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martedì 31 gennaio 2012

Ce ne vorrebbero!

S.E. Rev.ma Mons. MARIO OLIVERI , AI SACERDOTI AI DIACONI


Lettera sul Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI. Sulla celebrazione della Santa Messa

Cari Sacerdoti e Diaconi,

è con molta amarezza d'animo che ho dovuto constatare che non pochi di Voi hanno assunto ed espresso una non giusta attitudine di mente e di cuore nei confronti della possibilità, data ai fedeli dal Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI, di avere la celebrazione della Santa Messa "in forma straordinaria", secondo il Messale del beato Giovanni XXIII, promulgato nel 1962.

Nella "Tre Giorni del Clero" del settembre 2007, ho indicato con forza e chiarezza quale sia il valore ed il vero senso del Motu Proprio, come si debba interpretare e come si debba accogliere, con la mente cioè aperta al contenuto magisteriale del Documento e con la volontà pronta ad una convinta obbedienza. La presa di posizione del Vescovo non mancava della sua pacata autorevolezza, avvalorata dalla sua piena concordanza con un atto solenne del Sommo Pontefice. La presa di posizione del Vescovo era fondata dalla ragionevolezza del suo argomentare teologico sulla natura della Divina Liturgia, sulla immutabilità della sostanza nei suoi contenuti soprannaturali, ed era altresì fondata su rilievi di ordine pratico, concreto, di buon senso ecclesiale.

Le reazioni negative al Motu Proprio ed alle indicazioni teologiche e pratiche del Vescovo sono quasi sempre di carattere emotivo e dettate da superficiale ragionamento teologico, cioè da una visione "teologica" piuttosto povera e miope, che non parte e che non raggiunge la vera natura delle cose che riguardano la fede e l'operare sacramentale della Chiesa, che non si nutre della perenne Tradizione della Chiesa, che guarda invece ad aspetti marginali o per lo meno incompleti delle questioni. Non senza ragione, avevo, nella Tre Giorni citata, fatto precedere alle indicazioni operative ed ai principi guida di azione una esposizione dottrinale sulla "Immutabile Natura della Liturgia".

Ho saputo che in alcune zone, da parte di diversi Sacerdoti e Parroci, vi è stata anche la manifestazione quasi di irrisione verso fedeli che hanno chiesto di avvalersi della facoltà, anzi del diritto, di avere la celebrazione della Santa Messa in forma straordinaria; e pure espressione di disistima e quasi di ostilità nei confronti di Confratelli Sacerdoti ben disposti a comprendere ed assecondare le richieste di fedeli. Si è anche opposto un diniego, non molto sereno, pacato e ragionato (ma ben ragionato non poteva essere) di affiggere avviso della celebrazione della Santa Messa in "forma straordinaria" in determinata chiesa, a determinato orario.

Chiedo che sia deposta ogni attitudine non conforme alla comunione ecclesiale, alla disciplina della Chiesa ed alla obbedienza convinta dovuta ad importanti atti di magistero o di governo.

Sono convinto che questo mio richiamo sarà accolto in spirito di filiale rispetto ed obbedienza.

Sempre con riferimento agli interventi del Vescovo in quella 'Tre Giorni del Clero" del 2007, debbo ancora ritornare sulla doverosa applicazione delle indicazioni date dal Vescovo circa la buona disposizione che deve avere tutto ciò che riguarda lo spazio della chiesa che è giustamente chiamato "presbiterio". Le indicazioni "Circa il riordino dei presbiterii e la posizione dell'altare" sono poi state riportate nell'opuscolo "La Divina Liturgia", alle pagine 23-26.

Quelle indicazioni, a più di quattro anni di distanza, non sono state applicate ovunque e da tutti. Erano e sono indicazioni ragionevoli, fondate su buoni principi e criteri di ordine generale, liturgico ed ecclesiale. Ho dato tempo affinché di esse i Sacerdoti e soprattutto i Parroci ragionassero con i Consigli Parrocchiali Pastorali e per gli Affari Economici, e si tenesse anche opportuna catechesi liturgica ai fedeli. Chi avesse ritenuto le indicazioni non opportune o di difficile applicazione, avrebbe potuto facilmente trattarne con il Vescovo, con animo aperto ad una migliore comprensione delle ragioni che hanno spinto il Vescovo a darle, affinché fossero messe in pratica in modo il più omogeneo possibile in tutte le chiese della Diocesi . Esse non sono certamente contrarie alle norme ed anche allo "spirito" della riforma liturgica che si è attuata nel post-Concilio e partendo dal Concilio Vaticano II. Se qualcuno avesse avuto fondati dubbi avrebbe potuto esprimerli con sincerità e con apertura al sereno ragionamento, e con la volontà rivolta all'obbedienza, dopo che la mente avesse avuto maggiore illuminazione.

Stimo che ormai sia trascorso ampio tempo di attesa e di tolleranza, e quindi sia arrivato il momento dell'esecuzione di quelle indicazioni da parte di tutti, in modo da giungere alla prossima Pasqua con tutti i presbiterii riordinati, od almeno con lo studio di riordino decisamente avviato, là dove il riordino richieda qualche difficoltà di applicazione.

Va da sé che la non applicazione delle indicazioni, nel tempo che ho menzionato, non potrebbe che essere considerata come un'esplicita disobbedienza. Ma ho fiducia e speranza che ciò non avvenga.

Mi affligge non poco l'avervi dovuto scrivere questa Lettera, assicurandovi che la riterrò come non scritta, se essa avrà avuto buona accoglienza e positivo effetto.

Lo scritto porta con se tutto il mio desiderio che esso giovi ad un ravvivamento e ad un rafforzamento della nostra comunione ecclesiale e della nostra comune volontà di adempiere al nostro ministero con rinnovata fedeltà a Cristo ed alla sua Chiesa.

Vi chiedo infine molta preghiera per me e per il mio ministero apostolico, e di gran cuore Vi benedico.

Albenga, 1° gennaio 2012 Solennità della Madre di Dio.

Monsignor Mario Oliveri, vescovo
[Fonte: Diocesi di Albenga -Imperia]

lunedì 30 gennaio 2012

Il cardinal Zen celebra il Rito usus antiquior

Il video mostra una celebrazione che risale al 2006, antecedente cioè al Summorum Pontificum. E' officiata in Cina dal Card. Zen, grande difensore del cattolicesimo.
Gioiamo di questa grazia, che non arricchisce di certo solo la Chiesa cinese, ma è per tutta la Chiesa. Ce ne vorrebbero!
La Fonte: Riposte Catholique, che pubblica anche altri video!

venerdì 27 gennaio 2012

Siamo arrivati ad una indebita "communicatio in sacris"?

50° Congresso Eucaristico Internazionale
per avere un unico livello di coinvolgimento ecumenico?


... e nessuno dice nulla. Anzi!
Leggete cosa pubblica Rorate Caeli, che si distingue per un monitoraggio serio ed attento delle vicende ecclesiali. Lo riprendo di seguito.

Trovo positiva ed entusiasmante questa nostra "comunicazione circolare", che allarga gli orizzonti e genera condivisione di pensieri e notizie. Pochi giorni fa ho scoperto con soddisfazione che Rorate ha ripreso la risposta di "Si si no no" a Padre Cavalcoli da noi pubblicata.


Dal sito ufficiale del 50° Congresso Eucaristico Internazionale, che si terrà a Dublino dal 10  al 17 giugno 2012:
IEC2012 lancia il programma ecumenico
Giovedi 19 Gennaio 2012 IEC2012 ha lanciato il programma ecumenico, un elemento unico del 50° Congresso Eucaristico Internazionale che si svolge nel mese di giugno 2012.
All'inizio della Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani (18-25 gennaio) il comitato organizzatore del 50° Congresso Eucaristico Internazionale ha lanciato il programma ecumenico del Congresso. Il programma ecumenico si svolgerà il primo giorno del Congresso, lunedi 11 giugno. Il Congresso celebrerà e rifletterà sul rapporto di comunione in cui sono inseriti i cristiani attraverso il battesimo.

Mons. Michael Jackson, Chiesa d'Irlanda, Arcivescovo di Dublino celebrerà una liturgia della Parola e acqua. Il Metropolita Hilarion Alfeyev della Chiesa ortodossa russa terrà l'omelia. Frère Alois Löser, priore di Taizé, terrà una catechesi sul Battesimo.

Parlando in occasione del lancio del programma ecumenico, padre Kevin Doran, segretario generale in IEC2012, ha dichiarato: "Queste espressioni concrete della nostra comunione possono aiutare a porre maggiore attenzione all'unità, che già abbiamo come cristiani".
Per saperne di più sul programma ecumenico del 50° Congresso Eucaristico Internazionale.
Il Documento, di cui al link sopra, sul programma ecumenico per quest'anno del Congresso Eucaristico Internazionale osserva che il livello di coinvolgimento ecumenico è unico rispetto a quello dei precedenti Congressi Eucaristici Internazionali:
"...mentre i precedenti Congressi a volte hanno incluso un laboratorio o  momenti di preghiera ecumenica, l'ampio coinvolgimento di cristiani di altre tradizioni in tanti elementi di questo Congresso (preparazione delle risorse pastorali; programma settimanale del Congresso; programma per i giovani) è davvero unico...
Fr. Doran ha espresso la sua speranza che "queste espressioni concrete della nostra comunione possono aiutare a porre maggiore attenzione per l'unità che già abbiamo come cristiani".
 Il documento rileva inoltre che la "Liturgia della Parola e l'Acqua" celebrata dall'arcivescovo anglicano di Dublino sarà la liturgia principale del Congresso Eucaristico Internazionale nel suo primo giorno (11 giugno). Un certo numero di protestanti nel corso del Congresso terrà delle presentazioni.

PRECISAZIONE: Come indicato nel messaggio, l'ecumenica "Liturgia della Parola e l'Acqua" sarà la liturgia principale della prima giornata (il 11 giugno) del 50 Congresso Eucaristico Internazionale. Tuttavia, non è quella di apertura, che sarà una Messa officiata dal legato pontificio, il giorno precedente, il 10 giugno. Il programma completo del Congresso può essere trovato qui. [fin qui il testo di Rorate]


Che ne dite, l'omogeneizzazione ecumenica è già un fatto? È questo il sano ecumenismo o è solo un brutto sogno post-conciliare? Era questo che intendeva il Signore quando pregava "Ut unum sint"?

Vi invito a verificare che l'evento è già inserito nel sito della Santa Sede. Nel testo linkato viene tra l'altro specificato:
"...L’arcivescovo di Dublino sottolinea anche la possibilità di sviluppare l’argomento del prossimo Congresso Eucaristico Internazionale con la riflessione su alcuni temi importanti quali: la comunione con Cristo come fondamento dell’esistenza cristiana; la comunione vicendevole come fondamento dell’ecclesiologia e della missione della Chiesa; l’Eucaristia come forma di vita per i presbiteri, le famiglie cristiane, le comunità religiose; il gesto dello “spezzare il pane” come principio della solidarietà cristiana; l’Eucaristia seme di vita per il mondo della sofferenza e della fragilità; l’ecumenismo e la partecipazione all’unico pane…"
OK, la partecipazione dell'unico Pane (magari scritto maiuscolo, sapendo di cosa - o meglio di Chi - si sta parlando); ma di sicuro un conto è la Cena, e tutte le altre belle ed edificanti cose elencate, un conto è il Santo Sacrificio: che fine ha fatto? Facciamo finta di niente? Si tratta di un aspetto marginale o non riguarda forse l'intera lex orandi che diviene lex credendi? Mi chiedo: dove ci stanno portando? O meglio: dove credono di portarci?
Vi invito anche a riscontrare la differenza tra il programma sopra linkato che attraverso Rorate Caeli che abbiamo avuto l'opportunità di conoscere e il tema proposto per il Congresso precedente, tenutosi e Québec. Ricordo che il Presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali è Mons. Piero Marini. Avrete tutti presenti, immagino le liturgie "creative" da lui curate per Giovanni Paolo II... Ed ecco l'interrogativo ineludibile inquietante e anche doloroso: possiamo riconoscere, oggi in tutto questo,  la nostra Chiesa?

mercoledì 25 gennaio 2012

Alcuni vaticanisti italiani non hanno idea di cosa stanno parlando

Da Rodari a Tornielli, i nostri vaticanisti non si distinguono né per obiettività né per esattezza d'informazione e sono l'emblema della Chiesa dialogante e pressappochista del Vaticano II. Eppure sono seguiti da una gran massa di persone che continuano ad acquisire le loro informazioni, spesso distorte e preconcette. 
Riprendo da Rorate Caeli questa tempestiva segnalazione odierna:


Nel suo commento pieno di luoghi comuni sulla riunione di oggi - la " Feria Quarta ", o Mercoledì, in cui si riunisce la Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede - che avrebbe dovuto occuparsi, tra l'altro, delle ultime risposte della Fraternità San Pio X al preambolo dottrinale presentato dal cardinale Levada lo scorso settembre, come avevamo detto qualche giorno fa [ho inserito il nostro di link]. Paolo Rodari, vaticanista del quotidiano italiano Il Foglio, ha questa 'perla' :
« C’è un paradosso all’interno del pontificato in corso: il Papa che chiede a gran voce il rispetto della tradizione, fatica a trovare un accordo con “l’estrema destra” del mondo cattolico. Più facile, per lui, rinsaldare con gli anglicani, quella parte di cristianità maggiormente su posizioni liberal ».
Non esiste un "paradosso" per tutti, perché non esiste alcun accordo con chi tiene "posizioni liberali". Al contrario, gli Ordinariati personali per gli ex anglicani creati proprio per anglo-cattolici sono in genere ben lontani dalle posizioni liberali (dottrinale, ecclesiastica e liturgica) secondo quanto mantenuto dalla maggior parte della Comunione anglicana. Il Papa non è andato incontro a qualunque anglicano, ma a coloro che volevano diventare veramente romani, dando loro la struttura di cui avevano bisogno e che avevano sospirato per generazioni. Questo è il motivo per cui i cattolici di formazione tradizionale erano e sono entusiasti dell'Anglicanorum coetibus e gioiscono per ogni occasione in cui vengono accolti ex anglicani nella Chiesa, come abbiamo fatto Domenica scorsa con il Monte Calvario, nel Maryland. Sappiamo che la maggior parte di loro sono nostri alleati e nostri amici - che ci vogliono bene, e noi auguriamo loro ogni bene.

Solo i cattolici-tradizionisti hanno bisogno di struttura canonica! Poi, Rodari, Tornielli et alii vedrebbero chiaramente che c'è molto più convergenza che "paradosso" in tutto questo. Al momento, sembra chiaramente che non hanno idea di cosa stanno parlando - e scrivendo - su questi argomenti ( e di certo non è una sorpresa). [fin qui il testo di Rorate]

Effettivamente, Rodari - come spesso accade a Tornielli - non sa quello che dice, come ben a ragione afferma Rorate Caeli. Infatti:
  1. dà per scontata una pronuncia negativa da parte della Dottrina della Fede, nominando la riunione che dovrebbe essersi tenuta in Curia, ma rifacendosi esclusivamente a ciò che dice Êcone e solo in termini sommari oltre che parziali.
  2. riporta esclusivamente i termini della questione all'ermeneutica del concilio e alla documentazione allegata alla prima risposta, che - riferendosi attendibilmente alle due posizioni Ocáriz--Gleize - trova consenzienti anche i tradizionisti che non aderiscono alla Fraternità, ignorando del tutto la seconda risposta di Fellay
  3. afferma che la "palla è nelle mani di Fellay", come se la Commissione si fosse pronunciata ed in ogni caso non conosciamo in che termini. 
  4. sparare a zero nei confronti della Fraternità sembra lo sport preferito di molti e, purtroppo, lo fanno dai loro pregiudizi e senza alcuna cognizione di causa che, invece, chi ha responsabilità mediatiche, avrebbe il dovere di acquisire con maggiore obiettività se non con maggiore completezza e/o precisione.

martedì 24 gennaio 2012

Il regale splendore del Santo Volto

Dalla Milano dei Padri della Chiesa e del Card Schuster alla Milano di Castellucci

Se qualcuno mettesse, al posto dell’amabile Volto di Gesù Cristo Nostro Signore, la fotografia di Romeo Castellucci oppure quella della direttrice artistica del teatro Parenti di Milano, Andrée Ruth Shammah, scatterebbero le denunce. Nell'esecrabile spettacolo di Castellucci ad emergere sono soltanto la bruttura e il fetore, in tutti i sensi, che bene evidenziano, però, l’abisso nel quale è giunta la cultura di quell’Occidente nato dal Cristianesimo cattolico e dalla sua insuperata capacità di sublimare le grandezze classiche (filosofia greca e diritto romano). 
L’ “opera” arriva in Italia e precisamente a Milano, la città di sant’Ambrogio (339/340-397), di sant’Agostino (354-430), di san Carlo Borromeo (1538-1584), del Cardinale Schuster (1880-1954)… la città che contribuì, con le sue maestose chiese, con la sua Fede, con i suoi Padri della Chiesa a convertire il geniale John Henry Newman (1801-1890). Il Cardinale, beatificato da Benedetto XVI nel 2010, scrisse nell’autunno del 1846:
«Nella città di sant’Ambrogio uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi, ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra. E inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato, dove una volta dimoravano i Santi – c’è invece qui una ventina di chiese aperte a chi vi passi davanti, e in ciascuna di esse si trovano le loro reliquie, e il SS. Sacramento preparato per l’adoratore, anche prima che vi entri. Non v’è nulla che mi abbia mostrato in maniera così forte l’unità della Chiesa come la Presenza del suo Divin Fondatore e della sua Vita dovunque io vada – tutti i posti sono, per così dire, un unico posto. […]. Io non sono mai stato in una città che mi abbia così incantato: stare davanti alle tombe di grandi santi come san’Ambrogio e san Carlo e vedere i luoghi dove sant’Ambrogio ha respinto gli ariani, dove santa Monica montò la guardia per una notte con la “pia plebs”, come la chiama sant’Agostino, e dove lo stesso sant’Agostino venne battezzato. Le nostre vecchie chiese in Inghilterra non sono nulla quanto ad antichità rispetto a quelle di qui, e a quel tempo le ceneri dei santi sono state gettate ai quattro venti. È cosa così grande essere dove i “primordia”, la culla, per così dire, del cristianesimo…» (1).
Ci sono tanti cattolici che sono ancora «adoratori», come li definisce il Beato Newman, adoratori del Santissimo Sacramento, adoratori, anche, del Santo Volto. Due milioni di persone sono andate in pellegrinaggio a Torino nell’ultima Ostensione della Santa Sindone. Domani, 24 gennaio, in Italia, culla di Milano, culla di Roma, culla dei «primordia», inizierà l’oltraggio; ma in risposta ci saranno Sante Messe di riparazione, suppliche, Rosari, funzioni religiose… per lenire il dolore e consolare i Sacri Cuori di Gesù e di Maria Immacolata. «Gesù mio, perdonate le nostre colpe, preservateci dal fuoco dell’Inferno e portate in Cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della Vostra misericordia» così, per la recita del Santo Rosario, insegnò Nostra Signora di Fatima.

 Il Santuario del Santo Volto in Bassano Romano (VT) e il Monastero del Santo Volto in Giulianova (TE) sono retti dai monaci Benedettini Silvestrini. Una bellissima icona del Santo Volto, che ricorda perfettamente il Volto della Santa Sindone, è venerata nella chiesa di Santo Stefano Protomartire degli stessi Padri Benedettini Silvestrini a Roma. Proprio al Santo Volto è legata la vicenda di due religiosi: la beata Madre Pierina De Micheli (1890-1945), che nel silenzio e nell’umiltà più profonda, fu martire d’amore per riparare le offese recate al Signore Gesù e il servo di Dio Ildebrando Gregori (1894-1985), monaco benedettino silvestrino, che fu per un ventennio abate generale della sua congregazione e fondò le Suore Benedettine Riparatrici del Santo Volto di Nostro Signore Gesù Cristo. Nella notte del 31 maggio 1938, Madre Pierina De Micheli, suora delle Figlie dell’Immacolata Concezione di Buenos Aires, si trovava nella cappella della sua congregazione nell’Istituto di Milano, in via Elba 18. Mentre era immersa, in profonda adorazione dinanzi al Tabernacolo, le apparve in una luce sfolgorante, una Signora di celestiale bellezza. Teneva in mano, come un dono, una medaglia, da una parte era impressa l’immagine del Santo Volto di Gesù, con questa dicitura: «Illumina, Domine, vultum tuum super nos» («Fa’ splendere su di noi, Signore, la luce del tuo volto») e nell’altra era impressa un’Ostia con l’invocazione «Mane nobiscum, Domine» («Resta con noi Signore»).

 La Madonna si rivolse a Madre Pierina con queste parole: «Ascolta bene e riferisci al padre confessore che questa medaglia è un'ARMA di difesa, uno SCUDO di fortezza e un PEGNO di misericordia che Gesù vuol dare al mondo in questi tempi di sensualità e di odio contro Dio e la Chiesa. Si tendono reti diaboliche per strappare la fede dai cuori, il male dilaga. I veri apostoli sono pochi: è necessario un rimedio divino, e questo rimedio è il Volto Santo di Gesù. Tutti quelli che porteranno questa medaglia e faranno, potendo, ogni martedì una visita al Santissimo Sacramento per riparare gli oltraggi che ricevette il Volto del mio Figlio Gesù durante la Passione e che riceve ogni giorno nel Sacramento dell’Eucaristia:
  • saranno fortificati nella Fede;
  • saranno pronti a difenderla;
  • avranno le grazie per superare le difficoltà spirituali interne ed esterne;
  • saranno aiutati nei pericoli dell'anima e del corpo;
  • avranno una morte serena sotto lo sguardo sorridente del mio Divin Figlio».
 Il 21 maggio 1932 Gesù aveva detto alla beata: «Contemplando il mio Volto, le anime parteciperanno alle mie sofferenze, sentiranno il bisogno di amare e di riparare. Non è forse questa la vera devozione al mio Cuore?». Il primo martedì del 1937 Gesù le aveva ancora dichiarato che il culto del Suo Volto completava e aumentava la devozione al Suo Cuore.
Il culto della medaglia del Santo Volto ottenne l’approvazione ecclesiastica il 9 agosto 1940 con la benedizione, proprio a Milano, del Beato Cardinale Ildefonso Schuster, monaco benedettino, devotissimo del Santo Volto di Gesù, allora Arcivescovo della diocesi ambrosiana. Grande apostolo della medaglia del Santo Volto di Gesù fu anche l’Abate Ildebrando Gregori, dal 1940 padre spirituale di Madre Pierina De Micheli, il quale fece conoscere la medaglia in Italia, in America, in Asia e in Australia.

 Al regale splendore del Santo Volto si rivolse, con versi di straordinaria bellezza, il Cardinale Newman, che preannunciò, con angoscia e tremore, quella «trappola mortale» dentro la quale stiamo vivendo, ovvero nel liberalismo e nel relativismo totalizzanti, così nemici della Verità rivelata da Nostro Signore da apparire in tutta la loro blasfemia. Ecco l’orante poeta Newman:

 «Il volto del Dio incarnato ti colpirà con dolore tagliente e sottile […]
 La vista di Lui ti accenderà nel cuore
 pensieri di tenerezza, di riconoscenza, di riverenza.
 Sarai malato d’amore, e ti struggerai per Lui,
 per Lui dolce a tal punto nella sua perenne
 abnegazione da restare vilmente
 ferito da un vile come te.
 C’è una supplica nei suoi occhi tristi
 che ti toccherà nel vivo, e ti turberà.
 E odierai e detesterai te stesso: se pure
 senza peccato ora, tu sentirai d’aver peccato,
 come mai prima avevi sentito;
 e desidererai scivolare via,
 e nasconderti alla Sua vista
 e tuttavia avrai un’ardente brama di rimanere
 dinnanzi alla bellezza del Suo volto.
 E queste due pene, così in contrasto e così forti
 - l’ardere per Lui, quando Lo vedi,
 la vergogna di te al pensiero di vederLo -
 saranno il tuo più vero, più aspro purgatorio» (2).

Ha affermato il Vescovo Monsignor Luigi Negri, che si è pronunciato contro l’immondo spettacolo: «Ormai l’ideologia dominante è quella anticristiana, quella che tende all’abolizione sistematica della presenza e dell’annunzio cristiano, sentito come una anomalia che mette in crisi questa omologazione universale operata dalla mentalità laicista, consumista, istintivista […]. Sono stato molto lieto nell’apprendere che – in situazione analoga – la Chiesa francese e in particolare il capo della Conferenza episcopale francese, il cardinale di Parigi, ha proposto un gesto rigorosamente penitenziale in ordine a questa blasfemia implicando la struttura fondamentale della Chiesa. […]

Certo che […] se la Chiesa non reagisce adeguatamente in modo certamente non rancoroso, non livido, assumendo in senso uguale e contrario l’atteggiamento demenziale di questi parauomini di cultura; se non reagisce la Chiesa, allora necessariamente possono intervenire in maniera protagonistica gente o gruppi che nella Chiesa non hanno a cuore soltanto la difesa della Chiesa, ma hanno a cuore l’espressione legittima delle loro convinzioni. Allora poi non si dica che la protesta è dei tradizionalisti; la protesta è dei tradizionalisti perché la Chiesa come tale non prende una posizione, che a me sembrerebbe assolutamente necessaria». [Vedi: Corrispondenza romana ]

Spontanea sgorga implorante la supplica del salmista:
 «Rialzaci, Dio degli eserciti, 
 fa’ risplendere il tuo volto e noi saremo salvi» (3).
 Cristina Siccardi 
________________________________
 NOTE
(1) I. Biffi, Newman, ossia: "I padri mi fecero cattolico". Un profilo, Jaka Book, Milano 2009, pp. 82; 86-87.
(2) J.H. Newman, Il sogno di Geronzio, Mondadori, Milano 1998, p. 89. (3) Salmo 80, 8.

lunedì 23 gennaio 2012

Fine del liberismo ed elogio della frugalità

Pubblico questo interessante articolo di Don Curzio Nitoglia Fine del liberismo ed elogio della frugalità che ci induce a riflettere sulla temperie spirituale, politica, culturale - in una parola esistenziale - che caratterizza questo nostro tempo, indubbiamente di crisi e con forti segnali si svolta epocale: declino di una civiltà che ci ha 'portati' fin qui, della quale dobbiamo incarnare le forze vive e vitali per poter fecondare il futuro e per sperare di  non cadere nelle schiavitù ideologiche - che sono sempre dietro l'angolo e che non risparmiano neppure la Chiesa - e rimanere ben saldi nella "libertà dei figli di Dio".

È uscito recentemente un interessante libro - non condivisibile in tutto - dell’economista Serge Latouche (Per un’abbondanza frugale, Milano, Bollati & Boringhieri, 2012) il quale prende atto che la Società liberal/liberista e consumistica, sta finendo sotto i colpi sempre più duri della crisi economico/finanziaria mondiale.
Egli propone come rimedio possibile a tanto sfacelo l’unica via che si deve e si può – con un bel po’ di buona volontà – ancora percorrere: la Frugalità.

Il Liberalismo nasce dall’illusione prometeica e luciferina del “Progresso e sviluppo all’infinito”. Pio IX nella sua Enciclica Quanta cura e nel Syllabus (entrambi dell’8 dicembre 1864) aveva condannato sia l’illusione social/comunista che quella liberal/liberista, e particolarmente la loro conclusione del “Progresso all’infinito” o del “Sol dell’Avvenire”.

L’ultima ed 80ma proposizione del Syllabus condanna la proposizione secondo cui “il Papa può e deve venire a patti col Liberalismo, col Progresso e colla Modernità”, ove per “Progresso” s’intende il Progresso costante, incessante e tendente all’infinito, e, per Modernità la filosofia moderna (da Cartesio ad Hegel), che è soggettivista e relativista e distrugge la conoscenza oggettiva della realtà da parte dell’uomo (Cartesio) e il valore immutabile ed assoluto dei primi princìpi filosofici (Hegel), sociali/politici (Rousseau) e dei dogmi religiosi (Lutero). Latouche paragona il Progressismo e il Consumismo alla malattia chiamata “bulimia”. Certamente non bisogna cadere nel difetto opposto, verso la quale tende l’Autore, che è l’anoressia o “l’insano archeologismo” (come lo chiamava Pio XII), ovvero il “tribalismo” dello ‘Strutturalismo francese’ (Lévy-Strauss, Sartre, Lacan, Ricoeur), che riprende il tema del “buon selvaggio” di Jean Jacques Rousseau e lo porta alle estreme conseguenze del “Pensiero selvaggio” e dell’uomo non più “animale razionale e sociale” (Aristotele e S. Tommaso), ma “bestia istintiva e asociale” (Lévy-Strauss).

Secondo il buon senso (economia come ‘Virtù della Prudenza applicata al focolare domestico’, Aristotele/S. Tommaso) e Latouche per essere nell’abbondanza basta avere solo pochi, essenziali bisogni, che possono essere soddisfatti normalmente e da tutti. L’economista francese ammette che la vita dell’uomo (e di sua moglie) non può e non deve essere assorbita al 60% dal lavoro. Essi debbono essere presenti in se stessi, tra loro e con i figli nella famiglia, nella Società civile e nella Società religiosa, poiché l’uomo ha un’anima spirituale e deve nutrire pure e soprattutto anch’essa.

Il Consumismo liberista vive e si regge sull’insoddisfazione dell’uomo borghese o “ricco”, proprio come il Social/Comunismo che si fondava sul proletario o povero. Senza povero, che odia il ricco, e senza borghese, che si sente insoddisfatto e cerca di ingozzarsi di beni consumistici del tutto superflui, scomparirebbero il Social/Comunismo e il Liberal/Liberismo.

La “Pubblicità” è un’arma di ossessione mentale che crea bisogni inesistenti nella mente del borghese, come la “Propaganda” bolscevica creava l’odio di classe nella mente del povero. Sia il borghese liberale che il proletario socialista si sentono scontenti di ciò che sono ed hanno e desiderano essere ciò che non sono e possedere ciò che non è necessario. Essi sono perennemente frustrati. In più, non avendo la Fede, poiché sia il liberalismo che il socialismo sono materialisti e atei o agnostici, non hanno la Speranza soprannaturale che li aiuterebbe ad affrontare serenamente le difficoltà intrinseche alla vita umana.

Conclusione: bisogna liberarsi della schiavitù della legge del “mercato” di destra (Liberismo) e anche di sinistra (Socialismo), per poter tornare ad essere veramente uomo, ossia “animale razionale” che conosce e ama, e “animale sociale”, che dona, riceve e ricambia. Chi lo desidera può studiare la “Dottrina sociale della Chiesa” e specialmente l’Enciclica di Leone XIII Rerum novarum cupiditas (1891) e quella di Pio XI Quadragesimo anno (1931).
 d. CURZIO NITOGLIA
 23 gennaio 2012

sabato 21 gennaio 2012

Il Magistero “luogo teologico”

Per gentile concessione di “sì sì no no”, pubblico questo testo che - oltre a perfezionare la nostra formazione - ci soccorre proprio in questo momento di sconcerto e disorientamento determinati dalla controversa approvazione delle celebrazioni presenti nel "Direttorio Catechetico del Cammino Neocatecumenale", tuttora tra l'altro secretato, con la quale sembra si sia toccato il fondo della fumisteria ermeneutica.

Il Magistero “luogo teologico”

«La Dottrina sacra o della Fede viene annunziata dalla Chiesa poiché è divinamente rivelata e non è rivelata poiché annunziata dal Magistero della Chiesa.
Il Magistero non è la causa del carattere della divina Rivelazione annunziata dalla Chiesa, ma è solo uno strumento o un mezzo stabilito da Dio, per il quale il Rivelato viene interpretato e quindi da noi conosciuto con certezza» (A. LANG, Die Loci teologici des Melchior Cano und die dogmatischen Beweises, Monaco, 1925, p. 82).

***
Prologo
Ho già affrontato la recente DISPUTA SU TRADIZIONE E MAGISTERO per far chiarezza e correggere alcune imprecisioni
  1. in primis’ di coloro che fanno del Magistero, anche non infallibilmente assistito, un ‘Assoluto’ da credersi senza alcuna possibilità di negare l’assenso anche di fronte a due proposizioni contraddittorie[1]  e
  2. in secundis’ di coloro che annichilano il Magistero negando che sia un ‘luogo teologico’, il quale interpreta rettamente la Rivelazione, ed inoltre si permettono di criticare – senza fondamento – persino le Encicliche di PIO XII, specialmente la Divino Afflante Spiritu (1943) e addirittura la Humani generis (1950), definita comunemente “il terzo Sillabo” dopo il Syllabus di PIO IX (1864) e la Pascendi di SAN PIO X (1907)[2]. Mi sembra ora doveroso tornare sull’argomento per far maggior chiarezza in mezzo a tanta confusione che avvolge l’ambiente cattolico ed ecclesiale.
Una confutazione anticipata
Il teologo tedesco professor ALBERT LANG dell’Università di Monaco ha scritto nel 1925 un interessante libro sui ‘Luoghi teologici’ in cui confutava con 85 anni di anticipo questi due errori. Egli infatti scriveva:
  1. «La Dottrina sacra o della Fede viene annunziata dalla Chiesa perché è divinamente rivelata e non è rivelata perché annunziata dal Magistero della Chiesa» confutando così l’errore di coloro che fanno del Magistero un ‘Assoluto’, che non deve “fare i conti” con la Tradizione e la Scrittura, ma sarebbe esso stesso fonte di Rivelazione.
  2. Il teologo tedesco proseguiva: 
  3. «Il Magistero non è la causa del carattere della divina Rivelazione annunziata dalla Chiesa, ma è solo uno strumento o un mezzo stabilito da Dio, per il quale il Rivelato viene interpretato e quindi da noi conosciuto con certezza»[3]  confutando così coloro che negano al Magistero la qualità di ‘luogo teologico’, che trasmette inalterato ed interpreta correttamente il Depositum Fidei.
Teologia e Magistero
LA TEOLOGIA è la scienza che mediante la ragione illuminata dalla Fede (“sine Fide non remanet Theologia”), fondandosi sulle ‘due fonti della Rivelazione’ (Tradizione e S. Scrittura) sotto la direzione interpretativa del Magistero ecclesiastico, tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio. La ragione filosofica sviluppa tutta la fecondità del dato rivelato, giungendo a delle “Conclusioni teologiche”[4], mediante un sillogismo, che, partendo da una premessa di Fede detta ‘Maggiore’, le accosta una seconda premessa di ragione detta ‘minore’ e ne tira una ‘Conclusione’ teologica certa, che non è formalmente, ma solo virtualmente rivelata.

Padre REGINALDO GARRIGOU-LAGRANGE spiega che “la Teologia procede sotto la luce della Rivelazione divina (cfr. S. Th., I, q. 1) ed ha per ‘oggetto proprio’ Dio considerato nei suoi Misteri o nella sua Vita intima, che ci è fatto conoscere non dalla ragione naturale (come Dio Causa prima), ma dalla Fede e dalla Rivelazione come Deus sub ratione Deitatis (cfr. S. Th., I, q. 1, a. 6). Mentre il teologo in questa vita crede alla Deità obscure cognita per Fidem, il Santo in Paradiso vede la Deità clare facie ad faciem sicuti est per il Lumen gloriae, che produce la Visio beatifica. […]. La Fede è la radice della Teologia, la quale è scienza delle Verità di Fede, che essa deve approfondire, spiegare, e difendere. […]. Così se il teologo perde la Fede infusa, in lui resta solo un cadavere di Teologia, un corpo senz’anima, poiché egli non aderisce più alle Verità rivelate o di Fede, che sono i princìpi della Teologia”[5].

Monsignor ANTONIO PIOLANTI, a sua volta, scrive: «la Teologia è fondata su Verità rivelate, le quali sono contenute nella Scrittura e nella Tradizione, la cui interpretazione è affidata al vivo Magistero della Chiesa, il quale a sua volta si manifesta attraverso le definizioni dei Concili, le decisioni dei Papi, l’insegnamento comune dei Padri e dei Teologi scolastici»[6].

Il cardinal PIETRO PARENTE afferma che il Magistero è perciò “il potere conferito da Cristo alla sua Chiesa, in virtù del quale la Chiesa docente è costituita unica depositaria e autentica interprete della Rivelazione divina. […]. Secondo la dottrina cattolica la S. Scrittura e la Tradizione non sono che la fonte e la regola remota della Fede, mentre la regola prossima è il Magistero vivo della Chiesa”[7].

LA POSSIBILITÀ di una Scienza razionale della Fede è dimostrata da S. TOMMASO (S. Th., I, q. 1, a. 1) a partire dalla nostra elevazione gratuita all’ordine soprannaturale, che mediante la grazia santificante e le Virtù teologali ci ordina alla Visione beatifica di Dio visto in Cielo faccia a faccia e di cui la Teologia, che conosce Dio nel chiaro-oscuro della Fede, è solo una pallida anticipazione. S. AGOSTINO ha scritto: “La Fede salutare viene nutrita, difesa e corroborata dalla sacra Teologia” (De Trinitate, XIV, I, 3).

I “Luoghi teologici” 
DURANTE LA CRISTIANITÀ MEDIEVALE le verità di Fede si ricevevano direttamente e pacificamente dalla Chiesa. Solo col soggettivismo antropocentrico del Luteranesimo, che dichiarò la ‘sola Scrittura’ come unica fonte di Fede, la Chiesa e i teologi approfondirono la questione dei ‘Luoghi o fonti della Fede e della Teologia’. MELCHIOR CANO (+1560) ha stabilito 10 “Luoghi teologici”[8]:
  1. Luoghi propri e apodittici”: Tradizione e Scrittura (Fonti della Rivelazione), le Decisioni della Chiesa, dei Concili e dei Papi (Magistero ecclesiastico pontificio/universale, ordinario/straordinario)[9];
  2. Luoghi intrinseci e probabili”: l’insegnamento dei Padri, dei teologi scolastici;
  3. Luoghi estrinseci”: la ragione umana, la retta filosofia e la storia.
Questi ultimi tre sono “Luoghi alieni” o impropri cioè fonti ausiliarie per il lavoro teologico. I primi due sono “Luoghi fondamentali” o fonti della Rivelazione e quindi della Teologia, che si fonda sul Dato Rivelato. Gli altri cinque contribuiscono intrinsecamente alla retta interpretazione della Rivelazione.

 Il Magistero “luogo teologico”
«IL MAGISTERO ECCLESIASTICO – scrive Lang – È PROPRIO QUEL ‘LUOGO TEOLOGICO’, nel quale per disposizione divina i fedeli ed i teologi trovano in primo luogo e nel modo più immediato le Verità di Fede, perché nella Parola o nel Magistero della Chiesa la Rivelazione continua a vivere, ad agire e perviene immediatamente ai singoli. La Dottrina sacra o della Fede viene annunziata dalla Chiesa poiché è divinamente rivelata e non è rivelata poiché annunziata dal Magistero della Chiesa. Il Magistero non è la causa del carattere della divina Rivelazione annunziata dalla Chiesa, ma è solo uno strumento o un mezzo stabilito da Dio, per il quale il Rivelato viene interpretato e quindi da noi conosciuto con certezza»[10]. Perciò il Magistero ecclesiastico è il luogo, il mezzo o lo strumento in cui i fedeli e i teologi trovano le Verità di Fede. La Tradizione e la S. Scrittura non possono illuminare i fedeli se staccate dal Magistero e dalla Chiesa docente, ma devono essere presentate ed interpretate dalla Chiesa. Ma se da una parte il Magistero è lo strumento o Luogo teologico, che interpreta correttamente e tramanda incorrotta la Rivelazione, dall’altra parte non è un “Assoluto” o una sorta di “Divinità” che crea la Verità rivelata per cui ogni parola magisteriale non è un Dogma infallibile e irreformabile.

Come si fa seriamente Teologia.
S. TOMMASO spiega che “la Teologia è una scienza che si fonda sui princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore che è la scienza di Dio e dei Beati. Quindi come la musica crede ai princìpi che le sono forniti dall’aritmetica, così la Teologia crede ai princìpi rivelati da Dio” (S. Th., I, q. 1, a. 2)[11]. Perciò, commenta padre REGINALDO GARRIGOU-LAGRANGE, «il metodo della Teologia è principalmente d’autorità; infatti riceve i suoi princìpi ex auctoritate Dei revelantis; gli altri argomenti la Teologia li usa strumentalmente come il superiore usa l’inferiore»[12]. L’autorità sulla quale si fonda la Teologia è la massima: la Scienza divina rivelatrice.

IL LAVORO TEOLOGICO, spiega p. GARRIGOU-LAGRANGE, procede
  1. «raccogliendo le Verità rivelate, contenute nel Depositum Fidei, che sono la Tradizione e la Scrittura, alla luce del Magistero della Chiesa, che definisce e ci propone a credere queste medesime Verità […].
  2. La Teologia [poi] fa l’analisi dei concetti o termini delle Verità rivelate, per indicare con precisione il significato esatto ed oggettivo del soggetto e del predicato di queste Verità rivelate. Per esempio: “Verbum caro factum est” significa che “il Verbo, che è Dio, si è fatto uomo”. L’analisi è soprattutto concettuale o una definizione reale più che etimologica o grammaticale, dandoci il significato del genere e differenza specifica del soggetto e predicato della Verità di Fede.
  3. La Teologia [inoltre] difende le Verità rivelate contro gli avversari, per cui non si può predicare la Verità senza condannare l’errore […].
  4. Infine la Teologia, mediante un sillogismo esplicativo, da una formula dogmatica oscura, difficile e confusa quanto a noi (per esempio “Verbum, quod est Deus, caro factum est”) passa ad una formula più chiara e definita (per esempio “Verbum consubstantiale Patri homo factus est”). […].
  5. Questa formula dogmatica è molto più di una ‘Conclusione teologica’ o sillogismo illativo, che passa dal virtualmente rivelato ad una ‘Conclusione teologicamente certa’. Infatti il sillogismo esplicativo è l’espressione più esplicita di una stessa Verità formalmente rivelata, senza passare ad una nuova Verità virtualmente rivelata, come avviene nelle ‘Conclusioni teologiche’, dedotte per illazione o deduzione da una Verità rivelata, in cui la ‘Conclusione’ o seconda formula è una nuova verità, che è dedotta dalla precedente. Nel ragionamento esplicativo il soggetto e il predicato sono gli stessi (Verbo/Dio/carne/uomo), anche se la seconda formula è più chiara; mentre nel sillogismo deduttivo o illativo si passa da un soggetto ad un altro (per esempio: l’uomo è immortale, ora Antonio è uomo, quindi Antonio è immortale. Si è passati dal soggetto uomo ad Antonio). La ‘Conclusione teologica’ deduce da una Verità formalmente o in sé rivelata, un’altra verità non in se stessa rivelata ma solo virtualmente rivelata (per esempio “Antonio è immortale” è rivelato virtualmente nella “immortalità dell’anima umana”, che è per se stessa rivelata)»[13].
Compito della ragione
LA RAGIONE FILOSOFICA non può spiegare il mistero, ma deve dimostrare e difendere tutti gli altri argomenti che appartengono alla Teologia. Essa deve perciò difendere la Fede contro le obiezioni dei suoi avversari, spiegare i termini o le parole della Rivelazione, e infine ordinare con un sillogismo le diverse verità rivelate e dedurre da esse le ‘Conclusioni teologicamente certe’ (DB, 1839).

Padre GARRIGOU-LAGRANGE insegna che la Teologia “opera una sintesi in cui in primo luogo difende speculativamente l’autorità della divina Rivelazione contro coloro che la negano; in secondo luogo spiega e difende teoreticamente le Verità rivelate; infine o in terzo luogo ne tira delle Conclusioni teologicamente certe, procedendo dal più elevato e semplice in sé, ossia da Dio uno e trino, per giungere alle creature, e quindi studia le azioni morali umane in ordine a Dio, considerando come procedono da Dio e sono a Lui ordinate”[14]. Inoltre – prosegue l’ eminente teologo – la Teologia “fa un’analisi di tutte le nozioni dei termini della Rivelazione, spiegandone il significato esatto e difendendole dagli oppugnatori”[15]. Il teologo domenicano insiste sul fatto che compito principale del lavoro teologico non è quello di dedurre ‘Conclusioni teologiche’, ma «ciò che vi è di più importante in Teologia è la spiegazione delle stesse Verità di Fede, la loro penetrazione, il loro approfondimento. Invece le ‘Conclusioni teologiche non sono ricercate per se stesse, ma per arrivare ad una più perfetta intelligenza dei princìpi di Fede di cui esse manifestano la virtualità. […]. Tutto il lavoro teologico è ordinato principalmente allo scopo definito dal Concilio Vaticano I: “Ad una certa e fruttuosissima intelligenza dei Misteri Deo adiuvante” (DB, 1796). […]. La Teologia è veramente Fides quaerens intellectum et intellectus quaerens Fidem, […], essa è un commento alla Parola di Dio, scritta o tramandata, sulla quale attrae sempre più l’attenzione, facendo dimenticare se stessa, come S. Giovanni Battista, il quale annunziava l’Agnello di Dio, che doveva aumentare mentre lui doveva diminuire»[16].

La natura della teologia 
La natura della Teologia è ASSIEME SPECULATIVA E PRATICA o affettiva: essa è una “conoscenza amorosa di Dio”. La corrente platonica della scuola agostiniana voleva una Teologia esclusivamente amorosa. La corrente puramente aristotelica di una certa scolastica essenzialistica voleva una Teologia solamente speculativa e teoretica. S. BONAVENTURA (IV Sent., Proemium, q. 3) e S. TOMMASO (S. Th., I, q. 1, a. 4) hanno risolto la questione insegnando il primato dell’elemento speculativo ordinato, però, alla contemplazione o amore di Dio, che influisce sull’essere e l’agire di tutto l’uomo: intelletto, volontà e sensibilità.

PER COMPORRE UN ARTICOLO DI TEOLOGIA occorre quindi, nell’ordine cronologico, citare la S. Scrittura e la Tradizione e i Padri che interpretano la Scrittura in maniera unanime. Poi si cita il Magistero e quindi si dà la ragione teologica mediante un sillogismo, la cui ‘minore’ di ragione va provata con un altro sillogismo che inizia con la ‘minore’ di ragione, la quale diventa la ‘Maggiore’ del secondo sillogismo. Infine si espongono le obiezioni contro la Fede e si risponde ad esse. Questo è il procedimento che segue S. TOMMASO nella “Somma Teologica”.

INVECE nell’ordine speculativo «poiché la Teologia parte dagli Articoli di Fede quali sono proposti a credere dal Magistero della Chiesa,
  1. il teologo, prima di studiare direttamente il Dato rivelato, deve conoscere la dottrina proposta dallo stesso Magistero, ‘norma prossima’ della Fede.
  2. Con questa guida sicura affronta le due Fonti dirette della Rivelazione (Tradizione e Sacra Scrittura) e quella indiretta (i Padri ecclesiastici), ne raccoglie la dottrina dimostrandone[17] la continuità attraverso i secoli e l’omogeneità col dogma.
  3. Quindi illustra, sistema, approfondisce razionalmente il Dato rivelato, sviluppandone le virtualità»[18].
Conclusione 
Come appare chiaro dalle su riportate citazioni del Magistero, dei Padri, dei Dottori e teologi scolastici approvati,
  1. il Magistero è realmente unLuogo teologico” che interpreta la Rivelazione e la trasmette inalterata ed è ‘norma prossima’ della Fede, ma
  2. non è unAssoluto” o una specie di Divinità rivelante”, che crea la Verità rivelata, da accettarsi ad occhi chiusi.
In Teologia occorre addirittura leggere la Rivelazione alla luce del Magistero soprattutto costante o infallibile ex sese, specialmente in periodi di crisi come questa, come insegna SAN VINCENZO DA LERINO: «Quando l’errore si espande talmente da infiltrarsi in quasi tutta la Chiesa, occorre aderire a ciò che Ella ha insegnato sempre e dappertutto ed è stato creduto universalmente» (Commonitorium, III, 15). Oggi di fronte alla nouvelle théologie del Vaticano II e del post-concilio, è prudente attendere una decisione infallibile della Chiesa gerarchica e nel frattempo restare ancorati all’ insegnamento costante e tradizionale del Magistero ecclesiastico (“quod ubique, semper et ab omnibus creditum est”). Questo non è spirito di rivolta, di disobbedienza, ma vero sensus Fidei.

Quindi il Magistero, pur non essendo un “Assoluto”, ha tuttavia un ruolo di primo piano poiché è lui, e non i fedeli o i Profeti, che interpreta il significato vero della Rivelazione. In medio stat virtus, “in mezzo e al di sopra”. Tra l’errore per eccesso, che divinizza la “creatura” Magistero, e l’errore per difetto, che lo annichila negando il suo munus interpretandi, si erge in culmine – come una vetta tra due precipizi – la verità: il Magistero non è un “Assoluto”, ma ha il primato nell’ interpretazione esatta della Rivelazione, specialmente - e senza tema di errori - se vuol definire ed obbligare a credere, godendo dell’assistenza infallibile di Dio.

 Viva il Papa in quanto Papa! (anche se non è assolutamente Santo). Attenzione ai ‘falsi profeti’, che vengono vestiti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci! La Chiesa è monarchica, petrina, gerarchica, non è profetica, giovannea, carismatica e pneumatica. “Ubi Petrus ibi Ecclesia” è un assioma sempre valido, data la natura di Corpo Mistico della Chiesa (visibile e soprannaturale), e non è rimpiazzabile con “ubi Maria vel propheta ibi Ecclesia”. Infatti la Madonna è invisibile, è Assunta in Cielo, e i profeti hanno cessato la loro funzione ordinaria colla fine dell’Antica Alleanza. Quindi non si può fondare la riconoscibilità della Chiesa da parte dei fedeli su qualcosa che non si vede (Maria SS.) o su qualcosa che è straordinario nella storia sacra del Nuovo Testamento (il profetismo) a cui non è stata promessa assistenza divina “ogni giorno sino alla fine del mondo”, e soprattutto su cui Cristo non ha detto di voler fondare la Sua Chiesa: “Tu sei Pietro e su questa Pietra Io fonderò la Mia Chiesa”.
Basilius
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1) Cfr. la lettera di p. Giovanni Cavalcoli a “sì sì no no” sul sito www.riscossacristiana.org e la risposta di “sì sì no no” (15 gennaio 2012) a padre Cavalcoli (cfr. sito www.chiesaepostconcilio.com).
Quanto alla sospensione dell’assenso di fronte a certe novità del Concilio Vaticano II, non si tratta di “libero esame” luterano, ma di non poter negare il principio primo ed evidente di non-contraddizione, per il quale non si può aderire nello stesso tempo e nello stesso rapporto a due proposizioni contraddittorie. Ora quando Giovanni Paolo II scrive nella sua seconda enciclica (del 1980) “Dives in misericordia” n.° 1: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo con l’antropocentrismo, la Chiesa (conciliare, ndr) […] cerca di congiungerli […] in maniera organica e profonda. E questo è uno dei punti fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell’ultimo Concilio», ci si trova nell’impossibilità oggettiva di aderire contemporaneamente all’ insegnamento teocentrico pre-conciliare, che “contrappone antropocentrismo con teocentrismo” ed all’insegnamento del Concilio Vaticano II, che fa coincidere uomo e Dio, scivolando nell’ immanentismo panteistico. E ciò “per la contraddizion che nol consente” (Dante) e non per il “libero esame” soggettivistico, che vuole sostituire il fedele al Magistero della Chiesa.
2) Cfr. R. De Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino, Lindau, 2011; Id., Apologia della Tradizione, Torino, Lindau, 2011. Quest’ultimo libro contiene una definizione gravemente erronea del Magistero in se stesso, mentre il primo la conteneva virtualmente con le critiche infondate al Magistero di Leone XIII sul Ralliement, di Pio XI sull’Action Française e soprattutto di Pio XII sulla S. Scrittura (Divino Afflante Spiritu, 1943) e la ‘nuova teologia’ (Humani generis, 1950).
3) A. Lang, Die Loci teologici des Melchior Cano und die dogmatischen Beweises, Monaco, 1925, p. 82.
4) Cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 1; G. M. Roschini, Introductio in Sacram Theologiam, Roma, 1947; P. Parente, Teologia, Roma, 1953; A. Gardeil, Le donné revélé et la théologie, Juvisy, 1932; A. Stolz, Introductio in sacram Theologiam, Friburgo, 1941.
5) La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, pp. 69-71. Si può, quindi tranquillamente affermare che i teologi neo-modernisti condannati dalla Humani generis di Pio XII (1950) e chiamati nel 1960 come “periti” al Concilio Vaticano II (de Lubac, Congar, Schillebeechx, Chenu, Rahner, Daniélou, von Balthasar, Küng, Metz), non erano veri teologi, ma cadaveri di teologi o teologi puramente materiali, senza Fede cattolico-romana, ma imbevuti dell’eresia neo-modernistica, che sostituisce la nouvelle théologie alla Teologia tradizionale e la “fede” soggettiva nel dogma in perpetua evoluzione eterogenea, sostanziale ed intrinseca al Dogma oggettivo ed immutabile sostanzialmente anche nel suo sviluppo omogeneo (cfr. F. Marin-Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, Friburgo, 1924).
6) Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 246.
7) Dizionario di Teologia dommatica, cit., pp. 249-250.
8) M. Cano, De Locis tehologicis, Roma, ed. T. Cucchi, 1900.
9) Cfr. R. Garrigou-Lagrange De Revelatione, Roma, Ferrari, II ed., 1921, I vol., p. 36. Le decisioni del Magistero sono apodittiche solo quando è assistito infallibilmente, avendo voluto definire ed obbligare a credere una Verità come rivelata per la salvezza eterna.
10) A. Lang, Die Loci teologici des Melchior Cano und die dogmatischen Beweises, Monaco, 1925, p. 82. 11) Cfr. S. Th., I, q. 1, a. 8, ad 2.
12) De Revelatione, Roma, Ferrari, II ed., 1921, I vol., p. 35.
13) La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, pp. 72-75. Secondo p. Garrigou-Lagrange le ‘Conclusioni teologiche’ non sono definibili come dogmi di Fede, mentre per Marin-Sola esse sono definibili come Verità di Fede. Per cui chi nega una ‘Conclusione teologica’ è reputato condannabile dalla Chiesa come ‘eretico’ secondo Marin-Sola; mentre per Garrigou-Lagrange solo come “teologicamente erroneo”.
14) De Revelatione, cit., pp. 37-38. 
15) De Revelatione, cit., p. 38; cfr. anche Pio XI, Costituzione Apostolica Deus scientiarum Dominus, 1931. 
16) La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, pp. 76-78 
17) Come si vede, quando mons. Brunero Gherardini (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Id., Tradidi quod et accepi. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010; Id., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011; Id., Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Torino, Lindau, 2011) dice che la “ermeneutica della continuità” tra Concilio Vaticano II e Tradizione della Chiesa, oltre ad essere affermata, va dimostrata, si trova pienamente in linea con la sana Teologia.
18) P. Parente, voce “Teologia”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1953, vol. XI, col. 1959.
19) La costanza dell’insegnamento magisteriale lo rende infallibile (cfr. Pio IX, Tuas libenter, 1863).

venerdì 20 gennaio 2012

Ratzinger, il Papa riformista secondo Gilles Routhier by Magister

Magister nel suo articolo del 19 scorso ricorda che Benedetto XVI è tornato a insistere sulla necessità di una "giusta ermeneutica" del Vaticano II, nell'indire un Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell'apertura dell'evento che ha segnato una evoluzione - o una involuzione - a seconda dei punti di vista - nella vita della Chiesa. Ci darà materia da discutere anche la relativa Nota con le indicazioni pastorali della Dottrina della Fede.

La corretta comprensione del Concilio – precisano le istruzioni per l'Anno della fede – non è la cosiddetta "ermeneutica della discontinuità e della rottura", ma quella che lo stesso Benedetto XVI ha definito "l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa". La definizione è ripresa dal memorabile discorso tenuto dal papa alla curia romana il 22 dicembre 2005, all'epoca interpretato come confutazione della concezione progressista del Vaticano II come rottura col passato e "nuovo inizio" per la Chiesa.

 È la "riforma", secondo la sottolineatura di Magister, la chiave di interpretazione del Concilio Vaticano II e dell'evoluzione del magistero, "nella continuità del soggetto Chiesa". È ciò, egli dice, che Lefebvre e i tradizionalisti non hanno mai voluto accettare. E presenta quindi un ampio saggio di Gilles Routhier, che ricostruisce il passato e il presente della controversia su "La Rivista del Clero Italiano", edita da Vita & Pensiero, ripercorrendo l'intero tragitto della controversia tra Roma e i lefebvriani e concludendo che sia l'ermeneutica "della discontinuità e della rottura", sia quella "della continuità", propugnate entrambe a fasi alterne dai lefebvriani e da altre correnti tradizionaliste, restano invincibilmente distanti dall'ermeneutica "della riforma" proposta da Benedetto XVI, con la sua concezione dinamica della tradizione. Talmente dinamica da approvare - proprio oggi è una "Dies nigro notanda lapillo" - perfino i Direttori neocatecumenali, che sono e resteranno segreti. Ciò che ne è conosciuto, tutto è tranne che cattolico.

Pubblico di seguito una riflessione di Giampaolo - che ringrazio scusandomi per la libertà di riprendere il suo testo - pescata su Messa in Latino che pure ha ripreso l'argomento, perché ne condivido le argomentazioni e la credo degna di esser messa in buona evidenza e utile per tutti, sperando che dia il "la" ad ulteriori approfondimenti, in attesa anche che io riesca a leggere per intero le due puntate del saggio, visto che ho dato solo una scorsa all'estratto pubblicato da Magister.

Testo interessante, conviene scaricarsi i due pdf dal sito della Rivista del Clero Italiano, e leggerli nella loro interezza. Sono del resto temi che abbiamo affrontato largamente anche su queste pagine. Si dice sostanzialmente che la celebre formula adoperata dal Papa dell’ermeneutica della riforma, piuttosto che della continuità come per lo più si persiste a dire, sia stata concepita per interloquire più con i tradizionalisti e segnatamente con i lefebvriani che non con i progressisti.

Per sostenere questa tesi l’Autore traccia una sorta di storia di questo “conflitto” tra diverse ermeneutiche, notando come i diversi tentativi di sviluppare questi approcci siano a tutt’oggi in difetto rispetto a quanto sostenuto illo tempore dal Santo Padre. Curiosamente l’opera di Dom Valuet, pur definita monumentale (penso più per l’estensione che per il contenuto, visto quale ne è poi il giudizio), viene poi rubricata tra le opere che hanno «l’obiettivo di affermare che, alla fine, il Concilio non ha detto altro che quello che già si sapeva», sfumando così il portato di “novità” in Esso presente. E sempre più curiosamente lega autori come il succitato Dom Valuet con il Nostro Mons. Gherardini, tacciato di “opposizione dolce” al Concilio, poiché entrambi avallerebbero, ciascuno a proprio modo, un’ermeneutica della continuità, anziché quella della riforma.

In conclusione l’Autore rivendica una più completa nozione di Tradizione, che farebbe difetto a tutti gli oltranzisti, secondo la quale vi sarebbe implicita una certa misura di dinamica, tale appunto da invocare il concetto di riforma, certo fedele ai principi, ma con margini di mutamento quanto alla loro applicazione.

Fino a qui nulla di nuovo, stupisce però veder rubricati autori come Mons. Gherardini tra quelli che avrebbero una nozione povera di Tradizione, avendo Questi dedicato ponderose ed acute pubblicazioni sull’argomento, testi nei quali si spiega ampiamente quanto appunto non esista una Tradizione che sia la semplice ripetizione del depositum fidei. Continuare a sostenere che il variegato mondo “tradizionalista” si attesterebbe su di una posizione oltranzista, arroccata su di una concezione fissista di Tradizione, significa non conoscere ciò di cui si parla, ed evitare la questione reale. Nessuno infatti, senz’altro non Mons. Brunero, ha mai avallato una siffatta concezione, ciò nonostante non vede come proprio i principi possano essere detti immutati da alcuni testi conciliari.

Altro punto importante da mettere a fuoco è come, pur nell’insufficienza dell’analisi del concetto di Tradizione operata dall’Autore, venga però riconosciuto il fatto che l’ermeneutica della riforma possa esistere solo a partire dal «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». Qui Routhier converge, paradossalmente e pur se con segno opposto, a quanto detto dal Reverendo Gleize, entrambi cioè ravvedono nel soggetto-Chiesa la possibilità di conciliare l’ultimo Concilio con la Tradizione: è nella Chiesa intesa come soggetto del Magistero che si può includere la novità del dettato conciliare, nel senso che Chi parla è lo stesso interlocutore di sempre, e garantirebbe così anche ciò che dice. Credo non occorra spendere molte parole per spiegare che una siffatta ecclesiologia sia tutto meno che tradizionale, checché ne voglia dire il Nostro autore.

Dal testo dell'articolo dubito che l'Autore abbia letto sia la "monumentale" tesi di Dom Valuet che i testi di mons. Gherardini (di quest'ultimo riporta anche il titolo errato). In effetti anche a me suona quanto meno dubbio che in tre mila pagine uno studioso si affatichi a dire che nihil sub sole novi. Così come del resto è improprio dire che Mons. Gherardini sia un fautore della cosiddetta ermeneutica della continuità, che invero il Presule auspica venga dimostrata e dunque certo non si può dire la dia per accertata.

Mi trovo poi sempre un po’ in imbarazzo quando leggo l’uso, ma più propriamente l’abuso, di categorie filosofiche moderne per condurre lavori di teologia. Nella fattispecie tutto l’articolo si impegna nell’utilizzo corretto della giusta ermeneutica da applicare al Concilio. Ma la nozione stessa di ermeneutica, data così per scontata, tanto da non spendervi una parola, è quanto meno problematica e carica di possibilità di fraintendimento nelle quali si va regolarmente a cadere. Di fatto con ermeneutica ci si riferisce in questi studi a quella gadameriana, che tutto è men che cattolica, e massimamente gravata di quella tabe moderna che è lo storicismo. Ed è fatale che così facendo si pregiudichi tutto il lavoro. Cordialità

giovedì 19 gennaio 2012

Brunero Gherardini: LITURGIA, cioè?


Ricevo da parte di Mons. Gherardini, condividendo il suo desiderio che "l’etere ne sia presto ripieno", questo articolo sulla Liturgia, fonte e culmine della nostra Fede, che non è altro che "la" preghiera ufficiale della Chiesa, il "Dogma pregato" così come il Signore l'ha consegnato ai suoi Apostoli: la "Santa sinassi" come essi l'hanno vissuta e trasmessa, giuntaci intatta nei secoli e da noi custodita come tesoro prezioso non fatto da mano umana. Ius divinum, prima ancora che Azione teandrica del Signore.

Aggiungo a questa premessa solo alcuni dati essenziali che riguardano la mirabile 'forma' usus antiquior. Ad essa molte anime credenti, lasciandone intatte le linee portanti, hanno solo apportato aggiunte marginali dettate dalla devozione sviluppatasi e consolidatasi nei secoli. San Gregorio Magno ha dato il maggior contributo, adoperandosi per l'unità liturgica e il suo perfezionamento. Fu l'ultimo ad intervenire sulle parti essenziali della Messa, modellate sul libro gelasiano che a sua volta dipende dalla collezione leonina. Le preghiere del nostro Canone sono nel trattato De Sacramentis. Ne troviamo riferimenti nel IV secolo. Col Concilio di Trento si è provveduto alla revisione dei Messali - giungendo al Messale di S. Pio V -, ma si è lasciata inalterata la forma della Messa. Del resto l'uniformità stessa che nel campo liturgico si riscontra presso le Comunità cristiane dei primi due secoli, suppone un principio d'autorità, un metodo d'azione, cioè una organizzazione primitiva che dovette far capo più che agli Apostoli a Cristo medesimo. Tutto questo non potrà mai essere né ignorato né sottovalutato.



Nella tormentata atmosfera del cinquantennio postconciliare, qualche sprazzo di luce ogni tanto s’è fatto vedere, se pur sempre accompagnato da inevitabili zone d’ombra. Era la luce accesa già dal grande Pontefice Pio XII, quando, per rimetter in sesto lo sbilanciato movimento liturgico che stava uscendo dal suo binario, promulgò l’enciclica Mediator Dei (20 nov. 1947)[1]. Lo sbilanciamento principale, accanto ad altri di non secondaria pericolosità, si moveva in direzione del c. d. sacerdozio comune o universale. Guarda caso, ha continuato a muoversi nella medesima direzione in tutto il predetto cinquantennio. Pio XII aveva chiaramente indicato i limiti d’un sacerdozio che è, sì, di tutt’i battezzati, non però tale da neutralizzar il sacerdozio ministeriale, come se Cristo nell’ultima Cena avesse concesso a tutt’i suoi seguaci, indistintamente, il proprio “munus” sacerdotale[2]. Poco dopo, lo stesso Vaticano II confermò tanto la dottrina del sacerdozio comune[3], quanto quella del sacerdozio ministeriale[4] e dichiarò d’ambedue l’ordinazione reciproca avendo parte l’uno e l’altro “all’unico sacerdozio di Cristo”. Tuttavia si premurò di stabilir inconfondibilmente che “il sacerdozio comune dei fedeli ed il sacerdozio ministeriale o gerarchico […] differiscono essenzialmente e non solo di grado”[5].

Non si può dire che una tale disposizione sia stata recepita con grande entusiasmo ed altrettanta fedeltà. Si è arrivati al limite d’un clericalismo paradossale, ribaltato, ovvero laicale, con tutt’i difetti, e talvolta anche più pronunciati, di quello dei preti. Ricordo con quanta convinta fermezza la superiora d’un monastero della Foresta Nera, dov’ero ospite negli anni immediatamente postconciliari, ad una mia osservazione rispose: “Sì, però noi tutte concelebriamo (mitfeiern)”. Lo sbilanciamento non è venuto meno col passare degli anni, anche in conseguenza del rarefarsi delle ordinazioni presbiterali e d’una presa di coscienza, oltre che d’una sempre più massiccia presenza in ambito ecclesiale da parte del mondo laicale.

Ho accennato a zone d’ombra: quella del sacerdozio comune non è l’unica, altre essendosi ad essa congiunte per avvolger la vita e l’attività d’una comunità cristiana nel buio d’una notte fonda, dove il prete spesso non è neanche in grado di star a guardare, come le stelle d’un famoso romanzo.

Eppure, anche nel buio di codesta notte il fulgore della bellezza e dell’armonia, come la misteriosa stella dei Magi, è riuscito, se non ad avvampare, a farsi almeno notare: il fulgore della sacra Liturgia. Fulgore tuttora offuscato da una riforma slegata dalla storia e da esigenze pratiche, della quale nove su dieci invocan oggi la controriforma. Mortificato da una sfrenata creatività e teatralità soggettiva a danno della sacralità dell’azione sacra. Soffocato da una legislazione che parve esaltarsi nel decretar o consentire la distruzione sistematica d’altari, balaustre, pulpiti e di quanto fosse giudicato d’impedimento alla comunicazione della comunità in linea orizzontale[6]. Quel fulgore si sprigionò, sia pur timidamente, nel momento stesso in cui fervevano, avvicendandosi, le iniziative per l’applicazione del Vaticano II e della successiva riforma liturgica: mentre questa concorreva all’autodemolizione della Chiesa, prendeva consistenza un’autoconsapevolezza liturgica che via via lasciava il segno.

Romano Amerio prendeva netta posizione contro “l’opera più imponente, più visibile, più universale e più efficace del Vaticano II”, la riforma liturgica, che definiva contraddittoria perfino rispetto “ai testi della grande assemblea”[7]. Klaus Gamber riportava all’attenzione dei Pastori, dei teologi e dello stesso popolo di Dio l’esigenza ineludibile di rivedere le decisioni ufficiali circa la costruzione dei luoghi di culto, il loro orientamento e quello dell’altare, nonché del celebrante durante il sacro rito[8]. Sull’argomento prendeva posizione anche il grande Joseph A. Jungmann, il noto autore di Missarum Sollemnia[9], mentre Manlio Sodi curava l’edizione dei sei libri della riforma tridentina[10], tra i quali, in collaborazione con A. M. Triacca, il glorioso Missale Romanum[11].

Da parte sua la Fraternità sacerdotale san Pio X, sia pur dalla scomoda posizione di voce “a latere” e priva d’ufficiale riconoscimento, continuava la sua testimonianza a favore della Tradizione con particolare accentuazione di quella liturgica. Altri scritti, non certo a valanga ma nemmeno tanto rari, si rivelavano ineccepibili tanto sul piano del riferimento alle fonti e dell’evoluzione storica, quanto su quello del valore teologico e del rapporto fra Liturgia e Fede.

I guizzi di codesto fulgore, ora più insistenti ora appena percepibili, mai però sotterranei, hanno accompagnato la lunga interminabile insopportabile fase della ricezione ed ermeneutica del Vaticano II. Nel 2007, però, un evento eccezionale: Benedetto XVI, con il motuproprioSummorum Pontificum”[12], riconobbe come mai abrogato l’antico rito romano della c. d. Messa tridentina, promulgò norme giuridico-liturgiche perché esso potesse liberamente celebrarsi con l’uso del Messale Romano approvato nel 1962 da Giovanni XXIII e dispose l’entrata in vigore di tali disposizioni il 14 settembre di quel medesimo 2007. Nel 1984, con la “Quattuor abhinc annos” di Giovanni Paolo II, eran già state prese alcune decisioni a favore di chi avesse voluto celebrare l’Eucaristia con il rito antico: tali decisioni però vennero da non pochi ignorate e da molti, anche vescovi, osteggiate. Sembrava che la liturgia in vigore da secoli fino al 1970 fosse diventata improvvisamente blasfema; la si boicottava, la si spregiava, la si condannava[13]. Alla testa dell’indecente ed immorale contestazione, una buona parte dell’episcopato. Alcuni ecclesiastici non avevan alcun ritegno nel dire di no alla legittima domanda della Messa tradizionale ed a spalancare le porte delle loro chiese a protestanti e musulmani: “Cosiffatto è il guazzabuglio del cuore umano”!

A chi fosse rimasto sorpreso dal cioè del mio titolo, la scomposta reazione alle disposizioni suddette dovrebbe neutralizzar ogni sorpresa. Ed altrettanto il velleitario presenzialismo di quei tuttologi che si buttan a capofitto dovunque avvertono qualche stormir di fronda, trinciando giudizi a destra ed a sinistra, come se tutto dovesse passar al vaglio del loro si o del loro no. Costoro, non potendo ignorar il dibattito sulla Liturgia, ne trattarono e ne trattano dall’altezza della loro insipienza. Quando leggo che “la celebrazione è presenza e azione di Cristo che si attualizzano nei partecipanti all’azione liturgica”, non posso reagire che con un cioè?, e confessare che non ci capisco un’acca, convinto come sono che Cristo si fa presente sacramentalmente nell’azione liturgica e non nei partecipanti alla medesima. Del pari rispondo con un cioè? a chi mi dice che “riti preghiere musiche e canti debbono iconizzare l’invisibile presenza di Cristo attraverso l’azione dello Spirito Santo”: se l’invisibile diventa icona, cessa d’esser invisibile. Chi poi dichiara che “l’attuazione dell’agire di Cristo nella celebrazione è espressione della sua presenza in mezzo a noi” merita lo stesso cioè?, perché mi ricorda l’Odo Casel non della sua “Mysterientheologie” che ha positivamente rivoluzionato lo stesso modo di parlar in termini liturgici, ma d’alcuni suoi aspetti collaterali contestabili e contestati, come la presenza di Cristo che il rito riproporrebbe secondo tutte le sue circostanze di tempo e di luogo: tali circostanze circoscrivon una persona e le sue azioni in un determinato ubi et quando, senza possibilità – se non quella sacramentale, dovuta ad una disposizione dello stesso Cristo e a ciò che san Tommaso intende con l’espressione “virtus fluens Christi”– di ripresentarsi hic et nunc.

Purtroppo il cioè? affiora anche dalle conseguenze del motuproprio “Summorum Pontificum”. Voleva avviare una pace liturgica ed ha – per colpa dei ribelli – incentivato la guerra. I due riti, impropriamente definiti ordinario e straordinario, son di per sé irriducibili: il loro unico punto di convergenza è la transustanziazione, sempre che i moderni teologi ci credan ancora e non le preferiscano la transfinalizzazione o la transignificazione. Per il resto son due ordinamenti l’uno lontano dall’altro. Non c’è corrispondenza nel calendario, non nelle memorie e nelle feste dei Santi; perfino quelle di N.S. Gesù Cristo e della Madonna son, in varie circostanze, diversamente dislocate. Abissale è la differenza delle antifone alle Lodi ed ai Vespri. La divisione dei tempi liturgici avviene secondo un rito, il nuovo, lungo un intero triennio; secondo l’altro, l’antico, in un unico anno. La stessa denominazione dei tempi è cambiata: un giovane prete oggi non sa neanche che cosa fosse la Settuagesima, o la Sessagesima e la Quinquagesima, combaciando i due ordinamenti nella sola Quaresima. Se poi l’analisi si sposta sul versante linguistico e canoro, si rizzan i capelli anche a chi ne è privo. Le orazioni sono espresse, oggi, o in un latino da quinta ginnasiale o in un volgare che talvolta più volgare non si può. Due Chiese? Certamente no, ma l’impressione è quella. “Anfibologia”, direbbe Amerio.

Per toglier ogni giustificato motivo al cioè? il Santo Padre potrebbe portar a termine l’opera iniziata con il suo “Summorum Pontificum”: coordinando gli attuali due riti, in maniera che l’uno corrisponda pienamente all’altro, rimanendo ovviamente ambedue quel che sono: un rito nuovo ed uno tradizionale.
Brunero Gherardini
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1) In AAS 39 (1947) 528ss.
2) Ibidem p. 553.
3) AA 3: “I laici vengon consacrati per formar un sacerdozio regale ed una nazione santa (1Ptr 2,4-10), onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e render ovunque testimonianza a Cristo”.
4) Si veda LG 20, 26, 41; CD 28; PO 5, 7, 8, 10-11, 16; OT 12.
5) LG 10.
6) E’ da poco apparso, tradotto e pubblicato dalle Suore Francescane dell’Immacolata di Città di Castello, un opuscoletto di M. Davies (1936-2004), L’Altare Cattolico, (pro manuscripto) Città di Castello 2011. L’Autore, un convertito dall’anglicanesimo e con lo stupore un po’ indignato tipico del convertito, documenta e lamenta la detta distruzione.
7) AMERIO R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo, a c. di E. M. Radaelli, Lindau, Torino 2009, p. 543-579
8) GAMBER K., Ritus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, (SPLi 4), Regensburg 1972; ID., Liturgie und Kirchenbau. Studien zur Geschichte der Meßfeier und des Gotteshauses in der Frühzeit, (SPLi 6), Regensburg 1976; ID., Zum Herrn hin! Fragen um Kirchenbau und Gebet nach Osten, (BSPLi 18), Regensburg 1987 (19942). Su questi medesimi argomenti e su quello più generico della sacra Liturgia in quanto tale nel postconcilio hanno scritto decine e decine d’Autori, fra i quali importantissimi LANG U. M., Conversi ad Dominum. Zu Geschichte und Theologie der christlichen Gebetsrichtung, Johannes Verlag, Friburgo 2003; RATZINGER J., Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Friburgo 1981 (19933); ID., Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, Friburgo 2000; ID., Theologie der Liturgie, in “FKTh“ 18 (2002) 1-13; ID., Der Geist der Liturgie oder die Treue zum Konzil, in LJ 52 (2002) 111-115,
9) JUNGMANN J. A., Der neue Altar, in “Der Seelsorger” 37 (1967) 374-381; ID., Messe im Gottesvolk. Ein nachkonzialiarer Durchblick durch Missarumn Sollemnia, Friburgo 1970.
10) Libreria editrice vaticana, 1997-2005.
11) Ivi, 1998.
12) In AAS 99 82007) 777-781
13) Si vedan al riguardo le lucide parole con cui, nel 2001, il card. J. Ratzinger descriveva una così assurda situazione: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, p. 379-381

martedì 17 gennaio 2012

Santa Sede - FSSPX. La seconda risposta di Mons. Fellay

Riporto integralmente l'articolo, pubblicato oggi da Tornielli su Vatican Insider, nel quale viene illustrato lo status questionis ancora interlocutorio, sulla regolarizzazione canonica della Fraternità di San Pio X.

Come si era ben intuito il focus della questione era sulla "Professione di Fede" che include anche le questioni controverse, messe in discussione non solo dalla Fraternità, ma da tutti coloro che si riconoscono cattolici fedeli al 'Depositum fidei' Apostolico trasmesso dalla Tradizione perenne. I punti in discussione, infatti, o per la loro ambiguità o per la loro difformità con la Tradizione, pur costituendo Magistero autentico, non appartengono al Magistero infallibile che, solo, richiede «religioso ossequio della volontà e dell’intelletto».

Si è rivelata quindi esatta l'intuizione che tutto si giocasse sull'asse delle due diverse interpretazioni Ocáriz--Gleize poste sul tappeto [vedi anche - e anche]; ma ogni decisione dovrebbe essere nelle mani del Papa. In fondo le critiche sui punti controversi, finché non interverrà una chiarificazione definitoria che solo il Papa può dare, sono le stesse di ogni Cattolico Tradizionista.

Il fatto che - come ricorda Tornielli - il Papa (discorso alla Curia del 2005) ha insistito sulla necessità di interpretare il Vaticano II secondo l’ermeneutica della «riforma» nella «continuità», non cambia i termini del discorso e non risolve i problemi alla radice, dal momento che si tratta di una proclamazione senza alcuna dimostrazione.

Avevamo già letto e condiviso che il Magistero che si è presa l'abitudine di qualificare "autentico", cioè magistero non infallibile, secondo una certa linea curiale in realtà non è discutibile. Esiste certamente un diritto di interpretazione, ma a condizione di dire che è in continuità col magistero precedente. In breve, pur non essendo infallibile, tuttavia lo è. Di per sé è assurdo (a cosa serve la distinzione: infallibile non discutibile / non infallibile riformabile?).

Se malauguratamente - in questi tempi di totale anarchia - dovesse venire applicata l'opinione sostenuta da Levada e Ocáriz, ciò rappresenterebbe una vera tirannia intellettuale negli ambiti della teologia.

Non possiamo in questa temperie distogliere l'attenzione anche da ciò che sta accadendo in questi giorni a proposito di un certo movimento, che appare inquietante oltre che desolante. Che il Signore non voglia sottoporre la sua Chiesa ad una prova ancora più dura...

 Andrea Tornielli. La seconda risposta di Mons. Fellay
Un primo testo era giunto Oltretevere in dicembre, ma era stato considerato inadeguato: così la Santa Sede ha sollecitato un nuovo documento, appena arrivato, che ora viene esaminato 
La risposta vera e propria del superiore della Fraternità San Pio X Bernard Fellay, formulata secondo le richieste della Santa Sede, è arrivata in Vaticano soltanto la settimana scorsa. La prima risposta, giunta Oltretevere lo scorso 21 dicembre, non era stata considerata adeguata da parte delle autorità vaticane, che hanno invitato il responsabile dei lefebvriani di riformularla, considerando quel primo invio più una «documentazione» che una risposta. Il vescovo Fellay ha dunque preparato un secondo testo, più stringato, relativo al preambolo dottrinale che la Congregazione per la dottrina della fede gli aveva consegnato lo scorso settembre. Questo secondo testo viene ora attentamente esaminato dai consultori della Commissione Ecclesia Dei che seguono il dossier lefebrviani e ci potrebbero volere del tempo.

La prossima settimana si riunisce nel palazzo del Sant’Uffizio la plenaria della Congregazione per la dottrina della fede. All’ordine del giorno c’è la possibilità di una comunicazione riguardante i rapporti con la Fraternità San Pio X, ma è difficile che la riunione possa essere decisiva, in quanto la seconda risposta di Fellay, che accetta delle parti del preambolo dottrinale mettendone in discussione altre, richiede tempo per essere esaminata. È probabile che una decisione più precisa sul da farsi venga presa non ora, ma in febbraio, nel corso di una «Feria IV», come vengono definite le congregazioni ordinarie dell’ex Sant’Uffizio.

Come si ricorderà, nel preambolo dottrinale proposto dalla Commissione Ecclesia Dei presieduta dal cardinale William Levada e guidata da monsignor Guido Pozzo, si chiedeva ai lefebvriani di sottoscrivere la professione di fede, ciò che è considerato indispensabile per essere cattolici. La professione prevede tre gradi diversi di assenso richiesti e distingue tra verità rivelate, dichiarazioni dogmatiche e magistero ordinario. A proposito di quest’ultimo, afferma che il cattolico è chiamato ad assicurare un «religioso ossequio della volontà e dell’intelletto» agli insegnamenti che il Papa e il collegio dei vescovi «propongono quando esercitano il loro magistero autentico», anche se non sono proclamati in modo dogmatico, come nel caso della maggior parte dei documenti del magistero.

Nel consegnare il preambolo, le autorità vaticane avevano precisato che questo testo non veniva reso pubblico perché non ancora definitivo, cioè passibile di cambiamenti – non sostanziali – o di eventuali integrazioni. Da settembre a dicembre si sono rincorse voci sul dissenso interno alla Fraternità, da parte di coloro che non ritengono possibile un accordo con Roma. Lo stesso Fellay aveva parlato più volte dell’argomento. In un primo momento aveva affermato che il preambolo rappresenta un grande passo avanti. Poi, dopo un’importante riunione con i capi dei distretti della Fraternità, pur ribadendo l’importanza del dialogo intrapreso, aveva affermato di non poter accogliere il preambolo così com’è, aggiungendo: «Se Roma ci chiede di accettare in ogni caso, noi non possiamo». Fellay ha quindi inviato la prima risposta, che non è stata considerata tale dal Vaticano. E ora ha spedito la seconda.

Il fatto che la nuova e più adeguata risposta – che è stata considerata nei sacri palazzi «un passo in avanti» - abbia bisogno di essere attentamente studiata e approfondita, sta a significare che non è né un «sì» né un «no» definitivo al testo del preambolo. Ma accoglie alcune parti del testo vaticano, esprimendo invece riserve su altre. E soprattutto chiede ulteriori chiarificazioni e integrazioni. I lefebvriani non intendono infatti dare il loro assenso ai testi conciliari che riguardano la collegialità, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso e la libertà religiosa perché li ritengono in contrasto con la tradizione. Proprio il concetto di tradizione, «Traditio», e il suo valore, rappresenta il punto nodale del dibattito che ha caratterizzato i colloqui tra la Fraternità e la Santa Sede. I lefebvriani criticano alcuni passaggi conciliari ritenendoli in contrasto con la tradizione della Chiesa.

Da cardinale Joseph Ratzinger aveva più volte insistito sulla necessità di non considerare il Concilio come un «superdogma». Da Papa, Benedetto XVI, nell’ormai famoso discorso alla curia romana del dicembre 2005, ha insistito sulla necessità di interpretare il Vaticano II secondo l’ermeneutica della «riforma» nella «continuità». Il Catechismo della Chiesa cattolica, di cui nel 2012 si celebra il ventennale con uno speciale Anno della Fede, ha già proposto questa chiave interpretativa su alcuni dei punti che i lefebvriani considerano controversi.

È ancora prematuro ipotizzare quale sarà lo sbocco finale di questo dialogo che in questa fase procede a distanza e per iscritto. Ma nessuna parola definitiva è ancora stata detta: il Papa vuole fare tutto il possibile per sanare la frattura creatasi con i lefebvriani, e Fellay questo lo sa bene.