Riprendo il Cap. XX (pp. 417-430) di Unam Sanctam (qui) di Paolo Pasqualucci, che contiene una sintesi critica della Gaudium et spes.
Titolo: "La neo-illuministica Gaudium et Spes specchio
della pastoralità confusa del Vaticano II".
Il testo, sintetico ma incisivo, estrae il veleno neo-illuminista contenuto dalla costituzione, insieme alle evidenti lacune e contraddizioni. Esso può esser agevolmente letto anche da lettori digiuni di cultura e/o teologia. Di grande interesse il riferimento — per quanto mi consta inedito — ai documenti predisposti per il concilio e successivamente sabotati in Aula dai Novatori : lo schema di costituzione dogmatica De ordine morali, che conteneva un’analisi lucidissima dei mali morali e delle degenerazioni incipienti nelle nostre società e lo schema di costituzione De deposito fidei pure custodiendo, anch’esso scomparso nel naufragio iniziale di tutti gli schemi in Concilio [denominatore comune: antropocentrismo versus cristocentrismo].
Colgo l'occasione per richiamare la precedente monografia sulla libertà religiosa [qui] tratta dal cap. XVI dello stesso volume, consultata finora da oltre 1.000 lettori. Sentiti ringraziamenti all'Editore, Marco Solfanelli, che ha autorizzato la pubblicazione.
Vedi anche: Semi di discontinuità nella Gaudium et spes (qui)
Vedi anche: Semi di discontinuità nella Gaudium et spes (qui)
XX. La neoilluministica 'Gaudium et Spes'
specchio della pastoralità confusa del Vaticano II
580) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., p. 29.
581) Ivi, p. 31.
582) Ivi, p. 30.
583) B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 62.
584) Ivi, pp. 62-63.
585) Ivi, p. 63.
586) Ibidem.
587) Ivi, p. 64.
588) Ibidem.
589) Ibidem.
590) Ivi, p. 65.
591) Ibidem.
592) Ibidem.
593) Schema di costituzione dogmatica De ordine morali, AD/II, 2,2, pp. 28-58.
594) Il giudizio di Congar sullo schema De ordine morali mi sembra indicativo del modo di sentire contraddittorio ed irrazionale dei “nuovi teologi”. Da un lato, come tutti gli altri schemi, gli sembrava troppo “scolastico”, appiattito [sic] sui documenti ufficiali dei Papi, poco “ecumenico” (Mon journal du Concile, cit., I, p. 57); dall’altro lo lodava come “testo vigoroso, che risponde bene agli errori attuali”, testo che tuttavia lui avrebbe riscritto da cima a fondo (ivi, p. 63: “Mais il eût fallu tout refaire et composer autrement”). Il “rifacimento” sarebbe stato per l’appunto la Gaudium et spes. Mi chiedo: se il testo dello schema era “vigoroso” e “rispondeva bene agli errori attuali”, che bisogno c’era di riscriverlo? Non sarebbe bastato qualche ritocco?
1. Un concetto edulcorato di Illuminismo
Ho lasciato per ultima la cantoniana riprovazione della critica che mons.
Gherardini [vedi] rivolge alla Gaudium et spes, costituzione pastorale sulla Chiesa
ed il mondo contemporaneo, forse il documento più famoso del Concilio presso
il grande pubblico.
«Egli mette in discussione il documento Gaudium et spes nel suo insieme.
Esso sarebbe infatti ispirato dai princìpi dell’Illuminismo. Posto che l’Illuminismo
non è ovviamente in continuità con il cristianesimo, ne trae la conclusione
che non lo è neppure la costituzione conciliare. [Si chiede egli infatti] se GS
obbedisca ai principi della divina Rivelazione e della Fede, o a princìpi antropologici
che appartennero al secolo dei Lumi, al suo esasperato razionalismo,
ai suoi conati di liberazione dalla morsa soffocante della Tradizione. Son certo
che su questa domanda si gioca “l’ermeneutica della continuità o della rottura”.
Per suffragare un’affermazione del genere — prosegue il prof. Cantoni —
così pesante e gravida di conseguenze, mons. Gherardini cita un’opinione di
Benedetto XVI, secondo la quale, nella GS, cercando di giungere ad una
conciliazione tra Chiesa e Modernità, il Concilio ha “evidenziato” la “profonda
corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo”»580.
Secondo don Cantoni, mons. Gherardini non avrebbe capito in che senso il
Papa usa il concetto di Illuminismo per spiegare il significato della GS. Si
tratta di un concetto allargato, che proviene dalla storiografia laica, applicato
per analogia, onde «illuminismo prende grosso modo il senso di movimento
culturale caratterizzato da una particolare stima della ragione, soprattutto
nella sua funzione critica, che può come tale facilmente degenerare in una sua
“sopravvalutazione” con esiti eversivi»581. L’istanza “illuministica” fatta propria
dal Concilio sarebbe dunque immune dagli “esiti eversivi” tristemente
noti — a partire dalla Rivoluzione Francese — perché la Chiesa, con il Vaticano
II, sarebbe riuscita a farsi carico della parte migliore dell’Illuminismo,
superandolo, evitando quindi gli errori nei quali è poi caduta la neoilluministica
Modernità582.
Ma proprio questo — osservo — si tratta di dimostrare: che la Gerarchia
cattolica, promuovendo con il Concilio l’aggiornamento della Chiesa alla spiritualità
laica del Secolo, sia riuscita a far proprie senza danni le istanze “migliori”
del razionalismo tipico di questa spiritualità, pur sempre figlia degli
anticristiani Lumi. L’Illuminismo, si sa, mette l’uomo al centro di tutto. Si
ispira al motto di Protagora sofista: “l’uomo è la misura di tutte le cose”.
L’uomo, non Dio. La ragione illuministica in senso proprio è in sostanza lo
spirito corrosivo dell’individualismo borghese che vuole tutto dissolvere, a
cominciare dalla Verità Rivelata, della quale non vuole più sentir parlare. È
la “ragione” degli scettici, che di tutto vuol far tabula rasa per tutto ricostruire
a misura d’uomo, dalla società allo Stato ai rapporti familiari all’intero
genere umano alla religione, dando nello stesso tempo ampio spazio all’utile
del soggetto, alla sua personale ricerca della felicità terrena. La religione
cattolica è necessariamente il suo principale bersaglio. Per gli Illuministi, la
negazione della Trascendenza deve esser totale: nella loro ottica il Sovrannaturale
non solo scompare dall’orizzonte dell’uomo ma deve scomparire, perché
la religione sarebbe nient’altro che “superstizione” e “fanatismo” che impedisce
all’uomo di godersi la vita, da abbattere in qualsiasi modo. Essa è accettabile
solo come una sorta di depotenziata e svirilizzata “religione civile”, di
“moralità” a sfondo sociale e umanitario, senza dogmi e senza trascendenza,
senza Giudizi e Inferni checchesia (vedi supra, cap. XVI, sulla “libertà religiosa”).
Ora, nella pastorale cattolica odierna, che si ispira a documenti quali la
GS, è ancora presente l’istanza sovrannaturale intrinseca per definizione al
Cristianesimo e senza la quale esso perde interamente di significato? O non è
forse vero che questa pastorale ha smesso da tempo, come ho già ricordato, di
rammentarci l’esistenza dei Novissimi e in particolare del Giorno del Giudizio,
nel quale, secondo il dogma della fede, il genere umano sarà diviso per sempre
in Eletti e Reprobi? La Chiesa riformata in base ai decreti del Concilio, non si
presenta forse come una gigantesca associazione assistenziale, intesa a promuovere
i “diritti umani”, la solidarietà e fratellanza universali, l’unità del
genere umano e delle religioni, la democrazia, il progresso e la giustizia sociale,
senza più manifestare la volontà di convertire gli uomini a Cristo, per
conquistar loro la vita eterna? Senza più mettere l’istanza della santificazione
individuale (nella lotta quotidiana contro sé stessi per la salvezza della propria
anima) al centro del suo insegnamento? In nome della cosiddetta “libertà
religiosa” l’attuale Gerarchia non ha forse rinunciato al proselitismo? Si è mai
vista una cosa del genere, nell’intera storia della Chiesa? Di fronte a simile,
radicale mutazione, le cui tragiche conseguenze sono sotto gli occhi di tutti,
concorrendo essa all’annientamento (in corso) delle antiche nazioni cattoliche
oltre che alla generale scristianizzazione, come si fa a non chiedersi se l’antropocentrismo
dell’istanza illuministica non sia penetrato largamente nella Gerarchia
che ha voluto incautamente farla propria quell’istanza (vedi il famoso
discorso di chiusura della IV ed ultima assise conciliare, autore Paolo VI, il 7
dicembre 1965), nell’illusione di depurarla ed innalzarla a verità di un Cristianesimo
non più “segno di contraddizione” ma conciliato con il mondo? Conciliato, come se Nostro Signore non avesse detto: «il mondo mi odia perché
io attesto che le sue opere sono malvage» (Gv 7,7), ricordandoci inoltre che «il
servo non è da più del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno
anche voi» (Gv 15,20)?
E che le cose stiano così, non lo dimostra anche la mutazione che ha subìto
la figura stessa del sacerdote, in grave crisi spirituale perché considerato come
se fosse uguale agli altri, “uno come noi”, e pertanto declassato (proprio come
volevano gli irreligiosi artefici dei Lumi) a semplice “operatore” di una morale
solidaristica, sentimentale ed umanitaria che praticamente tutto giustifica ed
assolve? I dubbi sollevati da mons. Gherardini nei confronti della GS sono in
realtà più che legittimi e non si possono liquidare contrapponendo loro una
concezione di “illuminismo” tipica di una storiografia erudita che prescinde
arbitrariamente dal contenuto velenoso e corrosivo dell’originale, facendoci
così perdere di vista il vero significato dell’Illuminismo e Neoilluminismo ancora
dominanti; i quali, nell’ultralaica Respublica euroamericana, stanno affilando
le armi di una nuova persecuzione del Cristianesimo, in nome dell’Umanesimo
secolarista e della Rivoluzione Sessuale.
2. Una pastoralità confusa, pervasa da un “profilo dottrinale” più che fallibile
La GS è il documento più imponente del Concilio, il più lungo. Mons.
Gherardini ricorda che «gli stessi Padri conciliari non nascondevano a suo
riguardo alcune perplessità: sulla vastità della materia trattata, sul dialogo
con il mondo intero, sul titolo di “Costituzione pastorale”583. Ma prevalse il
desiderio di prestare “un servizio all’uomo nel mondo”. Infatti, descritta “la
condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo”, ne trassero argomento per le
due parti della loro Costituzione e per le sue non poche distinzioni e sottodistinzioni,
passando da “La Chiesa e la vocazione dell’uomo” ad “Alcuni fra i
problemi più urgenti” (matrimonio, famiglia, progresso, cultura, economia,
politica, costruzione della pace e della comunità internazionale). C’è davvero
di tutto. Trattandosi anzi d’un documento conciliare, c’è indubbiamente di
troppo, come se un siffatto documento dovesse di necessità rispondere a tutti i
problemi del momento, a tutte le ansie e a tutte le speranze, ai vuoti di
serenità e di luce, nonché alle aberrazioni in qualche caso innominabili della
società contemporanea, e concorrere a creare la socializzazione di tutti gli
esseri umani per costituirli in “comunità” mondiale, tenuto conto ovviamente
di quanto al riguardo possan dare la Chiesa e gli stessi cristiani. Da questo
coacervo di tematiche filosofiche, psicologiche, sociologiche, politiche e teologiche,
si fa dipendere la qualificazione pastorale della GS. Ma di che cosa, in
realtà, si tratta? Sarebbe bello se fosse possibile dirlo. Non lo fu nemmeno per
i Padri conciliari. Avevan faticosamente elaborato un testo per il quale non
trovavan né un titolo, né una qualificazione sintetica»584.
Per il titolo, prevalse la dizione “costituzione pastorale”, di fronte però a
ben 541 proposte di titoli diversi. C’era un accordo solo sulla qualificazione di
“pastorale”585. Si dovette apporre una nota al Proemio della costituzione per
delucidare il significato del documento. Esso constava di due parti: una dottrinale
e una pastorale. Questa seconda esponeva “l’atteggiamento della Chiesa
di fronte al mondo ed agli uomini d’oggi”. E questo sarebbe allora il significato
“pastorale” della GS: un atteggiamento di apertura e comprensione per le
esigenze del mondo d’oggi. Però la nota diceva anche che la parte dottrinale
era pastorale e quest’ultima anche dottrinale. Chiosa mons. Gherardini: la
nota “non sembrava uno squarcio di scrittura trasparente”586.
Nella discussione in Aula prevalse un modo pragmatico di intendere la
“pastorale”: la preoccupazione non tanto del suo fondamento dottrinale quanto
della “apertura pastorale” che i testi dovevano testimoniare perché «alla
base di tutto c’era il problema dell’uomo, che in sé è paradossalmente plurale;
è la concrezione di tutt’i problemi umani — religiosi, storici, giuridici, sociali
— e quindi è variabilità, mutevolezza, contingenza. Ma anche alternativa di
bene e di male. Di fronte a tale alternativa, la GS perfino nella sua parte
dottrinale, obbedisce alle esigenze sempre mutevoli dell’approccio pastorale.
Ad esso si dette il nome d’umanesimo cristiano: non un’antropologia teoretica,
ma un atteggiamento di simpatia, d’apertura, di comprensione verso l’uomo,
la sua storia e “gli aspetti della vita odierna e della società umana”, con
particolare attenzione ai “problemi che sembrano più urgenti”»587.
L’approccio “pastorale”, dunque, come atteggiamento di simpatia, apertura
e comprensione nei confronti dell’uomo moderno. Certo, questo atteggiamento
non sembrava affatto riflettere quello di Nostro Signore quando iniziò
la sua missione, che consisteva nel convertire i peccatori con l’annuncio della
Buona Novella: «pentitevi e credete al Vangelo poiché il Regno dei Cieli è
vicino» (Mc 1,15). Di invito al pentimento e alla conversione non c’è traccia in
questa “pastorale”. Simile “pastoralità” disponeva comunque di un suo apparato
dottrinale, rintracciabile nei testi, che non per questo diventano dogmatici.
Si tratta sempre della dottrina sottostante alla peculiare pastorale del
Concilio. Questo aspetto è stato a mio avviso colto molto bene da mons.
Gherardini.
Egli osserva che «la nota con cui s’intese illuminar e guidare la lettura del
documento, non indicò criteri ermeneutici fissi» cioè stabiliti ad hoc per il
documento, ma si rifece ad una frase contenuta (vedi supra) nella Nota praevia
aggiunta alla LG, che diceva: «La Costituzione dovrà esser interpretata secondo
le norme generali dell’interpretazione teologica» con l’aggiunta: «tenendo
conto... delle circostanze mutevoli, cui son intrinsecamente connesse le
materie trattate»588. E questo “specie nella seconda parte”, quella più propriamente
pastorale. L’impiego di questa frase, che dimostra “l’identità dei princìpi
ermeneutici” del Concilio, «conferma una volta ancora che la qualifica di
pastorale non è esclusiva della GS ma è di tutt’il Concilio, sulla cui dimensione
pastorale anche la GS viene coestesa». La conseguenza essenziale di ciò, in
relazione al dibattito sulla effettiva qualificazione teologica del Concilio, è la
seguente, di estrema importanza: «Ciò comporta nel Vaticano II non l’assenza
del profilo dottrinale, ma l’assenza dell’intento definitorio e, di conseguenza,
di nuove formulazioni dogmatiche»589.
La presenza di una dottrina peculiare al Vaticano II non deve far gridare
all’infallibilità: cosa impossibile a ritrovarsi in questo Concilio a causa dell’assenza
dell’“intento definitorio”, che sarebbe pertanto assurdo considerare implicitamente
esistente a causa dell’esistenza di questa dottrina. Nel “pastorale”
Vaticano II il “profilo dottrinale” c’è e come. L’Autore ne individua molteplici
aspetti. «Come riesumazione di precedenti Concili; come attenzione ai
dati della tradizione filosofico-teologica; come preoccupazione per l’esegesi biblica;
com’esigenza della stessa metafisica; come segnalazione dei traguardi
culturali ultimamente raggiunti»590.
Ma questo “profilo dottrinale” è sempre in funzione della “pastorale”, che
riporta il sopravvento, talché il Vaticano II, nella storia dei Concili Ecumenici,
si segnala «non per una sua incidenza dottrinale — ed ancor meno dogmatica
— ma per le novità d’atteggiamento, di valutazione, di movimento e d’azione,
introdotte nei gangli vitali della Chiesa, senza un evidente e necessario nesso
con le sue verità»591. Naturalmente, i Padri conciliari tentarono di “assicurare”
la pastorale del Concilio “su un consistente fondamento scritturistico, storico e
teologico”. Tuttavia, all’atto pratico, conclude l’Autore, «diventa difficile giudicare
la bontà non tanto del loro intento, quanto del risultato globale da essi
conseguito»592.
3. Rilievi sul “profilo dottrinale” della “Gaudium et spes”
A questa analisi di mons. Gherardini, a mio avviso esemplare, mi permetto
di aggiungere qualche considerazione concernente il “profilo dottrinale”
della Gaudium et spes, senza pretesa di completezza. La GS mostra indubbiamente
un suo modo di intendere “il mondo contemporaneo”, una sua filosofia
della storia, che non è affatto quella cristiana tradizionale, di un sant’Agostino,
di un Bossuet, ma quella laica dei Kant e dei Condorcet, incentrata sull’idea
di un progresso dell’umanità dovuto all’uomo stesso, verso il perfezionamento
e l’unione dell’intero genere umano (vedi supra, cap. III, § 5). In questo
schema la GS inserisce elementi di pensiero cristiano, che non modificano
l’impostazione laica ed antropocentrica dell’insieme ed anzi deformano la componente
“cristiana” o “cattolica” stessa.
Il discorso del documento si sviluppa per cerchi concentrici, in 93 articoli.
Dopo essersi soffermato sull’“intima unione della Chiesa con la famiglia umana”
(GS 1-3), nozione che tende ad identificare la Chiesa con l’umanità stessa,
esso affronta la “condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo” (4-10), vista
in preda a profondi mutamenti “psicologici, sociali, religiosi”: mutamenti che
da un lato creavano una profonda “crisi d’identità”, dall’altro spingevano verso
una migliore conoscenza di sé grazie anche all’apporto delle scienze. In ogni
caso i mutamenti in corso stavano realizzando l’unità del genere umano, per il
Concilio un dato di fatto irreversibile: “unico diventa il destino dell’umana
società, senza diversificarsi più in tante storie separate” (GS 5.6). Anche la
“vita religiosa” era coinvolta in questo processo e il Concilio ne deduceva che
erano “numerosi coloro che giungono a un più vivo senso di Dio”, guardando
con “un più acuto senso critico” alle concezioni magiche del mondo e alle
“sopravvivenze superstiziose”. Questa tendenza era controbilanciata da una
crescente tendenza all’ateismo (GS 7). Chi fossero coloro che erano giunti “a
un più vivo senso di Dio”, liberandosi delle “sopravvivenze superstiziose”, non
era chiaro.
Comunque sia, nonostante “squilibri” di ogni tipo nel mondo contemporaneo
(GS 8), il Concilio credeva di individuarvi “aspirazioni sempre più universali”,
anche di ordine sociale e coinvolgenti i popoli e anche le donne («che
rivendicano, là dove ancora non l’hanno raggiunta, la parità con gli uomini,
non solo di diritto, ma anche di fatto» — GS 9). Era questa una prima apertura
del Concilio al femminismo, in uno dei suoi documenti più importanti. Le
“aspirazioni” molteplici celavano, secondo GS, “un’aspirazione più profonda e
universale”, quella di «una vita piena e libera, degna dell’uomo, che metta al
proprio servizio tutto quanto il mondo oggi gli offre così abbondantemente.
Anche le nazioni si sforzano sempre più di raggiungere una certa comunità
universale» (GS 9.3).
Quest’analisi può sembrare ancor oggi valida. In realtà, pur contenendo
delle verità, si fermava alle apparenze, edulcorando alquanto le “aspirazioni”
degli individui e delle masse di allora, conferendo loro una nobiltà di intenti
che raramente avevano. Sotto le esigenze della giustizia sociale e del riconoscimento
della dignità della persona (una retorica che già allora ammorbava
l’aria) non era molto difficile scorgere la violenta spinta eversiva ed edonistica,
nichilista che cominciava ad affermarsi nelle nostre società: eversiva, intendo,
non solo in senso politico ma anche sul piano dei valori e dei princìpi,
sul piano morale. E quella spinta non si è certo affievolita in seguito alla
“cooperazione” offerta al mondo dalla Chiesa cattolica “riformata” grazie al
Concilio; anzi, si è enormemente accentuata, come possiamo constatare amaramente
ogni giorno. L’analisi soffriva poi di una grave lacuna, tacendo, come
faceva, del Comunismo, che rappresentava indubbiamente una delle “questioni”
fondamentali dell’epoca. Il marxismo-leninismo, con la sua pretesa di essere
una verità omnicomprensiva ed assoluta, non rappresentava anche una
sfida intellettuale di estrema gravità per la Chiesa e la concezione cristiana
della vita? Il Concilio non aveva nulla da dire, in proposito, ai fedeli? La
montagna della Gaudium et spes riuscì solo a partorire il topolino di tre piatti
ed ambigui articoli sull’ateismo (GS 19-21) e una condanna generica del totalitarismo,
da reperire con il lanternino, in GS 73.9.
Nello stesso tempo, la Gaudium et spes non nascondeva il suo apprezzamento
per la democrazia vigente in Occidente, espressione del Progresso dell’umanità
(GS 31, 34). L’individualismo esasperato e l’edonismo che questa
democrazia, fondata su istanze materialistiche e su una nozione tendenzialmente
assoluta di libertà individuale, già cominciava a far vedere, venivano
completamente ignorati. Voglio ricordare ai lettori che lo schema di costituzione
dogmatica De ordine morali, anch’esso tra quelli sabotati in Aula dai
Novatori, conteneva un’analisi lucidissima dei mali morali e delle degenera423
zioni incipienti nelle nostre società593. E non da meno era lo schema di costituzione
De deposito fidei pure custodiendo, anch’esso scomparso nel naufragio
iniziale di tutti gli schemi in Concilio. In questi schemi, al Marxismo si dedicavano
solo fuggevoli cenni e sappiamo perché. C’era, tuttavia, la critica radicale
e ragionata del principio di immanenza, dell’antropocentrismo posto dall’uomo
moderno e contemporaneo a fondamento delle sue società, democratico-
borghesi o comuniste che fossero. Per esser all’altezza del suo compito
storico, il Concilio non avrebbe dovuto elaborare una critica obiettiva, razionale
e se necessario impietosa, sia della democrazia liberale americana che
della democrazia popolare sovietica, ossia comunista? Non se ne fece nulla e
la pappa del cuore che risultò alla fine essere la Gaudium et spes si può
considerare, io credo, l’emblema di un colossale fallimento intellettuale594.
La GS si limitava a riconoscere che in generale c’era il pericolo, per le
aspirazioni e le energie dell’umanità, di prendere una brutta direzione: bisognava
scegliere tra «la strada della libertà e della schiavitù, del progresso o
del regresso, della fraternità o dell’odio» (GS 9.4). Si noterà che la scelta era
vista sempre dal punto di vista di una concezione del tutto terrena della
scelta stessa. Quale allora il compito della Chiesa? Intervenire in questo
mondo in rapida e pericolosa evoluzione con tutta la forza di una rinnovata
attività missionaria, al fine di convertirlo a Cristo, indirizzando così il suo
(supposto) progresso verso l’unica meta compatibile con la vocazione divina
della Chiesa Cattolica? Così avrebbe dovuto essere, pensarono in molti, ma
così non fu, come risulta, ad esempio, dall’art. 10 della GS, che chiude l’esposizione
introduttiva, sulla condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo.
L’articolo si inizia con il richiamo all’origine interiore degli “squilibri”
contemporanei, nel cuore dell’uomo “debole e peccatore”, in contraddizione con
sé stesso, alla ricerca di una spiegazione definitiva del senso della vita, che
non riesce a trovare. L’uomo di allora si interrogava sulla sua natura, ansiosamente:
«che cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della
morte [...] Cosa ci sarà dopo questa vita?» (GS 10).
Per chi ricorda quegli anni, erano solo in pochi a porsi davvero quegli
interrogativi, la scena essendo occupata dagli ottimistici miti del progresso in
versione democratico-americana o marxistico-sovietica e dalle conseguenti spinte
eversive ed edonistiche di cui sopra. A meno di un anno dalla fine del
Concilio il capo del Partito Comunista Cinese, Mao Tse Dong, scatenò la
gioventù cinese contro i quadri del partito, iniziando una sanguinosissima
guerra civile che sarebbe durata anni. Poco dopo, nel Maggio del 1968 esplosero nell’Europa Occidentale, a partire dalla Francia, i “moti studenteschi” di
infausta memoria, con la loro contestazione del principio di autorità, in ogni
campo, morale, politico, estetico. Fu l’inizio evidente di quel rovesciamento di
tutti i valori che ha portato in pratica alla decomposizione dell’Occidente,
della quale stiamo forse vivendo l’ultima, tenebrosa fase. Nel frattempo, la
Chiesa era squassata dalla tempesta postconciliare; stava vivendo, come poi
si è detto, il suo “Sessantotto”. L’ottimismo del Concilio e in particolare della
Gaudium et spes, che si riprometteva un grandioso avvenire di pace e progresso
grazie alla collaborazione della Chiesa con il mondo, si rivelava del tutto
fallace. Anzi, nella Chiesa il “Sessantotto” cominciò ancor prima di quello
esploso poi sulle piazze ed in un certo senso l’anticipò; l’anticipò già con la
traumatica contestazione del principio d’autorità da parte del cardinale Liénart,
il 13 ottobre 1962, dentro la Basilica di S. Pietro, all’apertura del Concilio.
Anche con i suoi limiti, che erano quelli di rappresentare un’umanità in
sostanza astratta, l’analisi di GS 10 coglieva ancora una parte di verità e
poteva comunque apparire come uno sguardo più profondo sulla reale situazione
esistenziale della condizione umana. Ma era nel delineare lo scopo che
la Chiesa voleva prefiggersi per contribuire a risolvere i problemi di questa
condizione umana, che appariva di colpo la svolta antropocentrica. Appariva,
in sostanza, l’elemento eterodosso che sviava il discorso in una direzione non
cattolica, secolaristica.
La risposta ai problemi dell’umanità poteva venire solo da Cristo. Giusto.
Ma in che modo? Con il pentimento e la conversione? No. Solo da Cristo
perché solo la Parola di Cristo, per il tramite della Chiesa, permetteva all’uomo
di trovare la forza “per rispondere alla sua altissima vocazione”. Ecco il
passo, per me uno dei testi chiave per capire il vero spirito del Vaticano II:
«Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo,
mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima
vocazione [ut ille summae suae vocationi respondere possit]; né è dato in terra
un altro nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati» (GS
10.3). Il richiamo finale al famoso testo di Atti 4,12 nulla toglie, mi sembra, al
taglio antropocentrico di questa “vocazione”, taglio che, come si è visto, diverrà
più evidente negli articoli successivi della GS (vedi supra, capp. da XI a
XIV). L’articolo si conclude dichiarando che Cristo è la “chiave” e “il centro” di
tutta la storia umana, che è “immagine del Dio invisibile, primogenito di tutte
le creature” (secondo il famoso passo di Col 1, 15, richiamato più volte dal
Concilio); “immagine”, comunque, della quale non si ricorda mai la consustanzialità
con il Padre, la sua natura divina. Sulla base di questa centralità di
Cristo nella storia, «il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare il mistero
dell’uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai principali problemi
del nostro tempo» (GS 10.3).
La Chiesa, dunque, non ha più la missione di convertire ma quella nuova
di “cooperare” al fine di risolvere “i problemi del nostro tempo” unitamente al
resto dell’umanità e in modo da far realizzare all’uomo la sua “altissima
vocazione”. Certo, se Nostro Signore avesse proposto un messaggio del genere
agli Apostoli, costoro se ne sarebbero tornati senza indugio alle loro case e
alla loro vita di prima. Cooperare per aiutare l’uomo nel rispondere alla sua
“altissima vocazione”, dunque. Non ripeterò quanto ho già detto su questo
tema nei capitoli precedenti di questo lavoro. Ritorno solo sul concetto di
“vocazione”. Vocazione, ma quale? Trattandosi della costituzione di un Concilio
Ecumenico della Chiesa Cattolica, non avrebbe dovuto, quest’idea di vocazione,
ricollegarsi sempre alla “vocazione” dei peccatori di cui al Vangelo di
Marco, 2, 17? Narrando la vocatio di Levi l’esattore delle imposte (san Matteo)
da parte di Nostro Signore, san Marco, che raccoglieva, come sappiamo dalla
più antica Tradizione, i ricordi di san Pietro, riporta la risposta che Gesù
diede ai Farisei, scandalizzatisi con i suoi discepoli per il fatto che Egli si era
recato con loro ad un pranzo dato in suo onore dal suddetto Levi, al quale
partecipavano diversi suoi colleghi, considerati dalla purità legale farisaica
contaminati e peccatori per via dei loro contatti con i Romani: «— dissero ai
suoi discepoli: “Perché mangia e beve coi pubblicani e i peccatori?”. Gesù,
avendo sentito, disse loro: “Non i sani han bisogno del medico, ma i malati:
non son venuto a chiamare i giusti ma i peccatori [non enim veni vocare iustos
sed peccatores]”».
Questa dunque “la vocazione”, la vera chiamata cristiana, che in primo
luogo ci chiama all’umiltà, al pentimento, alla conversione del cuore verso
Dio, al mutamento effettivo della nostra vita, improntandola all’amore del
Prossimo per Amor di Dio. La “altissima vocazione” di cui a GS 10.6 mi
ricorda invece Die Bestimmung des Menschen di Fichte, dell’anno 1800, il più
illuminista tra i filosofi idealisti, il più sensibile al delirio rivoluzionario. Questa
la Missione dell’Uomo, che era anche la sua vocazione: rompere tutte le
barriere, innalzandosi nella propria coscienza di sé sino ad identificarsi nel
pensiero con l’Assoluto, con la Divinità stessa. E difatti, nel già visto art. 22
della GS, che chiude appunto il capitolo dedicato alla “dignità della persona
umana” non si assiste ad una vera e propria divinizzazione dell’uomo? Prima
si afferma che Cristo “svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta
la sua altissima vocazione”, poi che la natura umana (per l’occasione solo
“deformata” dal peccato originale) è stata innalzata dall’Incarnazione “anche
in noi ad una dignità sublime”, ed infine che ciò è avvenuto perché “con
l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22).
Per tacere dell’inciso dell’art. 24.4 della GS, sull’uomo “sola creatura che Dio
abbia voluto per sé stessa”.
Stabilita la “vocazione” dell’uomo come “altissima vocazione” a realizzare
la sua dignità e personalità, tale concetto — chiaramente estraneo al giusnaturalismo
sempre insegnato dalla Chiesa — viene applicato nella susseguente
prima parte del documento: nella prima sezione, che si occupa appunto de “La
Chiesa e la vocazione dell’uomo”, artt. 11-45. Questa sezione è divisa in quattro
capitoli, che trattano rispettivamente de: “la dignità della persona umana”
(12-22); “la comunità degli uomini” (23-32); “l’attività umana nell’universo”
(33-39); “la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo” (40-45). Questi
quattro capitoli procedono anch’essi per cerchi concentrici. Si passa dall’uomo
considerato singolarmente, come persona, all’uomo in comunità, all’attività
umana nel mondo e addirittura nell’universo, inquadrata quindi in una prospettiva
cosmica [sic]; al compito specifico della Chiesa in simile quasi faustiano
scenario, di “vocazione” e “attività” individuale e collettiva dell’umanità,
che dovrebbe concludersi nella visione millenaristica di GS 39, dedicato a
“Terra nuova e cielo nuovo”.
A questo punto, proposta la visione utopica finale, la GS non avrebbe
dovuto concludersi? Il quadro non era completo? E invece no. Come nota
mons. Gherardini, la costituzione voleva occuparsi anche di tutti i problemi
dell’uomo contemporaneo e dare un’indicazione precisa per risolverli tutti!
Parlare di documento megalomane sarebbe forse eccessivo? Si rischia di commettere
peccato? E difatti, sotto la dizione in apparenza modesta di “Alcuni
problemi più urgenti” si inizia la seconda parte del documento, che mette in
pratica i concetti generali, il “profilo dottrinale” proposto nella prima e sempre
nella forma dell’approccio pastorale, del discorso aperto e pieno di simpatia,
dal taglio sociologico-narrativo, minimalista per quanto riguarda i riferimenti
alle verità di fede. Questa seconda parte è divisa in cinque capitoli, a loro
volta divisi in sottosezioni per un totale generale di sette. Non tedierò il
lettore con una descrizione accurata di questa pachidermica struttura. Mi
limiterò a ricordare che essa tratta del matrimonio e della famiglia (cap. I);
della “promozione del progresso della cultura” (II) ove si propone come modello
una “cultura integrale” di tipo appunto neoilluminista, umanistico e non
cristiano; della “vita economico-sociale”, dove ci si occupa anche di “investimenti
e moneta, latifondi” (III); della “vita della comunità politica” (IV) ove
non si ripropone affatto l’ideale dello Stato cristiano ma si propugna la “giusta
separazione” tra lo Stato e la Chiesa; della “promozione della pace e la comunità
dei popoli” (V), ove sono gettate le basi del “pacifismo” tipico della Chiesa
uscita dal Concilio, funzionale non alla conversione bensì al dialogo ecumenico.
Questa seconda parte rappresenta dunque “la prassi” rispetto alla “teoria”.
Che la teoria dovesse concludersi in una prassi del genere, risulta da
tutto il contesto della parte introduttiva e in particolare dall’incipit della sua
parte prima, dove si dice all’art. 11, che “il popolo di Dio” deve cogliere “i veri
segni della presenza del disegno di Dio” nel mondo, nella storia, «le intenzioni
di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso
soluzioni pienamente umane» (GS 11.1). “Umane”, non “cristiane”. In conseguenza
di ciò, «il Concilio si propone innanzitutto di esprimere un giudizio su
quei valori che oggi sono più stimati e di ricondurli alla loro divina sorgente.
Questi valori infatti, in quanto procedono dall’ingegno umano che all’uomo è
stato dato da Dio, sono in sé ottimi, ma per effetto della corruzione del cuore
umano non raramente vengono distorti dall’ordine richiesto, per cui hanno
bisogno di essere purificati» (GS 11.2).
In questo, che a mio avviso è un altro testo chiave del Concilio, si dichiara
apertamente che lo scopo del Concilio è quello di “purificare” i valori nei quali
crede l’uomo del Secolo e “di ricondurli alla loro divina sorgente”. Ma forse che
i valori mondani professati dal Secolo hanno tutti una “divina sorgente”? Che
concetto ha il Secolo del matrimonio? Lo sappiamo: sensuale ed egoistico, con
la procreazione della prole tenuta sullo sfondo, un mero optional. Allora, nel
ricondurre l’imperante concezione laica del matrimonio alla sua “divina sorgente”,
il Concilio non avrebbe dovuto ribadire l’insegnamento tradizionale
della Chiesa, quello della Casti connubii di Pio XI, tanto per capirci? Invece
all’art. 48 della GS, che si occupa della “santità del matrimonio e della famiglia”,
cosa troviamo? Troviamo, come è stato più volte rilevato (vedi supra,
Cahier de doléances 20), una concessione esiziale allo spirito del Secolo. Infat427
ti, non vi si dice con chiarezza che la procreazione e l’educazione della prole è
il fine primario del matrimonio, al quale è subordinato l’arricchimento personale
reciproco degli sposi, anche per ciò che riguarda il soddisfacimento della
concupiscenza carnale naturale, come sempre insegnato dalla Chiesa; si scrive,
invece, che: «l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati
alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro
coronamento» (GS 48.2). La procreazione è il “coronamento” dell’unione e
dell’amore coniugale, non più il suo fine primario. Il termine non sembra
chiarissimo. Perché non si è voluto scrivere, in modo chiaro e netto, che
l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale hanno il loro fine primario nella
procreazione ed educazione dei figli? Il “coronamento” di qualcosa può anche
apparirne un’appendice, non collegata in modo necessario al fine per cui quel
qualcosa è.
E chiudo qui i miei sintetici rilievi, che avrei potuto benissimo estender a
tutto l’insieme della GS, sicuro di trovarvi praticamente in ogni articolo la
presenza di una “dottrina” che viene dallo Spirito del Secolo e non dallo
Spirito Santo. È proprio la presenza di un “profilo dottrinale” del genere la
causa principale della confusione messa in rilievo nelle sue implicazioni teologiche
da mons. Gherardini. Essa risulta di una ripetuta commistione di elementi
della vera dottrina cattolica con le concezioni profane, con quei “valori”
del Secolo che si volevano ricondurre alla loro “sorgente divina”, “sorgente”
partorita in realtà dalla fervida mente dei settatori della Nouvelle Théologie.
_______________________580) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., p. 29.
581) Ivi, p. 31.
582) Ivi, p. 30.
583) B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 62.
584) Ivi, pp. 62-63.
585) Ivi, p. 63.
586) Ibidem.
587) Ivi, p. 64.
588) Ibidem.
589) Ibidem.
590) Ivi, p. 65.
591) Ibidem.
592) Ibidem.
593) Schema di costituzione dogmatica De ordine morali, AD/II, 2,2, pp. 28-58.
594) Il giudizio di Congar sullo schema De ordine morali mi sembra indicativo del modo di sentire contraddittorio ed irrazionale dei “nuovi teologi”. Da un lato, come tutti gli altri schemi, gli sembrava troppo “scolastico”, appiattito [sic] sui documenti ufficiali dei Papi, poco “ecumenico” (Mon journal du Concile, cit., I, p. 57); dall’altro lo lodava come “testo vigoroso, che risponde bene agli errori attuali”, testo che tuttavia lui avrebbe riscritto da cima a fondo (ivi, p. 63: “Mais il eût fallu tout refaire et composer autrement”). Il “rifacimento” sarebbe stato per l’appunto la Gaudium et spes. Mi chiedo: se il testo dello schema era “vigoroso” e “rispondeva bene agli errori attuali”, che bisogno c’era di riscriverlo? Non sarebbe bastato qualche ritocco?
Mic, gentilmente, potrebbe indicare dove trovare i documenti originariamente approvati da Giovanni XXIII e poi ricusati nel Concilio? Grazie
RispondiEliminaNel capitolo XXX, al n° 205 del libro Iota unum (Torino, Lindau, 2a ed., 2009) di Romano Amerio (“L’ autonomia dei valori. Teologia antropocentrica di Gaudium et spes 12 e 24”) si trova una interessantissima dissertazione del filosofo luganese sulla contraddizione tra la dottrina cattolica, che è teo-centrica e contempla in Dio il Fine ultimo dell’ universo e dell’uomo, e quella del Concilio, considerato nei suoi testi e non solo nelle cattive interpretazioni post-conciliari (il famoso “spirito del Concilio”).
RispondiEliminaScrive l’Autore: «Le varie deviazioni della morale rispondono tutte all’esigenza antropocentrica del mondo moderno, che sostituisce all’idea divina regolatrice del mondo l’idea dell’uomo auto-regolatore […] onde si crede che l’uomo sia il fine del mondo» (p. 427). Poi osserva che tale concezione propria della filosofia immanentista e soggettivista della modernità, la quale nasce con Cartesio ed arriva sino ad Hegel, trova corrispondenza in Gaudium et spes n° 12 che recita: «Omnia quae in terra sunt ad hominem tamquam ad centrum suum et culmen ordinanda sunt [tutte le cose di questo mondo devono essere ordinate all’uomo come al loro centro e vertice]». Inoltre sempre Gaudium et spes al n° 24 precisa che l’uomo «in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit [l’uomo su questa terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa]». Così il testo conciliare, e non lo “spirito del Concilio o post-Concilio”, fa dell’ uomo il fine della terra, voluto da Dio come fine di essa e non per cogliere il Fine ultimo, che è solo Dio infinito e onnipotente. Amerio in nota spiega che la traduzione italiana corrente di questo testo è: «l’uomo è stato voluto da Dio per Se stesso», ossia fine dell’uomo e della terra non sarebbe più l’uomo, ma Dio stesso (anche se la traduzione si presta ad una duplice interpretazione, potendosi pur sempre quel per se ipsum intendersi riferito al soggetto Homo, oltre che al complemento d’agente Deus).
Il Luganese osserva che tale traduzione erronea del testo conciliare, che lo fa apparire ortodosso o in “continuità con la Tradizione”, «annulla la variazione di dottrina» (p. 427, nota 2). È chiaro, invece, che il testo ufficiale in latino (ad uso dei teologi) di Gaudium et spes rappresenta una variazione sostanziale di dottrina, e che la traduzione in volgare maschera l’enormità di tale variazione, che è una vera e propria “rivoluzione copernicana”, simile a quella kantiana: un’«inversione» teologica a 360 gradi, la quale mette la creatura-uomo al posto del Fine e Creatore-Iddio. È la famosa “svolta antropologica” di cui già negli anni settanta parlava padre Cornelio Fabro
GS 24,4 Non va sminuito. ""Hominem, qui in terris, sola creatura est quem Deus propter seipsam voluierit' "l'uomo in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa", a norma di Denzinger - Enchiridion Symbolorum, è una eresia. Dio non crea nulla se non per compiacenza della sua totale perfezione. Questa è la prova scritta nel Conc. Vat. II, del rifiuto del Teo-Cristo centrismo, sostituito con la svolta antropo-centrica, uomo-centrica, di natura massonica-marxista...
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RispondiEliminaI documenti originariamente approvati dal papa e "ricusati" (sabotati) dalla fazione progressista al Concilio.
Si impedì con manovre illegali che venissero discussi in Aula, tranne lo schema sulla liturgia, contenente già alcune delle "aperture" gradite ai Novatori, che erano riusciti ad entrare nella relativa Commissione preparatoria, pur senza averne la maggioranza.
Due degli schemi delle Costituzioni conciliari fatte naufragare senza discussione dai Novatori li ha pubblicati in edizione bilingue le Edizioni Fiducia, collana diretta dal prof. Roberto De Mattei.
1. Il primo schema sulla famiglia e sul matrimonio del Concilio Vaticano II, a cura e introduzione di Roberto de Mattei, Edizioni Fiducia, 2015, pp. 118, € 10,00.
2. Depositum custodi. Schema di Costituzione dogmatica sulla salvaguardia dell'integrità del Deposito della Fede, a cura di Roberto de Mattei, Edizioni Fiducia, 2017, pp. 147, € 10,00.
Email: ass_fiducia@yahoo.it
RispondiEliminaAncora sui documenti necessari per capire meglio la crisi
Le Edizioni Fiducia hanno anche pubblicato l'Enciclica Pascendi di san Pio X, che condannò il modernismo nel 1910, testo di capitale importanza.
San Pio X, L'enciclica 'Pascendi', tr. it. di Gianandrea de Antonellis, Introduzione di Roberto de Mattei, Edizioni Fiducia, 2019, pp.127, € 10,00. Email : ass_fiducia@yahoo.it.
Il testo contiene solo la traduzione in italiano. È preceduto da una ampia introduzione del prof. de Mattei, che inquadra storicamente il documento di san Pio X. Il libro contiene anche il decreto 'Lamentabili', anteriore all'enciclica di tre anni, contenente 65 proposizioni tratte dagli scritti dei modernisti, "riprovate e condannate". Per concludere con il testo del Giuramento Antimodernista, 1910, abolito da Paolo VI, titolato 'Sacrorum Antistitum', di quattro pagine.
Vedo che ieri alle 16:07 un commentatore ha nominato il "giuramento antimodernista", sul quale mi è rimasto un dubbio: era vero che prima del 1966 il giuramento antimodernista poteva sostituire quello di fedeltà allo Stato?
RispondiEliminaAlle Magistrali avevo un'insegnante di filosofia che molti, soprattutto dei colleghi, definivano "ultracattolica", a me non pareva, non ha nemmeno mai detto nulla contro la messa N.O., nè contro altri aspetti del Vaticano II... tranne un'affermazione: diceva di essere stata esentata dal giuramento di fedeltà alla Repubblica quando andata di ruolo nel 1959 perchè aveva prestato quello antimodernista. L'affermazione può essere autentica? Ma lo diceva mentendo o poteva essere vero? Oggi i docenti non prestano nemmeno più giuramento.
A Giurisprudenza nessun docente pareva essere al corrente di questa alternativa, mentre almeno tre sapevano dell'esistenza fra il 1929 e il 1944 di leggi che davano valenza civile alle censure ecclesiastiche anche per i laici e imponevano ai CC di essere cattolici.