Riprendo da Settimo Cielo. Nel Post Scriptum un significativo intervento di don Mauro Gagliardi, che sottolinea la differenza della potestà di governo del vescovo di curia rispetto a quello di diocesi. Rimane incerto se questa distinzione sia fatta propria dalla riforma “Praedicate Evangelium”.
C’è un punto, nella riforma della curia su cui i cardinali sono chiamati a discutere nel concistoro del 29 e 30 agosto, che “colpisce al cuore il Concilio Vaticano II e costituisce un punto dirimente per il futuro della Chiesa”. A levare così alto l’allarme è Alberto Melloni, storico della Chiesa marcatamente progressista e coautore della più monumentale storia del Vaticano II finora pubblicata. Ma non è il solo. Due cardinali di prima grandezza e ferrati in teologia come il tedesco Walter Kasper e il canadese Marc Ouellet, neppure loro classificabili tra i conservatori, hanno anch’essi richiamato l’attenzione sul pericolo di rovesciare una delle conquiste del Concilio Vaticano II.
Il punto in questione è là dove la “Praedicate Evangelium”, la costituzione apostolica firmata da papa Francesco che ha riformato la curia ed è entrata in vigore la scorsa Pentecoste, stabilisce che “qualunque fedele può presiedere un dicastero o un organismo” curiali, se appena il papa gliene conferisce la potestà.
Ma questo è proprio ciò che per molti secoli è avvenuto nella Chiesa, quando si separavano i poteri di ordine, quelli cioè derivanti dal sacramento dell’ordinazione episcopale, e i poteri di giurisdizione, ad esempio attribuendo a badesse un’autorità di governo pari a quella di un vescovo, o assegnando una diocesi a un cardinale non ordinato vescovo né sacerdote.
In tutto il primo millennio queste “aberrazioni” erano sconosciute. Ed è alla tradizione originaria che il Concilio Vaticano II ha voluto tornare, nella costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, riprendendo coscienza della natura sacramentale, prima che giurisdizionale, dell’episcopato e dei poteri ad esso connessi, non solo quelli di santificare e di insegnare, ma anche quello di governare.
Le votazioni chiave su questi punti, in Concilio, avvennero nel settembre del 1964. E gli oppositori furono poco più di 300 su circa 3 mila. Ma oggi, con la nuova curia riformata da papa Francesco, a vincere sono di nuovo i primi.
A illustrare le nuove regole della curia ai cardinali che ne discuteranno il 29 e 30 agosto in concistoro vale la relazione che Marco Mellino, vescovo segretario del ristretto consiglio dei cardinali che hanno elaborato la riforma col papa, ha presentato lo scorso 9 maggio ai dirigenti curiali riuniti, ripubblicata il 9 agosto su “L’Osservatore Romano” [qui] .
In essa, Mellino scrive senza mezzi termini che anche il codice di diritto canonico, nei canoni 129 § 1 e 274 § 1, va interpretato secondo le regole, “secondo le quali la potestà di governo non è data con l’ordine sacro, bensì mediante la provvisione canonica di un ufficio”, quindi anche a dei semplici battezzati.
Esattamente come già aveva spiegato il 21 marzo 2022, nel presentare alla stampa la “Praedicate Evangelium”, il gesuita Gianfranco Ghirlanda [vedi] canonista principe di papa Francesco e da lui ora fatto cardinale, il vero autore dell’intera riforma:
“Se il prefetto e il segretario di un dicastero sono vescovi, ciò non deve far cadere nell’equivoco che la loro autorità venga dal grado gerarchico ricevuto, come se agissero con una potestà propria, e non con la potestà vicaria conferita loro dal romano pontefice. La potestà vicaria per svolgere un ufficio è la stessa se ricevuta da un vescovo, da un presbitero, da un consacrato o una consacrata, oppure da un laico o una laica”.Ma lasciamo la parola ai cardinali Ouellet e Kasper.
Del primo, che è prefetto del dicastero per i vescovi, è riprodotta qui di seguito la parte iniziale del suo saggio “La riforma della curia romana nell’ambito dei fondamenti del diritto nella Chiesa”, pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 20 luglio 2022.
Ouellet vi descrive con chiarezza lo stato della questione, col netto contrasto tra le grandi scuole canonistiche di Eugenio Corecco e Klaus Mörsdorf, in linea col Concilio Vaticano II, e la posizione anticonciliare e “positivista” di padre Ghirlanda e dell’attuale scuola gesuitica.
Ma il suo saggio va letto per intero, perché Ouellet vi sviluppa una raffinata riflessione “che potrebbe aiutare a sbloccare questa problematica alla luce di un’ecclesiologia trinitaria e sacramentale”, e approda “sommessamente” anche a una proposta di riscrittura del discusso canone 129 del codice di diritto canonico.
Quanto al cardinale Kasper, che è stato presidente del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, il testo qui riprodotto è un breve estratto della sua prefazione al volume del canonista Giuseppe Sciacca, già segretario del supremo tribunale della segnatura apostolica, “Nodi di una giustizia. Problemi aperti del diritto canonico”, edito dal Mulino nel 2022.
* * *“Una rivoluzione copernicana nel governo della Chiesa”
di Marc Ouellet
La riserva di fondo che affiora, nel valutare la costituzione “Praedicate Evangelium”, riguarda la decisione di integrare dei laici nel governo della curia, cosa che significherebbe dirimere di fatto una controversia di lunghissima durata nella storia della Chiesa, ovvero se il potere di governo sia necessariamente o meno collegato al sacramento dell’ordine.
La “Praedicate Evangelium” assumerebbe implicitamente l’opzione di non considerare il sacramento dell’ordine come l’origine del “potere di giurisdizione”, ma di attribuirlo esclusivamente alla “missio canonica” data dal papa, che conferirebbe così una delega dei suoi propri poteri a chiunque eserciti una funzione di governo nella curia romana, sia esso un cardinale, un vescovo, un diacono o un laico.
Alcuni giuristi fanno osservare come questa posizione rappresenti una rivoluzione copernicana nel governo della Chiesa, che non sarebbe in continuità o addirittura andrebbe contro lo sviluppo ecclesiologico del Concilio Vaticano II. Questo ha infatti messo a tema la sacramentalità dell’episcopato e la collegialità, senza tuttavia dirimere del tutto la questione dell’origine della “sacra potestas”.
Gli esperti di diritto canonico dibattono da secoli per comprendere quale sia l’origine di questa “sacra potestas” che determina la struttura gerarchica della Chiesa e la sua modalità di governo del popolo di Dio. Si tratta d’una volontà divina (immediata) inscritta nel sacramento dell’ordine che fonda i poteri di santificare, insegnare e governare o si tratta piuttosto d’una determinazione della Chiesa (mediata) conferita al successore di Pietro in virtù del suo mandato di pastore universale con la speciale assistenza dello Spirito Santo?
La storia fornisce elementi che possono essere interpretati a favore dell’una o dell’altra posizione. La tendenza a separare i poteri d’ordine e di giurisdizione si fonda su molte disposizioni pontificie del passato, che hanno avallato atti di governo senza potere d’ordine, per esempio il governo di alcune badesse dal Medioevo sino ai tempi moderni, alcuni vescovi che hanno governato diocesi senza essere essere ordinati, o ancora alcune licenze concesse dal papa a semplici sacerdoti per ordinare altri preti senza essere vescovi ecc.; si potrebbe allungare l’elenco dei fatti che mostrano come il potere di governo non dipenda intrinsecamente dal potere d’ordine, quanto piuttosto da un’altra fonte, che si identifica poi con la “missio canonica” conferita dal papa.
La scuola canonistica di Eugenio Corecco (1931-1995) e dei canonisti di Monaco interpreta alcuni di questi fatti come casi limite o aberrazioni (vescovo non ordinato!) e si sforza di dimostrare la lenta presa di coscienza da parte della Chiesa della natura sacramentale dell’episcopato e dei poteri ad esso connessi (“Lumen gentium” 21). Di qui lo sforzo del Concilio Vaticano II di radicare esplicitamente i poteri di santificare, insegnare e governare nel potere d’ordine, lasciando aperta alla discussione degli esperti la questione del fondamento della distinzione e dell’unità del potere d’ordine e di giurisdizione.
La nuova costituzione andrebbe forse oltre il canone 129 §2 del codice di diritto canonico che dice: “Nell’esercizio della medesima potestà (di giurisdizione), i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto”? Come conciliare gli accadimenti storici con l’attuale diritto, che riflette la nuova coscienza sacramentale della Chiesa? In senso più ampio, come spiegare teologicamente il fondamento dell’unità di questi due poteri riconoscendone la distinzione e la complementarità operativa?
Se si seguono le tesi di Corecco, la posizione di padre Gianfranco Ghirlanda e della attuale scuola gesuitica sarebbe di tipo positivista e non integrerebbe i progressi del Concilio Vaticano II. Esso avrebbe affermato l’unità della “sacra potestas” e quindi la radice sacramentale dei “tria munera” di santificare, insegnare e governare. Cosa aggiungerebbe allora la “missio canonica” al potere d’ordine, se questo già contenesse il fondamento della giurisdizione?
Il contributo di Klaus Mörsdorf (1909-1989), il grande maestro della scuola di Monaco, sta nell’aver sostenuto che il sacramento dell’ordine già conferisce il fondamento dell’idoneità per i “tria munera”, anche se la “missio canonica” vi aggiungerà l’effettivo inserimento nel collegio dei vescovi mediante il simultaneo affidamento della responsabilità di una Chiesa particolare.
Più di chiunque altro Mörsdorf ha riflettuto, studiato e pubblicato circa questa problematica che merita, secondo lui, una particolare attenzione per evitare derive scismatiche. Egli è attento a distinguere senza separare i due poteri, che sono uniti intrinsecamente nell’identità sacramentale del vescovo dedito ad una comunità particolare. Riconosce tuttavia che manca ancora una ricerca multidisciplinare, storica, dogmatica, sacramentale, canonica, per render conto del fondamento di questa “sacra potestas” molteplice e tuttavia unica.
* * *“Con conseguenze non sempre felici”
di Walter Kasper
L’area principale in cui Chiesa e legge si incontrano è la natura sacramentale della Chiesa. […] Il primo millennio ha mantenuto il radicamento sacramentale dell’ordine giuridico; solo nel secondo millennio si è verificata una coesistenza e un dualismo tra l’autorità sacramentalmente conferita dall’ordinazione e l’autorità di direzione o giurisdizione conferita per mandato. Così il diritto poteva risultare staccato dalla vita sacramentale della chiesa e poteva anche svilupparsi in una certa vita propria con conseguenze non sempre felici. […]
Il Concilio Vaticano II tende a ricollegare le due aree e a unire i due poteri, “ordo” e “iurisdictio”, nell’unica “sacra potestas”, che viene conferita, nella sua pienezza, nell’ordinazione episcopale, che, naturalmente, può essere esercitata solo nella comunione gerarchica con il capo e i membri del collegio episcopale (“Lumen gentium” 21). La “sacra potestas” non è fine a se stessa; essa serve all’edificazione della Chiesa, al bene di tutto il Corpo di Cristo e alla libera e ordinata cooperazione di tutti i membri (“Lumen gentium” 18). Questo carattere del servizio è già in “Lumen gentium” 8, cristologicamente e soteriologicamente stabilito, e viene ribadito con chiarezza nei documenti del Concilio.
La “sacra potestas” non riguarda il potere, né la giusta distribuzione del potere e la distribuzione proporzionale del potere. Si tratta dell’esercizio del triplice ministero della proclamazione, della celebrazione e dell’amministrazione dei sacramenti e del ministero pastorale del governo della Chiesa. Devono essere fatte nel nome di Cristo, che allo stesso tempo significa nel modo e secondo l’esempio di Cristo. Così la piramide gerarchica è capovolta. Il vertice è in basso, l’ufficio gerarchico deve farsi servizio e il papa è il servo dei servi di Dio (Marco 9, 35; 10, 43; Giovanni 13, 15 s; 1 Pietro 5, 3). Al contrario, chi aspira all’ufficio ecclesiastico per condividere il potere, cavalca un cavallo morto.
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Post Scriptum – (s.m.) Ricevo e pubblico. L’autore della lettera, don Mauro Gagliardi, è professore di teologia dogmatica al Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum” di Roma.
*
Caro Magister,
ho letto il suo articolo riguardo alle riflessioni proposte dai cardinali Ouellet e Kasper e mi permetto di inviarle una breve osservazione.
La questione è complessa, non solo perché bisogna contemplare un lungo percorso storico, ma anche e soprattutto perché richiede competenza tanto in teologia dogmatica quanto in diritto canonico. Siccome è difficile trovare qualcuno che sia profondamente esperto in entrambi, è naturale che le posizioni in materia abbiano un accento maggiormente dogmatico o canonistico, a seconda della competenza specifica di chi interviene.
Fatta questa necessaria premessa, che naturalmente si applica anche a me, vorrei proporre l’opinione per la quale, in realtà, hanno ragione entrambe le parti. Questo non per spirito irenico, né per ossequio all’attuale moda di violare il principio di non-contraddizione. In questo caso, infatti, si tratta di un’applicazione del principio “distingue frequenter”.
Dobbiamo qui distinguere la potestà di governo esercitata da un vescovo nella sua diocesi, dalla potestà di governo esercitata da un vescovo nella curia romana. Per quanto ci siano analogie, non è lo stesso. Con un’espressione forte, ma che circola parecchio, alcuni ecclesiologi sottolineano che i vescovi non sono “i chierichetti del papa”. Al di là dello stile, il contenuto è ecclesiologicamente corretto. Nella sua diocesi, il vescovo esercita i “tria munera” perché li ha ricevuti mediante la consacrazione episcopale, non perché il papa glieli concede. Infatti, se il vescovo fosse canonicamente ricondotto allo stato laicale, egli manterrebbe lo stesso tali “munera”, per quanto non potrebbe esercitarli legittimamente. Da questo punto di vista, hanno ragione i cardinali Ouellet e Kasper e hanno meno ragione il cardinale Ghirlanda e mons. Mellino, se la loro posizione andasse intesa come principio generale (il che non mi pare sia ciò che essi hanno proposto), ossia che tutti i vescovi del mondo governano perché il papa delega loro la sua facoltà di governo.
D’altro canto, la curia romana non è una diocesi, né la giustapposizione di varie giurisdizioni ecclesiastiche, e il prefetto di un dicastero, anche se vescovo, non è un vescovo diocesano: possiede un titolo, ma non è a capo di una Chiesa locale.
Ben prima delle attuali discussioni, la teologia recente ha osservato che la potestà delle congregazioni romane (oggi chiamate dicasteri) è di tipo delegato. Con le dovute proporzioni, chi riceve un compito nella curia romana è equiparabile a chi, in una diocesi, riceve potestà delegata dal suo vescovo per un settore particolare della vita diocesana. Tale delegato può ricevere facoltà di compiere certi atti, ma lo farà comunque con una potestà non propria, bensì delegata, e sempre sotto l’autorità di colui che lo ha delegato.
La curia romana, per sua indole, è a servizio del papa ed esercita un’autorità non propria, bensì delegata. Lo conferma il fatto che un vescovo diocesano non deve sottoporre al papa una lettera pastorale o i decreti che emana, prima di pubblicarli. Al contrario, i capi dicastero della curia romana devono farlo, altrimenti documenti e decreti non possono essere pubblicati. Un dicastero e il suo prefetto non hanno autorità per agire in proprio, dovendo semplicemente essere di aiuto al papa nello svolgimento dei suoi “tria munera” in favore di tutte le Chiese. In questo senso, hanno ragione il cardinale Ghirlanda e mons. Mellino, se – come sembra – essi hanno indicato un principio da applicare solo alla curia romana.
Naturalmente, si potrebbe fare poi una riflessione sull’opportunità di nominare alcune categorie di fedeli piuttosto che altre, ma questo esula dal campo di una breve osservazione come questa. Penso che si potrebbe evitare di parlare di “tradimento” del Concilio Vaticano II semplicemente distinguendo accuratamente i due casi, che sono oggettivamente diversi.
Buona e santa domenica!
Mauro Gagliardi - Fonte
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Post Scriptum – (s.m.) Ricevo e pubblico. L’autore della lettera, don Mauro Gagliardi, è professore di teologia dogmatica al Pontificio Ateneo “Regina Apostolorum” di Roma.
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Caro Magister,
ho letto il suo articolo riguardo alle riflessioni proposte dai cardinali Ouellet e Kasper e mi permetto di inviarle una breve osservazione.
La questione è complessa, non solo perché bisogna contemplare un lungo percorso storico, ma anche e soprattutto perché richiede competenza tanto in teologia dogmatica quanto in diritto canonico. Siccome è difficile trovare qualcuno che sia profondamente esperto in entrambi, è naturale che le posizioni in materia abbiano un accento maggiormente dogmatico o canonistico, a seconda della competenza specifica di chi interviene.
Fatta questa necessaria premessa, che naturalmente si applica anche a me, vorrei proporre l’opinione per la quale, in realtà, hanno ragione entrambe le parti. Questo non per spirito irenico, né per ossequio all’attuale moda di violare il principio di non-contraddizione. In questo caso, infatti, si tratta di un’applicazione del principio “distingue frequenter”.
Dobbiamo qui distinguere la potestà di governo esercitata da un vescovo nella sua diocesi, dalla potestà di governo esercitata da un vescovo nella curia romana. Per quanto ci siano analogie, non è lo stesso. Con un’espressione forte, ma che circola parecchio, alcuni ecclesiologi sottolineano che i vescovi non sono “i chierichetti del papa”. Al di là dello stile, il contenuto è ecclesiologicamente corretto. Nella sua diocesi, il vescovo esercita i “tria munera” perché li ha ricevuti mediante la consacrazione episcopale, non perché il papa glieli concede. Infatti, se il vescovo fosse canonicamente ricondotto allo stato laicale, egli manterrebbe lo stesso tali “munera”, per quanto non potrebbe esercitarli legittimamente. Da questo punto di vista, hanno ragione i cardinali Ouellet e Kasper e hanno meno ragione il cardinale Ghirlanda e mons. Mellino, se la loro posizione andasse intesa come principio generale (il che non mi pare sia ciò che essi hanno proposto), ossia che tutti i vescovi del mondo governano perché il papa delega loro la sua facoltà di governo.
D’altro canto, la curia romana non è una diocesi, né la giustapposizione di varie giurisdizioni ecclesiastiche, e il prefetto di un dicastero, anche se vescovo, non è un vescovo diocesano: possiede un titolo, ma non è a capo di una Chiesa locale.
Ben prima delle attuali discussioni, la teologia recente ha osservato che la potestà delle congregazioni romane (oggi chiamate dicasteri) è di tipo delegato. Con le dovute proporzioni, chi riceve un compito nella curia romana è equiparabile a chi, in una diocesi, riceve potestà delegata dal suo vescovo per un settore particolare della vita diocesana. Tale delegato può ricevere facoltà di compiere certi atti, ma lo farà comunque con una potestà non propria, bensì delegata, e sempre sotto l’autorità di colui che lo ha delegato.
La curia romana, per sua indole, è a servizio del papa ed esercita un’autorità non propria, bensì delegata. Lo conferma il fatto che un vescovo diocesano non deve sottoporre al papa una lettera pastorale o i decreti che emana, prima di pubblicarli. Al contrario, i capi dicastero della curia romana devono farlo, altrimenti documenti e decreti non possono essere pubblicati. Un dicastero e il suo prefetto non hanno autorità per agire in proprio, dovendo semplicemente essere di aiuto al papa nello svolgimento dei suoi “tria munera” in favore di tutte le Chiese. In questo senso, hanno ragione il cardinale Ghirlanda e mons. Mellino, se – come sembra – essi hanno indicato un principio da applicare solo alla curia romana.
Naturalmente, si potrebbe fare poi una riflessione sull’opportunità di nominare alcune categorie di fedeli piuttosto che altre, ma questo esula dal campo di una breve osservazione come questa. Penso che si potrebbe evitare di parlare di “tradimento” del Concilio Vaticano II semplicemente distinguendo accuratamente i due casi, che sono oggettivamente diversi.
Buona e santa domenica!
Mauro Gagliardi - Fonte
Omelia di sant'Agostino Vescovo.
RispondiEliminaSermone 10 fra gli ultimi Sermoni.
La lettura del santo Vangelo ci ha messo sotto gli occhi uno spettacolo crudele: la testa di san Giovanni in un bacile, invio lugubre della crudeltà in odio della verità. Una fanciulla balla, e la madre sazia il suo furore; e, fra le lascivie e le delizie d'un convito si giura temerariamente, e l'empio giuramento si eseguisce. Così si compie in Giovanni quanto egli stesso aveva predetto, che parlando di Gesù Cristo Signore aveva detto: «Bisogna ch'egli cresca, e che io diminuisca» (Joann. 3:30). Egli diminuì con l'essere decapitato, Gesù crebbe con l'essere crocifisso. La verità ha partorito l'odio. Non si poterono tollerare con animo tranquillo gli avvertimenti del sant'uomo di Dio, il quale certo cercava la salvezza di coloro che in tal guisa ammoniva. Ed essi gli resero male per bene.
E che disse egli, infatti, se non ciò di cui era pieno? E che cosa risposero loro, se non ciò di che erano pieni? Egli seminò grano, ma non trovò che spine. Diceva al re: «Non t'è lecito di tenere la moglie di tuo fratello» (Marc. 6:18). Ma il re era schiavo della passione: e illegittimamente teneva presso di sé la moglie di suo fratello. Tuttavia la stima che aveva di Giovanni gli impediva d'incrudelire contro di lui: l'onorava, perché gli faceva sentire la verità. Ma una detestabile donna ne aveva concepito un odio segreto, che al dato momento doveva metter fuori. E quando lo mise fuori, lo fece per mezzo della figlia, una figlia ballerina.
Gesuiti rivoluzionari...
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RispondiEliminaSi parla di "Sacra potestas" ma si dimentica la "Summa potestas" ovvero il pasticcio creato dal Vaticano II con l'art. 22 della Lumen Gentium.
Partendo dal concetto che potere d'ordine e di governo si originino nel vescovo quando è consacrato, senza bisogno di pontificia missio canonica per il secondo, l'art. attribuisce il potere di governo su tutta la Chiesa al Collegio dei vescovi con il suo capo, il Papa e non più al solo Pontefice.
"D'altra parte l'ordine dei vescovi...nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso insieme col suo capo il R. Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà [di governo] su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del Romano Pontefice".
Siffatta straordinaria affermazione (che stabilisce due titolari della suprema potestà di governo, il Papa da solo e il Collegio col Papa, il secondo però incapacitato ad esercitarlo senza l'autorizzazione del Papa - ma un potere sovrano non può avere due titolari, uno dei quali per di più a mezzo servizio) viene giustificata da LG 22 con questi riferimenti scritturali: il Signore ha posto solo Pietro come "clavigero della Chiesa" e "pastore di tutto il suo gregge" (unico titolare della summa potestas di governo sulla Chiesa). Però l'ufficio di "legare e sciogliere" è stato dato non solo a Pietro ma anche "al collegio degli Apostoli, congiunto col suo capo". Vedi Matteo,, 18,18 : '..quanto legherete in terra sarà legato in cielo e quanto scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo". Nonché Mt 28, 16-20 :"Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, insegnando loro etc.". (LG 22.2).
Si noterà tuttavia che il "legare e sciogliere" non riguarda il governo della Chiesa o diocesi ma le questioni morali, l'etica e quindi il sacramento della Confessione ossia il solo potere d'Ordine.
Idem per l'ordine di procedere alla missione di conversione e salvezza dei popoli mediante la predicazione del Verbo.
Il Concilio ha rimescolato le carte. Ora, quelli come Melloni, custodi dell'ortodossia deuterovaticana, emettono alte strida perché, senza volerlo, in una di queste sue riforme, papa Franciesco o chi gliel'ha scritta, è venuto di fatto a mettere in discussione il fondamento del pasticcio di cui a LG 22 citato: l'attribuzione della summa potestas a tutto il collegio dei vescovi sotto il Papa, cosa mai detta prima nella Chiesa e in se stessa contraddittoria, tuttavia uno dei pilastri per l'appunto della "rivoluzione conciliare", che ha creato un dualismo tra episcopato e pontefice, in passato sconosciuto.
Dualismo che è una delle fonti del disordine attuale nella Chiesa.
T.
I soliti jewsuiti.
RispondiEliminaI titoli di nostro Signore sono rabbino, sacerdote e profeta. Il melek li sintetizza, il Teantropo è il solo possibile Messia.
La supriorità della giurisdizione ( non è mirabile che il popolo fondatore del diritto fosse anche quello che coltivasse un anelito universale? ) è tale che la sua assenza può inficiare la validità dei sacramenti stessi. Per quanto riguarda i carismi, al di fuori di essa sono magia o demonismo.
Che un laico abbia giurisdizione non fa difetto, ma se il tema è la potesta sacra essa è assolutamente episcopale. I primi concili ecumenici non ammettono intromissioni nelle sedi episcopali altrui, saranno esse, semmai a riporsi nelle mani del superiore gerarchico qualora problemi o devianze non siano circoscribili.
Così avvenne con Corinto, come avenne con Policarpo di Smirne.
Esiste un sito nella internet con il nome di Eugenio Corecco. In questo ho trovato nella libro "Ius et communio, Sezione IV - Istituizione e carisma, 2. Riflessione giuridico-istituzionale su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale" nella nota 13:
RispondiElimina"Malgrado mezzo secolo di riflessione teologica (cfr. per es. E. Schillebeeckx, Definizione del laico cristiano: La Chiesa del Vaticano II, a cura di G. Baraúna, Firenze 1965, 972 ss.) e malgrado il contributo dato dal Concilio, che ha proposto due elementi circa la natura teologica dei laici, quello della loro partecipazione (suo modo) ai tria munera, di Cristo e quello della loro indoles saecularis, (LG, 31, 2 e 3), la questione della definizione teologica del laico rimane aperta. Infatti, soprattutto circa la natura teologica o sociologica della indole secolare non esiste ancora accordo tra gli autori. Per la natura sociologica è per es. K. Mörsdorf (Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien: Veröffentlichung der katholischen Akademie der Erzdiözese Freiburg i. Br., Nr. 11, Karlsruhe 1968, 13 ss.); per la seconda interpretazione si orienta invece von Balthasar (Der Christlicher Stand, o.c. 203 ss.). Sulla questione cfr. anche F. Daneels, De subiecto officii ecclesiastici attenta doctrina Concilii Vaticani II. Sunt-ne laici officii ecclesiastici capaces?, Roma 1973. Il secondo aspetto del problema è quello della possibilità che ai laici possa essere delegata la potestas sacra. Il problema è particolarmente acuto nei paesi dell’Europa centrale, dove da un decennio la figura del teologo laico e diventata determinante per tutta la vita ecclesiale, soprattutto in seguito agli interventi di K. Rahner con la tesi secondo cui i laici che assumono uffici ecclesiastici stabili cessano di appartenere allo stato laicale per entrare in quello ecclesiastico. La Chiesa insisterebbe nel non volerli riconoscere come appartenenti al clero per non dover cedere sulla questione del celibato. Questa tesi del Rahner presuppone evidentemente che dalla potestas sacra si possa isolare il potere di giurisdizione e che questo possa esser delegato anche ai laici; su tutta questa problematica cfr. Corecco, La “Sacra potestas” e i laici, 1.c., 1 ss.
Recentemente Dom Leonardo Ulrich Steiner (vescovo del filone teologico indigeno della teologia della liberazione) in un'intervista al sito tedesco Kath.ch (https://www.katholisch.de/artikel/40657-designierter-kardinal-ueber-viri-probati-es-wird-einen-weg-geben) ha detto che loro avrebbero di trovare un cammino per i Padri sposati. Purtroppo, la partecipazione dei laici al governo potrebbe essere un primo passo in questa direzione.
Scendendo terra terra, per una donna sposata, con marito e figli, che lavora non è solo complessa e faticosa l'organizzazione della vita familiare, ma anche pensieri e preoccupazioni di un campo, mettiamo il lavoro, possono intervenire ed intervengono in qualsiasi istante in cui si trova in famiglia e viceversa. Famiglia e lavoro vengono a sovrapporsi vicendevolmente in ogni momento con preoccupazione, con tensione psicologica ed emotiva, sia per l'uomo sia per la donna. Per questo la famiglia è stata la prima divisione del lavoro conosciuta, uno va fuori a caccia, a pesca, ad arare il campo, a curare le bestie, a costruire case e ponti, l'altra fa l'angelo del focolare col bastone attenta alla conduzione economica, alla alimentazione, al gioco, al lavoro, allo studio dei figli che Dio manda, attenta a rincuorare e sostenere il marito al suo rientro a casa, senza contare che sarà lei ad occuparsi nei fatti dei genitori e/o dei fratelli e sorelle di entrambi che si troveranno in qualsiasi necessità. Lavoro immenso del padre fuori casa, lavoro immenso della madre in casa.
RispondiEliminaChi dedica la sua vita a Dio, uomo o donna che sia, non ha umanamente tanto spazio per il privato, perché la vita richiesta al consacrato deve essere un vita esemplare sotto tutti i punti di vista delle virtù, in quanto il consacrato deve raggiungere quelle vette del 'transumanar' tali che gli altri le possano vedere, intuire, in lui come possibili e che il consacrato deve facilitare con la sua preghiera per i fratelli.
Altre sono le professioni, dedicate al prossimo, che possono permettere anche una famiglia propria, il medico, l'insegnante, l'avvocato, ben sapendo che il lavoro di coordinazione della casa e di allevamento e della educazione dei bambini ricade quasi del tutto sulla madre. Ci sono stati tanti uomini e donne, che non hanno quasi conosciuto il padre causa la sua professione totalmente coinvolgente.
Tutti questi diritti moderni, nascono dal fatto che non si conosce la vita ed i suoi doveri.