Pagine fisse in evidenza

Maria Guarini, Le insidie della collegialità. Le due ecclesiologie.

(Il testo che segue è tratto dal libro: Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI, Rieti 2012. Indice consultabile qui.
Disponibile a Roma presso la Libreria Leoniana Via dei Corridori, 28, - Telefono: 06 6869113 - Fax 06 683 3854 - e-mail: leoniana@tiscali.it
Oppure può essere richiesto all'autrice maria.guarini@gmail.com)

Le insidie della Collegialità. Le due ecclesiologie

Il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: « la Chiesa non si compone soltanto della sua struttura gerarchica, della sacra liturgia, dei sacramenti, dei suoi organismi » e cita la mistica unione con Cristo; ma poi, secondo una nuova visuale, traccia sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come gerarchica, come società perfetta, a una Chiesa vista come comunione di fratelli. Da una Chiesa vista come sempre tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni. Da una Chiesa vista come chiusa in se stessa preoccupata della sua conservazione – ma così era realmente? –  a una Chiesa come comunità aperta al mondo, popolo di Dio in cammino. Un principio che gli sembrò doversi esplicare in quanto fin allora implicito nell’ecclesiologia cattolica fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.

Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina. Viene inadeguatamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza tra esse e Chiesa di Cristo: le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, mentre in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali. Al contrario, la Chiesa non si è data da se stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.[1]

Quindi una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito e nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.

Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità dunque molto influisce l’ambiguità della Lumen Gentium  alla quale Paolo VI, messo sull'avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia stesa sotto la supervisione del Cardinal Ottaviani. E tuttavia tale nota, con molta coerenza progressista posta in calce alla Costituzione, viene sistematicamente "saltata" essendo, appunto, "praevia"...

La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale. Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.

Dalla discussione sul testo dello Schema del 1963  può notarsi l’uso differenziato dei verbi, dal quale si può ricavare una diversa posizione di Pietro e degli altri Apostoli, rispetto all'atto di fondazione della Chiesa. Infatti condere e aedificare furono introdotti per differenziare il verbo fundare, prima riferito indistintamente a Pietro e agli Apostoli. Non mancano affermazioni come questa: « Appare chiara l'intenzione di una differenziazione e di una priorità di Pietro per quello che concerne l'essere fondamento della Chiesa rispetto agli Apostoli, anche se, non comparendo nel testo il verbo “fundare” neppure per indicare la funzione di Pietro, possiamo essere legittimati a credere che questo si sia voluto riservare solo a Cristo, pietra angolare ».[2]

La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.

La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice, però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice. Nonostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che « dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte ».

Lumen Gentium, al n.19 dichiara: « Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio…»

Non mancano perplessità, nelle posizioni più tradizioniste, se si pensa che il termine “collegio” per designare l'episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica. Apostoli vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda due a due non in "collegio"... C’è anche da osservare che il “collegio” si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico come l'unità della Chiesa.

La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l'autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi. Inoltre non è peregrina l'osservazione che se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto, con a capo il romano pontefice, ne deriva come prima e non unica conseguenza che la chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale. In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. Oggi, Giovanni Paolo II ha inserito la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983)

In effetti si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra primazialità e collegialità basti pensare alla tesi dell’unico soggetto (collegio dei vescovi o romano pontefice) e i dati del magistero che, pur senza posizioni dichiarative parlano di due distinti soggetti (LG 22). All’interno stesso di questa suddivisione, la stessa inconciliabilità si coglie tra le esigenze metafisiche dell’autorità nella vita sociale e la realtà ecclesiale compresa alla luce della rivelazione cristiana.

Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una tensione che, ultimamente, manifesta la difficoltà di « collocare all'interno di una concezione collegiale  del ministero episcopale che scaturisce da un'ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue per una visione della Chiesa apologetica, giuridica  e astorica ed inoltre concentrata sul Papa ».[3]
Ecco da dove si enuclea il pregiudizio e il fraintendimento che hanno portato alle due diverse ecclesiologie: Chiesa Società Perfetta versus Chiesa Comunione.

I novatori hanno voluto mettere in risalto della Chiesa preconciliare la Chiesa congregans (istituzione) e la Chiesa congregata (l’insieme delle persone), mettendone in risalto gli elementi istituzionali di Società Perfetta con accentuazione sulla storicità e sulla struttura, senza cogliere le immense ricchezze che il Magistero, i Padri e le esperienze dei Santi ci hanno lasciato e che costituiscono un patrimonio inalienabile dal quale si è voluto fare quasi un punto e accapo. E così si è partiti dalla critica all’istituzionalismo e alle sue istanze di centralizzazione, al giuridismo con l’attenzione alle leggi ed al clericalismo con le differenze ontologiche e sacrali di ministero. Il tutto visto come generante divisione tra fedeli e clero: i fedeli visti come la massa di persone che deve seguire i dogmi e la fede, le leggi e il diritto, in un gradino più basso rispetto al clero.
La Chiesa in tutte le epoche risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua, che è anche la nostra, storia terrena non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare la rivoluzione copernicana operata dal concilio è stata un’operazione prevenuta e ideologica. Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non rifondare la Chiesa.

Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ed oggi appare dominante come se più vicina alle assonanze bibliche  specificamente neotestamentarie, come se potesse finalmente sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio fino al concilio non esattamente compreso. Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un'interpretazione puramente psico-sociologica, ai bisogni e alle attese umane. Acquista valore la Chiesa locale, come se l’universalità della Chiesa e tutto il suo mistero prima del concilio non le appartenesse a pieno titolo.

Paolo VI usa l'espressione “comunione strutturata” mentre affronta la questione dell'appartenenza alla Chiesa in ordine alla salvezza. E, a partire dal concilio, sono stati scritti tomi per sviluppare la nuova ecclesiologia e le sue implicazioni in ordine alla collegialità. Ne raccolgo un piccolo florilegio.
  • Per W. Kasper si tratta di « una tipica formula di compromesso che sta ad indicare la giustapposizione tra l'ecclesiologia sacramentale della "communio" e l'ecclesiologia giuridica dell'unità ».[4]

  • Per capire il senso di « comunione gerarchica occorre superare ogni antinomia tra una “chiesa giuridica” e una “comunità d'amore” e occorre tener presente che la Chiesa è nello stesso tempo realtà animata dallo Spirito Santo e realtà strutturata. In essa dunque lo Spirito Santo è "un principio di ordine, ma non di rigido legalismo, ma della legge viva dell'amore ».[5]

  • Sembra ribadire questa idea anche il Sinodo Straordinario del 1985, quando afferma che « l'ecclesiologia di comunione è anche fondamento per l'ordine nella Chiesa e soprattutto per una corretta relazione tra unità e pluriformità della Chiesa ».[6]

  • Paolo VI ripropone l'aspetto giuridico di cui è costituito il vincolo della comunione gerarchica in un contenuto che non garantisca semplicemente l'esercizio dell'autorità nella Chiesa in vista del mantenimento sostanziale della sua unità e integrità, ma esprima il mistero di comunione della Chiesa in base ad una comprensione di esso in chiave sacramentale. Nel Vaticano II il concetto di comunione gerarchica era servito « per legare il ministero episcopale alla Chiesa universale o, più concretamente alla comunione con il Papa e il collegio dei vescovi ».Tant’è che nel Sinodo dei vescovi dell’ottobre 1969 Paolo VI afferma « perché abbiamo riscoperto la comunione ecclesiale, che al livello apostolico chiamiamo collegialità »; ma si era già all'interno di un ripensamento dell’ecclesiologia secondo la cosiddetta “nuova coscienza comunionale” della Chiesa. Si apre una fase di ricerca ed elaborazione teologica che ancora non perviene, né può pervenire ad acquisizioni ecclesiologiche risolutive.

  • W. Kasper, dopo aver segnalato “il compromesso” a cui è pervenuto il Vaticano II per ottenere l'assenso della minoranza, annota che tale compromesso dietro cui sta una giustapposizione tra l' “ecclesiologia sacramentale della communio” e l’ “ecclesiologia giuridica dell'unità” « non soddisfa del tutto perché il problema che esso cela è profondo ». Appellandosi al principio della continuità della tradizione, egli sostiene l'esigenza di una « sintesi creativa tra le tradizioni del primo e del secondo millennio » [tradizioni o Tradizione?], dal momento che questa sintesi l'ultimo concilio non è riuscito a compiere.[7]
È precisamente in questi frangenti che occorre situare  l'intento ecclesiologico perseguito da Paolo VI. Il suo contributo è orientato a tale nuova sintesi ecclesiologica non ancora data.
A questo livello la comunione appare capace di contenere unite tutte le diversità che in essa sorgono e che essa assume, inoltre appare in grado di abbracciare la totalità delle sue manifestazioni senza con ciò contraddirsi. Ecco il germe dell’inclusivismo. Assistiamo ad una produzione notevole di materiale magmatico: molte parole e concetti elaborati, concepiti e redatti col linguaggio colloquiale, mai definitorio – ormai fatto proprio dalla cultura egemone – forieri di confusione e disorientamento risolvibili solo rimanendo agganciati alla Tradizione perenne.

Possibile che nessuno si sia mai detto che la Chiesa, fin dal suo nascere ad opera del Salvatore, se non fosse stata e rimasta “comunione” dei Suoi in Lui, non sarebbe mai stata la Chiesa?

Concludo questo excursus riagganciandomi all'insegnamento ecclesiologico di S. Agostino e successivamente sviluppando alcune attualissime riflessioni sotto il profilo ecclesiologico.

Il grande Vescovo d'Ippona ebbe il merito di fronteggiare una situazione terribilmente critica: l'unità della Chiesa infranta dallo scisma dei donatisti e minacciata da altri gravissimi errori, come quello manicheo e quello pelagiano. Egli ebbe ragione degli uni e degli altri riaffermando la dottrina di sempre e riproponendo, quindi, il volto genuino della Chiesa di Cristo, come era pervenuta fino a lui sulle ali sicure della Tradizione cattolica. All'antichiesa di Donato, infatti, contrappose vittoriosamente la Chiesa d'oggi, di ieri, di sempre: la Cattolica. I nostri tempi, è evidente, non sono quelli di sant'Agostino, ma il suo intento di ritrovare l'unità della Chiesa nei valori trasmessi dalla Tradizione ecclesiale è ancor oggi esemplare. Lo ripropongo in un momento in cui quell'unità sembra entrare in crisi.

Agostino adottava l'uso onnicomprensivo del termine « Catholica » nel presupposto che fosse inequivocabilmente riferito all'« Ecclesia », non in quanto sinonimo, ma nella consapevolezza della « ratio Ecclesiae », perché la Chiesa - lasciando da parte la vexata questio tra substistit in ed est  - o è cattolica oppure non è Chiesa. Se anche al tempo di Sant'Agostino non mancavano le eresie che rendevano cogente il problema, allora la Chiesa non era inquinata dal suo interno e le eresie erano riconosciute e rigorosamente condannate.

Ed è così che emerge in tutta la sua trasparenza e autenticità il volto della Chiesa, detentrice e custode della Verità, che nell’universalità di tempo e di spazio realizza l’assoluta compresenza fra se stessa e Cristo Signore, il « Christus totus » di Agostino.

Attingo ciò che segue da un piccolo ma denso trattato nel quale Mons. Gherardini ha l'abilità di affermare la dottrina perenne proprio attraverso il vigore e la capacità intellettuale, illuminata dalla 'Sapienza', del vescovo di Ippona. Tant'è che l'Autore stesso dice: « Ho voluto, infatti, un’esposizione “ordinaria” insieme e “cursoria” del pensiero agostiniano sulla Chiesa, per non sovrapporre nessun altro pensiero ad esso e per non filtrarlo al setaccio degl’interpreti. A tener banco è Lui, Agostino ».[8]

Un elemento messo in risalto da Mons. Gherardini è l'intuizione di Agostino sulla genesi della Sposa di Cristo dal costato trafitto del Signore, con una immagine significativa: come Eva fu tratta dalla costola di Adamo dormiente, così dal fianco squarciato di Cristo morente scaturì la Chiesa con i suoi sacramenti dai quali essa è formata o, per dirla con san Tommaso, « è fabbricata ». È così che l’Ecclesia divenne Sposa diletta di Cristo, suo Capo: « un medesimo colpo di lancia determinò la presenza della Chiesa nella sua qualità di corpo ».

Ed è così che recuperiamo, in tutta la sua ricchezza semantica e misterica, l'immagine della Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo” nel Christus totus: due parole chiave per esprimere il Mistero condensato dagli insegnamenti del Santo vescovo, ben consapevoli della limitatezza e del sapore tutto vetero-testamentario di quella di “Popolo di Dio”, più generica e meno identitaria, privilegiata dal Concilio.

La Chiesa è Una, Santa, Cattolica e Apostolica, nonché Romana.
Una: unica la Chiesa come unigenito è il Figlio di Dio, avente un’unica Sposa.
Santa: «Chiesa [...] santa, la madre vostra, che dovete onorar amar e predicare come la Gerusalemme celeste, la città santa di Dio». La Chiesa è Corpo, ma è anche Madre Santa che esige figli santi di ogni popolo e nazione, che ricevono non più un'identità etnica, ma teologale: «la Chiesa dei santi e non degli eretici: dei santi, designata da Dio prima che facesse la sua comparsa, e additata poi perché fosse riconosciuta [...] Prima nei Libri Sacri, poi fra le genti».
Cattolica: universale, che significa essere dovunque, con tutti, per tutti, sempre e per sempre, in eterno… «Gli eretici son su tutta la faccia della terra, ma non tutti dappertutto. Gli uni qui, gli altri là. Tuttavia non mancan mai [...]. La superbia è la loro unica madre, così come la madre di tutt’i fedeli cristiani, sparsi in tutt’il mondo, è la nostra Chiesa cattolica. Nessuna meraviglia: la superbia ingenera lacerazioni, la carità produce l’unità» . Nessuna meraviglia: la superbia è sempre presente, lo sarà ancora, fino alla fine dei tempi e con essa gli errori e purtroppo anche gli orrori, da quelli generati. La gramigna mischiata al grano, le tenebre coabitanti con la luce.
Apostolica: è la Chiesa degli Apostoli che è giunta fino a noi e permane in eterno: un unico corpo, un'unica Fede, un unico Capo. Una realtà oggettiva, viva e organica, custode e, quindi, trasmettitrice (missionaria) dell’integrità dottrinale. «L’esser e il rimanere apostolica è dunque la condizione per la quale la Chiesa è e resta una santa cattolica».
Romana: la Chiesa ha sede a Roma per volontà del suo Fondatore e per le vicende storiche nelle quali è entrato il Provvidente Progetto di Dio.
Poter attingere con fedeltà assoluta alle fonti Agostiniane ci permette di comprendere il presente alla luce del passato e del futuro sapientemente prefigurati e ci aiuta a sciogliere dubbi e interrogativi particolarmente drammatici, oggi.

« La Chiesa, e l'ipponense con essa, non condannano per il gusto di condannare: la Chiesa lo fa «per proteggere la debolezza dei suoi figli» contro l'irrompere dei lupi rapaci, Agostino, anche quando alza il tono della voce è mosso dal desiderio di guarire più che d'esacerbare i dissidenti. Non può, tuttavia, transigere sulla dottrina, che egli è chiamato a difendere, non modificare e tanto meno a tradire. È la dottrina per tutti e per sempre, cattolica come la voce della Chiesa che la trasmette e che, anche in forza di tale dottrina e non soltanto in ragione dello spazio entro il quale si diffuse è La Cattolica. È quella fondata da Cristo ed è come Cristo la volle e fondò: aperta e destinata al mondo intero, dotata di una Parola impermeabile innanzi al mutare dei tempi e delle culture, titolare di poteri sempre identici a se stessi dall'uno all'altro capo della terra: « Ricevete la potenza dello Spirito Santo che verrà in voi e sarete i miei testimoni in Gerusalemme ed in tutta la Giudea e Samaria fin all'ultimo confine del globo terrestre [At 1,8]. Se, insieme con la Chiesa sparsa dovunque, riconoscerai la paternità di queste parole, capirai pure con chi sei in comunione, val a dire il carattere cattolico della Chiesa e di riflesso la sua stessa cattolicità ».[9]

Il posto e il ruolo della Chiesa nella storia non dipende dalle sue scelte e non cambia in base alle medesime; le fu indicato e conferito una volta per sempre dal suo stesso Fondatore, il quale la inviò “in tutt’il mondo” perché fosse ad esso presente “fin alla sua consumazione”, “presso tutte le genti, e tutte evangelizzasse e battezzasse nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”, assicurando che solo “chi avrà creduto e sarà stato battezzato si salverà, ma non chi non avrà creduto” (Mt 28,18-20; Mc 16,15-16; Gv 14,23).

Afferma mons. Gherardini: « Se per un verso tutto ciò non pone la Chiesa al rimorchio della storia, per un altro non comporta per la Chiesa stessa un deficit di storicità». Egli non rileva soltanto « il dasein della Chiesa, la sua appartenenza anche alla città terrena, la sua immanente storicità perfino come fattore di cultura progresso e civiltà, ma anche e soprattutto la sua trascendenza: il fatto cioè in base al quale, nel tempo e nello spazio, è la Città di Dio, il teatro dei “mirabilia Dei”, il principio ed il centro della storia salvifica, la continuazione sacramentale del Verbo incarnato in mezzo a noi ».[10]

La Chiesa, dunque, nella storia si pone come strumento degl’interventi di Dio che ne fanno una “storia di salvezza”, portatrice di una Presenza all’uomo, al suo destino, agli avvenimenti del suo esserci: la storia cioè del compiersi, mediante l’azione della Chiesa, del regno di Dio fra gli uomini di ogni tempo. È una storia contrassegnata, dal carattere escatologico, di cui l’attesa caricava e carica il senso cristiano della storia, che conferisce alla Chiesa un valore di storia globale, in netta opposizione al particolarismo della concezione giudaica. « La Chiesa, infatti, non solo coestende al mondo le vibrazioni del suo senso escatologico, ma ingloba se stessa nel divenire del mondo, pur senza mai appartenergli e sempre trascendendolo, inculturandosi in esso ma non ad esso acculturandosi. »[11]

La tesi dell’anticoncilio e dei tradizionalisti alla riconquista di Roma è il cavallo di battaglia di quel « progressismo ormai un po’ logoro che da un cinquantennio vede ad ogni angolo la reazione in agguato, la presenza cieca ostinata ed antistorica dei nostalgici che s’oppongono al Concilio, ne cancellano la natura d’evento e di nuovo inizio, ne misconoscono o non ne comprendon il messaggio e vorrebbero neutralizzarne la benefica incidenza nella storia della Chiesa. A tal fine, risuona anzi un grido d’intimidazione e d’allarme: giù le mani dal Concilio, il Concilio non si tocca ».[12]

Si è imposta una concezione della storia asservita all’ideologia, che ignora la situazione che, da cinquant’anni a questa parte, si è spaventosamente ridotta ad una piaga:
  1. il dissenso è pubblicamente ostentato dagli stessi vescovi, come dimostra, per es., la vicenda dell’enciclica “Humanæ vitæ” e del motu proprio “Summorum Pontificum”;
  2. il Vaticano II è ufficialmente invocato com’elemento pacificatore all’interno della Chiesa, dilaniata, guarda caso, dalla cosiddetta ermeneutica del Concilio, nonché dai problemi della sua ricezione ed applicazione;
  3. la sirena ammaliatrice del mondo moderno e della sua cultura ha portato e porta la Chiesa in rotta di collisione con la fonte della sua sopravvivenza nel tempo e nello spazio, la Tradizione, con la conseguenza che i suoi connotati non son più quelli della Chiesa una santa cattolica apostolica romana, ma la nuova Chiesa in cerca del suo domani;
  4. la Liturgia, che dovrebbe sintetizzare la ragione del credere e del pregare, ha conosciuto e tuttora conosce il fenomeno d’una selvaggia creatività che neutralizza l’unità della Chiesa;
  5. l’associazionismo spontaneo ed incontrollato, nelle sue espressioni più macroscopiche come quelle del cammino neocatecumenale, strangola la comunione e la lascia in brandelli;
  6. la libertà scatenata e sfrenata ha colmato l’ambiente ecclesiale dei miasmi irrespirabili del peccato in genere ed in particolare di quello più purulento e vergognoso, la pedofilia;
  7. intere cristianità, nel nuovo mondo e nella vecchia Europa, son in preda in via di diritto ed in via di fatto a vere e proprie apostasie e scismi;
  8. già Paolo VI nel 1968 e Giovanni Paolo II nel 1981 avevan parlato con accenti impressionanti d’autodemolizione della Chiesa e d’una sua crisi dirompente tanto quanto imprevista là dove, in conseguenza del Vaticano II, nelle attese comuni c’era una nuova Pentecoste; da parte sua l’attuale Pontefice, anche da cardinale e non una volta sola, ha messo il dito sull’evidenza paradossale d’una Chiesa che lacera sé stessa.
E di fronte a quest’opera di così sistematica autodemolizione e lacerazione, dovuta non soltanto a teologi d’avanguardia, ma anche – almeno in alcuni casi – ai vertici stessi ed a coloro nelle cui mani il Signore pose la Chiesa, ad essi affidando il compito di pascerla e governarla, c’è chi grida all’untore e mette in guardia contro i tradizionalisti alla riconquista di Roma. Mancanza di senso critico, indubbiamente, ma non certo di fantasia ».[13]

In tutto quanto delineato ci sono le linee guida ed il fine: l'unità della Chiesa, che nel corso dei secoli è sempre stata aggredita, ma ha sempre saputo al suo vertice usare il bisturi e risorgere più rigogliosa e luminosa, come un albero dopo una sapiente potatura.

Ed oggi? Le cesoie, appaiono sotterrate e nessun San Domenico “contro gli sterpi eretici percuote”. Parafrasando Dante: gli sterpi stanno divenendo selva selvaggia. Ed è da qui che nasce la differenza tra le antiche e le nuove eresie: l'eresia si sviluppa incontrastata all'interno della Chiesa. E gli operai son affaccendati in tutt'altro e non c'è chi li riprenda.

Secondo i teologi che vanno per la maggiore, se un Papa afferma senza impegnar l'infallibilità e senza adeguatamente motivare che i documenti del concilio sono in continuità col precedente magistero bisogna credergli sulla parola. Insomma dal devoto ossequio dovuto al magistero autentico si passa all'obbligo di adesione con un’estensione illegittima del carisma dell'infallibilità. Difficile riuscire a farlo capire a chi se ne serve come di una clava per indurci di nuovo al silenzio.

Ma, per Grazia del Signore, sono sempre di più e con maggiori articolazioni e motivazioni, le voci che si alzano nell'impegno di promuovere il ripareggiare la Verità, per dirla con Romano Amerio.
Maria Guarini
____________________

1. Romano Amerio. Iota unum, Lindau 2009, 470
2. G. Ghirlanda "Hierarchica communio", 299
3. H. Rikhof, Il vaticano II e la "collegialità episcopale", 26
4. W. Kasper Teologia e Chiesa, 295
5. G. Philips, la Chiesa e il suo Mistero, 242
6. Relazione finale II. C. EV 9/1800, pp.1760-1763
7. W. Kasper, Teologia e Chiesa, 295
8  Brunero Gherardini, La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana, Lindau 2011
9  ibidem
10. Brunero Gherardini, La Chiesa e la storia. Articolo scritto per  confutare la tesi sostenuta dallo storico Giovanni Miccoli sulla cosiddetta Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma – è il titolo del suo libro, Ed.Laterza, Bari 2011 – riportato qui 
11. ibidem
12. ibidem
13. ibidem

1 commento:

  1. Nato ieri: Se le chiesa romana deve ritrovare la propria identità cattolica e indispensabile che venga rimossa con intervento chirurgico la piaga ecumenica. Non è più ammissibile che vengano associati pastori protestanti alla funzione celebratà da un sacerdote

    RispondiElimina

I commenti vengono pubblicati solo dopo l'approvazione di uno dei moderatori del blog.