Ieri, alla fine di un articolo, abbiamo evocato la necessità di un vescovo motu proprio (Summorum Pontificum). Riproduciamo qui l'estratto di un contributo di don Claude Barthe, pubblicato insieme ad altri nel libro Enquête sur la Messe traditionnelle (La Nef, 1998), a cura di Christophe Geffroy e Philippe Maxence, in occasione dei 10 anni del Motu Proprio Ecclesia Dei. In un prossimo articolo, pubblicheremo un altro testo, delle stesso autore, datato 2007. E successivamente svilupperemo questo tema, la cui intensità, oggi, ci appare intensificarsi, e spiegheremo il perché.
Il ragionamento è semplice e di buon senso :
1°/ l'esperienza prova che, se la messa tradizionale è fatta per esser detta da tutti i sacerdoti, essa richiede del tutto normalmente preti specialisti nella sua celebrazione ;
2°/ del pari, le messe ed i preti tradizionali possono essere celebrate e ordinati da ogni vescovo della Chiesa, ma queste messe e questi preti richiedono del tutto naturalmente vescovi specializzati nella celebrazione di queste messe e l'ordinazione di preti per queste messe.
Non si tratta assolutamente di parlare di diritto a vescovi specializzati, ma di fortissima opportunità (di congruenza direbbero i teologi) dell'esistenza di questi vescovi.
Un tema già affrontato nel 1988, in un altro contesto, da don Barthe, ma che merita d'esser riletto oggi :
[Traduzione Chiesa e post-concilio]« ...Messa, preti... Se si risale ancora nella catena delle cause, è necessario che i vescovi vogliano ordinare tali preti perché la perennità concreta della celebrazione tradizionale sia assicurata. Alcuni lo fanno di volta in volta. Il punto cruciale delle negoziazioni del 1988, compreso nel fatto che esse abbiano avuto luogo, era innanzitutto la questione dei vescovi San Pio V: è l'annuncio delle consacrazioni episcopali da parte di Mons. Lefebvre che è stato determinante per la conclusione del protocollo ed è la realizzazione autonoma di queste consacrazioni che ha provocato la pubblicazione del Motu Proprio Ecclesia Dei. D'altronde si può dire che questa pressione episcopale originaria in qualche modo perduri nell'esistenza concorrenziale della Fraternità San Pio X provvista di vescovi, mentre le diverse comunità legate con la commissione istituita dal Motu Proprio Ecclesia Dei non ne sono provviste.
Considerato che a differenza del Motu Proprio Ecclesia Dei, il protocollo ipotizzava anche la creazione d'una situazione del tutto straordinaria annunciando la nomina di un vescovo San Pio V: era l'abbozzo d'un autentico rito San Pio V a fianco del rito di Paolo VI, coesistenza inaudita nella storia per il fatto di non esser fondata su contesti regionali distinti, ma sul rifiuto di una riforma.Messa, preti, ma non vescovi. Se la via del protocollo d'accordo (giuridicamente antiquato, ma che conserva una specie di esistenza virtuale) e la via del Motu Proprio Ecclesia Dei mi sembravano insoddisfacenti per il fatto che non prendono direttamente ed espressamente in considerazione il legame tra la lex orandi e la lex credendi (a mio parere il problema di fondo non è quello della conservazione della messa tridentina, ma quello della rimessa in causa della messa paolina in ragione delle sue intrinseche imperfezioni), esse hanno il vantaggio – oltre quello preminente di impedire il gioco della prescrizione in ordine al rito tradizionale – di mettere in evidenza il legame tra l'episcopato, la trasmissione del sacerdozio e la forma della celebrazione. Peraltro questo legame è nella natura delle cose.
Qual è dunque il futuro della celebrazione pre-conciliare? Bisogna dirlo chiaramente: in ultima analisi, questo futuro dipende dai vescovi che la prenderanno o non la prenderanno pienamente in custodia. Più fondamentalmente, è la soluzione della crisi liturgica che dipenda da questa presa in carico. In altre parole: la critica non solo teorica, come quella del cardinal Ratzinger, ma anche pratica – essendo i due aspetti inseparabili in questa materia – della riforma liturgica del 1969 non ha futuro se non diviene un fatto di vescovi. A maggior ragione se si vuol ammettere che il problema liturgico nato da questa riforma è in rapporto diretto con quello dell'applicazione del Vaticano II del quale essa è, dopo tutto, il segno principale e quotidiano »
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