Pagine fisse in evidenza

lunedì 30 aprile 2012

Santa Sede FSSPX. Sempre dalla Francia: IMPORTANTE editoriale sulle discussioni

Sempre dalla Francia: Forum Fecit, di orientamento tradizionalista, pubblica oggi questo interessante Editoriale da Seignadou [Bollettino del priorato Saint-Joseph-des-Carmes] di maggio 2012, di Don Michel SIMOULIN, cappellano di Fanjeaux. Importante perché rievoca dati storici e puntualizza con chiarezza i termini dell'accaduto del 1988, che distingue nettamente dalla situazione attuale e nel contempo dimostra anche i dubbi e le perplessità sorti in seno alla Fraternità che cerca evidentemente di fugare.

"Non so quale sarà la situazione al momento della pubblicazione di questo Seignadou, ma penso non sia inutile riflettere insieme su quanto sta accadendo. Non parlo della buffonata « repubblicana » che ci stordisce, ma delle nostre relazioni con Roma. Recentemente mi è stato sottoposto un testo arricchito da questa domanda : « Quando dunque torneremo ai fondamentali della Fraternità ? Quando avremo l'umiltà di rispettare l'eredità del nostro fondatore ? » Credo di conoscere un po' la Fraternità – della quale sono membro da 35 anni – e di avere dunque il diritto di ricordare a tutti che i nostri « fondamentali » sono impressi a lettere d'oro nei nostri statuti : « Lo scopo della Fraternità è il sacerdozio e tutto ciò che vi si riferisce e nient'altro che ciò che lo concerne, cioè tale e quale l'ha voluto Nostro Signore Gesù Cristo quando ha detto: Fate questo in memoria di me. » Questa è l'eredità del nostro fondatore, questi sono i nostri « fondamentali » ; non ne abbiamo altri, e non vogliamo averne altri. La Fraternità non è un'armata schierata contro Roma, ma un'armata formata per la Chiesa.

In seguito, si è accennato al rifiuto di Mons. Lefebvre di proseguire sulla via di un accordo nel1988. E mi si cita Mons. Lefebvre : « Con il protocollo del 5 maggio [1988] saremmo subito finiti. Non saremmo durati un anno... » tutto ciò, sicuramente, per metterci in guardia ed invitarci a rifiutare ogni proposta romana, cosa che dovremmo fare « sotto pena di morte ».
Mi è arrivata ancora un'altra eco: « A Roma accadono cose gravi, gravissime... ma non posso dirvi di più ! » Ecco dunque che ho fatto un passo avanti!

Dunque, tentiamo di ragionare. Perciò sara bene ricordare gli avvenimenti del 1988. Dopo aver firmato un accordo il 5 maggio (che non era tanto un accordo quanto un testo imperfetto e perfino dannoso, che non ha lasciato dormire in pace Mons. Lefebvre), Monsignore il mattino del 6 maggio ha scritto una lettera al cardinal Ratzinger, non per rimangiarsi la sua firma (« Ieri, è con vera soddisfazione che ho posto la mia firma al protocollo elaborato nei giorni precedenti. Ma, lei stesso ha constatato una profonda delusione nel leggere la lettera consegnatami che mi recava la risposta del Santo Padre in ordine alla consacrazione episcopale ») ma per chiedere insistentemente che la consacrazione potesse aver luogo il 30 giugno, al fine di esser certo di avere un vescovo che continuasse la sua opera. La lettera del 6 maggio tratta interamente e unicamente questo punto : « Se la risposta fosse negativa, mi vedrei in coscienza obbligato a procedere alla consacrazione, basandomi sull'assenso dato dalla Santa Sede nel protocollo per la consacrazione di un vescovo membro della Fraternità. » Non è dunque su una questione dottrinale, né su quella dello statuto offerto alla Fraternità, ma sulla data di consacrazione del vescovo concesso, che il processo si è arrestato. Ed è da rilevare che la rottura delle relazioni è stata decisa allora, non da Mons. Lefebvre, ma dal cardinal Ratzinger il quale ha rifiutato la consacrazione episcopale per il 30 giugno.

Effettivamente, se Mons. Lefebvre avesse accettato che il protocollo del 5 maggio non fosse seguito dall'ordinazione episcopale, allora sì « col protocollo del 5 maggio saremmo presto finiti. Non saremmo durati un anno... », perché senza vescovo, saremmo stati consegnati alle buone (o cattive) volontà di Roma e dei vescovi.

Dopo il giubileo del 2000, Roma ha preso l'iniziativa di nuove relazioni. Oggi, lo stesso cardinale divenuto Papa ci ha detto che la Messa tridentina Messe non è mai stata abrogata (7 luglio 2007 : « Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato ») ; ha riabilitato i nostri 4 vescovi (21 gennaio 2009) ; ha accettato che conducessimo discussioni dottrinali per due anni, cose che Mons. Lefebvre non esigeva nel 1988. Non è esagerato dire che Mons. Fellay ha ottenuto più di quanto chiedesse Mons. Lefebvre, senza averne il prestigio né l'autorità morale. Dunque, dovremmo essere più esigenti di Mons. Lefebvre e di Mons. Fellay ?

Qualunque sia la situazione di Roma, di tutto ciò che di inquietante ancora permane a Roma, il semplice buon senso e l'onestà dovrebbero condurci a considerare la situazione attuale con un occhio diverso da quello del 1988 ! Per riprendere la formula di uno dei nostri vescovi, non bisogna fare del « ottanta-vittimismo » ! Non siamo più nel 1985 con Paolo VI, né nel 1988 con Giovanni Paolo II ma nel 2012 con Benedetto XVI. Che mi si dica che si nota che lo stato della Chiesa è ancora molto preoccupante, che il nostro Papa ha una teologia perfino strana, etc... l'abbiamo detto abbastanza, mi sembra ; ma che non mi si dica che lo stato delle cose è lo stesso del 1988. Ciò è contrario alla realtà e alla verità, e non può essere che l'effetto di un rifiuto più o meno segreto di ogni riconciliazione con Roma, forse anche di una mancanza di fede sulla santità della Chiesa, composta di poveri peccatori ma sempre governata dal suo capo Gesù Cristo e Santificaa dallo Spirito Santo. La Fraternità San Pio X non è la Chiesa e non può « rispettare l'eredità del suo fondatore » che conservandone lo spirito, il suo amore per la Chiesa e il suo desiderio di servirla come figlio che la ama, nella fedeltà alle sue benedizioni fondatrici.

Non so se tutti comprendono il peso della decisione che non appartiene che a Mons. Fellay, decisione nuovamente affidatagli dai nostri superiori riuniti ad Albano l'ottobre scorso, decisione presa con i suoi assistenti : cos'è che si aspetta la Chiesa dalla Fraternità nel 2012 ? Come deve rispondere la Fraternità ai « bisogni » della Chiesa oggi ?

Ciò richiede una virtù di prudenza altamente soprannaturale, ad un grado cui nessuno di noi ha la grazia di arrivare, perché ciò non dipende dalle nostre competenze né dalla nostra responsabilità. Solo Mons. Fellay e i suoi assistenti, avendo la totalità delle carte in mano, possono giudicare nella maniera più consona la situazione attuale. Piuttosto, la questione che ognuno deve porsi è quella della nostra benevolenza verso l'autorità e soprattutto della nostra fiducia in essa. Sono dodici anni che Mons. Fellay discute con Roma, con alti e bassi, per raggiungere finalmente risultati, e anche a questo risultato sorprendente, che forse nessuno ha rilevato : queste discussioni dottrinali che non hanno fatto rumore sulla pubblica piazza e che hanno permesso di poter dire a Roma ciò che pensiamo... al punto da farle terminare in un « mettersi di traverso » !

Pertanto, che cosa non si è capito riguardo al silenzio dei superiori intorno a queste discussioni ed ai documenti scambiati gli ultimi mesi e sulla loro grande discrezione in segno di rispetto per Roma e per il Santo Padre, interpretati come una forma di dissimulazione, un obiettivo di compromesso. Come si può dubitare della rettitudine dei nostri superiori in maniera così gratuita ed arbitraria ?

Ancora non si conosce la conclusione che Benedetto XVI vorrà dare a questi dodici anni di lento lavoro, di ricerca di una migliore comprensione, di preghiere e di rosari accumulati. È dunque l'ora della preghiera, come ci ha invitati Mons. Fellay, e della fiducia nella Chiesa. La Vergine Immacolata che onoriamo particolarmente in questo mese di maggio, saprà ottenerci tutte le grazie necessarie se noi non vogliamo nient'altro che la vittoria di suo Figlio e della Chiesa.
Il Seignadou

Un vescovo francese, che la pensa come molti vescovi di tutto il mondo, ma non ha fatto i conti con la Grazia di Dio!

Questa è l'ultima chicca dall'Agorà francese (Riposte Catholique di oggi by Perepiscopus), purtroppo sintomatica, che riprendo inserendo alcune chiose in rosso. La consegna del silenzio diviene inutile perché il battage degli avversari si sta intensificando. Dunque meglio parlarne, prendere atto della situazione, che è quella che è, senza tuttavia lasciarsene scoraggiare, perché non dice niente di nuovo e soprattutto non fa i conti con la Grazia del Signore! Il dato più rimarchevole e anche paradossale, oltre che inquietante, è che di fatto la maggioranza dei vescovi non è in comunione col Papa.

Scrive Massimilien Bernard:
Nell'impossibilità di trovare un vescovo di Francia disposto ad esprimersi (a favore o contro) il riavvicinamento tra Roma e la FSSPX, il periodico Pèlerin ha cercato un vescovo nella persona di Mons. Gérard Defois, vescovo emerito di Lille :
« Gli ultimi avvenimenti di cui siamo stati messi a conoscenza non sono che una tappa nelle discussioni. È ben chiara la volontà della Santa Sede di trovare una soluzione onorevole per tutti [non secondo verità e coscienza?] al fine di non permettere che lo scisma [insiste con lo scisma, che non c'è mai stato perché la giurisdizione dei vescovi, pur rimanendo in sospeso, è sempre stata affidata al Papa]. Resta da sapere in quali termini. Ciò non può avvenire a detrimento dei progressi del concilio Vaticano II, col rischio di rimettere in causa l'infallibilità stessa del Papa. D'altro canto, perché Mons. Fellay ammetterebbe eventuali accomodamenti ? Numerosi preti della fraternità non vorrebbero mai un tale accordo. Quale sarebbe allora lo statuto della Fraternità se si reintegrasse nella Chiesa cattolica ? Quale forma giuridica ci garantisce che c'è una comunione profonda ? [nessuna formula giuridica potrà mai risolvere la dis-comunione che traspare dalle sue parole] »
« I vescovi del concilio hanno sempre espresso la loro volontà di salvaguardare l'unità dei cristiani. Ma questa non può farsi a qualunque prezzo [a meno che non si tratti degli eretici protestanti]. La concezione di Chiesa affermata dal Concilio non pone problemi che ai membri della Fraternità [dimentica tutti gli altri cattolici che si riconoscono nella Tradizione perenne]. Non approvo la pubblicità eccessiva intorno a queste discussioni [teme forse che l'opinione pubblica ignara o disinformata possa rendersi conto della crisi che è difficile negare?] . Questo resta una posta in gioco di secondo piano per la Chiesa di oggi. La vera priorità non è forse l'evangelizzazione delle nuove generazioni che crescono in una cultura decristianizzata [o anche diversamente-cristianizzata?] ? [...] Ripeto : si tratta di una questione marginale, anche se resta fortemente simbolica [pare non rendersi conto che quel  marginale, in corrispondenza di fortemente simbolica, rappresenta un ossimoro]. »
Traduzione di Maximilien Bernard:
Noi vescovi di Francia abbiamo ben compreso che Benedetto XVI è determinato e che questo accordo dovrebbe avere un esito positivo (Deo Gratias), allora, consumando i loro freni, essi adottano lo stesso atteggiamento del momento della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum : il silenzio e l'ignoranza deliberati, con l'argomentazione tirata fuori ogni volta (malgrado i sondaggi di Paix Liturgique) :  «si tratta di una minoranza»! In breve: «circolate, non c'è niente a che vedere con voi e non cambia niente».

"In certo modo" il Vaticano II ha cambiato radicalmente la cristologia di 20 secoli.

Mi è capitato sotto mano, rileggendo la Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica DIVINITAS, Anno LIV, 2, 2011, un articolo davvero interessante del prof. Paolo Pasqualucci, docente di filosofia riportato per intero nel sito Riscossa Cristiana. L'analisi dotta e completa affronta la questione della "novità" cristologica che è in contrasto con la Cristologia pre-Conciliare. La vulgata corrente asserisce spavaldamente che i testi del Vaticano II sono chiari ma che non sono stati recepiti a dovere, cioè mal interpretati. Abbiamo parlato della Dei Verbum, ora è bene parlare dell'altro buco nero: la Gaudium et spes nel numero 22, dove per la prima volta nella storia della Chiesa si utilizza un avverbio del tutto sorprendente, quodammodo: in certo modo. Il prof. Pasqualucci ci accompagna per mano facendoci capire non solo l'inconsistenza e la pericolosità di questo avverbio VOLUTO dai redattori ma analizza quelle che sono state le conclusioni drammatiche che han portato ad un cambiamento non poco radicale della nostra fede.
[Vedi su questo blog - e anche (GS12 e 24]



1. È lecito ridiscutere le ambiguità del Vaticano II? Sembra che molti ancora oggi ritengano impossibile persino proporre una domanda del genere, per il semplice motivo che l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II dovrebbe considerarsi dogmatico. Perché ha definito nuovi dogmi o semplicemente in quanto Concilio ecumenico? Se non per il primo, per il secondo motivo, si dice. Infatti, due costituzioni del Vaticano II si fregiano del titolo di “dogmatiche”, ma la cosa appare inspiegabile dal momento che esse non definiscono nuovi dogmi, non condannano solennemente errori né vogliono espressamente conferire la nota della dogmaticità al loro insegnamento complessivo.

Resta allora il secondo motivo. Ma può l’insegnamento di un Concilio ecumenico che ha voluto essere dichiaratamente solo pastorale (Nota praevia in calce alla Cost. “dogmatica” Lumen gentium) assumere per noi credenti la stessa autorità di un concilio espressamente dogmatico, quale ad esempio il Tridentino o il Vaticano primo? E per di più un Concilio che ha voluto proporre una pastorale insolita, dato che essa mirava espressamente ad “aggiornare” la dottrina, la pastorale, la prassi stessa della Chiesa al modo di sentire del mondo moderno, promuovendo a questo fine una riforma radicale di tutta la Chiesa militante, a cominciare dalla Liturgia?

Questo Concilio è sempre apparso a molti del tutto atipico, e non tanto perché solo pastorale quanto per via dell’intenzione cui la sua pastorale mirava. E la sua atipicità sembra confermata dal fatto che si fatica (mi sembra) ad inquadrarne l’insegnamento nella categoria tradizionale (quella del magistero straordinario) che il diritto canonico applica alla dottrina dei concili ecumenici, se è vero, com’è vero, che fonti autorevoli hanno dovuto descriverla, questa dottrina, in modo del tutto anodino, come “magistero autentico non infallibile”(1).

Il mio studio, di prossima pubblicazione, del quale sono onorato di poter offrire qui una breve sintesi, prende in esame la cristologia del Vaticano II. Ad essa il Concilio non ha dedicato alcun documento specifico. Tuttavia, l’art. 22 della costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo, articolo il cui tema è: “Cristo, l’uomo nuovo”, ricapitola la cristologia sempre insegnata dalla Chiesa, mettendo a fuoco, in particolare, il significato che bisogna attribuire alla natura umana del Signore. Questo significato non può naturalmente esser concepito in contraddizione con il dogma della fede. Ma il concetto di Incarnazione che si ricava dall’art. 22 GS è sempre apparso a non pochi interpreti notevolmente ambiguo. Nel mio studio, pertanto, cerco, per quanto sta alle mie capacità, di dipanare questa ambiguità, approfondendo al massimo l’analisi filologico-grammaticale del testo, sino al riscontro di tutti i rinvii alle fonti citate in nota al testo stesso.

2. Una nuova ed ambigua concezione dell’Incarnazione. Nell’art. 22.2 della Gaudium et spes, si afferma che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit). Come si giunge ad una simile proposizione, che colpisce per la sua novità nonché per una certa, immediata ambiguità, derivante a prima vista dall’uso dell’avverbio “in certo modo”? Se Nostro Signore si è unito solo “in certo modo”, dobbiamo intendere quest’unione unicamente in senso simbolico, ovvero morale? E se sì, che cosa vorrebbe dire ciò, che ognuno di noi è stato in certo modo divinizzato dall’Incarnazione di Nostro Signore? Ma anche senza l’inciso in questione, l’idea stessa dell’incarnazione di Nostro Signore come “unione con ogni uomo” appare tutt’altro che chiara, dal momento che, secondo il dogma, noi sappiamo essersi Egli unito (nell’unione ipotastica) esclusivamente alla natura umana di quell’uomo che è stato l’ebreo Gesù di Nazareth; unita, quindi, la Sua divinità (pur mantenendosi essa indivisa e distinta) alla natura umana di un solo uomo, in un unico individuo, un uomo in carne e ossa, la cui esistenza storica è stata ampiamente provata. Come mai il Concilio, in modo del tutto atipico, ci viene a parlare dell’Incarnazione come di un’unione di Nostro Signore “con ogni uomo”? Che significa? 
(...)
Infatti, se il Signore si è unito occultamente ad ogni uomo, per il fatto stesso di essere il Signore che si è incarnato, allora ogni uomo partecipa ontologicamente della natura divina di Cristo e la distinzione tra la natura nostra, corrotta dal peccato originale, e il Sovrannaturale di fatto scompare. Che ruolo dobbiamo allora attribuire alla Grazia? Non presuppone essa la Caduta dell’uomo, l’imperfezione (non totale ma tuttavia ontologica) della sua natura, che la divina Misericordia si degna di emendare, dandoci la possibilità della salvezza tramite l’Incarnazione del Verbo e la Sua opera redentrice? Ma se Cristo si è già unito a noi, per il solo fatto di essere Cristo, allora noi siamo già stati tutti redenti per il solo fatto di essere uomini e Cristo stesso e la Chiesa non hanno nulla da fare più! Ed infatti il Vaticano II, suggerendo una novità come quella esposta nell’art. 22 GS, ha indotto a mutare il senso della missione della Chiesa, il cui nuovo messaggio è ora il seguente: gli uomini contemporanei dovrebbero rendersi conto che, già con l’Incarnazione, Cristo si è unito a ciascuno di loro, per ciò stesso elevandolo ad una dignità sublime e conferendogli un’altissima missione, indicata dal Concilio e fatta propria dalla Gerarchia come suo compito specifico; missione che consiste nel realizzare la pace nel mondo, la fratellanza universale nel dialogo che non mira a convertire ma ad acquisire le posizioni dell’avversario per superarle in una Comunione universale d’amore, una nuova Chiesa, “ecumenica”, incontro solidale di tutti i popoli e di tutte le religioni!(3)

La “nuova dottrina” dell’Incarnazione mina, a mio avviso, anche il dogma della predestinazione alla Gloria, che appartiene all’infallibilità del magistero ordinario. Lo mina, anche nella sua forma più moderata, quella della predestinazione condizionale (ad gloriam tantum, sed post et propter praevia merita)(4). Infatti, se con l’Incarnazione il Verbo si è unito di per sé ad ognuno di noi, come si può affermare che una parte dell’umanità non si salverà (sia pure per colpa propria e non perché predestinata alla dannazione) perché solo una parte di noi è stata imperscrutabilmente predestinata da Dio alla Gloria eterna (Rm 9, 11 ss.)? Se ognuno di noi partecipa oggettivamente, per il solo fatto di esser uomo, della natura divina (perché il Verbo, incarnandosi, si sarebbe unito eo ipso anche a lui), come è possibile che ci siano tra di noi alcuni (ed anzi molti – Fil 3, 18-19) che non solo non sono stati predestinati alla gloria eterna ma che andranno per colpa loro in perdizione, pur non essendovi stati predestinati?

Ma i rilievi negativi non possono arrestarsi qui. Se Cristo, nuovo Adamo, con l’Incarnazione “svela l’uomo a se stesso”, rivelandogli la sua altissima missione e sublime dignità, e in tal modo “rivela il mistero del Padre e del suo amore” (GS, 22.1), ciò significa che fine dell’Incarnazione viene ad essere l’attuazione del “mistero dell’amore del Padre” per il genere umano. Ma questo fine, che è quello della Misericordia divina, non può esprimere tutto il significato dell’Incarnazione. Ve n’è anche un altro, ad esso superiore. L’Incarnazione avviene anche perché si deve attuare l’esigenza della giustizia divina, che esige riparazione per il peccato di Adamo. Tale riparazione si perfeziona con la Croce, che ha appunto un significato propiziatorio ed espiatorio. Ciò significa che nell’Incarnazione c’è il fine di dare soddisfazione all’esigenza della Giustizia divina. Di questo fine, in GS 22, non sembra esservi traccia.

Il fatto è che, se si mina alla base il dogma cristologico, l’intero edificio dottrinale della religione cattolica viene a cadere, come sembra evidente. Per questo, sin dagli inizi del Cristianesimo, la Gerarchia ma anche i fedeli, per quanto stava al loro sensus fidei, reagirono sempre con decisione e tenacia alle gravi eresie cristologiche che si erano susseguite a partire dalla fine del I secolo, quando, grazie agli gnostici, si affacciò per la prima volta il docetismo, il quale negava la realtà del corpo di Cristo e considerava semplice apparenza la Sua vita terrena, e in particolare le Sue sofferenze (l’eresia docetista sarebbe poi riapparsa nel Corano, 4: 156).

domenica 29 aprile 2012

Tradizionale, cioè esclusiva!


La liturgia tradizionale o è esclusiva o non è nemmeno tradizionale.

Nessuno se ne abbia a male se esprimiamo con semplicità la nostra convinzione.

All'inizio della nostra storia una delle colpe che ci fu attribuita fu quella di aver rifiutato di continuare a celebrare la messa di Paolo VI e di non ammettere nelle nostre chiese la celebrazione della nuova messa nemmeno da parte di altri sacerdoti.
Fu questa una colpa imperdonabile a giudizio di molti. Altri, pur dandoci ragione in privato, pubblicamente ci chiedevano un gesto “distensivo”, dicendo almeno una messa in italiano.
Noi abbiamo sempre domandato per noi l'uso esclusivo della liturgia tradizionale, e per i nostri fedeli il poter vivere la preghiera in una chiesa, parrocchiale, dove la liturgia tradizionale sia il luogo totale di educazione alla fede.

La forma della preghiera non è secondaria, ad essa è legato tutto un modo di ragionare e di affrontare la vita e di considerare la Chiesa.

Se c'è un concetto totalmente non tradizionale, e assolutamente moderno, è quello della chiesa come contenitore di diverse forme di preghiera, alle quali i fedeli accedono per scelta, a seconda del gusto personale o delle proprie convinzioni: ad esempio, al mattino, di buon'ora, una messa tradizionale... che non guasta mai, al pomeriggio una messa carismatica di guarigione, alla sera una bella messa in italiano per i pensionati e, dopo cena, a seconda dei giorni della settimana, la messa dei diversi movimenti... così che tutti siano contenti.

Ve la immaginate una chiesa così? Su cosa si farà l'unità? Siamo proprio sicuri che sotto tutti questi modi di celebrare ci sia la stessa fede cattolica e si condivida un unico sguardo sulla Chiesa? Qui non si tratta di diverse tradizioni liturgiche con una storia plurisecolare, che però hanno in comune la medesima tensione verso Dio e la medesima adorazione, si tratta qui della liturgia “fai da te” emersa in questi anni confusi e poveri di grazia.

No, ci sia permesso di avere delle chiese ad uso esclusivo della Tradizione, chiese con una riconoscimento giuridico perchè la Chiesa ha bisogno anche di una chiarezza legale, dove tutto parli di un cristianesimo semplice e composto, che non vuole novità umane inutili, già vecchie prima di nascere, e che cerca la perenne bellezza della grazia.

La Tradizione dà forma totale alla vita del cristiano, partendo dalla uniformità del rito, che è all'opposto del supermercato delle liturgie personalizzate di oggi.

Ve la immaginate una chiesa di rito orientale, cattolica o ortodossa, che ammetta una messa moderna stabilmente? Dove andrebbe a finire la loro identità di fede? L'unità con loro non la si farà certamente nella confusione moderna e occidentale delle liturgie europee.

Anche da noi, il miglior modo per uccidere negli animi l'amore alla Tradizione, è far vivere la messa tradizionale tra una liturgia “bit” e una messa carismatica di guarigione.

Chi vive la Tradizione in questa confusione si stanca presto, sentendo che quella messa tradizionale, che ama e che ha cercato, è stata concessa per politica ecclesiastica e non perché la Chiesa tutta torni alla pace della sua Tradizione, che è di Dio.
_________________________
[Fonte: Radicati nella Fede, Editoriale di maggio 2012]

sabato 28 aprile 2012

"Aspettando l'ungherese. Aggiornamento!". Riguarda il sito della Santa Sede...

Oggi Padre Zuhlsdorf sul suo Blog pubblica questo ironico commento, come dal titolo. Anch'io avevo inutilmente cercato sul Vatican.va la Lettera del Papa ai vescovi tedeschi, di cui ho dato notizia qui e, poi, ragionando sugli stralci offerti dalle Agenzie, ho messo il link al testo originale tedesco, in mancanza d'altro. Il fatto non è irrilevante perché si tratta del sito ufficiale della Santa Sede, quello cui fanno riferimento cattolici e non di tutto il mondo. Non pubblicare o pubblicare con tanto inspiegabile ritardo un testo, equivale a non volerlo diffondere...

In questi cinque brevi anni, vatican.va è già riuscito a postare Summorum Pontificum in latino e ungherese!
[ne parlavamo anche noi qui e tuttora la situazione è immutata!
Ricarico l'immagine].

Ma aspettate! vatican.va non ha ancora nulla sulla Lettera del Santo Padre ai vescovi di lingua tedesca circa la traduzione di "pro multis"!
Potremmo almeno avere dal Santo Padre la lettera "pro multis" in lingua ungherese?
Almeno, per favore?

La lingua magiara è apparentemente all'avanguardia per le persone che controllano vatican.va quando si tratta dei documenti liturgici  e degli scritti del nostro Benedetto XVI.

AGGIORNAMENTO 27 APRILE 1857 GMT:

Alla fine, la lettera è ora disponibile in tedesco sul sito vatican.va. QUI .
Ora abbiamo davvero bisogno che sia diffusa anche in ungherese!

Migliaia di fedeli da tutta la regione hanno venerato ad Haifa la Vergine del Carmelo

Riporto questa notizia perché mi ha colpito questa presenza cristiana così visibile e sentita nella terra delle sue origini, che tuttavia oggi vede una situazione completamente capovolta. Lo inserisco anche come un segno della presenza della nostra Madre Celeste, alla quale vanno le nostre invocazioni in questo particolare momento per la nostra Chiesa. Devo tradurlo dalla versione francese, perché stranamente nella versione italiana del sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme il file non è riportato. Però da una scritta mobile ho tratto questo link ad un bellissimo video.

HAIFA – Sua Beatitudine Mons. Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, ha partecipato alla tradizionale processione con la quale ogni anno si venera la Vergine, Nostra Signora del Monte Carmelo. Vi hanno partecipato S.E. Mons. Marcuzzo, vicario patriarcale latino in Galilea, Mons Kamal Bathish, vescovo ausiliario emerito, i monaci carmelitani, molti responsabili ecclesiali, sacerdoti, religiose e migliaia di fedeli della regione, da Gerusalemme e dalla Cisgiordania. La processione è partita dalla chiesa della parrocchia di San Giuseppe fino alla chiesa di Sant'Elia sul Monte Carmelo. Gruppi di scouts provenienti da tutte le regioni hanno condotto la processione con un gruppo di ragazze in costume tradizionale palestinese e trasportavano una statua della Vergine. La Statua della Vergine del Monte Carmelo è stata poi montata su un carro condotto dai partecipanti.

All'arrivo alla chiesa di Sant'Elia, Sua Beatitudine ha condotto le preghiere e pronunciato un commovente discorso sul particolare ruolo della Vergine nella vita dei cristiani. Ha implorato la sua intercessione per riportare la pace nella regione e nel mondo intero. Uno dei monaci ha spiegato che la processione ha una tradizione di circa 80 anni. Alla fine della prima guerra mondiale, l'armata turca ordinò alle Carmelitane di abbandonare, nel giro di 3 ore, il convento situato sul Monte Carmelo. Esse hanno allora posto la statua della Vergine, antica di 300 anni verso la chiesa latina di San Giuseppe nel centro della città. Alla fine della guerra, le monache hanno deciso di fare una processione e canti di riconoscenza alla Vergine, per ottenere il loro ritorno al convento e la sua protezione per gli abitanti della città.

La statua della Vergine utilizzata per la processione è una copia autentica della statua originale conservata nella Chiesa in un luogo sicuro. Ed è stata scolpita dal monaco « Luigi Bougi ».
____________________
Fonte: abouna.org
Foto : Patriarcato latino di Gerusalemme

venerdì 27 aprile 2012

Questo pomeriggio un incontro decisivo! S. E. Mons. Ladaria in udienza con il Papa Benedetto XVI.

In una lettera del 17 aprile 2012, il Superiore generale della Fraternità San Pio X ha risposo alla domanda di chiarimenti che gli aveva posto, il 16 marzo, il Cardinal William Levada, riguardo al Preambolo dottrinale consegnato il 14 settembre 2011. Come indica il comunicato stampa della Pontificia Commissione Ecclesia Dei (ne parliamo QUI), il testo di questa risposta il 25 aprile scorso (feria quarta) è stato esaminato dal Dicastero (Congregazione per la Dottrina della Fede).

Oggi il Papa riceverà questo pomeriggio in Udienza S.E. Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer. S. E. Mons. Ladaria è un arcivescovo gesuita maiorchino. È segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, è membro attivo della Commissione Teologica Internazionale e mantiene l'insegnamento alla Pontificia Università Gregoriana, dove risiede. Fa parte della commissione della Santa Sede per i colloqui con la Fraternità Sacerdotale San Pio X, creata il 26 ottobre 2009, insieme a mons. Charles Morerod, a mons. Fernando Ocariz, Vicario Generale dell'Opus Dei, e al neo Cardinale S.E. Karl Josef Becker S.J., consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Sul piatto dell'udienza non c'è solo la risposta di S.E. Mons. Fellay, ma anche, presumibilmente i risultati della riunione della commissione - di cui, per volere del Santo Padre, è Presidente - per "accertare se le messe dei neocatecumenali sono o no conformi alla dottrina e alla prassi liturgica della Chiesa cattolica". Ne abbiamo parlato (QUI).

La notte degli inganni. Il card. Bea e la stesura definitiva della Dei Verbum

L'Osservatore Romano di oggi pubblica un articolo di Riccardo Burigana sul vivace dibattito che portò alla costituzione conciliare "Dei Verbum" sulla divina rivelazione, che riporto di seguito. Ormai sono note molte delle complesse dinamiche e delle strategie messe in atto dall'ala modernista per introdurre novità che costituiscono non un semplice rinnovamento, ma portano in sé, nella concertata ambiguità o nella sovversiva innovazione, quei germi di rottura con la Tradizione che ancor oggi provocano l'intreccio di ermeneutiche tra loro contrastanti, foriere di confusione e di disorientamento.

  La notte degli inganni
 Quando il cardinale Bea prese il controllo della riunione decisiva per la stesura del testo 

Ripercorrere le vicende del dibattito intorno alla Dei Verbum è un utile osservatorio per ricostruire le dinamiche del Vaticano II a partire dalla pluralità di posizioni sul ruolo della Scrittura nella vita della Chiesa, dalla riflessione teologica sulla dimensione biblica della rivelazione, alla storicità dei vangeli, al valore dell'inerranza fino al rapporto della Scrittura con la quotidianità dell'esperienza cristiana, anche in prospettiva ecumenica.

Proprio per il rilievo della costituzione per i temi trattati e per il suo ruolo nella storia del Vaticano II appare quanto mai opportuno promuovere ancora delle ricerche sulla Dei Verbum, che è "una pietra miliare nel cammino ecclesiale", come si legge nell'esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Papa Benedetto XVI. Nelle proposte (vota) per il futuro concilio in gran parte formulate in latino, dei vescovi, dei superiori degli ordini religiosi, delle università e istituzioni accademiche e delle Congregazioni romane si coglie la molteplicità di posizioni e di approcci che offrono un interessante quadro della Chiesa. Nei vota ampio spazio era dedicato alla definizione del rapporto tra Scrittura e tradizione nella trasmissione della rivelazione; su questo punto si era sviluppato un vivace dibattito negli ultimi anni del pontificato di Pio XII tra coloro che sostenevano la superiorità della tradizione sulla Scrittura e coloro che ritenevano la necessità di ripensare in modo più unitario il rapporto tra Scrittura e tradizione nella trasmissione della rivelazione. Proprio la molteplicità e l'ampiezza delle proposte relative alla Scrittura come tema per il futuro, non solo rimandano a un dibattito che si era sviluppato nel corso del XX secolo all'interno della Chiesa cattolica e, più in generale, del cristianesimo, provocando tensioni, sulle quali non è il caso di soffermarsi in questa sede, ma mostrano quanto fosse auspicata la redazione di uno schema per il futuro concilio nel quale affrontare le questioni, in senso lato, legate alla lettura e alla conoscenza della Sacra Scrittura da una parte e dall'altra del rapporto tra questa, la tradizione e il magistero nella trasmissione della rivelazione. Quando la quarta sessione del concilio ecumenico Vaticano II (14 settembre - 8 dicembre 1965) si aprì, l'agenda dei lavori appariva tanto ricca da far pensare che difficilmente i padri sarebbero riusciti ad approvare tutti gli schemi; tra questi c'era anche il De divina revelatione che venne votato in aula conciliare nei giorni 20-22 settembre 1965; i risultati non lasciavano dubbi sull'ampio favore che ormai circondava lo schema, anche se c'erano stati su 2246 votanti 9 non placet, 354 placet iuxta modum sul secondo capitolo.

Dal 29 settembre all'11 ottobre la Commissione Dottrinale prese in esame le proposte, i modi, per le ultime modifiche dello schema, presentati dai padri, talvolta sottoscritte da decine di padri conciliari. Nel ripercorrere questa fase dell'iter redazionale dello schema emerge quanto si fossero irrigidite le posizioni all'interno della Commissione Dottrinale tanto che le modifiche venivano sottoposte a continue votazioni, sulle quali si aprivano infinite discussioni procedurali.

In questa situazione cominciò a diffondersi la voce che non pochi padri erano decisi a chiedere a Paolo VI un intervento per uscire da una situazione che sembrava prospettare nuove fratture; per questo Albert Prignon, rettore del Collegio Belga, scrisse che forte era il timore che si potesse avere une nouvelle settimana nera et une nota praevia et avec tous les inconvénients et difficultés que nous avons eu l'an passé, con un'evidente forzatura di un eventuale intervento di Papa Montini.

Il 10 ottobre 1965 Paolo VI si rivolse al cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto della Congregazione del Santo Uffizio, chiedendogli di fargli avere la versione approvata del De divina revelatione, prima di inviarla alle stampe; era un messaggio chiarissimo sulla volontà del Papa di intervenire non tanto per assecondare le proteste della minoranza conciliare quanto piuttosto per non lasciare niente di intentato per giungere a un testo sul quale si potesse avere la più ampia maggioranza possibile, così come era nelle intenzioni di Paolo VI fin dalla seconda Sessione del Vaticano II.

Proprio per questo, mentre la revisione nella Commissione Dottrinale si avviava alla conclusione, Paolo VI aveva cominciato un personale giro di consultazioni in modo da raccogliere il maggior numero di elementi sulle ricchezze e sulle debolezze dello schema, mentre continuavano a arrivargli richieste per un suo intervento. Il 17 ottobre, dopo che si era formalmente conclusa la revisione del De divina revelatione e quindi si attendeva la sua ultima presentazione in aula in vista della sua approvazione, Paolo VI prese la decisione di riconvocare la Commissione Dottrinale per prendere in esame tre punti dello schema: sulla tradizione costitutiva al numero 9, sulla espressione veritas salutaris nel numero 11 e infine sulla storicità dei vangeli al numero 19.

Il Papa inviò delle proposte di modifica sui singoli punti, pur lasciando la libertà alla commissione di valutarne altre. La notizia della convocazione di una nuova riunione si diffuse rapidamente, suscitando vari commenti; ci si preparava all'ultima battaglia per il De divina revelatione. Nel tentativo di stemperare le tensioni, la segreteria della Commissione Dottrinale decise di riunirsi, in modo del tutto informale, nella mattina del 19 ottobre in modo da preparare la riunione del pomeriggio. In questo incontro preparatorio fu deciso di affidare a Gerard Philips, uno dei due segretari della Commissione Dottrinale, il compito di presentare le formule giunte dal Papa per le modifiche dei singoli punti così da indirizzare la discussione verso una soluzione che non stravolgesse il testo e non favorisse ulteriori polemiche dentro e fuori della Commissione.

La riunione del 19 ottobre ebbe uno svolgimento e un esito completamente diverso da quello immaginato dalla segreteria; infatti alla riunione il protagonista, sicuramente del tutto inatteso, fu il cardinale Augustin Bea, che ricomparve così sulla scena dopo che il Segretariato era stato estromesso dal processo redazionale nella primavera 1964 e dopo che egli stesso si era lamentato, anche pubblicamente, di questa esclusione. Bea assunse di fatto la direzione della riunione, esautorando così Philips; alla fine, dopo interminabili discussioni, anche di carattere procedurale, con le ventilate minacce da parte di alcuni membri di considerare invalida una votazione appellandosi al Tribunale del concilio, vennero approvate le modifiche allo schema. Al termine di questa riunione, per la quale si può evocare l'immagine manzoniana della "notte degli inganni", si può ben dire, riprendendo un giudizio del vescovo di Namur André-Marie Charue, che il testo era stato salvato, dal momento che le modifiche introdotte non toccavano la struttura e il contenuto del De divina revelatione. Questo passaggio suscitò molte perplessità, qualche "lacrima" e molte critiche, soprattutto sul ruolo di Bea, che per molti parve essere completamente diverso da quello tenuto durante il concilio; sul ruolo di Bea, così come sulle intenzioni di Paolo VI, che in qualche modo vennero presentate in forma ufficiale dal gesuita Giovanni Caprile in un articolo su "La Civiltà Cattolica" poche settimane dopo, sarebbe interessare soffermarsi per comprendere l'importanza del De divina revelatione non solo nella storia del Vaticano II ma per la missione della Chiesa, soprattutto nella promozione di un recupero della centralità della Scrittura nella prospettiva di un rinnovato impegno per l'unità della Chiesa.

Il 20 ottobre 1965, il segretario del Concilio monsignor Pericle Felici chiese a Philips la relazione della riunione, comunicandogli che Paolo VI aveva già dato il suo placet alla nuova versione del testo e aveva chiesto di stamparlo quanto prima. Il 25 ottobre il De divina revelatione fu consegnato ai padri conciliari e quattro giorni dopo il relatore Ermenegildo Florit arcivescovo di Firenze lesse la sua relazione sui modi illustrando le modifiche e sottolineando l'importanza del testo, che i padri si accingevano a votare; le votazioni confermarono il consenso, quasi unanime, raggiunto dallo schema.

Il 18 novembre 1965, nella ottava sessione pubblica del concilio Vaticano II, venne così promulgata la costituzione Dei Verbum, con un consenso quasi unanime: su 2350 votanti 2344 votarono a favore del testo: sembrava di essere giunti alla parola fine della storia dell'iter dello schema, ma proprio sui titoli di coda doveva accadere ancora qualcosa.

Pochi giorni dopo, quando ancora i padri erano impegnati nella revisione e nella votazione degli ultimi schemi, si verificarono alcuni tentativi di intervenire sul testo e sulla sua traduzione in italiano, come se fosse possibile modificare quanto i padri avevano votato. Di fronte a questi tentativi, che erano passati inosservati ai più, reagì il sotto segretario padre Umberto Betti, che fece presente, con insistenza, a Florit e a Charue le conseguenze che questi interventi potevano avere sul contenuto dottrinale dello schema, oltre che a configurarsi come qualcosa di profondamente sbagliato. Alla fine, pur con qualche difficoltà, il testo venne ripristinato così come era stato approvato dai padri conciliari, anche se furono necessarie delle rettifiche e delle precisazioni: solo dopo la conclusione del concilio si poté dire veramente conclusa la storia della redazione della Dei Verbum che tanto aveva segnato il Vaticano II nel tentativo, in gran parte riuscito, di un recupero di quanto la Chiesa Cattolica aveva pensato, scritto e testimoniato per secoli sulla centralità della Scrittura nella propria missione, avendo sempre ben presente che "la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime".
______________________________________
(©L'Osservatore Romano 27 aprile 2012)

giovedì 26 aprile 2012

Bisogna aver paura del ritorno degli integristi? [Già l'uso del termine integrista ci dice l'orientamento della fonte]

Aggiornamento: Oggi 26 aprile, nel versante francese, Golias, La Vie e l'Agenzia Apic, ci vanno giù duri, sullo stile di La Croix se non peggio. Ma si sa, non sono schiere amiche e spero che tutti questi nemici in agitazione non riescano neppure a scalfire una realtà che vede dispiegate molte buone volontà.


Certamente una fonte come La Croix va presa con le molle, conoscendo il suo orientamento progressista e i pregiudizi - che sono anche superficialità, disinformazione e quindi informazione scorretta - che abbondano ogni volta che essa affronta temi che riguardano la Tradizione.


Nel recentissimo articolo che riporto di seguito, con alcune chiose, possiamo leggere tutti i luoghi comuni e le falsità spacciate come informazione a lettori evidentemente ignari e anche beoti se se le bevono acriticamente, come purtroppo in genere succede al grande pubblico cui si rivolgono i mass-media. E allora, guardiamolo in faccia questo 'sentire' così diffuso e cerchiamo di confutarlo almeno noi, anche se saranno in pochi a leggerci. In genere chi si sofferma qui presumibilmente ha già interesse per la Tradizione; credo che siano rari i casi in cui si voglia ascoltare di proposito, per meglio documentarsi e approfondire, anche "l'altra campana". In ogni caso in questi giorni di attesa, si moltiplicano su tutti i fronti i tentativi di prevedere cosa potrà succedere, di delineare gli scenari, ognuno in base alle proprie attese che pendono tra i due opposti: speranza o timore, quando non è pressappochismo e talvolta, purtroppo, anche mala fede... 

Bisogna aver paura del ritorno degli integristi? [Già l'uso del termine integrista ci dice l'orientamento della fonte] - 22 aprile 2012 [Isabelle de Gaulmyn - La Croix]

I responsabili della Fraternità sacerdotale San Pio X potrebbero rientrare nella Chiesa cattolica. Bisogna gioirne come pretenderebbero alcuni? O al contrario, temerlo? Curiosamente, la questione divide una volta di più i cattolici, a livello generazionale. I più anziani si rattristano perché vedono la legittimazione di una Chiesa che hanno sempre respinta : una comunità che si è distinta per la sua violenza la sua intolleranza puntata sulla gerarchia, [quella che noi, invece, chiameremmo fermezza, parresìa, che a volte può assumere aspetti di intolleranza, ma non è certo il dato più rimarchevole. Sicuramente è quanto di più indigesto in un mondo cattolico dal quale è scomparsa ogni forma di apologia e di identità forte, che coincide col Dono ricevuto] chiusa, una Chiesa che si riterrebbe superata. [Si mette in risalto non tanto la critica costruttiva e sapiente delle novità deleterie, quanto l'aspetto di custodia della Tradizione, che non è la sua cristallizzazione, visto sommariamente come chiusura al nuovo].

I più giovani non hanno di questi timori. Innanzittutto perché essi non hanno la stessa memoria. Anche lì, c'è rottura di trasmissione [rottura con la rottura dovremmo dire!] : la Chiesa in talare, quella delle confessioni severe, [sembra non conoscere l'autentica misericordia con cui viene mostrata anche la giustizia che ci rende uomini e donne autentici e non solo il permissivismo!], del senso di colpa, [o di responsabilità? Da non confondere il sano rigore con il rigorismo farisaico] perfino dell'antisemitismo (!?), spesso della sufficienza, [è quel che si crede di 'vedere' in chi è sicuro delle sue convinzioni e non usa un linguaggio affascinante ma fumoso, senza sconti al voler rendere attraente ciò che si testimonia] non evoca loro nulla. Non è il loro passato. Al contrario dei più anziani. [I quali, per opporsi all'autoritarismo, hanno delegittimato ogni Autorità e perso, così, ogni punto di riferimento valido]

La Chiesa di sempre
Inoltre, i più giovani hanno questa forma di flessibilità (tolleranza ?) molto radicale che è il segno della loro generazione : non c'è un modo migliore ed uno peggiore di essere al mondo.[tolleranza o apertura, assenza di preconcetti?] A ciascuno, nel mondo che non offre alcun riferimento stabile, in cui occorrerebbe trovare certezze, è dato costruirsi il suo sistema di valori. Da questo punto di vista l'integrista è furiosamente moderno. Basta leggere la loro retorica: il richiamo alla « messa di sempre », alla « Chiesa di sempre », non corrisponde a nulla di storico, se non c'è un « sempre » ricostruito, una « assicurazione da ogni rischio », una « identità rifugio » da un mondo che non si comprende più. [Estrema semplificazione, che non è altro che banale superficialità, che non riconosce la profondità dell'essere-nella-storia senza lasciarsene fagocitare. L'identità cattolica autentica, forte, viene diluita in qualcosa di fluido ed evanescente, diventa identità-rifugio, come se la Fede appartenesse alla  sfera dei bisogni psicologici mentre invece si tratta di una scelta che è anche un dono, che investe le profondità della persona: il 'cuore' come luogo delle decisioni ultime]
E così per le giovani generazioni cattoliche la risposta integrista è una forma di manifestazione identitaria, certo esacerbata, caricaturale [addirittura!], eccessiva, e della quale non condividono tutte le lotte, ma nella quale parzialmente si ritrovano, e che sono pronti a tollerare nella Chiesa. Da qui una forma di permeabilità, presso i giovani cattolici, non tanto alle idee, quanto ad alcune attitudini e comportamenti, dei membri della Fraternità [Questa è un'illazione bella e buona. Sia i giovani che i meno giovani possono sempre fermarsi alle apparenze in ogni contesto. Ma su cosa ci si basa di concreto per affibbiare come scontato questo crisma di superficialità ai giovani?].

In fondo, il programmato ritorno degli integristi nella Chiesa trova il suo fondamento là dove qualcosa va male nella Chiesa di Francia [Beh, almeno questo lo si riconosce!]. Ha a che dare col famoso « rapporto » col mondo che le generazioni conciliari hanno creduto di regolare, senza dubbio ingenuamente, una volta per tutte, « aprendo le fimestre della Chiesa al mondo » per riprendere l'espressione di Giovanni XXIII. Ma il mondo del 2012 non ha più gran che a vedere con quello del 1962. La storia non si è fermata negli anni 70 perché non si è, come gli integristi pretendono, fermata nel 1962 col loro famoso « di sempre » [Chi non è addentro alla realtà delle cose non comprende che quel "di sempre" non ha nulla di statico o di fissista, ma si riferisce unicamente ai fondamenti, alle strutture portanti - sovvertite in nome di un presunta libertà che invece è licenza ed arbitrio - e non alle modalità  di espressione e traduzione in vita, che possono essere moltepici e spesso sorprendenti. Ed  è vero che la storia va avanti... ma è facile rovesciare il discorso constatando che è lo "spirito del concilio" che è e resta inesorabilmente ancorato a quel che accadde nel triennio 62-65, le cui conseguenze hanno contribuito al disorientamento ed alla crisi attuali. La crisi non viene riconosciuta, se non genericamente attribuendola alla secolarizzazione ed al relativismo frutti del post-illuminismo e si continua a tenersi ancorati ad un errato modo di fronteggiare i mali: assumerli nell'assurda pretesa di "trasfigurarli". E così creando un tanto mostruoso quanto infausto connubio, invece di combatterli con le armi della Fede].

Questo Concilio « straordinariamente aperto al mondo » [apertura al mondo non significa doverne necessariamente assorbire anche il male che va riconosciuto e respinto. Era un rischio troppo grande ed è quello che è accaduto], per riprendere l'espressione di Giovanni Paolo II nel 2000, durante l'anno giubilare, deve anche l'essere al mondo di oggi. Un mondo del quale lo stesso papa esortava a « non aver paura ». [Se non ricordo male, Giovanni Paolo II esortava a non aver paura di affidarsi a Cristo!]. Isabelle de Gaulmyn

mercoledì 25 aprile 2012

Uno studio che sembra arrivi a sproposito. Ma potrebbe influire davvero?

Riposte Catholique pubblica oggi un commento su uno Studio portato alla ribalta in questi giorni in ordine all'autorità magisteriale del Vaticano II. Il tono e le espressioni usate sono molto severe nei confronti dell'autore, ma soprattutto sottolineano l'inopportunità di portare altra carne al fuoco in questo delicato momento.  Comprendo i timori dell'estensore della critica e li registro, insieme alla notizia, anche perché è sempre interessante e fruttuoso conoscere cosa si muove oltr'Alpe  o comunque nel resto dell'universo cattolico. Tuttavia non li condivido del tutto perché, se è vero che lo studio arriva in un momento come questo e potrebbe portare acqua al mulino degli avversari, è altrettanto vero che la soluzione della questione penso non sia attribuibile alla composizione in un modo o nell'altro del dissenso, che ha origini e articolazioni complesse che rimarranno sul tappeto non sappiamo per quanto tempo e comunque riguardano tutta la galassia tradizionale. La soluzione risiede piuttosto nell'accettazione da parte della Santa Sede - e in definitiva del Papa se i lupi non prevarranno -, di una regolarizzazione canonica senza contropartite che snaturino l'identità della FSSPX. Potrebbe rivelarsi un giudizio avventato il mio; ma lo sapremo, spero, a giorni.

Mentre la Congregazione per la Dottrina della Fede si riunisce oggi per studiare l'ultimo documento inviato da Mons. Fellay, superiore generale della DSSPX, la Fraternità San Vincenzo Ferrer pubblica, nell'ultimo numero della sua rivista Sedes Sapientiæ, uno studio di Padre Bernard Lucien sull'autorità magisteriale del Vaticano II. Secondo la presentazione di questo studio :
L'attuale dibattito vede opporsi due tendenze. Da un lato, si insiste sull'aspetto oggettivo della Tradizione – il suo contenuto – e si sottolineano i problemi di attualità col magistero anteriore, posti da alcuni testi del Vaticano II. Dall'altro lato, si insiste sull'aspetto attivo della Tradizione – la trasmissione –, della quale il magistero è organo autorevole, e si sottolinea la necessità di recepire gli insegnamenti di questo concilio ecumenico. È dunque necessario tentare un coordinamento di questi due punti di vista. È ciò che ha fatto Padre Lucien, appoggiandosi su alcuni principi teologici assurti allo stato di dottrina certa ed esplicita nella Chiesa.
Per pubblicare lo studio, la rivista prende come spunto soprattutto « discussioni tra la Fraternità sacerdotale San Pio X e la Santa Sede ». Se questa è la ragione che motiva la pubblicazione, c'è da restare meravigliati di un passo del genere. Nel momento in cui Roma discute con la FSSPX, non è opportuno che un teologo interferisca nella discussione, ponendo all'attenzione dell'opinione pubblica un parere privato, anche se esso è frutto di un serio studio. Perché, finalmente, in questa questione e nella situazione specifica, è al papa che  è rimesso il giudizio è sarebbe dannoso che un testo possa essere utilizzato, contro il suo stesso intento, da parte di avversari alla necessaria riconciliazione tra cattolici. Alcuni mesi fa, si poteva comprendere la pubblicazione di questo studio, che poteva inserirsi nel dibattito in corso di svolgimento tra i teologi della Fraternità San Pio X e quelli designati dalla Santa Sede. Oggi, essa appare particolarmente inopportuna.

La presentazione di questo studio ed una sua sintesi si trovano sul sito della Fraternità San Vincenzo Ferreri. Malgrado tutto l'interesse del discorso, resta il fatto che questo approccio del concilio Vaticano II non è mai stato autenticato dal Magistero. Esso presenta dunque tutto l'interesse di una pista di ricerca (secondo noi pubblicata in un brutto momento), ma non ha altra autorità che questo. Resta il fatto che il concilio Vaticano II, di cui si continua a ripetere che ci riguarda al doppio titolo di cattolici ed uomini moderni, ed al quale ci si chiede di aderire, non apparirebbe affatto come un testo chiaro e senza equivoci. Spetta dunque al Magistero pronunciarsi per precisare gli aspetti più incomprensibili o dissipare gli equivoci dei diversi testi conciliari. È il ruolo dei teologi chiarire col loro lavoro il discernimento del Magistero. Che essi consegnino al grande pubblico documenti senza autorità non può che accrescere le difficoltà.

Lunga lettera del Papa ai vescovi tedeschi sulla traduzione di 'pro multis' in 'per tutti'

Aggiornamento: Oggi, 8 maggio, Santro Magister pubblica una nota di monsignor Juan Andrés Caniato, incaricato per la pastorale delle comunicazioni sociali nell’arcidiocesi di Bologna, che riproduciamo, di seguito all'articolo, per chi fosse interessato.

Per ora abbiamo solo la notizia e non l'intero testo che, come del resto è consuetudine, il sito della Santa Sede non rende tempestivamente disponibile. Stupisce questa meraviglia del Papa, quando anche nelle nostre diocesi la traduzione è la stessa. Del resto il fenomeno è strettamente collegato con l'infausto abbandono del latino come lingua universale e - per quanto riguarda la Vetus latina usata nella forma extraordinaria della Santa Messa - anche linguaggio ieratico e sacro da sempre. Stupisce anche il fatto che non ci si ricolleghi alla Lettera inviata nell'ottobre 2006 dalla Congregazione per il Culto divino a tutte le Conferenze Episcopali, proprio sulla traduzione di "pro multis" nella Consacrazione del Calice; il che conferma la consapevolezza della Santa Sede sulla generalizzazione del problema.

Il Papa ha inviato una lettera di cinque cartelle ai vescovi tedeschi per dirimere una annosa diatriba linguistica nata con la riforma liturgica voluta dal Concilio vaticano II e la connessa traduzione in lingue volgari dei Vangeli. La missiva, firmata da Benedetto XVI il 14 aprile e diffusa oggi [24 aprile] dalla Conferenza episcopale tedesca, si riferisce alla traduzione - teologicamente densa di implicazioni - delle parole pronunciate da Gesù nell'ultima cena.

Il proprio sacrificio "pro multis", in latino, è stato tradotto in tedesco "fuer alle" (per tutti) e non, più letteralmente, "fuer viele" (per molti). In vista della prossima pubblicazione nel mondo germanofono della nuova traduzione dell'innario (Gotteslob), il Papa, da sempre molto attento alle questioni liturgiche e alla corretta interpretazione del Concilio vaticano II, sottolinea che questa traduzione "è un'interpretazione" coerente con i "principi che hanno guidato la traduzione in lingua moderna dei libri liturgici". Per Ratzinger, però, oltre una "certa misura" la traduzione interpretativa non è giustificata per le Sacre Scritture e ha portato, in alcuni casi, a "banalizzazioni" che hanno significato "autentiche perdite". "Anche personalmente mi è divenuto sempre più chiaro che il principio della corrispondenza non letterale ma strutturale come linea-guida nella traduzione ha i suoi limiti", spiega il Papa, che sottolinea: "Poiché devo pregare le preghiere liturgiche in diverse lingue, mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano".

Come è suo solito, nella lettera ai vescovi tedeschi Ratzinger anticipa le possibili obiezioni degli interlocutori: "Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha cambiato il suo insegnamento? È capace di farlo e può farlo? Si tratta di una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?". La risposta è negativa. Richiamando l'istruzione vaticana 'Liturgiam authenticam' del 2001, il Papa spiega che la fedeltà dei testi liturgici contemporanei al "pro multis", per molti, dei Vangeli di Matteo e Marco (mentre nei racconti di Luca e Paolo Gesù si rivolge direttamente ai disepoli che il suo sacrificio è "per voi") rimanda alla fedeltà del linguaggio di Gesù al capitolo 53 del libro biblico di Isaia. E non è modificabile arbitrariamente.
________________
© Copyright TMNews, Città del Vaticano 24 aprile

Nota di monsignor Juan Andrés Caniato
“IL TRADUTTORE ITALIANO HA SCIAGURATAMENTE PENSATO…” I problemi di traduzione non sono poca cosa e stanno emergendo ogni giorno di più nella loro drammatica problematicità.
Per rimanere nel rito della messa, basterebbe pensare al “Padre nostro”: è un testo biblico o liturgico? Se è testo liturgico, va tradotto dal latino liturgico e non dal greco, con criteri liturgici e non biblici. “Et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo”.
(Nel novembre del 2011 i vescovi italiani votarono per cambiare il “non ci indurre in tentazione” in “non abbandonarci alla tentazione”, con 111 voti contro 68 dati a “non abbandonarci nella tentazione” – ndr). Oppure al “Gloria”: cosa significa “bonae voluntatis”? Così come è tradotto adesso parrebbe la “buona volontà” degli uomini, quando invece si tratta della buona disposizione di Dio verso gli uomini, con tutto quello che consegue.
(Ancora nel novembre del 2011 i vescovi italiani votarono per cambiare il “pace in terra agli uomini di buona volontà” con “pace in terra agli uomini che egli ama”, con 151 voti contro 36 andati alla versione in uso – ndr).
Ma tornando alle parole della consacrazione nella grande preghiera eucaristica non si percepisce la gravità teologica della traduzione italiana, che ha reso con due participi passati ciò che nel testo latino è addirittura al futuro:
– corpo “offerto in sacrificio” al posto di “tradetur”, “che sarà consegnato”;
– e sangue “versato” al posto di ” effundetur”, “che sarà versato”.
Ne va della comprensione stessa della messa e del suo rapporto con l’ultima cena e con la passione, morte e risurrezione di Cristo. 
Il traduttore italiano ha sciaguratamente pensato che il fedele italiano, se avesse ascoltato quei due verbi al futuro avrebbe potuto immaginare che il Signore non avesse ancora donato la sua vita per noi…
In realtà è proprio quel futuro che ci aiuta a comprendere il rapporto tra eucaristia e Pasqua: gli apostoli, nell’ultima cena parteciparono realmente alla Pasqua di Gesù, prima che avvenisse storicamente, esattamente come noi oggi vi partecipiamo dopo che è avvenuta.
L’eucaristia non è memoriale dell’ultima cena, con enfatizzazione del “banchetto”, ma della passione, morte e risurrezione del Signore, attraverso il rito compiuto da Gesù nell’ultima cena. L’eucaristia spezza la barriera del tempo cronologico, e ci rende partecipi “qui e ora” del mistero pasquale.
Se un fedele italiano avesse avuto dei dubbi su quel futuro, sarebbe stata una occasione preziosissima di catechesi semplice e persuasiva sul significato del sacramento.

SìSìNoNo i primi storici numeri ora on line



Nel 1975, iniziava questa opera di divulgazione senza precedenti! Segnalo per coloro che volessero leggere quali erano i drammi, le attese e le speranza di quei valorosi uomini di Chiesa che iniziarono questa monumentale opera di divulgazione Cattolica, i primi numeri della Rivista ora on line. 


Da SìSìNoNo n°1 anno I    

...Il compito ingrato che la nostra pubblicazione si assume è quello di andare controcorrente e di aiutare ad andare controcorrente, non per gusto, ma perché, per seguire il bene, e oggi più che mai necessario andare controcorrente. La   nostra pubblicazione perciò divulgherà idee chiare dicendo « si » a quanto è conforme alle Fede cattolica trasmessa dagli Apostoli (di cui è depositaria e custode la Chiese docente, cioè il Papa e i Vescovi soggetti a lui ) e dicendo « no » senza mezzi termini a quanto pretende di soppiantarla. Seguirà il binario della Verità, anche se doloroso. Non terrà alcun conto dì qualifiche di poteri; non cercherà di farsi amici né temerà i nemici.  Non riporterà nulla che non sia suffragato dai fatti o documentazioni ... Perciò  confidiamo nell'aiuto di Dio e di quei lettori che comprenderanno il valore dello scopo di bene che essa si prefigge e la necessità di un argine all'offensiva di malcostume in atto dentro e fuori delle Chiesa, ma sempre contro la Chiesa. In questi tempi ai cui sembra che non ci siamo più occhi per vedere ed orecchi per intendere, a questi lettori «Si sì, no no » chiede di collaborare nel modo che  riterranno più opportuno, cominciando dalla propagazione delle idee. Le collaborazione di «penne» è aperta e tutti. A tutti però, e chi può e non può prestare nessun aiuto, si chiede l'aiuto della preghiera. La  nostra pubblicazione non pretende di cambiare il mondo, ma vuole dare il proprio piccolo contributo infatti, dovere di ogni cristiano dopo aver difeso se stesso dal deserto, tentare la difesa degli altri e la riconquista del deserto. In questo giorno, con l’offerta del nostro oro (ne abbiamo tanto quanto l'obolo della vedova), incenso e mirra, nel nome del Signore iniziamo il lavoro.
Epifania 1975  
La Direzione

martedì 24 aprile 2012

24 aprile: data d'inizio del genocidio armeno. Una "giornata della memoria" per i cristiani

È un ecumenismo della memoria, quello che vede unite il 24 aprile di ogni anno, in tutto il mondo, le chiese armene, apostoliche, cattoliche e protestanti, per ricordare l'inizio del “Metz Yeghern”, il drammatico Genocidio Armeno, avvenuto in quella data nel 1915 a Costantinopoli e continuato poi negli anni a seguire, coinvolgendo altre etnie, sempre di fede cristiana, come greci e siriaci. È una tragedia collettiva che sui mass-media è tenuta in sordina e altri ambiti non sono da meno, tranne casi sporadici.

L'espressione “Genocidio armeno” è collegata a due eventi: il primo, riguarda la campagna contro gli Armeni del 1894-96 del sultano ottomano Abdul-Hamid II: il secondo, la deportazione ed eliminazione di Armeni negli anni 1915-16. Le potenze dell'occidente vincitrici della seconda guerra mondiale furono inerti nei confronti dei colpevoli. Non ci fu quindi una Norimberga per il genocidio armeno che rimase così impunito. Anzi ne è deguita una sorta di damnatio memoriae che stenta a diradarsi.

Le immagini di una documentazione fotografica disponibile in rete sono raccapriccianti. Purtroppo una strage a lungo negata che non trova eco se non evasivamente da qualche testimonianza pietosa
Del genocidio armeno, il primo del secolo dei genocidi, negato in maniera attiva dal governo turco con ogni possibile mezzo si è cominciato a parlare diffusamente negli ultimi anni, rompendo un silenzio durato decenni.
Meno noti sono gli altri atti di violenza organizzata e sistematica compiuti dal governo del “Triumvirato”, i modernizzatori della Turchia del partito Ittihad, “Unione” e proseguito poi dopo la fine della I Guerra mondiale. In questi giorni in Armenia è inaugurato un monumento dedicato al ricordo del genocidio degli assiri sotto il regime turco dell’epoca. Circa cinquemila assiri vivono attualmente in Armenia, secondo le cifre ufficiali; ma il loro numero è probabilmente più alto. Nel 2010 il parlamento svedese ha riconosciuto il genocidio sia degli armeni che degli assiri. E’ storia recente la polemica in Francia su una legge che vorrebbe punire il negazionismo sul genocidio armeno esattamente come è punito quello sulla Shoah.

Fusione delle fonti della Rivelazione con l'assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura

Il testo che segue è tratto dal libro: Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI Rieti 2012, Indice consultabile qui. Disponibile a Roma presso la Libreria Leoniana Via dei Corridori, 28, - Telefono: 06 6869113 - Fax 06 683 3854 - e-mail: leoniana@tiscali.it - Oppure può essere richiesto all'autrice maria.guarini@gmail.com

Fusione delle fonti della Rivelazione 
con l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura 

La Chiesa è la custode del sacro deposito delle verità rivelate in ordine alle quali vengono usati due termini-chiave: Salvaguardia e Trasmissione. La prima indica il dovere e la funzione della Chiesa di custodire le verità rivelate così come le ha ricevute, senza cambiamenti aggiunte o amputazioni; la seconda indica che la Chiesa ha il dovere e la funzione di trasmettere ad ogni generazione tutto ciò che ha ricevuto e solamente quello.

La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, la Dei Verbum, nel II Cap. paragrafi 7-10 ha per oggetto La trasmissione della Rivelazione. Il paragrafo 9 sancisce le relazioni tra Scrittura e Tradizione, il 10 quelle tra Tradizione-Scrittura e Chiesa-Magistero. È proprio qui che avviene la confusione con l'espressione “coalescunt un unum”, riferita ai tre concetti: Scrittura, Tradizione e Magistero. E quindi Scrittura Tradizione e Magistero diventano un tutt’uno così “da non poter sussistere indipendentemente”.

Mons. Gherardini dimostra che la Dei Verbum accantona la dottrina definita dal Tridentino e dal Vaticano I sulle “due Fonti” della Rivelazione (Tradizione e Scrittura), per far confluire Tradizione e Magistero nella Scrittura. Infatti, soprattutto nel punto 10 « il precedente Magistero è spazzato via all’insegna d’una radicale tanto quanto insostenibile unificazione. Unificati sono i concetti di Scrittura, Tradizione e Magistero. […]. La “reductio ad unum” della Dei Verbum, pertanto, corregge se non proprio non cancella letteralmente il dettato del Tridentino e del Vaticano I».(1)  E ciò perché la Tradizione si sarebbe travasata nella Scrittura, di cui il Magistero non sarebbe che una formulazione ed una comunicazione; e “quindi in ultima analisi una ritrasmissione, secondo la natura della Tradizione stessa”. Eppure fino al Vaticano II la teologia ha sostenuto la teoria nelle “due fonti” (Sacra Scrittura e Tradizione) e ne ha dedotto la distinzione della regula fidei in prossima e remota: il Magistero è la regola prossima della Fede, mentre Scrittura e Tradizione sono la regola remota. Infatti è il Magistero della Chiesa che interpreta la Rivelazione e ci obbliga a credere ciò che è contenuto in essa come oggetto di Fede, per la salvezza eterna. 

L’accantonamento della Tradizione e del Magistero a favore della (luterana) sola Scriptura, contenuto nei testi del Vaticano II, è confermato anche dai fatti (“contra factum non valet argumentum”), in primis dalla contestazione dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI del 1968 da parte di interi Episcopati, che criticarono apertamente il Magistero. 

Occorre perciò ribadire che le fonti della Rivelazione sono due: la Scrittura e la Tradizione, che si integrano pur rimanendo distinte. La Tradizione, in genere orale (e se scritta, non scritta per ispirazione divina), trasmette quanto gli Apostoli hanno appreso da Cristo stesso e i loro discepoli dagli Apostoli. La Scrittura non contiene tutta la Tradizione perché vi sono escluse verità trasmesse solo oralmente quali, ad esempio, il Battesimo dei bambini, il numero settenario dei Sacramenti ecc… Perciò tutta l’antichità cristiana esalta, a fianco della Sacra Scrittura, la Tradizione quale canale trasmettitore della divina Rivelazione. Inoltre nella Tradizione mancano quelle Verità contenute nella Scrittura in modo implicito e che la Chiesa ha esplicitato attraverso i dogmi e che si trasmettono poi col Magistero. 

Attualmente il problema non è solo ermeneutico, è molto più profondo, perché vede di fronte due concezioni diverse del magistero, frutto di una vera e propria rivoluzione copernicana, collegata con una nuova concezione di Chiesa nata dal concilio, che ha spostato il fulcro di ogni cosa dall’oggetto al soggetto. 
  1. Il Magistero bimillenario della Chiesa poteva dirsi ‘vivente’ nel senso che trasmetteva secondo i bisogni di ogni generazione - ma curandone l'integrità nella sostanza: eodem sensu eademque sententia - il Depositum fidei della Tradizione Apostolica, fondamento oggettivo, dato per sempre, pur se sempre ulteriormente approfondito e chiarito nelle sue innumerevoli ricchezze; 
  2. il magistero attuale si dice invece vivente, in senso storicistico, perché portatore dell'esperienza soggettiva della Chiesa di oggi (che sarà diversa da quella di domani) essendo sottoposta all'evoluzione determinata dalle variazioni contingenti legate alle diverse epoche.
Il ruolo del magistero – ha detto Benedetto XVI - è di assicurare la continuità di una esperienza, è lo strumento dello Spirito che alimenta la comunione « assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa ». E ancora: « ...Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti ».(2) Il problema sta nel fatto che le cose o parole definite “collezione di cose morte”, nella vulgata modernista vengono riferite al “magistero perenne” che sarebbe diventato “cosa morta” da sostituire col magistero “vivente”, identificato con quello attuale. In tal modo viene conferita al magistero una prerogativa che non gli è propria: quella di essere sempre riferito al “presente”, con tutta la mutevolezza e precarietà propria del divenire, mentre la sua peculiarità è quella di essere, nel contempo, passato e presente, trasmettendo una Verità rivelata che, pur inverata nell’oggi di ogni generazione, appartiene all’eternità. Altrimenti cosa trasmette la Chiesa a questa generazione e a quelle future: solo un’esperienza soggettiva? Mentre le è proprio esercitare una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l'oggetto, ovvero attraverso le verità rivelate e tramandate.

Insomma è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa/Popolo-di-Dio pellegrina nel tempo e di fatto trasferito dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza. È il frutto della dislocazione della Santissima Trinità, come illustra 'sapientemente' Romano Amerio: « Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato al vissuto, della verità alla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade ». Intuibile il sovvertimento della realtà che ne deriva.(3)
Maria Guarini
_________________
1. Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau 2011 
2. Benedetto XVI, La comunione nel tempo: la Tradizione, Catechesi del 26 aprile 2006
3. Romano Amerio, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Lindau 2009, pag.315

lunedì 23 aprile 2012

Ispirazione e verità della Sacra Scrittura e confusione delle "due fonti".

La Santa Sede si sta occupando della richiesta di chiarimenti sulla dottrina della inerranza biblica fatta dal Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, nell'ottobre 2008. La Pontificia Commissione Biblica ha tenuto la sua sessione plenaria annuale della scorsa settimana, dal 16 al 21 aprile, nella Domus Sanctae Marthae nella Città del Vaticano, sotto la presidenza del cardinale William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Lo studio è ancora nella sua prima fase, nella quale si sta focalizzando il modo in cui l'ispirazione e la verità intervengono nella Sacra Scrittura. Ogni partecipante alla sessione ha presentato una relazione che è stata discussa da tutta l'assemblea. 
Il Santo Padre, il 18 aprile scorso ha rivolto un messaggio alla sessione plenaria della Commissione, nel quale ribadisce i temi espressi in quello precedente del 2011: 
[...] Per il carisma dell’ispirazione i libri della Sacra Scrittura hanno una forza di appello diretto e concreto. Ma la Parola di Dio non resta confinata nello scritto. Se, infatti, l’atto della Rivelazione si è concluso con la morte dell’ultimo Apostolo, la Parola rivelata ha continuato ad essere annunciata e interpretata dalla viva Tradizione della Chiesa. Per questa ragione la Parola di Dio fissata nei testi sacri non è un deposito inerte all’interno della Chiesa ma diventa regola suprema della sua fede e potenza di vita. La Tradizione che trae origine dagli Apostoli progredisce con l’assistenza dello Spirito Santo e cresce con la riflessione e lo studio dei credenti, con l’esperienza personale di vita spirituale e la predicazione dei Vescovi (cfr Dei Verbum, 8. 21).[...] 
Questa affermazione mi appare problematica perché, se è vero che la Parola non è un deposito inerte - tenendo conto che il termine deposito (Depositum fidei) si è sempre riferito all'intero patrimonio delle verità di fede costituito non solo dalla Parola (Scrittura) ma anche dalla Tradizione - è altrettanto vero che nemmeno la Tradizione è un deposito inerte, perché è proprio della sua natura essere inverata in ogni generazione. Tuttavia, se intendiamo che la Tradizione progredisce, quindi è soggetta ad evoluzione, in modo che non possiamo attribuire ad essa un significato oggettivo, e  così facciamo dipendere dal suo senso modificabile e incostante il principio-guida per la fede stessa, ci troviamo nella mentalità liberale del 'laboratorio permanente': non possiamo esser certi di nulla, tutto si evolve.

Invece, ciò che può cambiare e cambia, perché è parte del processo di maturazione e approfondimento che appartiene ad una fede 'viva', non è il dono divino del deposito della fede, né l'oggetto della Tradizione, ma la comprensione di quel dono da parte di ogni credente favorita dallo studio teologico ripreso e confermato dai Pastori. È questa comprensione che può essere arricchita e approfondita grazie alla vita di fede nella Chiesa. Ciò che è essenziale, da parte di chi riceve questo dono della Rivelazione, si tratti del semplice fedele o della Chiesa-docente, è rispettare e custodire il senso originario del significato che è immutabile - com'è immutabile il Signore, che è lo stesso ieri oggi e sempre - e vale per tutti i tempi. Parte del problema è che oggi la Chiesa da docente si è trasformata in dialogante.

Dunque, se è non solo lecito ma anche doveroso rileggere la Tradizione nel presente, per meglio comprendere e approfondire ciò che nel passato è stato detto dagli Apostoli, ciò che penso non sia lecito è piegare l'insegnamento degli Apostoli alle filosofie moderne immanentiste e moderniste, che lo snaturano e con esso sono inconciliabili.

Ritengo utile estrarre da una precedente discussione proprio un riferimento al Sinodo del 2008, che riprendo anche per stigmatizzare l'enfasi che viene data sempre più alla Parola, piuttosto che all'Eucaristia. Poi, di seguito, riporto alcune affermazioni di Mons. Gherardini proprio sul tema dell'inerranza, in via di approfondimento da parte della Commissione Biblica.

Scrive con amarezza Marco Marchesini: Dopo aver letto queste affermazioni davvero non so cosa pensare: Il sinodo dei Vescovi, XII Assemblea Generale ordinaria La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa - Instrumentum Laboris - Città del Vaticano 2008:
n.15, c.3- quantunque la Sacra Scrittura sia ispirata in tutte le sue parti *la sua inerranza si riferisce solo alla «verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (DV 11)..*
Rispondo:
Caro Marco come meravigliarsi di simili “approdi” se a proposito di Parola di Dio e del nostro contendere, a quell'Assise ha partecipato, in qualità di esperto nominato dal Papa, il “priore” di Bose Enzo Bianchi? Ecco un brano della sua conferenza, pronunciata davanti alla Chiesa-docente, ai Vescovi riuniti, in attento e forse anche ammirato (!?) ascolto (sta di fatto che nessun vescovo ha mai avuto nulla da obiettare. Viceversa, lo ha fatto un filosofo come Livi - vedi anche):
[...] Il proemio della Dei Verbum, in effetti, fin dall’incipit mostra la sua novità rivoluzionaria: “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, Sacrosancta Synodus verbis s. Joannis obsequitur dicentis…” (“In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacro Concilio aderisce alle parole di s. Giovanni il quale dice…”). Il proemio presenta il Concilio che parla di se stesso, che svela la sua autocoscienza e si pone come esempio per quel “popolo degli ascoltanti della Parola” (Karl Rahner) che sono chiamati a essere i cristiani. La centralità – così biblica – dell’audire, dell’ascolto, che caratterizza la postura del Concilio e dunque della Chiesa, è decisamente innovativa. In questo testo si afferma che la Chiesa esiste in quanto serva della Parola di Dio, sotto la Parola di Dio, nel doppio movimento di ascolto e di annuncio della Parola di Dio: “è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola” (Joseph Ratzinger). Per essere ecclesia docens, la Chiesa deve essere ecclesia audiens: per avere una Parola da insegnare, la Chiesa deve prima averla ascoltata.”
In questo più che una novità vedrei un'involuzione: non è altro che lo “shemà Israel” di conio prettamente veterotestamentario, mentre invece quella Parola è diventata carne in Gesù Signore ed è di Lui che la Chiesa è portatrice e da Lui è cristificata e cristificante svolgendo la sua funzione principale, che è quella di offrire ogni giorno il Santo Sacrificio e nutrendosene. È questa la centralità! L'ascolto è solo un aspetto, una conseguenza e nel contempo una necessità. Ma, mentre la Parola è mediata dal testo, nell'Eucaristia c'è una Presenza Reale, concreta non mediata e c'è un'Actio diretta divino-umana di Cristo Signore, rivolta al Padre ed ai communicantes: i fedeli che partecipano insieme a tutta la Comunione dei Santi. C'è qualcosa di ben altro e di ben oltre rispetto a Mosè e ai Profeti...

Nel seguito della conferenza del nostro “priore”, c'è anche proclamata “la salvezza per tutti”:
“La citazione del prologo della Prima lettera di Giovanni (1Gv 1,2-3) annuncia il tema centrale e la parola chiave della Dei Verbum e dell’intero Concilio: comunione. Comunione che scaturisce dalla comunicazione che Dio, il Dio trinitario (DV 2), cioè il Dio che è comunione nel suo stesso essere, fa della sua vita agli uomini e che si manifesta pienamente in Cristo. Questa comunicazione non è dottrinale, ma vitale; avviene nella storia, ha come forma e centro il Cristo, come destinatario il mondo intero e come fine la salvezza dell’uomo. La dimensione storica e salvifica della rivelazione, la sua dimensione cristocentrica, la sua estensione universale sono qui ricordate in poche frasi che bastano per indicare il ribaltamento di prospettiva rispetto all’impostazione teologica apologetica e deduttivistica precedentemente in auge nella Chiesa.”
Non mi pronuncio sull'“impostazione teologica apologetica e deduttivistica”... Certo che c'è il ribaltamento di prospettiva! Ma quanto tremendamente distruttivo di ogni verità perenne! E non posso far a meno di ricordare il Prologo di Giovanni, che dice: “...a coloro che l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, i quali... da Dio sono stati generati (nel Figlio)” e non mi pare si riferisca a tutto il genere umano. Infatti, se il Signore è venuto per tutti, la Salvezza non prescinde dalla personale risposta del credente, a prescindere dal foro interno di ogni uomo, che solo il Signore giudica.

Specificamente sull'inerranza riporto i seguenti riferimenti di Mons. Gheradini:
[...] Per non incorrere nel pericolo d'interpretazioni soggettive ai danni della Sacra Scrittura che, proprio perché tale e come tale affidata alla Chiesa, sfugge nettamente ai limiti del soggetto, m'affido ai criteri più volte determinati dal Magistero ecclesiastico, nonché alla sua dottrina. Ciò non comporta un'adesione indiscussa a tutto quanto si legge nella Dei Verbum del Vaticano II, sia perché ciò che di dogmatico il Vaticano II espose, appartiene per sua stessa confessione al magistero precedente, sia perché alcune novità della Dei Verbum lascian alquanto insoddisfatti. Essa, pur senza dichiararlo esplicitamente, rinunzia di fatto alla dottrina classica dell'assoluta inerranza biblica e limita l'inerranza stessa alla sola “verità salutare”(18).
Se si pensa che l'inerranza assoluta della Sacra Scrittura non è soltanto una tra le varie premesse d'ogni lavoro esegetico, ma è anche una verità della fede cattolica, a più riprese almeno implicitamente confermata dal Magistero ecclesiastico e dalla tradizione scolastica(19), s'intravede per quale motivo abbia poco sopra definito non soddisfacenti alcune novità della Dei Verbum; esse suscitano - a dir il vero - non poche perplessità. Per uscire dalle quali, sarà bene che l'esegeta cattolico si lasci guidare dai capisaldi del Magistero, in special modo dalla Providentissimus Deus di Leone XIII e dalla Divino afflante Spiritu di Pio XII: l'una infatti stabilisce un'esatta nozione d'ispirazione biblica, nozione che chiamerei teologica in quanto ripugna alla dissociazione della fede dall'ispirazione stessa e dall'inerranza; l'altra mette in evidenza e richiama la varietà dei generi letterari presenti nella Scrittura, le regole per la loro interpretazione ed il senso letterale che ne discende(20).
La tendenza odierna è, invece, per il superamento dei due accennati capisaldi, dando, proprio per questo, la fondata impressione di staccarsi direttamente dall'ambito autenticamente cattolico. Si tratta d'un ambito determinato non da scelte soggettive, ma dalla fedeltà alla linea segnalata dal Magistero. A tale linea è certamente fedele il Vaticano II, specie con la sua formulazione d'un criterio indiscutibile: “in lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu”21. Questo, e non la tendenza sopra accennata, sarà dunque anche il mio criterio. [stralcio dal testo: Sugli ebrei così serenamente]
Inserirò domani una mia precedente riflessione, che completa altri aspetti di questo discorso.