Il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, ha parlato: sotto il peso non della sua responsabilità istituzionale, ma degli enormi ed innumerevoli peccati della Chiesa, ha nuovamente parlato. Ed ha implorato con tutta l’umiltà che notoriamente lo caratterizza: “Riconosciamo insieme le nostre colpe” (L'Osserv. Rom., 19-20 nov. 2012, p. 5).
Destinatari di un così nobile invito, i fratelli separati. Come costoro l’avranno accolto non è detto, ma è presumibile che essi pure, sotto la spinta emotiva delle prossime celebrazioni dei cinquecento anni della Riforma (1517-2017), abbiano pienamente convenuto: finalmente la Chiesa cattolica, per bocca d’un suo altissimo rappresentante, riconosce le proprie colpe o quanto meno la sua partecipazione a colpe comuni.
Si è in tal modo rinnovato il “rito”, di moda qualche anno fa, della pubblica richiesta di perdono. Manca soltanto la cenere e il cilizio per completare la scena penitenziale: la Chiesa in ginocchio a battersi il petto.
Si pensava che, da quando Giovanni Paolo II, dilatando oltremisura una simile richiesta del predecessore Paolo VI, aveva fatto di essa il leit-motiv del suo pontificato, quel motivo fosse poi passato in disuso e finalmente scomparso. Non si poteva ignorare, però, che presto quel motivo sarebbe ritornato di moda sulle labbra di un eminentissimo principe della Chiesa, noto per la sua esemplare e illimitata sensibilità ecumenica e afflitto, quasi schiacciato dal ricordo dei peccati commessi dalla Chiesa, specialmente dei suoi soprusi e delle sue offese contro il povero Lutero e la sua benemerita Riforma.
Sì, ancora una volta Lutero riscuote la commossa attenzione del cardinale Kurt Koch, il quale ancora una volta prende la palla al balzo per attestare pubblicamente la sua comprensione e la sua stima al grande promotore della rivolta protestante.
Quanto è realmente uscito dall’aurea bocca di questo cardinale ha qualcosa di impensabile e di incredibile. Dimentico, o forse ignaro che “Riforma” significò e significa uno schiaffo alla santa Madre Chiesa, nonché la più grande ed - umanamente parlando - irreparabile lacerazione dell’unità cristiana, e che di essa Lutero fu il primo e massimo responsabile, con disinvolta ed imperdonabile leggerezza intona, nei confronti di lui, un vero peana.
Forse nemmeno dai suoi epigoni Lutero riscuote oggi lodi così sperticate come invece riscuote da un cardinale di Santa Romana Chiesa, sulla base non di informazioni criticamente vagliate, ma della gratuità funzionale al dialogo: “Martin Lutero ha introdotto aspetti molto positivi”: quali? il cardinale non lo dice; basta la sua sparata per aprire una breccia all’ascolto interessato e compiaciuto degli interlocutori protestanti.
“Lui era appassionatamente alla ricerca di Dio, era totalmente dedito a Cristo”: sì, tanto appassionatamente e totalmente da non tollerare “il corpo suo che è la Chiesa”, la sua struttura gerarchica ed i suoi sacramenti e da non trattenersi da un odio viscerale e spesso triviale contro gli Ebrei, né dalla sanguinosa repressione dei contadini.
“Lui non voleva la divisione”: sì, fin al 1519, quando sperava d’innescare la sua rivolta all’interno della Chiesa; da quell’anno in poi ogni suo gesto, ogni suo pensiero, ogni suo scritto rispondono ad un unico intento antiromano ed antiecclesiale.
L’intervista da cui è tratto quanto sopra prosegue accennando a vari altri motivi, l’uno più stimolante dell’altro; ci fermiamo a questo punto per tornare ad interrogare l’eminentissimo porporato, che come ogni altro eminentissimo porporato dovrebbe essere e rimanere “cardo Sanctae Romanae Ecclesiae”, e per sapere da lui se speri di esserlo sulla base del dogma cattolico o della simpatia per Lutero.
E poiché proprio questa simpatia più che evidente ci sembra lapalissiana, ci permettiamo per la seconda volta di chiedere al responsabile del dialogo fra i cristiani separati da dove essa nasca, dove abbia perfezionato quella spavalda conoscenza di Lutero, che gli consente di intonare i suoi ripetuti peana nei confronti di lui.
Non basta l’essere compatrioti: può discenderne, sì, un rapporto di simpatia, ma non un giudizio di merito. Dove allora ha approfondito il problema e maturato il suo giudizio, alla scuola di chi, a quali fonti?
Una prima volta, tempo fa [v. il precedente articolo “La logica del card. Koch”), gli chiedemmo che conoscenza avesse della Weimarana e si è oggi costretti a ripetergli la domanda, sicuri che in nessuno dei 58 volumi in cui è ripartita l’edizione critica delle opere di Lutero, ed in nessuno degli 11 che ne raccolgono l’epistolario, è possibile imbattersi in una sola frase che giustifichi i giudizi di questo eminentissimo porporato in così profonda sintonia ed amicizia col Padre della Riforma.
E poiché certe domande son come le ciliege, l’una cioè tira l’altra, ci sembra ovvio chiedergli pure su quali basi lui stesso e la commissione internazionale per il dialogo tra la Federazione mondiale luterana e il pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani abbiano potuto elaborare il documento intitolato “Dal conflitto alla comunione”: si può anche, ma non necessariamente, desistere dal combattere; non si può desistere dal confessare. Si può decidere di comune accordo che è meglio, anzi è più evangelico abbandonare le armi e stringersi la mano, ma “la comunione” è un’altra cosa. E talmente altra, che non di per sé, cioè non automaticamente lo stringersi la mano equivale ad una confessione condivisa, ad una convergenza senza se e senza ma, ad un bilaterale e reciproco “comunicare”. Il predetto titolo –
“Dal conflitto alla comunione” - pone anzi due problemi distinti e interdipendenti:
- Fermo restando il dato storico di un conflitto non da altri promosso che dallo stesso Lutero, è ovvio che, fin a quando si condividono i motivi della sua rivolta e se ne fa oggetto di celebrazioni più o meno solenni, il conflitto rimane, sottraendo spazio e respiro alla stessa possibilità della comunione.
- E se anche, per dabbenaggine o per una sorta di buona ma non illuminata volontà, si chiudesse un occhio sui motivi della divisione, essa tragicamente rimarrebbe a neutralizzare sul nascere ogni anelito alla comunione.
È pertanto assurdo illudersi di stabilire rapporti di comunione lasciando inalterati i motivi della divisione. Sarebbe come metter insieme il diavolo e l’acqua santa. Rimanendo il conflitto, nessun adito, anzi neanche un pertugio viene di fatto aperto alla comunione e l’affermare il contrario è segno o di grande disinformazione, o di poca sincerità, o di mancanza di logica.
Alipio de Monte
Questo è drammatico, soprattutto per coloro che fanno apologia contro il protestantesimo. Tra il 2003 e il 2005 ho partecipato a un grande sito brasiliano apologetica. Il focus apologetico del apostolato era esattamente contro il protestantesimo. E 'stato terribile vedere che i protestanti facevanno usi di parole come queste del cardinale Koch contro la Chiesa stessa. A volte non abbiamo avuto come rispondere.
RispondiEliminaSe leggiamo la Ecclesiam suam di Paolo VI, lo vediamo parlando del fine delle condanne a priori. Mentre oggi vediamo un certo grado di accettazione a priori di quasi tutto. E 'difficile sapere come l'apologetica sopravvive in questo caso, per quanto ne so, la maggior parte dell'apologetica si basa esattamente in condannazione a priori. Nel caso dei vescovi, per esempio, è difficile immaginare loro a fare apologetica contro il protestantesimo, mentre a Roma parla con loro con amicizia, come nel caso di questa commemorazione dei 500 anni della riforma. Qui in Brasile c'è stato un semplice caso che illustra molto bene a emulazione contraddittoria. Il vescovo della città di Uberaba Dom Alexandre Gonçalves Amaral cercato di mantenere l'uso della tonaca e ha vetato l'utilizzo del clergyman per i sacerdoti, guarda un breve resoconto:
"Un pomeriggio, dopo l'atteggiamento radicale di Dom Alexandre Gonçalves do Amaral, di Uberaba, che aveva dichiarato che non avrebbe di concedere l'uso di ordini per quelli candidati vestito con clergyman, il bollettino ha stampato foto ritaglio di Papa Paolo VI con un clergymam bianco, quando del suo viaggio in Africa. Sotto la foto, una didascalia: questo non sarebbe dato l'uso di ordini in Uberaba". Il Concilio Vaticano II fa 40 anni - http://www.oraetlabora.com.br/artigos/o_concilio.htm
Le cose sono più meno così: parlano in Roma di una dottrina para-conciliare (Mons. Pozzo), ma nella verità dei fatti, ce una collaborazione tra spirito e contro-spirito del Concili, come dice il Prof. Paolo Pasqualucci. E il luogo dove se può vedere e sentire questo, è esattamente nella mancanza di apologetica dei Vescovi. Se vuole dialagore con tutti, se vuole l'amicizia, non se vuole combattere a tutti al riconoscere l'inimicizia di quelli che ancora non sono in Cristo e nella Chiesa...
Un saluto dal Brasile
Gederson Falcometa, concordo in pieno. È sconsolante sapere che quando cerchi di combattere gli errori e le eresie ti vedi rinfacciare frasi di cardinali, vescovi o addirittura del papa.
RispondiEliminaMi par di sentirli: Sei più papista del papa!
Purtroppo anche discutendo con le persone e cercando di "evangelizzare", una delle prime cose da fare é prendere le distanze da un certo tipo di Chiesa. Non puoi proporre la Verità e allo stesso tempo difendere l'indifendibile di certa gerarchia.