Durante le feste di Natale mi avevano riferito che un giovane sacerdote, per gli amici Taturiello, dopo appena due anni di Messa ha improvvisamente gettato la tonaca alle ortiche ("tonaca" in senso metaforico: non ne ha mai usata una, era decisamente raro vederlo con almeno il colletto del clergyman, e rifiutava perfino il titolo "don"). Lo ha fatto così, di punto in bianco e senza preavviso, pochi mesi dopo un caso analogo nella sua stessa diocesi. Notizie del genere non stupiscono più: questo drammatico stillicidio di abbandoni repentini del sacerdozio avanza ovunque a ritmo sempre più accelerato.
Nel leggere il giornale al mattino, i vescovi temono di scoprire dalle cronache locali di avere una parrocchia "scoperta" in più e un prete in meno. In pochi anni alla Congregazione per il Clero si sono accumulati oltre dodicimila di questi casi (su poco più di 400.000 sacerdoti nel mondo): gli spretati-express se ne infischiano della trafila burocratica per chiedere la riduzione allo stato laicale. Dopotutto se il sacerdozio consisteva nell'avere «una personalità integrata e un carattere dialogante e moderato», a che pro perdere tempo per mettersi a posto con santa madre Chiesa?
E pensare che per arginare il fenomeno erano state escogitate diverse eccelse strategie: allungare la formazione a cinque anni, anzi a sei anni e più, imbottire i candidati di tantissime attività di seminario e parrocchiali, esigere il biennio di licenza teologica aggiuntivo... Non è servito a niente: anche ad aggiornarli spesso, gli annuari diocesani sono sempre zeppi di nomi e statistiche del clero che non corrispondono alla realtà. Tutte le volte che gli ecclesiastici hanno tentato di gestire la Chiesa come se fosse un partito o un'azienda, hanno sempre fatto la magra figura dei dilettanti allo sbaraglio.
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