice supremo, non era solo quella di una società più o meno organica; era anche quella di ciò che chiamiamo S t a t o , con le sue tipiche istituzioni (capo politico sovrano, governo, giudici, amministrazione centralizzata [prevosti o siniscalchi, baglivi], esercito) che si stava costruendo intrecciato alla nazione. Mi sembra perciò errato voler stabilire tra Stato e Nazione una contrapposizione rigida, quasi ontologica. Contrapposizione che sembra nutrirsi della convinzione di una successione cronologica costante fra Nazione e Stato: prima la Nazione, poi lo Stato.
[Lo Stato come realtà anteriore alla Nazione, che concorre a costruire]
La realtà è più complessa, tant’è che storicamente lo Stato appare esser anche anteriore alla Nazione, nel senso che quest’ultima, se non creata ex novo, venne promossa e sviluppata grazie all’opera delle istituzioni statali e cioè della burocrazia del re, della magistratura del re, della milizia del re; grazie all’operare del governo civile in generale e in accordo con l’azione ugualmente costruttiva della Chiesa, irradiantesi mediante una organizzazione centralizzata e capillare, estesa su tutto il territorio. Insomma, promossa e mantenuta la nazione, preesistente in usi e costumi e attività locali e particolari, ad opera del buon governo del potere sovrano del re, sempre in lotta con le ribelli autonomie dei grandi feudatari - il quale buon governo contribuiva anche a creare spiritualmente oltre che materialmente la nazione stessa. A mio avviso, la si può occultare, questa sostanziale interdipendenza fra Stato e Nazione, solo ricorrendo ad arbitrarie semplificazioni.
“In nessuna parte d’Europa la nazione è stata l’elemento primario e lo Stato l’elemento derivato. Più antico della nazione francese è lo Stato francese – i suoi fondatori sono la monarchia e l’episcopato, non la nazione. Più antico della nazione tedesca è l’Impero tedesco d’impronta franco-orientale e sassone, che anche nelle sue radici più recenti – quella prussiana e quella austriaca – è germogliato assai meno da linfe nazionali che da elementi dinastici e militari. Più antico della nazione spagnola è lo Stato spagnolo, e nella misura in cui dietro la pluralità degli Stati pirenaici del Medioevo c’è l’idea di una unità, si tratta di una idea religiosa, non nazionale, dell’idea della lotta contro gli infedeli, sorretta da una pluralità di leghe cavalleresche. L’Italia, che sembra smentire sotto più d’un aspetto la nostra tesi, poiché in essa è possibile riconoscere – cinque secoli prima della nascita del moderno Stato nazionale – una effettiva coscienza nazionale priva di forma politica, costituisce un unicum singolare. Anche qui, in realtà, una creazione politica primaria è alla base della coscienza nazionale: lo Stato romano, che – certo – per secoli visse soltanto nel ricordo, ma anche in questa forma ideale esercitò un’influenza così forte che gli abitanti della penisola recalcitrarono a qualsiasi ordinamento imposto loro dall’esterno, fosse gotico, longobardo, franco, degli Ottoni e degli Staufen, ispano-asburgico. Ma anche nel secolo XIX quel ricordo di Roma, che viene inteso come idea nazionale, non è in grado – da solo – di dar vita a una nuova, effettiva fondazione: accanto alla culla dello Stato nazionale c’erano la dinastia dei Savoia, l’esercito piemontese e un sorprendente diplomatico, Cavour”.[4]
Così Werner Kaegi, illustre storico svizzero (1901-1979), che, tra altre cose, ha dedicato fondamentali studi all’importanza del piccolo Stato nella storia europea. Prescindiamo per il momento da quello che dice sull’Italia: più che “gli abitanti” in generale furono elementi dell’élite ad opporsi, sul piano culturale e politico-culturale (la “nazione culturale” in assenza di quella “politica”) all’imposizione di modelli stranieri, a vagheggiare la libertà e a volte l’unità d’Italia in termini più che altro ideali, poetici; a tener vivo, anche con ampio uso della retorica, l’ideale di uno Stato unitario e sovrano, rappresentato dall’antica Roma. Importa, io credo, il concetto essenziale espresso dallo storico svizzero.
A mio avviso, egli vuol sottolineare soprattutto come lo Stato, inteso come istituzione, apparato civile e militare, amministrazione e governo, spesso in simbiosi con l’organizzazione ecclesiastica, sia stato, ad un certo punto, il creatore della nazione: il trono e l’altare sono stati gli artefici della nazione francese. Si intende: non dal nulla, ma mediante un’opera graduale di organizzazione e comando che ha fatto venire in essere un’unità, innanzitutto spirituale e di costumi, in quegli elementi spontanei già formatisi, a livello locale, come “la famiglia e il comune”, ma non costituenti ancora come tali una “nazione”. Se la nazione è coscienza collettiva di un’unità di stirpe, valori, tradizioni e interessi, si può dire che, storicamente, quest’unità raramente si forma compiutamente prima dello Stato ad essa corrispondente, per quanto primitivo quest’ultimo possa essere. Potremmo dire che essa da un lato concresce allo Stato, dall’altro è da esso prodotta, grazie all’azione di amministrazione e governo tipica delle istituzioni statali, agenti sulla base di un potere sovrano cioè mediante comandi e tendenzialmente poco inclini a lasciar giudicare il proprio operato da eventuali istanze superiori.
[Esempi storici a sostegno di questa tesi]
Se vogliamo esempi storici, ne troviamo più d’uno, ben prima della nascita dello Stato-nazione, prodotto dalla Rivoluzione Francese. Pensiamo ad esempio allo Stato monarchico accentrato creato dagli Svevi nel Meridione dell’Italia, che continuò quello normanno. Il Meridione d’Italia non conobbe il fenomeno dei Comuni né quello delle Signorie per il semplice fatto che, a partire da una certa epoca, vi dominò sempre il Regno, un regime monarchico accentrato e accentratore. Ora, la nazione meridionale, con i suoi usi e costumi comuni, compattamente cattolica e monarchica, preesisteva forse al Regno o non nasce assieme ad esso ed anche (e forse soprattutto) per opera di quest’ultimo?
Il Regno nasce con i Normanni, razza conquistatrice tra le più astute e spietate. Arrivati in loco nel 1010, all’inizio come pellegrini (armati) che volevano andare in Terra Santa, videro che era più utile e interessante vendersi come mercenari al miglior offerente, nel coacervo di lotte che caratterizzava i piccoli potentati nei quali era diviso il Sud. Data la loro superiorità militare (le battaglie le decideva la cavalleria pesante, nella quale eccellevano, rispetto ai locali), cominciarono ad accrescere le loro forze e a mettersi in proprio, per così dire.
“Nell’Italia meridionale, agli inizi del secolo XI, si avevano nove Stati : il Catapanato bizantino (gran parte delle Puglie e della Basilicata e la Calabria), l’Emirato musulmano di Sicilia, i Principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua, i quattro ducati bizantini di Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento : i quali tutti erano perennemente in guerra tra loro, oltre alle lotte esterne contro il Papato e il S.R. Impero. Tra questi nove Stati si inseriscono, quale decimo elemento, i Normanni, cioè alcuni nuclei di quel popolo avventuriero che, proveniente dalla Scandinavia [pirati ferocissimi, terrore delle coste nel Nord-Europa e delle Isole Britanniche], nell’886, aveva ottenuto da Carlo il Grosso [uno degli ultimi sovrani franchi, che non riusciva a vincerli] la Normandia in Francia e di là aveva invaso l’Inghilterra [nel 1066, ma si erano già abbastanza civilizzati, diventando francesi di lingua e costumi].”[5]
Tralasciamo le imprese italiane dei Normanni, “un’opera di vero e proprio brigantaggio”, quanto ai metodi impiegati, e limitiamoci a ricordare l’importanza storica della loro conquista del Sud, per noi italiani: “essi vietarono ai Bizantini la riconquista delle nostre regioni, impedendo una nuova dominazione orientale che sarebbe stata ben grave all’Italia”[anche, aggiungo io, per motivi religiosi, di difesa dalle eresie], “così come avevano troncata in modo definitivo in Sicilia quella musulmana” e impedirono una travolgente potenza di Venezia per almeno un secolo.[6] L’aver ostacolato la potenza veneziana fu un fatto della storia contingente. Fondamentale, invece, e destinato a durare, l’arresto della dominazione bizantina nel nostro Paese e soprattutto l’eliminazione di quella musulmana. In Sicilia c’era la guerra civile tra gli arabi: alcuni di loro fecero l’errore di assoldare contingenti normanni, i quali misero tutti d’accordo impadronendosi dell’isola.
Ai fini del discorso che qui interessa, bisogna chiedersi: nel Mezzogiorno prima dei Normanni c’era una evidente diversità di religioni e costumi, e non si poteva dire che esistesse una “nazione meridionale italiana” unitaria nel suo modo di vivere e nei suoi valori, come si è costruita ed affermata successivamente. E questa “nazione” non comincia forse a prender forma grazie all’azione dello Stato normanno, una monarchia tendenzialmente assoluta, accentratrice? Voglio con questo dire che il rigido schema: prima la Nazione, poi lo Stato, qui non sembra affatto possibile applicarlo.
Un altro esempio, vorrei dire classico, di nazionalità creata dallo Stato è rappresentato dalla monarchia asburgica. Stato multinazionale, contenente popoli diversissimi tra loro (tedeschi, ungheresi, cèchi, polacchi, slovacchi, ucraini, russi, romeni, croati, sloveni, bosniaci, italiani). Qui la “nazionalità spontanea” di ciascun popolo non attizzava forse le peggiori tendenze centrifughe? Eppure queste nazionalità, superato il periodo delle rivoluzioni e ribellioni, per un lungo arco di tempo si amalgamarono in una sorta di “Austria dello spirito”, si sentirono una nazione grazie alla fedeltà all’imperatore, alla dinastia, all’amministrazione austriaca, all’esercito imperiale, insomma grazie all’opera dello Stato asburgico, al “buon governo” delle sue istituzioni, alla civiltà “mitteleuropea” che esse erano riuscite a creare; Stato che rimase in vita finché le forze centrifughe rappresentate dalle varie “nazionalità” non presero il sopravvento, con la grave crisi provocata dalla sconfitta finale nella I gm.
Se in un impero, realtà quasi sempre multinazionale, ci deve pur essere il sentimento di appartenenza all’impero in quanto nazione che tutti i sudditi abbraccia nei suoi valori comuni, trascendenti quelli delle nazionalità locali per quanto autonome possano essere: ebbene, questa nazione, questa nazionalità imperiale, chi altri se non lo Stato imperiale stesso la costruisce? E la costruisce soprattutto quando governa bene o comunque in modo da soddisfare le esigenze fondamentali dei governati. Nell’impero ottomano il vincolo di fedeltà al Sultano si esprimeva in un patriottismo osmanlı, che faceva sentire i sudditi quali appartenenti ad un’unica nazione, non quella turca pur numericamente prevalente ma appunto quella fondata da Osman, capotribù di una delle tante schiatte turche dell’Asia centrale, iniziatore con le sue conquiste dell’impero e quindi dello Stato multinazionale che portava il suo nome (ottomano, nella forma occidentale).
[Secondo Aristotele le comunità naturali e lo Stato costituiscono un’unità organica, quando lo Stato agisce secondo il bene comune]
Non si tratta, quindi, di rovesciare completamente la tesi del pensiero tradizionalista, che, se l’ho ben interpretata, limita lo Stato (non solo quello partorito dalla Rivoluzione Francese) ad un ruolo secondario, quasi notarile, rispetto alla “nazione” formatasi indipendentemente. Si tratta, invece, di riconoscere (e proprio guardando alla storia) quella che si può chiamare fattiva interdipendenza tra il costruirsi dello Stato e il crescere e il mantenersi della Nazione. Credo che questo dovrebbe essere un primo punto da tener fermo. A riprova, possiamo verificare nel pensiero di Aristotele, che resta, sino a prova contraria, uno dei classici di riferimento del pensiero cattolico tradizionalista, il rapporto tra le istituzioni di formazione spontanea, richiamate da de Tejada [vedi], quale la famiglia e il municipio (“il villaggio”), e la comunità politica più ampia, quella che per i Greci era la polis (lo Stato) con la sua costituzione (politeia). Già nel I libro della Politica viene affermato il carattere organico del loro nesso.
“Riguardo poi al marito e alla moglie, ai figli e al padre, alla virtù di ciascuno di essi e alle loro reciproche relazioni, quale è giusta, quale non è giusta, in che modo bisogna cercare il bene e fuggire il male, è necessario esaminarlo nei discorsi sulle forme di costituzione. Perché, siccome ogni famiglia è parte dello Stato [epei gar oikia men pâsa meros poleōs] e le persone di cui si parla sono parte della famiglia e siccome si deve considerare l’eccellenza della parte in rapporto all’eccellenza del tutto, bisogna educare figli e mogli tenendo d’occhio la forma di costituzione, se è vero che ha importanza per la perfezione dello Stato che i ragazzi e le donne siano moralmente perfetti. E, in realtà, deve avere importanza, perché le donne sono la metà degli esseri liberi e dai ragazzi vengono su quelli che parteciperanno alla vita politica”.[7]L’uomo, ci insegna Aristotele, è un “animale socievole” ma la vita in comune che egli si sente portato a condurre con i suoi simili non vorrebbe essere la vita in generale o qualsiasi vita ma quella “vita felice” che gli consenta di realizzare, oltre ad un giusto benessere materiale, anche i valori nei quali crede. Riporto il famoso passo:
“La comunità che risulta di più villaggi è lo Stato [polis], perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per render possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice [eû zên]. Quindi ogni Stato esiste per natura [physei], se per natura esistono anche le prime comunità; infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per es. quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura [physis], sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa”.[8]Nel libro III della Politica, lo Stagirita illustra più ampiamente il punto, dopo aver definito il concetto di costituzione. Essa è “l’ordinamento [taxis] delle varie magistrature [archōn] d’uno Stato e specialmente di quella che è sovrana e suprema di tutto: infatti, sovrana suprema è dovunque la suprema autorità [políteuma] dello Stato e la suprema autorità è la costituzione [politeía]”.[9] Questo “ordinamento” si articola nelle tre “forme di costituzione”, rimaste classiche, del governo della cosa pubblica e quindi dello Stato: monarchia, aristocrazia, democrazia. Ma ognuna di esse, quando è retta (ossia, quando non degenera in tirannide, oligarchia, governo della massa incolta e vendicativa) persegue il medesimo fine, che è il “bene comune”, obbiettivo ideale e pratico, nel quale si realizza il fine per cui gli uomini si associano, a partire appunto dalla “famiglia” e dal “villaggio”: il “viver bene” (eû zēn) non il semplice vivere o in qualche modo sopravvivere, anche se in determinate circostanze vivere comunque e sopravvivere costituisce elemento sufficiente per associarsi. Il “viver bene” o “viver felice” [eû zên] e il “viver bello” [zên kalōs], insomma la vita in comune nella sua pienezza, sia da un punto di vista materiale che spirituale e morale, si può realizzare solo nella perfezione di un’unità che racchiude e trascende le sue parti nel Tutto rappresentato dalla polis, cioè dallo Stato come l’istituzione che esiste unicamente per il bene comune e a questo patto, grazie a questo fine, è “secondo natura” allo stesso titolo della “famiglia” e del “villaggio”. La natura dell’ente si determina in relazione al suo fine intrinseco.
Gli uomini sono socievoli per natura e aspirano sempre e comunque a vivere insieme ma tendono a realizzare questa comunanza di vita in modo sempre più perfezionato, mirando ad un’armonia che trascenda il dato bruto ed immediato delle necessità della sopravvivenza.
“Anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere [tou zên kalōs] che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine e di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale. C’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere, anche considerato in se stesso, a meno che non sia gravato oltre misura dai mali dell’esistenza. È chiaro del resto che i più degli uomini sopportano molte avversità perché attaccati alla vita, come se racchiudesse in se stessa una qualche gioia e dolcezza naturale”.[10]Dunque: per poter vivere nel modo migliore, per quanto possibile, e quindi per realizzare il “viver bene” (che non è solo materiale) di una sana comunità di “famiglie” e “villaggi”, queste “comunità” non sono sufficienti da sole: pertanto, gli uomini fondano lo Stato, la polis, secondo una determinata forma, ordinamento nel quale la famiglia e il villaggio trovano la loro compiuta, organica sistemazione.
“È chiaro perciò che lo Stato non è comunanza di luogo né esiste per evitare eventuali aggressioni e in vista di scambi: tutto questo necessariamente c’è, se dev’esserci uno Stato, però non basta perché ci sia uno Stato: lo Stato è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene: il suo oggetto è una esistenza pienamente realizzata e indipendente. Certo non si giungerà a tanto senza abitare lo stesso e unico luogo e godere il diritto di connubio. Per questo sorsero nelle città rapporti di parentela e fratrie e sacrifici e passatempi della vita comune. Questo è opera dell’amicizia, perché l’amicizia è scelta deliberata di vita comune. Dunque, fine dello Stato è il vivere bene e tutte queste cose sono in vista del fine. Lo Stato è comunanza di stirpi e di villaggi in una vita pienamente realizzata e indipendente: è questo, come diciamo, il vivere in modo felice e bello. E proprio in grazia delle opere belle e non della vita associata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica. Perciò quanti giovano sommamente a siffatta comunità hanno nello Stato una parte più grande di coloro che sono ad essi uguali o superiori per la libertà e per la nascita ma non uguali per la virtù politica, e di coloro che li superano in ricchezza e ne sono superati in virtù”.[11]
Data la natura dello Stato, che porta di per sè a compimento il fine intrinseco alla famiglia e al villaggio, costituenti per noi emblematicamente la “nazione spontanea”, che si innalza dal particolarismo della vita rustica al bene comune grazie all’opera dello Stato, dovrà lo Stato esser governato dai migliori “in virtù politica”, cioè da veri statisti, preoccupati solo del bene comune. Dalla acquisizione della natura organica e quindi secondo natura del nesso tra le istituzioni naturali e lo Stato, scaturisce anche la definizione preliminare del Politico come individuo che deve valere ed esser giudicato solo per i suoi meriti ovvero per l’autentica “virtù politica” che mostra di possedere.
Ma quando il Politico cercherà di imporre una delle forme degenerate di Stato, incapace quindi di attuare il bene comune ed anzi ad esso contraria, il nesso tra le forme naturali della vita sociale e quelle statali si spezzerà e tutta l’opera dello Stato apparirà come una sovrapposizione innaturale alla “nazione spontanea”, che inevitabilmente vedrà nell’autorità statale un nemico che la vuole soffocare e distruggere. Ma questo accade quando appunto si diffonde una decadenza generalizzata, morale e politica, e una forma di Stato, ma anche un’intera società se non di civiltà appaiono addirittura prossime al tramonto. Se la reazione a questo stato di cose vuole essere efficace deve, a mio modesto avviso, tralasciare dualismi e antitesi validi solo per descrivere situazioni patologiche, e recuperare invece, nella teoria politica innanzitutto, il carattere “spontaneo” ovvero “naturale” dello Stato, del vero concetto dello Stato, già intuito e anticipato dal pensiero dei nostri Classici antichi.
_______________________
[1] Francisco Élias de Tejada, La famiglia e il municipio come basi dell’organizzazione politica, in: ID., Europa, tradizione, libertà. Saggi di filosofia della politica, tr. it. e introduzione e note a cura di Giovanni Turco, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2005, pp. 91-114; p. 105.
[2] Stefano Magni, La Catalogna e il risveglio delle nazioni, in ‘La Nuova Bussola Quotidiana’, 15 ottobre 2019.
[3] Samuele Cecotti, Popolo e nazioni realtà naturali e perciò osteggiate, in ‘Chiesa e Postconcilio’, post del 6 maggio 2019, contenente l’intervento completo dell’Autore alla II Giornata della Dottrina Sociale, organizzata a Milano il 9 aprile 2019 da La Nuova Bussola Quotidiana e L’Osservatorio van Thuan.
[4] Werner Kaegi, Il piccolo Stato nel pensiero europeo, 1938, in: ID., Meditazioni storiche, tr. it. dal tedesco a cura e con presentazione di Delio Cantimori, Laterza, Bari, 1960, pp. 33-90; pp. 38-39.
[2] Stefano Magni, La Catalogna e il risveglio delle nazioni, in ‘La Nuova Bussola Quotidiana’, 15 ottobre 2019.
[3] Samuele Cecotti, Popolo e nazioni realtà naturali e perciò osteggiate, in ‘Chiesa e Postconcilio’, post del 6 maggio 2019, contenente l’intervento completo dell’Autore alla II Giornata della Dottrina Sociale, organizzata a Milano il 9 aprile 2019 da La Nuova Bussola Quotidiana e L’Osservatorio van Thuan.
[4] Werner Kaegi, Il piccolo Stato nel pensiero europeo, 1938, in: ID., Meditazioni storiche, tr. it. dal tedesco a cura e con presentazione di Delio Cantimori, Laterza, Bari, 1960, pp. 33-90; pp. 38-39.
[5] Gennaro Maria Monti, Lo Stato normanno svevo. Lineamenti e ricerche, Napoli, Miccoli Editore, 1934, p. 3.
[6] Op.cit., pp. 5-6.
[7] Aristotele, La Politica, tr. it., introduzione, note e indici di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, pp. 44-45 (I (A), 13, 1260 b). Per l’originale greco: Aristotelis Politica, ed. W.D. Ross, Oxford Classical Texts, 1957, rist. 1978.
[8] Op. cit., p. 8 (I (A), 2, 1252 b.
[9] Op. cit., p. 125 (III (Γ), 6, 1279 a).
[10] Op. cit., pp. 125-126, (1278 b).
[11] Op. cit., pp. 133-134 (1280 b – 1281 a).
[6] Op.cit., pp. 5-6.
[7] Aristotele, La Politica, tr. it., introduzione, note e indici di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1966, pp. 44-45 (I (A), 13, 1260 b). Per l’originale greco: Aristotelis Politica, ed. W.D. Ross, Oxford Classical Texts, 1957, rist. 1978.
[8] Op. cit., p. 8 (I (A), 2, 1252 b.
[9] Op. cit., p. 125 (III (Γ), 6, 1279 a).
[10] Op. cit., pp. 125-126, (1278 b).
[11] Op. cit., pp. 133-134 (1280 b – 1281 a).
Stato : Nazione = Adamo : Eva
RispondiEliminaE anche nella classicità esistevano i templi dedicati a dei e i filosofi, gli storici, i poeti, gli artisti. Quindi il ruolo della Religione e della Cultura era ed è il famoso lievito e sale sia per lo Stato che per la Nazione.
Per scendere nell'oggi è necessario che la religione torni ad essere Religione e parimenti la cultura Cultura. Bisogna bonificare l'una e l'altra (scritto in caratteri cubitali).
I media occidentali soffiano sul fuoco come fa comodo agli Stati Uniti. Russi e Ucraini sono popoli fratelli, non c'è famiglia russa che non abbia parenti in Ucraina e il contrario. La Russia non entrerà mai con le armi in Ucraina. Si limita a fare le manovre nel proprio territorio per mandare in fibrillazione gli americani e la NATO.
RispondiEliminaMassimo Valentini
RispondiElimina"La Russia non entrerà mai con le armi in Ucraina.."
Speriamo che sia così. Però è un fatto che queste "manovre militari" russe durano da quanto? In genere le manovre militari non durano mai troppo a lungo. Possono durare anche qualche settimana, al massimo.
Qui andiamo avanti già da un mese circa.
Se è vero che si tratta di circa 100.000 uomini, si tratta di una forza assai notevole per esercitazioni così prolungate.
Saranno anche "fratelli" russi e ucraini però con l'avvento del bolscevismo la "parentela" con i russi è diventata assai ingombrante e pesante da portare. Prima la guerra civile tra bolscevichi e indipendentisti ucraini. Poi il terrore staliniano, che ha fatto strame dell'Ucraina. Quando le armate naziste arrivarono in Ucraina, all'inizio furono accolte come liberatori. Poi, data la politica bestiale di Hitler nei loro confronti (slavi, razza inferiore, vi renderemo schiavi) cominciò la lotta partigiana. (Dove c'erano le truppte italiane, sempre in Ucraina, la lotta partigiana fu praticamente inesistente, i rapporti con i civivli erano buoni).
Nella vicenda attuale, quello che preoccupa non è tanto il fatto in sé delle truppe al confine, pur grave visto che siamo in periodo di pace, quanto la decisa volontà russa di imporre una stretta alla Nato e in modo formale: niente più espansione ad Est e mai l'Ucraina nella Nato.
In questa sua politica, che ha il senso di un ultimatum, visto che è sorretta da un imponente schieramento militare disposto quasi sicuramente in modo offensivo (la differenza è importante), la Russia ha ottenuto oggi l'avallo di Pekino, con una dichiarazione congiunta Mosca-Pekino, che in sostanza impone alla Nato di non più espandersi ad Est, venendo intesa questa espansione come un attentato alla sicurezza dei confini occidentali della Russia.
La situazione in realtà resta seria (la minaccia è: se non ottengo quello che chiedo, invado). Non sembra che Biden e i suoi consiglieri, molti dei quali appartenenti al gentil sesso, abbiano una minima idea di come venirne fuori con una qualche soluzione diplomatica. Intanto hanno mandato quasi tremila soldati in Polonia e Paesi Baltici, che sono entrati in fibrillazione.
L'attuale esercito della Federazione Russa ha conservato la stella rossa d'antan come simbolo della sua aviazione militare, accanto al tricolore nazionale russo.
H.
Lecce-Riga non stop. Tremila chilometri di volo dall'Adriatico al Baltico per dimostrare agli alleati europei che l'America saprà comunque intervenire nella crisi ucraina, perché può contare sulla sua portaerei. Così la missione dei due caccia decollati dal ponte della Uss Truman in navigazione davanti alle coste pugliesi diventa un messaggio di Washington alle cancellerie meno allineate nel confronto con il Cremlino: non abbiamo bisogno delle basi sul continente per agire con determinazione, ci basta la nostra flotta.
RispondiEliminaNon c'e' niente da fare, l'indole a fare gli sceriffi non gli passa..
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RispondiEliminaInsomma, la situazione è questa:
Putin non vuole fare la guerra ma usare la minaccia di farla per ottenere quello che vuole, cioè un impegno formale della Nato e
degli USA a non prendere mai l'Ucraina come membro e a non espandersi
ulteriormente ad ESt (politica del "rischio calcolato"). La richiesta è appoggiata da Pekino.
Ora: se non otterrà nulla, nemmeno in quella forma parziale agghindata di buone parole e di ambiguità, specialità dei diplomatici, che cosa farà?
Se non farà nulla, perderà la faccia. Se invaderà l'Ucraina inizia un
confronto militare che potrebbe sfuggire di mano. Potrebbe anche non sfuggire di mano, nel senso che l'Occidente si limiterebbe alle sanzioni economiche contro Putin, perdendo a sua volta la faccia.
In quest'ultimo caso, Pekino potrebbe sentirsi autorizzata ad invadere Formosa (Tai-wan).
Ma perché Putin fa dell'Ucraina una questione di vita o di morte? Non basta ai russi aver conservato la Crimea, Azof e la grande base di Sebastopoli? La Crimea, il mar d'Azof, tutta la zona circostante, di fondamentale importanza strategica, la strapparono secoli fa ai turchi dopo dure lotte. Evidentemente non basta. Un'Ucraina nella Nato significherebbe missili americani puntati su Mosca dall'Ucraina e truppe Nato (americane) nelle basi ucraine. Una prospettiva intollerabile per il Cremlino: giustamente, in termini strettamente geo-strategici e politici.
La situazione ricorda quella che si creò nel 1962 quando la Russia di Krusciov tentò di installare basi missilistiche nella Cuba di Fedel Castro. L'America si oppose duramente con JF Kennedy e i missili sovietici furono ritirati o non sbarcarono. Viene meno ricordato che i missili a media gittata installati dagli americani in Puglia, in grado di colpire l'URSS meridionale, furono a loro volta ritirati, come parte dell'accordo che si raggiunse.
Ma qui al momento non sembra esserci nessuna trattativa, nemmeno sottobanco, come in genere succede, in queste circostanze.
H.
RispondiEliminaNon si tratta tanto di fare gli sceriffi quanto di dover rincuorare i paesi baltici e i polacchi, terrorizzati dall'aggressività di Putin e ancor più terrorizzati all'idea di poter ricadere sotto il dominio russo. Si tratta di mosse più di propaganda che altro.
Che poi l'aggressività di Putin sia stata provocata anche e forse soprattutto in questo caso dall'errata politica americana nei confronti della Russia del dopo-URSS, questo non sposta i termini della questione.
Al Cremlino importa poco che in Bielorussia o in Ucraina ci sia un regime autoritario. Importa che non ci sia la Nato, che ci sia uno Stato per così dire cuscinetto tra la Russia e i paesi Nato.
Del resto, il regime democratico attuale è sempre più immerso nella decadenza che sperimentiamo ogni giorno.
Ma nei paesi dell'Est non russi, il ricordo angoscioso dell'occupazione sovietica e dei relativi regimi oppressivi, pesa eccome.
La soluzione ideale sarebbe stata quella di una fascia di neutrali garantita dalle due Superpotenze, dal Baltico all'Ucraina. Sempre sulla carta, si intende, perché ad esempio i polacchi volevano a tutti i costi la protezione militare americana e così i baltici.
Ma la situazione è precipitata con la questione ucraina, dopo il colpo di Stato che portò al potere la fazione filo-occidentale, al tempo delle c.d. "primavere arabe", incoraggiate dall'allucinante duo Obama-Hillary Clinton, al tempo segretario di Stato americana.
A quanto se ne sa, non si vede comunque uno sforzo americano di trovare una soluzione diplomatica, il che vorrebbe dire accettare almeno in parte le richieste russe. P.e., senza nominare l'Ucraina, prendere l'impegno a non estendersi ulteriormente ad Est, correlativamente alla proposta di una conferenza permanente con la Russia per ridisegnare il rapporto tra Nato, America e Russia.
Insomma, qualcosa del genere, nello stile tradizonale della diplomazia
(finché si tratta, non si spara, dice un vecchio adagio).
La Uss Truman era nelle acque italiane?
RispondiEliminaEstratto di un discorso di Pio XI del 18 settembre 1938 (pochi mesi prima di morire e molti anni dopo la “Non abbiamo bisogno” del 1931) alla Federazione dei sindacati cristiani francesi. Fatto salvo qualche breve accenno, questo testo risulta irreperibile online, persino sul sito del Vaticano. Qui Papa Ratti parla di Stato, di Uomo, di Dio, dei diritti della Chiesa, della “questione totalitaria”, con un chiarissimo riferimento al fascismo.
RispondiElimina[… ] La nostra prima parola ha relazione con un punto di dottrina importante. Avete annoverato tra i vostri grandi principi – l’abbiamo visto, e non poteva essere altrimenti per dei lavoratori cristiani – il rifiuto della tesi così frequente oggi, la quale dice che la collettività è tutto, e l’individuo è nulla. Avete fatto bene, perché la Chiesa non parla in questo modo; non è tale la dottrina della Chiesa. Si potrebbe riassumere così questa teoria, con una semplicità brutale: tutto allo Stato, niente alla persona. No, è suo privilegio, camminare, in qualche modo attraverso i popoli e i continenti, attraverso tutte le genti del mondo (non diciamo le razze), e di conservare in tutto, dappertutto questa direzione media nella quale consiste sempre la virtù, in medio stat virtus. La virtù è sempre nel mezzo né in un estremo, né nell’altro.
La Chiesa professa e insegna una dottrina che sottolinea i giusti rapporti tra collettività e individuo. Certamente (è l’evidenza stessa), a causa delle necessità della vita, dalla nascita alla morte l’individuo ha bisogno della collettività: per vivere, per sviluppare la sua vita. Ma non è vero che la collettività sia essa stessa una persona, una persona indipendente, che parla nome proprio. No la scienza come l’ignoranza, la scienza come la virtù sono proprie dell’individuo. Anche quando si parla dell’anima della collettività, è un modo di dire, che ha sì il suo fondamento nella realtà, ma che rimane una astrazione. E la collettività non può esercitare nessuna funzione personale, se non attraverso gli individui che la compongono: è l’evidenza, ma un’evidenza che, ai nostri giorni, non è più riconosciuta in molti ambienti. Si dice troppo, un po’ dappertutto in un modo o in un altro – e ci si è abituati a sentir dire – che tutto appartiene allo Stato, nulla all’individuo. Oh! Cari figli, quale falsità in questa espressione: essa va dapprima contro i fatti, perché se l’individuo è realmente dipendente a tal punto dalla società, la società d’altra parte non sarà nulla senza gli individui se non una pura astrazione. Ma ci sono delle intenzioni occulte ben gravi; E quelli che dicono: tutto alla collettività, dicono anche che la collettività e qualcosa di divino; e allora ecco l’individuo divinizzato, ma in maniera nuova: è una specie di panteismo sociale. Ecco, cari figli, la lezione di catechismo elementare ci insegna. È il nemico dell’uomo che ha detto: Eritis sicut dii. Voi conoscete tutto quello che questa frase voleva dire, e come si è tradotta nei secoli che si sono succeduti sulla povera umanità peccatrice. Così si dice un po’ dappertutto; tutto deve essere dello Stato: ed ecco lo Stato totalitario, come lo si chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato. Ma in ciò vi è una falsità così evidente, che fa meraviglia che gli uomini, del resto seri e dotati di talenti, lo dicano e l’insegnino alle folle.
... segue
RispondiEliminaInfatti come lo Stato potrebbe essere veramente totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto; come potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione interiore – poiché si tratta di cristiani – per la santificazione e la glorificazione delle anime? Perciò quante cose sfuggono alla possibilità dello Stato nella vita presente e in vista della vita futura, eterna! E in questo caso, ci sarebbe una grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è la creatura del buon Dio, egli è il prezzo della Redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere quaggiù, e con Dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a Dio. Quanto a noi, bisogna ringraziare il Buon Dio di essere a una così buona scuola, in un sì bello e ricco splendore di verità.
[…]
Discorsi di Pio XI, a cura di D. Bertetto, v. 3. SEI, 1961, pp. 813-814.
RispondiEliminaPio XI contro il concetto dello Stato totalitario
Il mio intervento riguarda il rapporto tra nazione e Stato non una particolare forma di Stato, un rapporto che ha avuto la sua formulazione classica già in Aristotele. Lo Stato totalitario è una forma di Stato dittatoriale particolarmente pesante, catalogabile nelle forme tiranniche, per restare alle distinzioni tradizionali.
Nel caso del fascismo, il "totalitarismo" del fascismo non è paragonabile a quello comunista e a quello nazista, nonostante l'uso e l'abuso del termine "totalitario" fatto dai fascisti stessi. Tant'è vero che il fascismo trattava con rispetto la religione cattolica e voleva essere a modo suo cattolico mentre gli altri due totalitarismi erano nemici acerrimi della religione, in quanto tale, soprattutto quello comunista.
Il totalitarismo fascista era innanzitutto filosofico, voleva realizzare l'identità spirituale di Stato e individuo (Gentile) alla quale seguiva l'intervento dello Stato in una serie di campi, socialmente essenziali, grazie al partito unico. L'Opera Nazionale Meternità e INfanzia, p.e., fu a quanto ne so altamente apprezzata dal Vaticano, come, credo, tutta la politica del regime a favore della famiglia, anche se essa era in parte provocata dalle esigenze della politica di potenza.
Ora, Pio XI fece bene a condannare il "panteismo sociale" che possiamo riscontrare anche nel fascismo. Non si trattava comunque di rivendicare i diritti della persona come li intendiamo noi oggi, si trattava della "persona" come intesa dalla dottrina della Chiesa prima che prevalesse il cattolicesimo liberale di Maritain, che costruì un compromesso tra cattolicesimo e democrazia proprio giocando sul concetto della persona, finendo così col far ricicciare l'errore "americanista".
La mancanza della libertà di espressione e politica sotto il fascismo era la stessa che si aveva, più o meno, sotto le monarchie cattoliche dei secoli passati. Pio XI ce l'aveva col fascismo perché il regime aveva il (quasi) monopolio dell'educazione pubblica della gioventù, che voleva patriottica e guerriera. M. aveva sciolto i boy-scouts cattolici perchì facevano politica contro il regime, stessa accusa rivolta all'Azione Cattolica. M. aveva però riconosciuto l'Università Cattolica e la scuola privata. Uno spazio privato, spesso antifascista, c'era, nonostante il "totalitarismo" del regime.
Pio XI fece fuori l'Action Française perché voleva che fosse la Chiesa ad avere l'educazione pubblica dei giovani. E l'ebbe dopo la guerra. Ma era un cattolicesimo inquinato dal maritainismo, che si disfece quando la gioventù cattolica (mediante Concilio) si unì alla contestazione libertaria e nichilistica del Sessantotto, sparendo come tale.
PP
Cosa ne pensa il professore delle tesi paleolibertarie e oikominarchiste sullo Stato? Per esempio un commento ad Anatomia dello Stato di Rothbard o agli scritti di Hoppe.
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RispondiElimina# Unam Sanctam
Non ho letto questi autori, quindi non posso dare un giudizio documentato. Conosco, ma molto in generale, le loro tesi sullo Stato e non le condivido. Non vedo perché lo Stato (l'istituzione che è lo Stato) debba considerarsi "predatrice" in quanto tale.
Le prospettive "libertarie" e a sfondo "anarchico" non mi hanno mai attratto, le considero del tutto inadeguate.
IL problema come sempre è quello di elaborare una visione equilibrata tra le varie esigenze che lo Stato deve soddisfare.
Nel loro carattere naturale ed elementare, non sono già indicate, per un cristiano, da san Paolo nel cap. 13 della Lettera ai Romani? In quel capitolo, l'autorità cui bisogna obbedire è quella dello Stato, istituzione che esercita il principio d'autorità per attuare il bene comune, che in genere è il bene di una nazione.
Penso che dalla rimeditazione delle categorie aristoteliche di base possiamo ricavare sempre molti elementi utili anche per una teoria politica rispondente ai tempi. Anche Hegel, in fondo, resta (alla sua maniera complicata) nel solco di Aristotele quando definisce in un'ampia sintesi tutta la struttura sociale, dalla famgilia alla società civile allo Stato, nei suoi 'Lineamenti di filosofia del diritto', edita nel 1821, un'opera che resta fondamentale.
PP
7 febbraio 2022 21:45
RispondiEliminaViene sempre trascurata l'importanza fondamentale della buona, sana, semplice educazione dell'essere umano, sia egli principe o povero. Questa buona educazione inizia con la gestazione, con la madre ed il padre ed in contemporanea con la Chiesa.
E' compito della Chiesa la buona educazione della gioventù, quindi dell'essere umano, qualsiasi funzione andrà a svolgere nella società dei 'grandi'. Per fare questo occorrerebbero sacerdoti interiormente e sinceramente 'padri'; non solo allenatori sportivi, non compagni, né mammi, che siano in grado consapevolmente di smontare la solita cultura del mondo e di proporre con sincerità ed entusiasmo la cultura cattolica. Nel mentre altri reparti del clero dovrebbero quotidianamente combattere "pubblicamente" gli errori politici, culturali, economici del mondo che, gira gira, alla fine sono sempre gli stessi.
RispondiEliminaIl fallimento dell'educazione cattolica
L'educazione impartita alla gioventù dalla Chiesa nel secondo dopoguerra, verteva sulle tradizionali virtù cristiane, mirava
ovviamente a costruire la personalità di buoni padri e madri di
famiglia, devoti alla Chiesa. Personalità così educate sarebbero
state naturaliter anche dei buoni cittadini: le virtù cattoliche
si sarebbero come tali trasfuse nelle necessarie virtù pubbliche o
civili.
Queste ultime non erano le più importanti, anche se intrinsecamente
importanti. Non lo erano, perché sopra la società, il partito e lo Stato c'è Dio, che è molto più importante. Anche per reazione allo statalismo nazionalista e alla Statolatria (verbale) del fascismo, si voleva recuperare una dimensione più individualistica, nel senso di uno Stato che si fondasse non sulla Nazione (per di più razzialmente definita, dopo le infauste e assurde leggi razziali del nov. del'38) o sulla classe ma sull'individuo, inteso in una prospettiva strettamente cristiana ossia cattolica, convinti che questo tipo di individuo si potesse conciliare con la democrazia contemporanea.
Ma questa impostazione si è conclusa con un gigantesco fallimento, provato dal "mettersi in proprio" della gioventù, compresa quella cattolica, nei movimenti di massa, sfociati nel Sessantotto, la cui ideologia era costituita da un pastone libertario-marxista-edonista all'estremo, insomma dagli ingredienti della Rivoluzione Sordida, che sarebbe poi quella Sessuale che ancora ci affligge pesantemente.
Bisognerebbe chiedersi, a mio avviso: perché questo fallimento?
Ne individuo provvisoriamente due cause:
- lo scivolare del pensiero cattolico nel "personalismo" alla Maritain, con il suo concetto fasullo di "dignità della persona", intesa in senso ontologico cioè a prescindere : il giovane cattolico veniva educato ad esser in primis cittadino del mondo, che poneva al primo posto i poveri, la giustizia sociale per l'intera umanità;
- l'azione nefasta del Vaticano II, che, invece di combattere e condannare le eresie neo-moderniste circolanti nel clero, le ha fatte penetrare nei suoi testi. Il risultato più clamoroso di quest'inquinamento è consistito nella distruzione dell'autentica liturgia cattolica, in pratica nel tentato omicidio della Chiesa.
Dico "tentato" perché la battaglia non si è ancora conclusa.
PP
Mi complimento per l'articolo in oggetto, che fa giustizia di un'antitesi in realtà insussistente.
RispondiEliminaLo Stato è la società politica organizzata, mentre la nazione è l'aggregato sociale naturale che riunisce coloro che condividono un'affinità di origine (stirpe) e di cultura. Talvolta lo Stato può coincidere con la nazione, talvolta la nazione può essere divisa in più Stati e tal'altra lo Stato può comprendere diverse nazionalità. Ci potranno essere casi in cui la nazionalità ha preceduto l'esistenza di un determinato Stato (ma non dello Stato in generale) ed altri in cui la nazionalità sarà stata un prodotto di un certo Stato, divenuto poi Stato nazionale.
In ogni caso, essendo l'uomo "animale politico", avrà sempre bisogno di vivere all'interno di uno Stato - sia esso nazionale, plurinazionale o limitato ad una città (o ad una regione).
L'unica obiezione che mi permetto di muovere è questa: non credo che l'azione della monarchia normanna abbia comportato la nascita di una "nazione meridionale" in Italia, così come non credo che l'azione della monarchia asburgica abbia comportato la nascita di una "nazione austriaca" comprendenti la molteplicità di popoli presenti nell'Impero asburgico. Anzi, a mio avviso, nel caso dell'Impero d'Austria (poi divenuto Austro-ungarico), si può dire che esso mantenne una struttura plurinazionale fino alla fine dei suoi giorni, nonostante alcuni tentativi di assorbire determinate minoranze all'interno dei gruppi etnico-linguistici preponderanti.
Ma questo è un dettaglio secondario rispetto a tutto il resto dell'articolo che, lo ribadisco, è ampiamente condivisibile.
Saluti