Un'eredità che segna l'essere: il peccato originale
come principio metafisico di deformazione dell'umano
Il problema del peccato originale ha attraversato la riflessione filosofica occidentale con la forza di una questione radicale sull’essere umano, sulla sua condizione esistenziale, sulla sua libertà ferita e sulla trasmissione di un disordine che sembra eccedere ogni logica di colpa individuale.
È un dato, anzitutto, che questo peccato, commesso da una coppia primordiale e non da ciascuno degli uomini venuti al mondo, produca nondimeno effetti concreti e costanti su tutti i discendenti: questo fatto richiede una spiegazione non soltanto teologica ma anche e soprattutto metafisica.
Infatti, l’idea che l’atto morale di altri possa riverberarsi in modo determinante sull’essere di un soggetto innocente nella sua singolarità personale esige una considerazione che tocchi i fondamenti stessi dell’ontologia della natura umana e del suo radicamento in una struttura relazionale e generativa che precede e plasma la singolarità individuale.
Il peccato originale non è, dunque, da intendersi primariamente come un’azione colpevole trasmessa in modo giuridico, quasi si trattasse di una imputazione personale ingiustamente ereditata. Tale lettura, oltre a risultare inaccettabile sul piano del principio di responsabilità personale, sarebbe altresì inadeguata alla profondità del problema. L’idea centrale, invece, è che esso si configuri come una frattura ontologica prodotta nel principio generativo della natura umana, che si trasmette non per volontà, ma per generazione.
Il soggetto umano, nel venire all’esistenza, riceve da altri non solo il corpo e la condizione biologica, ma anche la struttura stessa dell’essere personale nella sua unità di natura e spirito. Se la natura umana è stata alterata in origine nella sua capacità di ordinarsi spontaneamente al bene, di conservare l’integrità tra intelletto, volontà e affetti, e di vivere in armonia con l’essere, tale alterazione viene trasmessa come condizione dell’esistenza, non come fatto accidentale.
La nozione di natura umana come partecipazione ad un principio comune, secondo una visione aristotelico-tomista, implica che la corruzione della natura in uno abbia effetti su tutti coloro che da quella natura partecipano per generazione. L’individuo, infatti, non è un’isola ontologica, ma è costitutivamente radicato in una sostanza specifica universale, di cui condivide la forma e, dunque, la disposizione all’agire. Così, ciò che accade alla natura, in quanto principio formale della specie, accade in qualche modo anche ai singoli, che dalla natura ricevono il loro essere specifico.
L’uomo non nasce con una natura integra, come se l’essere umano potesse ogni volta ripartire da zero: egli nasce già situato in una condizione che è al tempo stesso ontologica e storica, ricevendo in sé una inclinazione disordinata che non dipende da un suo atto, ma dalla trasmissione di un principio formale ferito. Questo principio di trasmissione può essere inteso analogamente a ciò che, in filosofia della natura, si constata nel passaggio di proprietà fisiche o genetiche: ciò che viene generato porta in sé le caratteristiche di ciò che lo ha generato. Tuttavia, qui non si tratta di una semplice trasmissione materiale, bensì di un’eredità metafisica, ossia di una condizione dell’essere che riguarda la totalità dell’uomo come sostanza individuale razionale.
Il peccato originale si presenta così come una "deficienza originaria" dell’essere umano, una privazione di giustizia e ordine che compromette la naturale tendenza dell’uomo al bene, rendendolo incline alla disintegrazione interiore, alla concupiscenza, all’errore morale. Non è l’acquisizione di un male positivo, ma la perdita di un bene dovuto all’integrità originaria: tale perdita, in quanto avvenuta nel principio della generazione, si estende per necessità a tutti coloro che da quel principio derivano.
In questo senso, il peccato originale può essere compreso filosoficamente come un evento che modifica l’orizzonte stesso dell’agire umano, introducendo una disarmonia strutturale tra l’essere e il dover essere. L’uomo nasce, perciò, in uno stato di de-formazione, ossia in una distanza tra la forma dell’umanità originaria e la realtà della propria condizione attuale.
La libertà umana, benché conservata nella sua struttura, è fin dall’inizio condizionata da tale inclinazione al disordine, e ogni suo atto si innesta su un terreno già compromesso. Non si tratta di una fatalità, bensì di una condizione di fragilità ontologica che rende l’uomo bisognoso di un principio di reintegrazione, la grazia, che possa restituire l’ordine della natura al suo fine.
Infine, dal punto di vista filosofico, la riflessione sul peccato originale impone una considerazione della solidarietà ontologica tra gli esseri umani, tale per cui l’essere dell’uno non è mai interamente separato dall’essere dell’altro, specie quando l’altro è colui da cui si riceve l’esistenza. È in questo legame profondo tra generazione e partecipazione che si comprende perché l’atto morale di Adamo e di Eva non è semplicemente un fatto passato, ma un principio attivo che continua a informare, in modo negativo, la condizione dell’uomo nella storia.
L’umanità, in quanto unitaria nel suo principio, porta in sé le ferite di quel principio come un sigillo che deforma la sua immagine e offusca la sua somiglianza al bene. Così, ciò che appare come ingiustizia, l’eredità di un peccato non commesso, si rivela, alla luce della metafisica dell’essere e della generazione, come una necessità insita nella struttura della partecipazione all’essere umano, che si trasmette per natura e non per arbitrio. In questo senso, il peccato originale non è un’ingiustizia inflitta, bensì un ordine ferito da cui l’uomo, venendo all’essere, non può sottrarsi, se non per intervento di un principio superiore che restituisca, gratuitamente, ciò che era stato perduto nel principio.
Daniele Trabucco
Ancora Daniele Trabucco
RispondiEliminaGiobbe è l’uomo che ha osato. Non l’uomo che ha bestemmiato, ma quello che ha parlato con cuore sincero e mente lucida, che ha attraversato l’oscurità senza perdere del tutto la coscienza di sé e che, proprio in quella radicale solitudine, ha posto la domanda più tremenda: dov’è Dio quando l’innocente soffre? Nel libro biblico dell'Antico Testamento che porta il suo nome, l’uomo giusto, privato di ogni bene, afflitto nel corpo, deriso dagli amici, accusato ingiustamente, non tace. Non si rifugia nel silenzio dell’agnello sacrificale, ma si leva a giudicare Dio, a chiedere ragione del dolore. E in un vertice quasi inaudito nella Sacra Scrittura, Giobbe grida di voler deporre un atto d’accusa contro l’Onnipotente stesso, di volerlo portare in giudizio e, addirittura, di portarne il documento "come una corona sul capo", come se fosse lui, Giobbe, il vero re della giustizia, il difensore dell’ordine morale, il testimone dell’innocenza violata.
Qui si apre il dramma. Non solo quello del dolore, ma quello dell’intelligenza. Se Dio è giusto e onnipotente, come può accadere l’ingiustizia ai danni del giusto? Se Dio non punisce il malvagio e non protegge il fedele, chi governa il mondo?
Una risposta solo religiosa non basta. È qui che la filosofia è chiamata a rispondere con tutta la forza della ragione, e la teologia a non rifugiarsi in un fideismo cieco o in una giustificazione moralistica del male.
La sofferenza di Giobbe è uno scandalo, ma è anche la chiave della più alta rivelazione. Non è l’iniquità che scandalizza Giobbe, ma il silenzio di Dio, l’apparente assenza del Logos nel caos dell’esperienza umana.
Segue
RispondiEliminaE, tuttavia, proprio quando l’uomo si prepara a inchiodare Dio al banco degli imputati, è Dio stesso a rispondere, non scusandosi, non giustificandosi, ma mostrando all’uomo il mistero dell’essere.
Non è un Dio che spiega, ma un Dio che rivela. Con voce potente, da un turbine, Egli interroga Giobbe: «Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?». È una domanda che non è una fuga, ma un invito. Dio non abbassa la sua maestà per rispondere ai criteri umani, ma eleva l’uomo al mistero della realtà.
Giobbe ha chiesto giustizia, Dio gli mostra la sapienza della creazione. Ha chiesto un tribunale, riceve un cosmo.
Questa risposta può apparire deludente a chi cerca la logica del dolore, ma diventa illuminante per chi cerca il senso dell’essere. Dio non dice: "soffri perché hai peccato", né dice "soffri per un disegno imperscrutabile". Dice piuttosto: "non sei solo nel tuo dolore, sei parte di un ordine infinitamente più grande di quanto tu possa comprendere". Non c’è disprezzo per l’uomo in queste parole, ma un rispetto altissimo per la sua intelligenza: Dio non gli dà il sollievo della menzogna, ma il peso della verità.
Filosoficamente, la risposta di Dio è un appello all’umiltà metafisica. L’uomo non è il principio del reale, né il metro del bene e del male. Il dolore innocente non è un errore da correggere, bensì una partecipazione drammatica alla fragilità dell’essere creato, alla finitezza come condizione della libertà. Dio mostra a Giobbe non la causa del male, ma la gratuità dell’essere: tutto ciò che è, esiste in virtù di una sapienza che lo precede, lo sorregge, lo ordina. Non c’è nichilismo nella risposta di Dio: c'è un invito alla fede razionale, alla fiducia che la totalità dell’essere non è caotica ma ordinata, non è cieca ma sapiente, anche quando resta, per l’uomo, misteriosa.
La vera grandezza di Giobbe è nel suo accogliere questa rivelazione senza rinnegare il suo dolore. Non è vinto dalla potenza divina, ma trasformato dalla sapienza che gli è stata rivelata. Egli tace non perché sconfitto, ma perché illuminato. La sua protesta era giusta, ma incompleta. Il suo dolore era vero, ma parziale. Giobbe non riceve indietro tutto ciò che ha perso come compensazione, bensì come segno di una rinnovata alleanza tra la creatura e il Creatore. La sofferenza, allora, non è l’ultima parola e nemmeno viene cancellata. Essa rimane come ferita nella carne del mondo, ma anche come via di purificazione dell’intelligenza. La risposta di Dio non consola con superficialità: essa, semmai, risana con verità. Essa non dissolve il male, ma lo supera in altezza. In fondo, la domanda di Giobbe è una prefigurazione della croce: il giusto che soffre, l’innocente che grida, Dio che tace… fino a quando non si fa Egli stesso carne del dolore, nel Cristo, rivelando che il mistero della sofferenza è il mistero dell’amore che si lascia ferire. Così la filosofia si inginocchia non per rinunciare a capire, ma per iniziare a vedere. E la teologia si eleva non per evadere dalla storia, quanto per abitarla con occhi nuovi. La risposta di Dio a Giobbe è il principio di ogni autentica teodicea: non una giustificazione del male, ma una rivelazione del senso dell’essere, che trasfigura anche il male nella trama di un disegno che sorpassa l’uomo, senza umiliarlo.
Giobbe non ottiene tutto ciò che voleva. Ottiene molto di più: una visione. E quella visione salva l’uomo dalla disperazione, lo strappa al nichilismo, gli restituisce la dignità della speranza.
San Girolamo considerava il libro del Qoelet il più filosofico tra quelli della Bibbia.
RispondiEliminaNe suggeriva la lettura prima degli altri, propedeutico alla loro buona ricezione.
La filosofia è dubitativa per natura e sa fare tabula rasa delle false precomprensioni.
Pone domande scomode, anche sulla divina rivelazione.
La filosofia è un dubbio universale sulla verità e realtà delle cose.
Tutto è vanità nelle cose di questo mondo...
Non si tratta di un'affermazione solo distruttiva, come potrebbe apparire.
Infatti essa dispone ed è disponibile a una costruzione decisiva per la verità.
Allora perchè tutto quello che c'è sarebbe vano (vuoto), visto che intanto c'è?
Il "negativo" è sapiente perchè toglie di mezzo la credulità ingenua.
Essa non riguarda solo la fede, ma anche tante false ragioni mondane.
E quale sarebbe questa apertura sapienziale che si dischiude?
Che il vuoto (il vano) non è inutile in sè, ma solo della capacità che gli attribuiremmo.
Il vuoto è nel considerarlo erroneamente il tutto di senso, mentre non lo è.
Il gusto vero della vita, la vera sapienza, sono "le cose di lassù", affacciate sul mistero.
Una bellezza capace di tenere dentro tutto, anche il brutto che c'è.
Senza uno sguardo pieno tutte le cose finiscono con l'essere vuote, delle vanità.
Un modo vuoto (solo mondano) di vedere le cose, alla fine ce le renderà solo vuote.
Se lo sguardo non si accorge d'essere vuoto, non si accorge di vedere cose vane.
Succede se manca il Tutto che le rende quel che sono: piene (di grazia).
Allora non sono inutili (anche quelle negative, le croci): devono però stare nel Tutto.
...
...
RispondiEliminaSe trascuriamo il recipiente del pieno, mi accanirò su contenuti destinati a svanire.
Tutto è ospitato in un ambiente: se percepito rimanda alla sua centralità; se no, no.
Tutto l'ambiente gira intorno a chi può promuoverlo a qualcosa di vero e di bello.
Cristo è l'ambiente ospitale il cui centro (sempre Lui) non è aggiuntivo, ma costitutivo.
Non si aggiunge al vuoto (che in realtà non c'è), ma ne è l'antitesi.
Toglie vanità al contenuto dandogli l'intelligenza della pienezza.
Se tolgo Cristo (l'integrità)... tutto è vanità. Si disintegra tutto.
E' l'anticristo che ci precipita nell'inganno del peccato che rende tutto vano.
La rivelazione divina dice che Cristo è tutto in tutti. Uno nell'altro e il tutto in ciascuno!
In Lui tutte le cose sono state create e Tutto sussiste in Lui.
Cristo è l'intero che dice e conferisce integrità e pienezza.
Allora la rivelazione dalla filosofia muove lo sguardo alle cose di lassù.
Leone XIV ai giovani a Tor Vergata.
Sant'Agostino, parlando della sua intensa ricerca di Dio, si chiedeva: «Qual è allora l'oggetto della nostra speranza […]? È la terra? No. Qualcosa che deriva dalla terra, come l'oro, l'argento, l'albero, la messe, l'acqua […]? Queste cose piacciono, sono belle queste cose, sono buone queste cose» (Sermo 313/F, 3). E concludeva: «Ricerca chi le ha fatte, egli è la tua speranza» (ibid.). Pensando, poi, al cammino che aveva percorso, pregava dicendo: «Tu [Signore] eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo […]. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai (cfr Sal 33,9; 1Pt 2,3) e ho fame e sete (cfr Mt 5,6; 1Cor 4,11); mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (Confessiones, 10, 27).
L'Autore vuol forse sostenere la necessità "metafisica" della Caduta?
RispondiEliminaA qualcuno è venuta in mente la Felix culpa, in ragione della meravigliosa Redenzione... ma, francamente, questo afflato non l'ho proprio colto! Anche se è un'ipotesi pur sempre inclusa nel libero arbitrio: ma resta una ipotesi, una possibilità, non una "necessità metafisica"!
EliminaTutte le considerazioni dell'Autore si riferiscono e partono dalla realtà successiva alla trasgressione e l'unica necessità espressa si riferisce alla trasmissione per natura e non per arbitrio della ferita originaria...
RispondiEliminaAggiungo, di passata, che non è vero, almeno per me, che la filosofia sia per natura, costituzionalmente potremmo dire, dubitativa. La risposta aristotelica -tomista, ad esempio, apre la strada alla realtà, alla certezza metafisica, alla Verità...
RispondiEliminaSiamo noi creature che chiamiamo Dio con l’appellativo Dio. Ma all’uomo Dio ha riservato il permesso di dare il nome alle cose create. Di se stesso Egli dice che “Io Sono Colui che Sono”.
RispondiEliminaL’Essere e’ ciò che dice e che fa. Non ci sono un prima e un dopo, perché l’Assoluto non c’entra con il relativo.
In questo senso il Verbo fatto carne storicamente 2025 anni fa è Colui per il quale ogni cosa è creata. Ma non solo: anche la redenzione è coeterna alla creazione nell’istantanea e sempiterna attualità di Dio presente.
Quindi la creazione non è prima e l’incarnazione/redenzione dopo: tutto è dal Principio, presso Dio, come Dio.
Dio però non ha creato il male. Ha creato tutto bene, dando libertà e sapendo che avrebbe potuto essere fonte di male: prima nella ribellione della creatura angelica e poi da quella nella caduta dell’uomo e di tutta la creazione visibile.
Necessaria o inevitabile? L’Essere Amore non può prescindere dalla libertà, inclusa quella di ingannare e di farsi ingannare.
Il Figlio-Verbo è costitutivamente redentore, anche se la rivelazione si colloca in un luogo e in un tempo determinati. La mediazione tramite la vera umanità di Cristo (Io Sono) illumina di sapienza la caduta nelle tenebre dell’umanità ammalata.
Gesù in croce invita il Padre a perdonare coloro che non sanno quello che fanno. Certamente vero per i soldati romani, pagani, incaricati di crocifiggerlo. Vero anche per Giuda iscariota e per il sinedrio?
Nel mistero del male esiste anche il posto per il peccato contro lo Spirito Santo, irredimibile. Anche il Redentore, che è tale fin dal principio, sa di non potere escludere il luogo dell’eterna separazione da Dio, nel pieno dell’Essere, dentro l’ambiente cosmico della creazione. Lascia libertà di poterci finire, prevedendo dal l’eternità anche questa collocazione.
Eterna come tutto il resto.
L’eterno non ha tempo, il suo Logos è in ragione del superamento dei vincoli temporali ( e spaziali).
La creatura rischia di perdersi nella vana filosofia di falsi dottori, restando lontano dalla rivelazione di un Agnello Immolato fin dal principio…
La filosofia ne dubita, la teologia illuminata dalla divina rivelazione offre spunti alla metafisica per superare il vicolo cieco. Il cieco nato torna a vedere la luce etc etc
Il Signore, nel creare l'uomo, aveva in mente Cristo, l'Unigenito... È Lui a cui dobbiamo conformarci, facendo la volontà del Padre, per recuperare la somiglianza perduta...
RispondiEliminaEssere l'immagine di Dio! Padre, Figlio e Spirito Santo, unico Dio.
EliminaIl Figlio è Creatore/Verbo incarnato/Redentore.
Il Cristo, vero uomo e vero Dio.
Luce, pane di vita (esterna), buon (bel) pastore, via, verità e vita vera!
L'uomo creatura chiamata a cristificarsi/santificarsi/divinizzarsi...
L'uomo ha questa immagine nella volontà di Dio.
Pienezza di grazia per entrare nel Regno del Cielo.
Ma nella sofferenza veramente tremenda come quella di interi popoli qualcosa resta sempre inspiegato e non c'è filosofia che tenga. Pensiamo a quello che è successo con la seconda guerra mondiale. La guerra è durata sino all'ultmo, sino a quando i carri armati russi sono arrivati al bunker di Hitler e per il Giappone sino alla devastazione delle sue città ormai praticamente indifese dall'aria ad opera dell'aviazione americana, in ultimo addirittura con due bombe atomiche.
RispondiEliminaIl 20 luglio del 1944 fallì l'attentato ad Hitler. La bomba era stata messa sotto il tavolo attorno al quale il dittatore esaminava le carte con i suoi aiutanti. Ma Hitler si alzò e andò alla parete della baracca di legno a guardare una grande carta della Russia. In quel momento la bomba scoppiò, ci furono morti e feriti ma Hitler fu lanciato praticamente incolume all'esterno assieme alla parete di legno leggero della baracca. Se fosse stato ucciso, l'esercito tedesco avrebbe preso il potere, liquidato le SS, fermato la barbarie dei campi di sterminio. Centinaia di migliaia di vittime si sarebbero salvate. Invece no. Proprio in quel mese di luglio l'Armata Rossa aveva travolto il Gruppo Armate Centro che difendeva la Prussia orientale e in pratica il Reich e si stava avvicinando sempre di più. Lo sterminio fu fermato nel novembre del 1944 per ordine di Himmler, contro il parere di Hitler, quando l'Armata Rossa era ormai alle porte della Polonia e dell'Ungheria.
Domanda : perché Dio ha permesso che Hitler si salvasse? Giobbe rappresenta la sofferenza individuale, che spesso appare immotivata. Ma che dire delle sofferenze di popoli interi, sterminati a milioni, o di classi sociali, pure sterminate implacabilmente (leggi bolscevismo)?
Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti ma pure colpisce sia gli ingiusti che i giusti. L ' ira di Dio è abissale. Nell'al di là, con il suo infallibile giudizio, rimette le cose a posto, separando i buoni dai cattivi.
Allora la sofferenza, il dolore, compresi quelli dell'innocente, come viatico per la vita eterna, se li si sanno accettare nel modo dovuto, cosa rara?
Bisogna tener presente anche Satana e quelli che a lui si consacrano nei fatti. Se poi è vero che A.H. trovò rifugio in Sud America, evidentemente noi non abbiamo tutti i dati necessari per un giudizio completo su di lui e su chi lo aiutò sia uomini, sia demoni, sia uomini indemoniati.
EliminaChe Hitler abbia trovato rifugio in Sud America è un mito, anzi una bufala pazzesca. Si suicidò assieme alla moglie nel Bunker dellla Cancelleria, a Berlino. Le testimonianze sono inequivocabili.
RispondiEliminaIncredibile che ancor oggi qualcuno prresti fede a queste dicerie assurde.
Sulla fine di Hitler esiste un saggio fondamentale dell'illustre storico tedesco Joachim Fest, autore di una fondamentale biografia di Hitler, tradotto anche in italiano: Joachim Fest, La disfatta. Gli ultimi giorni di Hitler e la fine del Terzo Reich, tr. it. Garzanti, 2007, pp. 163. Il mito di Hitler rifugiatosi all'estero, forse in Argentina o altri paesi, fu diffuso subito dopo la guerra da Stalin. La stampa mondiale vi si gettò sopra, alimentando le teorie più fantasiose. La ricostruzione di Fest è accuratissima. Hitler fece avvenlenare la sua lupa alsaziana e abbattere i suoi cinque cuccioli. Poi prese il veleno con la moglie. Diede anche ordine che si sparasse ai cadaveri e li si bruciasse. Il tutto avvenne nel bunker sotto la Cancelleria, da venti ore sotto il tiro dell'artiglieria sovietica, normale ed incendiario. I corpi furono portati fuori, a pochi metri dal bunker, cosparsi di benzina ed incendiati. Poco dopo erano in gran parte ridotti in cenere. I proiettili di artiglieria che continuavano a cadere, ararono il terreno, bruciando tutto. Di Hitler e della moglie rimasero due protesi dentarie, una per parte. I sovietici subito dopo fabbricarono diversi falsi, a cominciare dalle foto di cadeveri che assomigliavano a Hitler, con un foro in testa e roba del genere. Poi diffusero le voci di cui sopra.
RispondiEliminaLa battaglia di Berlino, considerata ancor oggi dalla propaganda sovietica una grande vittoria, fu a ben vedere una cosa insensata. Ormai la guerra era più che vinta, Berlino era circondata da imponenti forze russe. I tedeschi avevano l'ordine di non arrendersi mai. E così fecero, combattendo con valore e determinazione sino alla fine. Ebbero, pare, circa 40.000 morti, ma le perdite da loro inflitte ai russi furono spaventose, Fest parla di circa 300.000 morti. Forse la cifra include anche i feriti, che non furono pochi. Ma era necessario, questo macello supplementare, con la vittoria ormai in tasca? Sì, per l'ambizione di Stalin, che voleva essere lui a conquistare Berlino prima degli Alleati. Stalin, cioè l'Hitler dall'altra parte della barricata.
Ma questo disprezzo per la vita dei propri uomini, la Russia lo sta pagando ancor oggi, visto che non riesce ad emergere da una denatalità che la affligge dalla fine della seconda guerra mondiale.
H.
Ottimo articolo di Trabucco. Certo che Cristo é la misura per cui la prima coppia fu creata e vero che chiunque per salvarsi debba divenire un altro Cristo, per Grazia ricevuta. Certo pure che esiste un piano naturale conseguente al primo peccato umano ed un libero arbitrio che lo ha determinato. E che questa tara ( peccato del solo Adamo, dice san Paolo) sia trasmessa a noi suoi discendenti per generazione ( Concilio Trento). Noi non siamo colpevoli che del nostro peccato, pure nasciamo con tale peccato che é più esatto chiamare tara. Tara che Cristo é venuto a riparare, togliendo la tara ma lasciando i fomiti, gli istinti, che quindi noi dobbiamo dominare con la Sua Grazia. É un combattimento fino alla morte. É san Pietro o san Giuda che dice che Dio non ha perdonato agli angeli? Ma perdona a noi se pentiti. Capire il peccato originale é traumatico ma pacificante.Ci fa capire la Misericordia infinita, il perché del dolore innocente, della morte ( si ricordi che Enoc non muore e non morirá Elia, Maria Ss sarà Assunta), delle malattie, del male. Capiamo anche perché ognuno é chiamato a farsi corredentore come afferma san Paolo per sé stesso. Come umanità siamo appunto un corpo e a somiglianza di Gesú, per una piccola parte, possiamo farci vicari pure noi dei debiti dei fratelli alla Giustizia. - continuo
RispondiEliminaContinuo. CAINO frutto peccato, una razza inferiore ( ma Dio guarda al cuore ) cap.6 ripetizione multipla del peccato. Cam terzo peccato, vede la nuditá del padre che Levitico 18,8, ci dice essere incesto con matrigna.Nasce Canaan. Nella Bibbia c' é anche il nome della moglie di Noé e dei padri delle mogli dei suoi 3 figli.
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