Riprendiamo da Duc in altum. Chiara limpida e ineludibile critica al documento [qui], In unitate fidei — emanato da Leone XIV alla vigilia del viaggio in Turchia — ed ai comportamenti conseguenti. Non dimentichiamo che il Credo di Nicea dice il vero; ma è parziale (e infatti c'è da aggiungere Costantinopoli). Tuttavia Leone fa lo gnorri perpetuando il falso ecumenismo [vedi].
“In unitate fidei”, ovvero l’unità al prezzo della verità
Chris Jackson
Millesettecento anni dopo che il Concilio di Nicea adottò la linea dura (anatemi ed esilio) contro l’eresia, Leone XIV ha deciso di celebrare l’anniversario con una lettera apostolica, “In unitate fidei”. La data è voluta: 23 novembre, Cristo Re. Alla vigilia di un trionfale pellegrinaggio ecumenico che porterà il papa in Turchia, nel luogo in cui i 318 Padri si incontrarono sotto Costantino e adottarono il termine homoousios (ὁμοούσιος), “della stessa sostanza”, concetto chiave nella teologia cristiana per descrivere la relazione tra Dio Padre e Figlio, in contrasto con l’eresia ariana, secondo cui il Figlio è di una sostanza inferiore e solo simile al Padre.
In apparenza, la lettera sembra il genere di documento che un cattolico tradizionale potrebbe applaudire. Leone elogia il Credo, ne cita le frasi, rievoca la crisi ariana e riabilita il termine “consustanziale” invece di nascondersi dietro una cristologia vaga e modernista. Leone inoltre cita Atanasio, parla di divinizzazione, ci ricorda che solo un Cristo veramente divino può sconfiggere la morte e salvarci.
Se leggessimo solo i paragrafi dal due all’otto, potremmo quasi dimenticare in quale secolo ci troviamo. Ma non siamo nel 325, e Leone non è Atanasio. Se nella prima metà ha un tono cattolico, nella seconda la lettera si esprime come la Commissione teologica internazionale: Nicea come fondamento di un nuovo processo ecumenico aperto, in cui “ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide” e in cui le vecchie lotte dottrinali perdono silenziosamente la loro “ragione d’essere”.
Dopo che a Nicea il Concilio scacciò gli ariani dalla Chiesa, ora viene chiesto di accogliere tutti, e senza fare troppe domande.
Dal Credo al Marchio ecumenico
Dopo aver ribadito l’impalcatura dottrinale cattolica, Leone introduce il vero programma, passando dalla battaglia di Nicea contro l’arianesimo al “valore ecumenico” che il Credo avrebbe oggi. Ci ricorda che il Credo niceno-costantinopolitano è professato nelle liturgie ortodosse e in molti servizi protestanti. Celebra il fatto che sia diventato un “vincolo di unità tra Oriente e Occidente” e in seguito un patrimonio comune di “tutte le tradizioni cristiane”. Lo definisce un modello di “unità nella legittima diversità”, e usa la Trinità come analogia: l’unità senza diversità diventa tirannia, la diversità senza unità crolla nella frammentazione.
In altre parole, il Credo diventa non è più il simbolo cattolico della fede, custodito da Roma e ricevuto dai suoi figli, ma diventa una sorta di logo condiviso per il cristianesimo mondiale. L’enfasi scivola sottilmente dalla domanda “che cosa è vero?” alla domanda “che cosa possiamo dire tutti insieme?”. Il testo è così chiamato a sostenere sistemi incompatibili: l’ecclesiologia sacramentale cattolica, la teoria protestante della Chiesa invisibile, il rifiuto ortodosso della giurisdizione papale universale. Ognuno mantiene la propria posizione.
Leone cita la “Ut unum sint” di Giovanni Paolo II e loda il “movimento ecumenico” degli ultimi sessant’anni. Ci assicura che ora riconosciamo i membri di altre Chiese e comunità come fratelli e sorelle in Cristo e che insieme formiamo un’unica comunità universale di discepoli. La piena unità visibile non è ancora stata raggiunta, tuttavia ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide. Concetto ribadito, come se la ripetizione potesse renderlo meno fragile.
L’immagine è semplice. Nicea come il fuoco comune attorno al quale tutti i battezzati possono riunirsi, ognuno con il proprio accento teologico, tutti riscaldati dalle stesse fiamme. Il problema è che Nicea non radunò tutti attorno a un fuoco. Nicea sguainò la spada.
“Controversie che hanno perso la loro ragione di esistere”
Leone afferma che dobbiamo “lasciarci alle spalle le controversie teologiche che hanno perso la loro ragion d’essere” per giungere a una comprensione comune e, ancor più, a una preghiera comune allo Spirito Santo. Non specifica a quali controversie si riferisca. Ci assicura semplicemente che alcune battaglie dogmatiche non devono più tenerci separati. Ed è in queste affermazioni che un cattolico formato da Pio XI e Pio XII non può più riconoscersi.
Quali controversie esattamente avrebbero perso la loro ragion d’essere? Forse la clausola del Filioque, menzionata in nota come “oggetto del dialogo ortodosso-cattolico”? L’ambito della giurisdizione papale? I dogmi mariani respinti dai protestanti? L’indissolubilità del matrimonio? La dottrina della giustificazione definita a Trento?
Per secoli la Chiesa ha insistito sul fatto che l’unità richiedesse una professione comune di tutte queste verità. Pio XI scrisse nella “Mortalium animos” che esiste un solo modo per promuovere l’unità dei cristiani: il ritorno dei fratelli separati all’unica vera Chiesa di Cristo. Pio XII, nella “Mystici Corporis”, insegnò che coloro che sono divisi nella fede e nel governo non possono vivere nell’unità del Corpo di Cristo. Le questioni dottrinali che dividevano cattolici e non cattolici non erano capitoli facoltativi da rivisitare in seguito; facevano parte del deposito della fede.
Ora Leone parla di controversie che non giustificano più la divisione. Parla di conversione reciproca, come se la Chiesa cattolica e coloro che rifiutano il suo magistero fossero tutti “in cammino” verso un’unità futura ancora da definire. Parla dello Spirito che ci guida a scoprire insieme una fede comune più ricca, senza mai dire che la via del ritorno all’unità passa attraverso la sottomissione al primato romano e l’accettazione del dogma cattolico.
Nicea definì il Figlio consustanziale al Padre e poi anatemizzò chiunque affermasse il contrario. Leone cita la definizione e ne seppellisce la logica. Il Credo viene conservato; le conseguenze vengono silenziosamente taciute.
Atanasio o lo Spirito del dialogo
Ad Atanasio potresti dire che Leone lo loda chiamandolo per nome, racconta i suoi eroici esili e definisce la sua fede “incrollabile e salda”. Potresti mostrargli i passi in cui Leone insiste sul fatto che solo un Cristo veramente divino può divinizzare l’uomo e sconfiggere la morte. Potresti indicargli la bellissima preghiera allo Spirito Santo alla fine. Poi dovresti spiegare che, diciassette secoli dopo, vescovi e teologi stanno ancora discutendo se il Figlio proceda solo dal Padre o dal Padre e dal Figlio, e il vescovo di Roma lo chiama “argomento di dialogo”. Dovresti spiegare che il primato per cui lui si è battuto è ora trattato come un ostacolo all’unità, che deve essere attentamente riformulato per non offendere i fratelli separati. Dovresti spiegare che Roma ora preferisce parlare di “legittima diversità” piuttosto che di eresia, di “comunione parziale” piuttosto che di scisma, di “battesimo comune” piuttosto che di conversione.
Atanasio non fu esiliato cinque volte per preservare un minimo comune denominatore. Non sopportò pressioni imperiali, calunnie e violenze affinché i papi futuri potessero porre il suo Credo al centro di un processo che tratta le gravi divisioni dottrinali come incomprensioni storiche in attesa di essere superate nel dialogo orante.
La Chiesa che conosceva Atanasio credeva che l’errore uccidesse le anime e la carità richiedesse chiarezza. L’unità si misurava con la sottomissione alla fede e al capo visibile che la protegge. Il linguaggio ecumenico odierno misura l’unità in base alla frequenza con cui veniamo ripresi insieme nelle fotografie e alla scarsa frequenza con cui menzioniamo ciò che ancora ci divide.
La lettera apostolica elogia la “gioventù nicena” che ha completato l’opera dottrinale del Credo. Il tono del documento è quello all’adulto sinodale che ha imparato a non dire parole troppo aspre in compagnia di altri.
Cosa ci dice veramente tutto questo su Roma
Cosa dovrebbe dunque imparare un cattolico serio da “In unitate fidei”? La stessa Roma che cita il Credo ora lo usa come marchio ecumenico. Lo stesso simbolo composto per tracciare una linea di demarcazione tra verità ed errore viene rimodellato come un largo ombrello che può proteggere sistemi reciprocamente esclusivi, purché recitino tutti le stesse parole. Il Concilio che un tempo condannò ed espulse gli eretici viene ora invocato per giustificare un’unità che si accontenta di rimanere incompleta, una comunione che non richiede mai a nessuno di cambiare idea.
Quando Leone parla della Chiesa lo fa come il Concilio Vaticano II. Sulla carta il Credo è stabile, nella pratica l’ecclesiologia è soggetta a revisione. Il vecchio insegnamento su chi appartiene veramente alla Chiesa e su come i fratelli separati debbano tornare viene educatamente sostituito da un linguaggio di reciproco arricchimento e di eredità condivisa. Le controversie teologiche che un tempo giustificavano una Riforma e un millennio di scisma sono improvvisamente destinate a essere accantonate.
Se c’è una lezione da trarre da questo anniversario è che l’unità senza verità è una contraffazione. I 318 Padri di Nicea non si riunirono in concilio per stabilire il contenuto minimo necessario per rimanere in comunione con Ario. Definirono la fede e ne subirono le conseguenze. Se Leone davvero desiderasse celebrare il loro coraggio, dovrebbe recuperare la loro chiarezza.
Fino ad allora, il Credo niceno-costantinopolitano continuerà a essere il giudice del progetto ecumenico che si sta costruendo sulle sue spalle. Le parole rimangono le stesse. La domanda è se Roma creda ancora a tutto ciò che implicano.

Non intervengo su temi teologici che non sono il mio pane, ma faccio alcune riflessioni sul papa, vero che nella moschea blu ha declinato l'invito ad una preghiera comune con il muezxin, ma inginocchiarsi davanti alla tomba di Kemal noto marrone ed altro mi ha fatto molto male, non facciamoci illusioni, è la copia riveduta, corretta e ingentilita del predecessore da cui mai si scostera', mettiamoci il cuore in pace.
RispondiEliminaRispetto a Bergoglio (mai stato Papa) la differenza è che la teologia e la dottrina tornano ad essere cose molto serie. Ataturk sta vedendosela con il Padre Eterno e una preghiera anche per lui non guasta mai (della serie: amare il nemico, che è la pietra di inciampo e di scandalo di quasi tutti noi cristiani).
EliminaDifendo lo spirito della scelta di Papa Leone XIV: 1700 anni fa il concilio di Nicea sancì l'eresia delle tesi ariane subordinazioniste. Il Figlio generato (non creato) non è in subordine al Padre che ne riceve la filiazione. Il Verbo non è "un Dio di secondo livello".
RispondiEliminaQuesto non impedì all'arianesimo di proseguire la corsa e in pochi decenni la gran parte della Chiesa (ancora senza scismi) era di fatto in larga parte ariana. E' l'esperienza di Sant'Ilario di Poitiers, di San Martino, di Sant'Ambrogio etc.
Ma se Nicea stabilì dogmaticamente una consustanzialità senza ombre nè retropensieri tra il Padre e il Figlio, nella Santissima Trinità sarebbe ugualmente assurdo un subordinazionismo che tocchi lo Spirito Santo nella sua processione. Dio è Uno e Trino: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Da cattolico ritengo che la processione dello Spirito dal Padre E dal Figlio sia più logica che se lo Spirito procedesse dal solo Padre, ma con tutta la delicatezza e umiltà per non considerare lo Spirito Santo una Persona Divina secondaria alle altre Due.
C'è poi una realtà fattuale che viene spesso trascurata nella disputa teologica: tutto ciò che sappiamo di Dio ci è rivelato in Cristo, il Verbo incarnato. Lui ha detto agli apostoli che il Paraclito ce lo invia dal Padre, lo Spirito di Verità che procede dal Padre, per dargli testimonianza (Gv 15,26). Lo Spirito lo manda il Padre nel suo nome (Gv 14,26) per insegnare tutto. Gesù manda lo Spirito tramite il Padre.
Per noi uomini il centro è Cristo, in Lui la pienezza della Verità che si disvela. Nel prologo al vangelo di San Giovanni in principio era il Verbo. Nella rivelazione definitiva (Apocalisse) di San Giovanni, l'Agnello è immolato fin dalla fondazione del mondo e questo Agnello è alfa e omega. Dunque in Dio, perfettissimo ed eterno, il prima e il dopo svaniscono in una incessante e istantanea coeternità. Diventa così meno divisiva la disputa sulle relazioni che -perdendo di vista la centralità di Cristo- potrebbero far ritenere in qualche modo subordinate e antagoniste le Tre Persone Divine.
L'avversario gnostico, i falsi dottori, la sinagoga di Satana, ama far dividere chi invece in Cristo scopre l'eternità del Regno dei Cieli, che ci chiama a parteciparla da figli, salvandoci dall'esilio in cui ci ha precipitati il peccato. Questo è esattamente il ruolo di Maria in cui per opera dello Spirito Santo viene generato verginalmente il figlio Gesù.
Maria non è una quarta persona divina, ma l'eccellenza dell'opera della divinità nella natura umana che viene divinizzata senza pretese di potersi divinizzarsi da sè. Nel mistero della centralità cosmica di Cristo la figura di Maria veste di sole, si corona di stelle e tiene la luna sotto i piedi, con i quali schiaccia il capo al Serpente secondo le parole dette in Eden millenni prima della vicenda accaduta tra Nazaret e Betlemme.
Apriamo il cuore al mistero per non perderci in questioni politiche: il Serpente è abilissimo ad agitare certe priorità. Ma la croce di Cristo salva nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L'unica salvezza possibile.
Il mio pensiero è il seguente: nel tempo si è sorvolato o semplificato, in ambito cattolico, il pensiero teologico per renderlo digeribile a tutti. Ora non è detto che tutti dobbiamo arrivare sulla cima del monte alla stessa ora, percorrendo una sola strada. Quindi compreso che tutti nun je la famo, si è battuto sulle opere e sull'ammmore, nel mentre sul pensiero, sulla teologia, sulla teoria si è steso uno spesso strato di cemento armato. Purtroppo ora coloro che avevano capito ed erano in grado di ridire il difficile facilmente o sono defunti o sono sul punto di spogliarsi anche del corpo. Credo però che il Signore non ci abbia lasciati solissimi, qualcuno che conosca bene e sappia spiegare bene la teologia cattolica ci deve pur essere. Solo quando avremo dei banditori chiari della teologia cattolica, allora anche le altre chiese capiranno che non è questione di qualche cattolico puntiglio, ma Verità di Fede comprensibile e ovviamente accettabile.
RispondiEliminaROMANO AMERIO: La questione del Filioque è la radice, e questa inappropriata celebrazione dell’amore è una implicita distruzione del dogma della divina Monotriade: lo Spirito Santo in tal modo non procede dal Verbo, ma lo precede, anzi: precede tutto. Questa opinione è diventata tanto popolare perché oggi non si dice «L’azione è buona se è conforme alla regola del Verbo»; ma si dice: «L’azione è buona se è fatta con amore». Anche nella vita odierna noi pecchiamo quando “vogliamo”, atto volitivo, senza consultare la regola della conoscenza; noi diciamo: «Prima il volere poi il sapere», sovvertendo l’ordine delle processioni. Io credo che nella fede cattolica lo Spirito Santo abbia sempre “proceduto”: difatti, nell’Evangelo, è il Verbo che dice «Vi manderò lo Spirito Santo». È il Cristo, è il Verbo, è la Seconda Persona che annuncia: «Vi manderò lo Spirito Santo, il quale vi insegnerà ogni vero» [1]. E, dopo la resurrezione del Signore, gli Apostoli aspettano lo Spirito Santo che è stato promesso dal Cristo e che è nato dal Cristo. Non è che lo Spirito Santo venga, proceda, dal Padre. No: lo Spirito Santo è mandato alla Chiesa dal Verbo.
RispondiEliminaAnche riguardo alle teorie teologiche del cardinal Martini, espresse nelle sue interviste al «Sunday Times» e ad Alain Elkann il fondo degli errori è sempre il medesimo: “La nostra religione non è ancorata nel Verbo, la nostra religione è fondata sull’amore”. Egli pone un’equipollenza tra tutte le religioni perché tutte le religioni, e tutte le dottrine, tutte le eresie, giovano a sviluppare e a mantenere nel genere umano il senso religioso; e il senso si trova egualmente bene nella Chiesa cattolica, nella confessione protestante, nel buddismo e nell’islam.
Il senso è questo: la religione cattolica ha perduto la sua peculiarità, è pareggiata a ogni altra religione, perché tutte le religioni assolvono a questo compito primario che è il senso religioso: l’unica cosa che conta è la tensione verso Dio.
A questa stregua, l’essere più religioso è satana, perché satana aveva una tensione massima verso la divinità: voleva essere Dio! Ora, una tensione maggiore di quella di una creatura che vuole essere Dio non si può immaginare. Il diavolo, poi, non solo viveva questa tensione scardinata, ma la suggerisce ai Progenitori: «Voi sarete come dei». https://www.aldomariavalli.it/2025/11/29/lamore-e-preceduto-dal-verbo-e-non-puo-essere-un-assoluto-quando-romano-amerio-spiego-perche-la-questione-del-filioque-e-cosi-importante/
In Dio non ci sono il prima e il dopo… tutto lì.
EliminaNel Credo c'è un passaggio di fondamentale importanza riguardante :
RispondiEliminaCredo in un solo Signore, Gesù Cristo... per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Il "per MEZZO" non deve essere solo inteso come lo strumento-mezzo, ma anche come riferimento al suo essere il centro (sta in mezzo) dell'Uni-verso.
In Cristo TUTTO è stato creato. In Cristo TUTTO sarà ricapitolato.
Il centro è Cristo nella sua ipostasi di Verbo incarnato, vero Dio e vero uomo.
... per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria.
Anche lo Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, non è un semplice "mezzo" attraverso il quale accade il mistero.
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero...
Non vi vengono i brividi e non aumenta a dismisura la devozione per Maria? La creatura più umile che con un sì ha permesso che "Verbo caro factum est" e così tutto si disveli ai nostri occhi appesantiti da pensieri, retropensieri e qualche tenebra?
Non giochiamo ad essere i più bravi: Dio viene a salvarci nella nostra miseria. In paradiso c'è una sola categoria ad essere assente: gli orgogliosi. All'inferno manca una sola categoria: gli umili. Tutti gli altri possono stare qua e là.
Tra gli errori dei Bizantini, oltre a quelli per così dire classici, non bisogna dimenticare il loro pseudo-misticismo.
RispondiEliminaNon che tutti i loro mistici siano pseudomistici, ovviamente. Tuttavia la loro dottrina ufficiale ha riconosciuto come legittimo nel XIV secolo il cosiddetto "esicasmo", nonostante fiere e più che legittime opposizioni all'interno della stessa Ortodossia, e canonizzato il suo autore. Si tratta di una forma di meditazione elaborata dal monaco medievale greco Gregorio Palamas per ottenere la vera "hesuchía" o "tranquillità" dello spirito. E in cosa consisteva? In una tecnica di meditazione che, secondo il Palamas, avrebbe reso il monaco capace di contemplare la medesima "luce increata" emanante da Nostro Signore quando si trasfigurò sul Monte Tabor. Nientedimeno. Luce increata apparsa sul Tabor, non ancora la luce (inaccessibile) nella quale si cela il Padre. Questa mistica pretesa veniva fondata da una serie di elucubrazioni sul rapporto tra sostanza e attributi della divinità, tali da far apparire vere e proprie eresie, a cominciare dalla negazione dell'unità reale degli attributi divini (questa "luce increata" non apparterrebbe all'essenza divina e questo non è accettabile dal punto di vista del dogma).
L ' Enciclopedia cattolica del 1910 definiva l'esicasmo " un'oscura speculazione unita alle forme più smodate di mistica stravaganza".
Perché ricordare l'errore dell'esicasmo? Perché nel clima smarrito del cattolicesimo attuale sembra che la "mistica" bizantina affascini diversi cattolici, fors'anche come reazione all'aridità imposta dalle ben note riforme liturgiche e a tutto il resto.
pp
"In Dio non ci sono il prima e il dopo...".
RispondiEliminaEsatto. Essendo eternamente in atto, l'Essere perfettissimo di Dio, è da sempre ciò che è, senza mutazione di sorta. Il prima e il dopo si applicano però alle realtà finite, come quella del mondo, della natura, dell'uomo. Non sono queste realtà create da Dio dal nulla rispetto a se stesse? C' era quindi per loro un "prima" durante il quale non esistevano. Altrimenti bisognerebbe sostenere che il mondo è coeterno a Dio, pencolando senza volerlo verso lo spinozismo. Il mondo e l'uomo erano ab aeterno nella mente di Dio, ma una volta creati entrano nel regno del finito, quello del prima e del dopo. Il finito sarà riassorbito, per così dire, nell'infinito con il Giudizio Universale: la natura sarà distrutta e il genere umano diviso per sempre tra Eletti e Reprobi, entrando in questo modo nell'eternità. Così la Rivelazione.
Che dolore, il pensiero dell'eternità delle pene. Ma questo esige giustamente la divina giustizia, come risulta dalla Rivelazione ma anche dalla logica, che esige una colpa irredimibile per il peccatore indurito ed impenitente sino alla fine.
Esiste quindi un rapporto tra la potenza e l'atto ma riguarda non Dio bensì la sua opera, una volta messa in atto.
D’accordissimo. Infatti noi attendiamo il ritorno glorioso di Cristo. Noi siamo nel tempo, pur chiamati all’eternità. Mortali, ma con un’anima immortale. Il problema di certe polemiche è di usare categorie temporali nella natura di Dio, intratrinitariamente. Perciò si sentono dire enormità del tipo che nella Trinità “discutono”… ma anche precedenze che determinano subordinazionismi. Il mistero è rivelato in Cristo: veniente nel tempo, eppure Dio in principio. Presente eppure venturo.
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