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giovedì 18 febbraio 2016

don Curzio Nitoglia. Il Papa Vicarius Christi ~ Dai Padri sino al Gaetano

Il potere del Papa e quello dei Vescovi

Il Papa

Il Papa ha potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa ed essa è una potestà 
  1. suprema cioè superiore a ogni altro potere umano/ecclesiastico: imperatore/vescovi/concilio; 
  2. piena cioè totale, cui nulla manca nel suo genere. In breve essa è auto-sufficiente relativamente ad ogni potere umano, ma non quanto a Dio (CIC, 1917, can. 218).
In Teologia si parla comunemente di triplice potere: di ordine (sacerdotium), di giurisdizione (imperium) e di insegnamento (magisterium); mentre nel Diritto Canonico si parla solo di due potestà: quella di ordine e quella di giurisdizione, nella quale ultima è compresa anche la potestà di magistero (CIC, 1917, can. 196-210). Il potere d’ordine è finalizzato alla glorificazione di Dio (mediante il Sacrificio della Messa) e alla salvezza delle anime (mediante i Sacramenti). Il potere di giurisdizione è diretto a governare i fedeli in ordine alla vita eterna; esso si suddivide in 
  1. magistero, che è il potere di insegnare la Verità rivelata senza errori o infallibilmente e in
  2. legislazione, che è il potere di far leggi, di giudicare e di coercire.
Il Papa ha il primato di giurisdizione in quanto è successore di Pietro, avendo Gesù designato Pietro e i suoi successori (i Pontefici romani) come capo supremo di tutta la Chiesa. Il Papa – per divina istituzione – ottiene la pienezza del suo potere supremo di giurisdizione, sùbito dopo aver accettato l’elezione canonica, direttamente da Dio e non tramite i Cardinali; ciò vale anche se l’eletto non è ancora Vescovo e viene poi consacrato dal Cardinale decano. Quindi il potere di giurisdizione il Papa lo riceve da Dio immediatamente dopo l’accettazione, mentre il potere di ordine, se ancora non lo avesse, lo riceve da un Vescovo (il Cardinale decano) con la successiva consacrazione episcopale[1].

I Vescovi

I Vescovi sono i successori degli Apostoli per divina istituzione; essi presiedono alle loro diocesi particolari, che governano sotto l’autorità del Papa e non presiedono alla Chiesa universale, la quale è diretta dal Papa, che è il successore di Pietro, “capo degli Apostoli” (cfr. Giovanni XXII, Costituzione Licet iuxta doctrinam contro Marsilio da Padova, 23 ottobre 1327, DB 498; Martino V, Conc. Costanza, sess. VIII, 4 maggio 1415 contro John Wycliff e sess. XV, 6 luglio 1415 contro Jan Hus, DB 675 ss.; Conc. Tr., sess. XXIII, c. 4, DB 960; Conc. Vat. I, sess. IV, c. 3, DB 1828; S. Pio X, Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, DB 2050; S. Pio X, motu proprio Sacrorum Antistitum, 1° settembre 1910, DB 2014; CIC, 1917, can. 329).

In breve i Vescovi debbono essere “con Pietro e sotto Pietro” anche nelle loro diocesi e quindi non hanno la potestà piena o totale (perfetta, cui nulla manca nel suo genere) e suprema (la più alta e quindi indipendente da un superiore umano) così come ce l’ha il Papa su tutta la Chiesa indipendentemente da ogni potere umano, dato che essi dipendono dal romano Pontefice nel governare quel territorio o diocesi che il Papa ha affidato loro.

È importante specificare che i Vescovi sono maestri e giudici nella Chiesa non in maniera totale e assoluta (ossia sciolta da ogni altro potere superiore), ma in maniera subordinata e dipendente da Pietro. Quindi il Papa è essenziale e non accidentale (come vorrebbe il conciliarismo o l’episcopalismo collegiale) al governo (di magistero e di giurisdizione) della Chiesa universale e dunque alla sua vita ed anche alla validità del Concilio ecumenico come la testa è essenziale alla vita del corpo (cfr. S. Roberto Bellarmino, De Conciliis, cit., I, 18). Quindi non ci si può appellare alla sentenza dei Vescovi contro quella del Papa (errore conciliarista).

L’Episcopato è di istituzione divina in quanto i Vescovi sono i successori degli Apostoli; quindi esso dovrà durare sino alla fine del mondo poiché (come il Papato, sebbene ad esso subordinato) è elemento necessario ed essenziale alla costituzione della Chiesa.

Quindi vi è un solo soggetto (per sua natura) del sommo potere di magistero e giurisdizione sulla Chiesa universale e questo è il Papa, che, se vuole, senza esserne obbligato, può far prendere parte ad esso (per partecipazione) il Corpo dei Vescovi, in maniera transitoria, temporanea e non eguale (inadeguata) alla sua.

Il concetto di partecipazione significa rapporto tra partecipante (effetto) e partecipato (causa). La creatura riceve parzialmente e in maniera finita l’essere infinito da Dio, che è l’Essere per essenza (è l’Essere infinito), mentre la creatura è ente per partecipazione o per recezione (ha o riceve l’essere finito): la creatura è partecipante all’Essere di Dio che è partecipato. Si può dire per analogia che i Vescovi ricevono la giurisdizione sulla diocesi particolare e la nomina dal Papa, il quale riceve il potere direttamente da Dio e governa la Chiesa universale, perciò i vescovi sono come effetti (partecipanti) in rapporto al Papa (partecipato), che è causa della loro elezione e del potere di giurisdizione particolare. San Tommaso d’Aquino fa un esempio: tutte le cose calde per partecipazione o che ricevono il calore si riferiscono al fuoco il quale è caldo per natura (In Jo., Prologo, n. 5); così si può dire per analogia che i Vescovi i quali ricevono (per partecipazione) la giurisdizione dal Papa si riferiscono a lui, il quale per sua natura di Sommo Pontefice e successore di Pietro governa la Chiesa universale. Ovviamente sia il fuoco che il Papa, essendo enti creati, ricevono il calore e il potere da Dio, Ente increato. (Cfr. S. Tommaso d’Aquino, C. Gentes, lib. I, cap. 26; In De Hebdomad., lez. 2, n. 24 e 34; In De causis, prop. 25; De potentia, q. 3, a. 5).

Quindi
  1. il Papa da solo può insegnare infallibilmente e governare la Chiesa universale;
  2. i Vescovi senza partecipare al potere del Papa non possono nulla quanto alla Chiesa universale;
  3. il Papa può unire a sé il Corpo dei Vescovi, i quali non sono soggetto eguale (adeguato) al Papa (per la loro natura di Vescovi) del potere di magistero e di giurisdizione universale, ma soltanto in quanto ricevono dal Papa (per partecipazione) il potere sommo di giurisdizione e di magistero sulla Chiesa universale temporaneamente e subordinatamente al Romano Pontefice, e non lo hanno in sé (per essenza). Anche nel concilio il Papa è il capo e i Vescovi sono il corpo a lui subordinato.
In breve nella Chiesa il soggetto del potere è solo il Papa, che se vuole fa partecipare l’Episcopato al suo supremo e pieno potere, in maniera temporanea, e non alla pari.

Il Concilio ecumenico (CIC, 1917, can. 222-229) partecipa al potere supremo e pieno o totale del Papa e dunque non ha nessun potere totale e supremo indipendentemente dal Papa. Solo il Papa può indire un Concilio ecumenico. (Cfr. A. Piolanti, Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, coll., 167-173, voce “Concilio”).

I Vescovi, pur essendo successori degli Apostoli, non ne hanno tutte le prerogative quali
  1. la scelta diretta da parte di Cristo;
  2. la giurisdizione sulla Chiesa universale.
Infatti Pietro era capo degli Apostoli (Mt., XVI, 18), ma questi vennero chiamati direttamente da Cristo (Mc., VI, 7-13; Lc., IX, 1-6) ed ebbero da Gesù giurisdizione su tutta la Chiesa (Mt., XVIII, 17-18).

Apostoli e Chiesa “vicari di Cristo” in senso generico

Monsignore Michele Maccarrone ha scritto un interessante libro sulla questione (storico/teologica) del Papa come Vicario di Gesù Cristo[2]. Me ne servo nel presente articolo per riassumere il problema[3].

Nei Vangeli la parola “Vicario” manca completamente, però il concetto appare in maniera generica nei testi evangelici che descrivono la missione affidata da Gesù agli Apostoli nella Chiesa da Lui fondata.
I Dodici ricevono la Sua stessa autorità: “Tutto ciò che voi legherete sulla terra sarà legato in cielo…” (Mt., XVIII, 18); essi debbono rappresentare Gesù asceso in cielo di fronte ai fedeli: “Chi vi ascolta Mi ascolta” (Lc., X, 16); “Chi vi accoglie Mi accoglie” (Mt., X, 40); “Come il Padre ha mandato Me, così Io mando voi” (Gv., XX, 21).

In breve gli Apostoli con Pietro a capo son costituiti “legati, ambasciatori, rappresentanti e quindi vicari di Cristo” nella Chiesa dopo la sua Ascensione in cielo. San Paolo riassume così la funzione vicaria degli Apostoli: “Pro Christo legatione fungimur / Facciamo le veci di ambasciatori di Cristo” (II Cor., V, 20), vale a dire gli Apostoli con Pietro a capo sono mandati da Dio come suoi legati a continuare l’opera di Cristo asceso in cielo.

Il Magistero ha ripetuto tale concetto con Leone XIII: “Cristo ha costituito la Chiesa come vicaria del Suo compito con ogni potestà” (Arcanum, 10 febbraio 1880) e così Pio XII: “La Chiesa sulla terra come un alter Christus rappresenta la Sua Persona” (Mystici Corporis, 1943). Il concetto di “Chiesa vicaria di Cristo” si ritrova comunemente nella Tradizione patristica e scolastica[4].

Tale concetto di funzione vicaria applicato ai Dodici o alla Chiesa è ancora generico e non costituisce un titolo specifico come nel caso di Pietro e del “Papa Vicario di Cristo”. Infatti riguarda in generale la missione degli Apostoli sia come sacerdoti sia come capi della Chiesa aventi una giurisdizione in essa, ma sotto Pietro.

Pietro “Vicario di Cristo” in senso specifico

Per quanto riguarda l’applicazione del termine Vicario a Pietro, invece, si nota che esso man mano diventa un titolo specifico e proprio in senso stretto ed immediato del solo Pietro e dei Papi suoi successori.

In Matteo (XVI, 18-19) domina l’idea della Chiesa che Gesù vuole fondare e da questa volontà di Cristo, annunziata solennemente da lui stesso davanti ai Dodici, risalta in maniera stretta e specifica la prerogativa singolare che avrà Pietro su tutta la Chiesa.

Gesù si presenta come legislatore supremo e divino, annunzia solennemente la costituzione di una nuova società o comunità religiosa, che anche nominalmente ricorda e continua la Sinagoga (Ekklesìa) di Dio formata da Jahvé col patto del Vecchio Testamento. Questa nuova società prende il nome dal suo fondatore e, quindi, si deve chiamare in senso stretto Chiesa di Cristo.

Le due comunità sono simili quanto all’origine perché sono state fondate dalla libera volontà di Dio. Nell’Ekklesìa del Vecchio Testamento Javhé era il capo effettivo e permanente; essa era una teocrazia. Nella Chiesa del Nuovo Testamento rimane il dominio assoluto di Cristo (vero Dio e vero uomo) su di essa.

Tuttavia c’è qualcosa di nuovo nella costituzione della Chiesa di Cristo. Infatti, quando Pietro (Mt., XVI, 18) confessa, divinamente ispirato, che Gesù è il Messia, a sua volta Gesù Cristo, che come Messia è la pietra e il fondamento annunziati da Isaia (XXVIII, 18), dice solo a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra Io fonderò la mia Chiesa”.

San Leone Magno commenta: “Essendo Io (Cristo) la Pietra inviolabile o per essenza, anche tu (Simon Pietro) sei Pietra (per partecipazione), poiché sei rafforzato dalla mia potenza”[5].

Questa è la novità della Chiesa di Cristo. Il suo fondatore, Gesù, nell’atto di fondare la sua Chiesa, dà a Pietro il medesimo suo ufficio e lo rende partecipe di esso. Gesù è capo per essenza e Pietro per partecipazione. Ciò cambia l’essenza della Ekklesìa del Vecchio Testamento che era una teocrazia, governata direttamente da Javhé, mentre nella Chiesa del Nuovo testamento Cristo dà o partecipa a Pietro il posto che per essenza aveva Javhé e Pietro diviene per partecipazione il capo visibile sulla terra, in senso vero e proprio, della Chiesa con Cristo come capo invisibile in cielo per essenza.

Tuttavia non avviene una trasmissione di poteri da Cristo a Pietro poiché Gesù resta permanentemente capo invisibile della Chiesa per essenza e in maniera infinita. Quindi Gesù non ha designato un successore che lo rimpiazzi totalmente, ma un capo visibile che partecipa il Suo potere.

Cristo ha dato a Pietro non una generica autorità sulla Chiesa (come avviene ai Prìncipi temporali), ma gli ha trasmesso o partecipato la sua propria autorità. Gesù pone Pietro al posto Suo come Suo sostituto e Suo rappresentante nella Chiesa.

Giuridicamente questa costituzione di governo viene definita in maniera propria con il termine “Vicario di Cristo”. Infatti San Pietro (partecipante/effetto) sostituisce in terra Gesù con la stessa pienezza di potere, ma nello stesso tempo è subordinato a Cristo (Partecipato/causa), capo principale e invisibile della Chiesa, nella quale perciò sussistono due poteri che non interferiscono vicendevolmente perché uno è il principale (per essenza) o la causa e l’altro è il consociato (per partecipazione) o l’effetto. Alla teocrazia della Vecchia Alleanza, che era il governo diretto di Dio sul popolo eletto, succede il consorzio di Gesù e Pietro. Pietro è nominato per partecipazione a quel posto di capo della Chiesa che per essenza spetta solo a Gesù.

In Matteo (XVI, 19) Gesù dice a Pietro: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli”. Con ciò Gesù vuol farci capire che nella Chiesa Pietro assumerà per partecipazione il posto di padrone di casa che ha per essenza Cristo, l’originario e principale possessore delle chiavi, rappresentanti il possesso e la piena proprietà dell’edificio[6]. Pietro e solo lui avrà per partecipazione il possesso delle chiavi che gli danno il supremo potere nella Chiesa.

Tuttavia Cristo asceso in cielo mantiene per essenza il perenne possesso delle medesime chiavi, ma le affida per partecipazione a Pietro qui sulla terra. Non vi sono due padroni per essenza nella Chiesa, possessori indipendenti delle chiavi. Ma Pietro è elevato da Gesù al posto di suo sostituto e quindi di suo vicario. Cristo ha la chiave della Chiesa in quanto Dio, ma questa chiave ossia questa autorità Egli la rimette nelle mani di Pietro poiché, dovendo ascendere in cielo, vuol lasciare sulla terra un suo rappresentante o Vicario (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 76), che oltre il possesso delle chiavi ha anche il “potere di aprire o chiudere” (Mt., XVIII, 18), ossia la pienezza di esercizio dell’autorità su tutta la Chiesa.

In breve Pietro è il vicario visibile di Cristo nella Sua Chiesa; Pietro possiede per partecipazione nella Chiesa il potere che per essenza è proprio di Cristo, suo divino fondatore; inoltre siccome agere sequitur esse Pietro può esercitare in concreto la medesima autorità che Cristo-Dio ha in cielo.

Nel Vangelo di Giovanni (XXI, 15) Gesù rende Pietro Pastore supremo delle pecore (Apostoli/Vescovi) e degli agnelli (sacerdoti/fedeli). Alla fine della sua missione in terra Cristo, dopo aver insegnato agli Apostoli che Egli è per essenza il Pastore delle anime per condurle in cielo, dichiara solennemente davanti ai Dodici che solo Pietro è per partecipazione il Pastore supremo della Chiesa. Agnelli, pecorelle e pecore indistintamente sono sottoposti alla giurisdizione di Pietro, ma agnelli, pecorelle e pecore non cessano di essere di Cristo[7]. Infatti Gesù ripete per tre volte “meos/meas”. Quindi Gesù mantiene il suo potere di Pastore, ma costituisce Pietro suo Vicario in terra, che rappresenta e fa le veci visibilmente su questa terra di Cristo Pastore invisibile, perenne e principale.

Sant’Ambrogio, commentando il versetto di San Giovanni, usa il termine Vicario di Cristo riferito a Pietro[8]. Ecco l’elemento nuovo che caratterizza la Chiesa di Cristo e la distingue sostanzialmente dalla Sinagoga dell’Antico Patto: Pietro partecipa alla divina autorità di Gesù sulla Sua Chiesa, come capo visibile per partecipazione, che rappresenta Gesù asceso in cielo, capo invisibile per essenza della Chiesa. Come in Gesù vi è una natura divina e una umana, così la Chiesa ha un elemento divino e uno umano[9].

Ora la societas Petri cum Christo, l’essere Pietro Vicario di Cristo non è un privilegio transitorio concesso solo alla persona fisica di San Pietro, ma è un elemento proveniente da Dio come costitutivo essenziale della Sua Chiesa. La Chiesa di Cristo ha ricevuto dal suo fondatore una forma di governo costituita da un Vicario in terra di Cristo in cielo e quindi tale forma non può essere mutata dagli uomini, ma deve perpetuarsi nella Chiesa.
“L’ufficio di Vicario di Cristo affidato all’Apostolo è essenziale e perenne nella Chiesa: esige pertanto che sia trasmesso, con la stessa pienezza di potere, ai suoi successori, i quali come San Pietro saranno Vicari di Cristo”[10].
Il “Vicarius Christi” nei Padri ecclesiastici

L’esposizione dottrinale esplicita sulla Chiesa e il Papato è stata affrontata raramente nei primi tre secoli cristiani. Tuttavia vi sono delle testimonianze patristiche sul Vicarius Christi a partire dalla rivelazione evangelica.

S. Ignazio di Antiochia approfondisce per primo, nel 107, la questione. Egli studia la questione del termine “Vicario” applicata agli Apostoli in genere. Gli Apostoli e i loro successori, i Vescovi, possono essere chiamati Vicari di Dio. Anche se manca il termine letterale preciso vi sono delle circonlocuzioni che lo esprimono con altre parole. Nella Epistola ai Magnesiani al capitolo VI raccomanda ai cristiani di agire in “concordia col Vescovo, che tiene il posto di Dio”. Ora la lingua greca, usata da S. Ignazio, non conosceva il termine “Vicario” e per esprimere il concetto ricorreva alla circonlocuzione “locum tenens”. Quindi il Vescovo per S. Ignazio è “Vicario di Dio”.

Passando ai Padri latini monsignor Maccarrone osserva che “il genio della lingua latina già si era dotata della parola Vicario e la usava largamente”[11]. Vicario viene da vicis ossia parte, posto, luogo e il termine Vicario aveva il significato di vicem agens cioè colui che agisce al posto di un altro, che lo sostituisce e subentra al suo posto. Nel Diritto fu impiegato molto largamente. I primi Padri occidentali ad usarlo per la Chiesa furono Tertulliano e S. Cipriano.

Tertulliano utilizza l’espressione “Vicarius Patris et Vicarius Christi”. Gesù per Tertulliano (Adversus Marcionem, III, 6 e Adversus Praxeam, c. 24) è il Vicario del Padre eterno, mentre lo Spirito santo è il Vicario, il continuatore di Cristo tra gli Apostoli (Adversus Valentinianos, c. 16; De praescriptione haereticorum, c. 13 e 28; De virginibus velandis, c. I).
Tuttavia la terminologia di Tertulliano non ebbe séguito tra gli altri Padri (riappare solo nell’Ambrosiastro)

In San Cipriano (Ep., II, 2; Ep., XLV, 2) la parola “Vicario”, pur se usata nel significato ordinario della lingua del tempo, rappresenta l’inizio di una terminologia che prenderà piede nella Chiesa poiché esprime molto bene il concetto di vicariato esposto nei Vangeli. Giuridicamente i “Vicari” in Cipriano sono i succedanei, che sostituiscono e rappresentano una persona.

Teologicamente la parola Vicario esprime due concetti assai importanti:
  1. il rapporto con Dio quanto al potere di santificare del vescovo e del sacerdote (“Vicari di Cristo”);
  2. la successione, quanto al governo o al potere di giurisdizione nella Chiesa, dei vescovi dagli Apostoli come loro “Vicari”[12]. Idea questa già incontrata nei Vangeli e testimoniata da Sant’Ignazio, che viene ripresa e sviluppata da San Cipriano: “Sacerdos vice Christi vere fungitur”[13].
Il ministero del sacerdote e del Vescovo è di sostituire visibilmente e rappresentare presso i fedeli su questa terra sino alla fine del mondo Gesù Cristo con il suo stesso potere e autorità, e, nello stesso tempo, indica che si sostituisce un Vivente il quale continua ad essere invisibilmente il capo perenne della Chiesa. Il potere degli Apostoli è quello dato loro da Cristo e che loro trasmettono ai loro successori: i Vescovi.

In breve il Vicario è il successore degli Apostoli, ne prende il posto ed esercita la stessa loro autorità, insegna la loro medesima dottrina, conservata fedelmente attraverso la successione apostolica[14].
“Se i vescovi, in genere, sono i vicari degli Apostoli, il Vescovo di Roma, in particolare, è il Vicario dell’Apostolo Pietro”.[15]
Ecco la prima apparizione di un titolo che avrà grande fortuna nei secoli successivi: Vicarius Petri. San Cipriano con tale espressione esprime una prerogativa particolare del solo Vescovo di Roma. Infatti la “cattedra di Pietro” non è per lui il semplice ricordo o il solo simbolo dell’episcopato romano di Pietro, la cattedra dove una volta San Pietro era seduto. Essa rappresenta una realtà sempre presente e operante ed è un “vivente tribunale d’appello, cui ci si può sempre rivolgere, come attuale e presente è la Chiesa universale”[16].

Il Papato potenziale, materiale o virtuale che durerebbe da 50 anni sembra quindi estraneo alla sana theologia papalis.

Insomma San Cipriano in questo passo dice che la Cattedra di Pietro è un’istituzione perenne, sempre visibile dai fedeli, come la Chiesa universale, per disposizione di Cristo. Quindi abbandonarla significherebbe abbandonare la Chiesa stessa perché la cattedra romana rimane sempre la cattedra di Pietro, il cui Vescovo è Vicario di Pietro, il suo successore, che lo sostituisce, lo rappresenta con identità di poteri e di autorità.

Il Concilio di Efeso

Il titolo “Vicarius Petri” di san Cipriano viene ripreso nella Chiesa comunemente e in particolar modo nel Concilio di Efeso del 431 nel discorso pronunziato l’11 luglio 431 nella III sessione del Concilio dal presbitero Filippo, inviato come legato del papa Celestino I: “è un fatto noto a tutti che il beatissimo Pietro, il capo degli Apostoli, il fondamento della Chiesa cattolica ha ricevuto da Nostro Signore le chiavi del regno dei cieli e a lui è stata data la potestà di sciogliere e di legare i peccati: è Pietro che sino ad ora e per sempre vive e giudica nei suoi successori”. San Pietro ha un Vicario che sempre governa la Chiesa al suo posto.
Finalmente anche il Magistero di un Concilio ecumenico (dopo la Tradizione e la Scrittura) impiegava il termine che esprimeva il concetto di “Vicarius Petri” per designare il Papa.

San Leone Magno

San Leone Magno lo adopera e lo illustra ampiamente nei suoi Sermoni. Esso costituisce il punto centrale della sua concezione del Papato. L’espressione “Vice Petri” appare solo una volta nelle sue Omelie (Sermo III de Natali, PL 54, 147 A ), ma l’oramai antico di due secoli concetto di Vicario di Pietro viene arricchito e sviscerato da papa Leone Magno che espone la dottrina secondo cui Pietro è perenne, grazie al Vescovo di Roma, nella Chiesa poiché al posto di Pietro c’è in atto, visibile e presente il suo “Vicario” che lo rappresenta e lo continua.

La teologia leonina sul Papa, come Vicario di Pietro, rettore in perpetuo ed in atto della Chiesa universale, è stata ripresa dal Concilio di Calcedonia (451) quando dopo la lettura del Papa all’imperatore Flaviano l’assemblea conciliare esclamò: “Petrus per Leonem ita allocutus est”. Oramai l’espressione era comune anche in Oriente[17].

Il Papa “Vicarius Christi”

In papa San Leone Magno non si trova ancora il termine “Vicarius Christi”, che comparirà con papa Felice III, tuttavia la dottrina sul Papato esposta da Leone insegna che Gesù è l’origine di ogni autorità nella Chiesa e San Pietro tiene il suo posto in terra nella Chiesa stessa. Quindi la teologia del Papa come “Vicario di Cristo” è presupposta dall’insegnamento di papa Leone I. infatti se il termine ancora non era entrato in uso, il concetto era già ben chiaro e strettamente connesso con “Vicario di Pietro”.

Papa Felice III in una Epistola all’imperatore Zenone nel 490 passa dal concetto di “Vicario di Pietro” a quello secondo cui il Papa rappresenta Cristo stesso, che parla ed opera nel Papa. Non c’è ancora il termine preciso ma il concetto è già esposto completamente. Dal termine “Papa Vicario di Pietro” e “Pietro Vicario di Cristo” si passa pian piano al “Papa Vicario di Cristo”.

Sotto papa Gelasio lo usa esplicitamente il Concilio romano del 495, che acclama Gelasio con le seguenti parole: “Vicarium Christi te videmus” ripetute 11 volte.

Tuttavia quest’espressione non era ancora stata approfondita teologicamente. Il suo fondamento lo si trovava nell’insegnamento di Sant’Ambrogio di Milano, risalente ad un secolo prima, secondo cui San Pietro è il Vicario di Cristo.

Il “Vicarius Christi” nella riforma gregoriana

Nell’XI secolo si precisa il passaggio da Vicarius Petri a Vicarius Christi come titolo papale.
“Vicario di Pietro” resta l’appellativo comune del Papa. San Gregorio VII la applica a se stesso più volte, ma il fatto nuovo è che nella seconda metà dell’XI secolo appaiono dei testi che danno a San Pietro e ai Papi il titolo di “Vicario di Cristo”. San Leone X nella sua Lettera al patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario In terra pax del 1053 usa entrambi i termini. Tuttavia è San Pier Damiani che approfondisce dottrinalmente la teoria del “Vicarius Christi”. Il primo testo è la Lettera De coelibatu sacerdotali del Santo al papa Niccolò II, in cui gli scrive che egli “fa le veci di Cristo / qui Christi vice fungeris” (PL 145, 386 B). In questo testo San Pier Damiani si distingue dalla comune terminologia del suo tempo perché chiama il Papa “Vicario di Cristo” e unisce questo titolo a quello di “Successore di Pietro”. Per la prima volta i due titoli classici del Primato papale appaiono assieme, distinguendo, così, il rapporto del Papa di fronte a Cristo col termine “Vicario” e quello di fronte a San Pietro col termine “Successore”. Il Santo usa il termine “Vicario di Pietro”, ma preferisce di gran lunga “Vicario di Cristo” nelle Lettere a papa Clemente II (Ep. I, 3; PL 144, 208 A) e a papa Vittore II (Ep. I, 5; PL 144, 210 B).

Anche il re nel periodo patristico e nell’alto medioevo era stato chiamato “Vicario di Dio”, ma in maniera vaga e generica, sostanzialmente diversa dal Papa, poiché, come insegna San Paolo, “Ogni Autorità viene da Dio”. Il sovrano temporale riceve l’Autorità da Dio e lo rappresenta, ma non nella stessa maniera del Papa.

Anche i Vescovi erano chiamati “Vicari di Cristo” ma in maniera ancora generica, tuttavia con Anselmo di Laon (+ 1117) si precisa che solo a Pietro spetta il titolo di “principale Vicario di Cristo” (PL 162, 1396 CD) con potere su tutta la Chiesa.

San Bernardo di Chiaravalle è uno dei Dottori che approfondisce la dottrina del “Vicario di Cristo”. Nel suo libro dedicato a papa Eugenio III, del 1150 circa, intitolato De consideratione (II, 8, 16; PL 182, 752 C) il Santo assimila il romano Pontefice a Cristo, di cui è il Vicario per la Chiesa universale. Quindi l’autorità del Papa è superiore, per sua natura, a quella dei Vescovi. Il titolo “Vicario di Cristo” applicato al Papa è unico, secondo San Bernardo, e in senso stretto e pieno, spetta solo a Pietro.
“San Bernardo, se pure non è stato il primo ad introdurre la nuova terminologia, ha portato un notevole contributo alla sua dottrina, che penetrò sempre più, consacrata dai suoi conosciutissimi scritti e dalla sua autorità, come il maggior teologo del Primato papale del XII secolo”.[18]
Con papa Eugenio III (1145-1153) il titolo entra ufficialmente nella terminologia della cancelleria papale. Infatti in una sua Bolla del 10 aprile del 1153 diretta ai canonici di San Pietro in Vaticano egli assume il “nuovo” titolo di “Vicario di Cristo” (“nos Christi vices in terris agimus”[19]). È la prima volta che il Papa in persona si definisce “Vicario di Cristo” e ciò in un documento pubblico e solenne, sottoscritto da tutti i cardinali.

Il XIII secolo

Innocenzo III non ha fatto nulla totalmente di nuovo assumendo il titolo di “Vicario di Cristo”. Il termine era già assai diffuso ed era stato impiegato dal Papa medesimo nel XII secolo. Certamente papa Innocenzo lo usa assai diffusamente, approfondisce e sistematizza la teologia del Primato petrino, seguendo l’insegnamento di San Bernardo precisa la natura dell’autorità del Papa, la sua estensione alla Chiesa universale, la sua superiorità di fronte ai Vescovi aventi giurisdizione solo sulle loro diocesi e affronta anche la questione dell’infallibilità del suo Magistero, facente una sola cosa con l’indefettibilità della Chiesa.

Secondo Innocenzo III l’origine del titolo è la prerogativa che Gesù ha dato solo a Pietro (PL 215, 279 B), ma in Pietro la medesima prerogativa è stata data al romano Pontefice, che riceve da Cristo stesso l’ufficio di essere Suo Vicario (PL 215, 277 C). Inoltre Innocenzo illustra come competa al Papa la giurisdizione su tutta la Chiesa in quanto suo capo visibile. Solo il Papa può trasferire un Vescovo da una diocesi all’altra, sciogliendo il vincolo del matrimonio spirituale del Vescovo con la sua prima diocesi (PL 214, 292 A).

La dottrina di Innocenzo sulla potestà vicaria del Papa trova in San Tommaso d’Aquino uno sviluppo particolare nell’Opusculum contra errores graecorum: S. Pietro è stato stabilito al posto di Gesù da Cristo stesso. Infine il Papa è il “capo unico della Chiesa poiché Gesù, stando per lasciare questa terra per ascendere in cielo, bisognava che lasciasse a qualcuno la cura di occuparsi, al posto suo, della Chiesa universale” (Summa contra Gentiles, IV, 76). Nella Summa theologiae l’Aquinate insegna che la dispensa o commutazione dei voti spetta al Papa poiché compie in maniera piena le veci di Cristo in tutta la Chiesa e perciò ha il potere di dispensare plenariamente (S. Th., II-II, q. 88, a. 12, ad 3). “Si noti come san Tommaso descrive bene il titolo papale di Vicario di Cristo, determinato dall’avverbio plenarie e dall’estensione a tutta la Chiesa. Mancano invece queste caratteristiche negli altri passi della Summa che riferiscono in genere il titolo sia al Papa che ai Vescovi”[20], i quali ultimi non hanno, perciò, secondo il Dottore Comune della Chiesa potere plenario nella Chiesa, ma solamente subordinato a quello del Papa.

La potestas vicaria ci aiuta a capire perché il Papa e i Vescovi non possano fondare un’altra Chiesa, trasmettere un’altra Fede e istituire altri Sacramenti. Infatti Cristo è il capo della Chiesa per essenza, per propria virtù e autorità, invece gli altri fanno le veci di Cristo per partecipazione (S. Th., III, q. 8, a. 6; III, q. 64, a. 2, ad 3).

Gesù non ha comunicato agli uomini (Pietro e Apostoli) la potestas excellentiae che è propria di Cristo fondatore della Chiesa e istitutore dei Sacramenti. La prerogativa (per partecipazione) degli Apostoli e anche di Pietro è inferiore all’autorità (per essenza) di Cristo, vero Dio e vero uomo.

Non mi soffermo sui teologi e canonisti ierocratici, che si servono del titolo “Vicario di Cristo” per affermare la dottrina politica della plenitudo potestatis Papae in spiritualibus et in temporalibus. Secondo costoro il Papa ha come Cristo la pienezza di potere non solo spirituale, ma anche temporale; soltanto che come Gesù non vuole esercitare il potere temporale e lo lascia nelle mani del Principe temporale.

Il Trecento

Teologicamente vi furono dei pensatori che in polemica contro papa Bonifacio VIII cominciarono a negare il Primato del Papa non solo nelle questioni temporali, negando anche il potere papale indiretto in temporalibus ratione peccati, ma asserendo addirittura la superiorità dell’Episcopato o del Concilio ecumenico sul Papa. Essi sono Giovanni da Parigi, Marsilio da Padova, Guglielmo Occam.

Contro costoro polemizzò per primo il padre agostiniano tedesco Ermanno di Schildiz il quale insegna che San Pietro fu istituito da Cristo capo della Chiesa universale e Suo Vicario. Quindi l’autorità del Papa ha origine da Dio e non dai Vescovi, dal Concilio o dall’imperatore.

Il Papa è “immediatus Vicarius Christi”, prerogativa esclusiva di san Pietro e non degli Apostoli, i quali son “Vicari di Cristo” mediante Pietro. Quindi i Vescovi, successori degli Apostoli, derivano e ricevono la loro autorità immediatamente e direttamente dal “Papa Vicario di Cristo e di Pietro”. Padre Schildiz non entra nella polemica politica ierocratica, ma rimane nel campo puramente ecclesiologico[21].

Il titolo “Vicario di Cristo” diventa la bandiera di Santa Caterina da Siena verso la fine del trecento per combattere l’errore conciliarista della superiorità dei Vescovi sul Papa. La Santa di Siena si serve delle seguenti espressioni per esprimere la funzione vicaria del Papa: “dolce Cristo in terra”, “il glorioso pastore santo Pietro, di cui Vicario siete rimasto”, infine parla della corrispondenza tra “Cristo in cielo e Cristo in terra”.

Corrado di Gelnhausen, teologo conciliarista dell’Università di Parigi, nella sua Epistula concordiae indirizzata al re di Francia nel maggio del 1380 non solo propugna la superiorità del Concilio sul Papa. Inoltre apporta una sottile distinzione quanto al Papato scrivendo che il Papa “può non essere Papa totalmente, in caso di morte; oppure non essere Papa parzialmente, cioè perdendo la grazia, sebbene il Papato non muoia / istud caput (Papa) potest quandoque simpliciter non esse, scilicet per mortem; quandoque secundum quid, scilicet a gratia deficiendo, licet papatus non moriatur” (Epistula concordiae, c. III). È l’anticipazione del papato materiale in caso di mancanza di volontà di fare il bene comune della Chiesa: il Papa che non ha la volontà di fare il bene comune della Chiesa non è Papa formalmente, lo resta solo materialmente e così il Papato non muore.

Monsignor Michele Maccarrone commenta che “il dottore parigino usa l’espressione «deficiente sive in esse naturae [totalmente assente] sive in esse gratiae [assente solo formalmente]” fa pensare alla concezione ereticale del Papato portata all’estremo da Wycliff»[22]. Il Papa non sarebbe il capo visibile, necessario e in atto della Chiesa, ma sarebbe qualcosa di puramente accidentale, che può non essere presente in atto per mancanza di fede o di retta volontà di operare per il fine della Chiesa, pur restando Papa secundum quid o in potenza e impedendo così la cessazione della Chiesa.

Pure al Concilio di Basilea “i padri conciliari elogiano il Papa come Vicario di Cristo solo quando cercano la sua sottomissione al Concilio stesso. Il titolo di Vicario di Cristo era stato svuotato del suo contenuto dottrinale dalla teoria conciliare ed alterato nel suo genuino significato”[23].

Il XV secolo

Con il Quattrocento si assiste alla rinascita della sana teologia del Primato del Papa. Le trattazioni teologiche più importanti sono quelle di San Giovanni da Capestrano (+ 1456) e di Sant’Antonino da Firenze (+ 1459).

Il primo parla del Papa come “Vicarius Christi” nella sua opera De Papae et Concilii sive Ecclesiae auctoritate (1438-1440) in cui scrive: “Papa est singularissimus Vicarius Jesu Christi. […]. Specialissimus Vicarius Christi”.

Il secondo ne parla nella parte della sua celebre Summa moralis dedicata al De summo Pontifice in cui ribadisce che il Papa in quanto Vicario di Cristo non dipende dalla Chiesa e che la sua funzione vicaria di Dio è assai diversa da quella dei governanti temporali, che pur ricevono l’Autorità da Dio.

Il Concilio di Firenze (1439)

La definizione del Primato del Papa al Concilio di Firenze nel Decreto di Unione (6 luglio 1439) è il frutto del movimento teologico del Quattrocento, che grazie al cardinale Giovanni de Torquemada e ai due Santi succitati, portò alla vittoria del Papato sul conciliarismo.

Il 6 luglio del 1439 si giunse alla solenne definizione contenuta nella Bolla Laetentur coeli secondo cui il “Romano Pontefice è il successore del Beato Pietro, il Principe degli Apostoli, ed è vero Vicario di Cristo e il capo di tutta la Chiesa universale” (DB 694).

La definizione riunisce e consacra dogmaticamente i due titoli del Primato papale:
  1.  successore di San Pietro
  2. Vicario di Gesù Cristo, come già aveva insegnato esplicitamente San Pier Damiani e ne conclude che il Papa è il capo della Chiesa universale.
L’aggettivo “vero” (Vicario di Cristo e capo della Chiesa) vuol specificare che la funzione vicaria del Papa è diversa da quella dei Vescovi o dei Prìncipi. Quindi con il Concilio di Firenze si è definito dogmaticamente che solo al Papa conviene in senso stretto e proprio il termine Vicario di Cristo, il cui compito – per conseguenza – è di governare tutta la Chiesa con l’autorità stessa di Cristo partecipatagli da Cristo stesso. Mentre il conciliarismo abbassava il titolo di “Vicario di Cristo” negando che corrispondesse a “capo della Chiesa universale”, il Concilio fiorentino lo ha definito infallibilmente.

Due grandi teologi domenicani del Quattrocento e del Cinquecento (Giovanni de Torquemada e Tommaso de Vio detto il Gaetano) si son basati sulla definizione del Concilio di Firenze, l’hanno commentata e sviscerata e ne hanno tratto una ecclesiologia che ha aperto la via al Concilio Vaticano I e alla definizione dell’infallibilità pontificia, la quale fa un tutt’uno con l’indefettibilità[24] della Chiesa e del Papato.

Giovanni de Torquemada

Nella sua Summa de Ecclesia (1448-1449) il Torquemada non si limita a ripetere l’ecclesiologia precedente, ma la approfondisce facendola diventare un vero e proprio trattato teologico a parte[25].

La dottrina del “Vicarius Christi” ricevette importanti sviluppi nell’opera del Torquemada. Contro i conciliaristi di Basilea riafferma la dottrina secondo cui il Papa è Vicario di Cristo, capo della Chiesa allo stesso modo di Gesù di cui fa le veci sulla terra. Quindi il potere di Cristo e del Papa è il medesimo e perciò non si può ammettere un tribunale umano superiore al Papa, che può essere giudicato solo da Dio. Il titolo suddetto, però, non si può attribuire allo stesso modo al Papa e ai Vescovi. Infatti “il Pontefice romano è il Vicario principale e supremo di Cristo ed è costituito per mantenere l’unità della Chiesa” (cfr. Summa de Ecclesia, lib. II, cap. 37; fol. 151r, ed. Venetiis, 1561).

Il Torquemada asserisce che come vi è una sola Chiesa, così vi è una sola origine del potere ecclesiastico e questi è il Papa (Summa de Ecclesia, lib. II, cap. 17, fol. 130 ss.). Tuttavia il Papa non è al di sopra di ogni legge, egli deve conservare, trasmettere e insegnare la Fede e la Morale rivelata e non inventarne una nuova (Summa…, lib. II, cap. 102, fol. 241). Ma il Torquemada fa notare che mettere il Concilio sopra il Papa è molto vicino alla teoria di coloro che ritengono il Papa inferiore al Concilio solo in caso di eresia[26] (Summa…, ; l. II, c. 48, f. 162; l. IV, c. 18-20, f. 390 ss.).

Inoltre per dimostrare che il Papa riceve o partecipa il suo sommo potere immediatamente da Cristo applica al Papa, che governa la Chiesa come Vicario di Cristo, il principio giuridico secondo cui “ogni autorità di cui usa colui che governa una comunità come Vicario di un altro, deriva immediatamente da colui di cui è Vicario”. Quindi, sviluppando tale principio, Torquemada dimostra che il potere papale non viene dalla comunità dei fedeli, nemmeno dipende dal consenso della comunità stessa e neppure dai Vescovi che sono i sottoposti del Papa e conclude magnificamente: “Potestas papalis est potestas secundum quam communitas christiana debet regi a Christo mediante suo Vicario / Il potere del Papa è il potere secondo cui la Chiesa deve essere governata da Cristo mediante il Suo Vicario” (cfr. Summa de Ecclesia, II, c. 38, fol. 152r).

Inoltre al Papa come “Vicario universale” diretto e immediato di Cristo appartiene la cura ed il governo della Chiesa intera (cfr. Summa de Ecclesia, II, c. 61, fol. 179r). L’episcopato è un’istituzione di diritto divino (Summa de Ecclesia, II, c. 62, fol. 181r), però i Vescovi ricevono la giurisdizione non direttamente da Cristo (come avviene per il Papa) ma dal Pontefice romano. Quindi i Vescovi son chiamati “Vicari particolari” di Cristo nella loro diocesi, ricevendo il potere direttamente dal “Vicario generale o universale” di Cristo, che è il sommo Pontefice (Summa de Ecclesia, II, c. 59, fol. 177r).

Il Cinquecento: Gaetano e il “Vicarius Christi”

Secondo il Gaetano il Papa è proximus et immediatus Vicarius Christi (De Comparatione, ed. Pollet, 1936, cap. VIII, p. 52, n. 93). Quindi non c’è nessuna autorità sulla terra né eguale né tanto meno superiore a quella del Papa. Perciò, come insegna San Tommaso (Summa contra Gentiles, IV, 76), il Papa ha il supremo potere sulla Chiesa universale ed è superiore al Concilio e ai Vescovi sparsi nel mondo e quindi non dipende affatto dalla Chiesa. “Papa habet supremam potestatem in Ecclesia. Non enim Ecclesia, aut populus christianus, aut Concilium universale, sed Christus ipse instituit tale regimen, sic ut Petrus non Ecclesiae sed Jesu Christi Vicarius esset / Il Papa la suprema potestà sulla Chiesa. Infatti non è la Chiesa o il popolo cristiano, o il Concilio ecumenico, ma è Cristo stesso che ha istituito la Chiesa in tale regime o forma di governo, così Pietro e il Papa non è il Vicario della Chiesa ma di Cristo ” (De comparatione auctoritatis Papae et Concilii, Roma, Pollet, 1936, c. I, n. 12, p. 17).

Il Papa è il Vicario prossimo e immediato di Gesù Cristo, perciò sulla terra non c’è nessuna autorità superiore al Papa e quindi non si può dire che la Chiesa è vicaria prossima e immediata di Cristo (De comparatione auctoritatis Papae et Concilii, Roma, Pollet, 1936, c. VII, n. 93, p. 92).

Gli Apostoli hanno ricevuto la loro giurisdizione direttamente da Cristo, ma sotto Pietro. I Vescovi la ricevono direttamente dal Papa, che la riceve direttamente da Gesù (De comparatione auctoritatis Papae et Concilii, Roma, Pollet, 1936, c. IV, n. 46, p. 32).

Da ciò ne segue che il Papa non può essere giudicato da nessuna autorità terrena o ecclesiale avendo per superiore solo Gesù Cristo.

Naturalmente il Gaetano si richiama alla S. Scrittura, alla divina Tradizione e al Magistero[28].

Ne segue anche che se si può nella società civile, come extrema ratio, rivoltarsi anche con le armi contro il tiranno temporale, non si può rivoltare neppure giuridicamente contro il Papa dichiarandolo decaduto. Infatti i Vescovi non ne hanno il potere, neppure il Concilio o i Cardinali (Cajetanus, Apologia De Comparata Auctoritate, cit., ed. Pollet, 1936, cap. VII, p. 234, n. 521; cap. XVI, p. 316, n. 795).

La Chiesa è stata istituita in totale dipendenza da Cristo e dopo la sua Ascensione in Cielo deve dipendere dal Vicario di Cristo. Di qui il detto “Prima Sedes a nemine judicetur”.

Il Concilio senza il Papa rappresenterebbe solo le pecore senza il pastore. Ora Pietro è stato istituito da Cristo unico pastore a cui è affidato l’unico ovile che è la Chiesa (Cajetanus, De comparatione, cit., ed. Pollet, 1936, cap. VII, p. 49, n. 85). La Chiesa quindi non è al di sopra del Papa ma sotto il Papa come l’ovile e il gregge sono sotto il pastore. Se il Concilio, invece, pretendesse di essere non gregge ma pastore, non sarebbe il pastore scelto da Cristo, che è Pietro, ma un pastore “abusivo” o un lupo travestito da pastore (Cajetanus, De Comparatione, cit., cap. VII, p. 49, n. 86).

Conclusione

Come si vede il titolo “Vicario di Cristo”, il Primato di Pietro e del Papa non sono un titolo puramente onorifico, ma sono un compito e una carica grave ed essenziale per la vita della Chiesa.
Pietro (e il Papa) è la pietra fondamentale della Chiesa. Egli è il Pastore del gregge (Apostoli, Vescovi, sacerdoti e fedeli).

Gesù nominando Pietro (e il Papa) capo della Chiesa le ha dato una forma di governo gerarchico/monarchica, che le è essenziale. Se mutasse il Primato di Pietro e del Papa (conciliarismo e collegialità) muterebbe sostanzialmente la Chiesa, non sarebbe più quella voluta e istituita da Cristo.
Senza il Capo o il Vicario di Cristo, la Chiesa si dissolverebbe, si disperderebbe poiché sarebbe un gregge senza il pastore. Inoltre crollerebbe poiché le mancherebbe il fondamento su cui posa.

Gesù ha voluto che la perennità, l’indefettibilità, la stabilità, la solidità della Sua Chiesa riposasse su Pietro e il Papa come suo successore.

Il Primato di Pietro passa ai suoi successori i Papi, nei quali Pietro come Vicario immediato di Cristo “sino ad oggi, e sempre, vive e giudica” (Concilio di Efeso, DB 112).

Siccome Cristo stava per salire in Cielo e sottrarsi corporalmente alla Chiesa, era necessario che affidasse, al suo posto, la cura di tutta la Chiesa a qualcuno, cioè a Pietro e al Papa suo successore. È chiaro che Cristo ha istituito la Chiesa in modo che durasse sino alla fine del mondo. Quindi il potere e il Primato conferito a Pietro si doveva trasmettere ai posteri sino alla fine dei secoli (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. IV, cap. 76).

Il Primato del Papa come Vicario di Cristo fu ribadito nella Professio fidei Tridentina (DB 999) ed infine solennemente definito dal Concilio Vaticano I (Costituzione Pastor Aeternus, 18 luglio 1870): Il Pastore Eterno e Vescovo delle anime nostre, Gesù Cristo, per rendere perenne l’opera salutare della Redenzione, stabilì di edificare la Chiesa e per assicurarne l’unità della fede mise a capo degli Apostoli Pietro e istituì in lui il principio perenne e il fondamento visibile di ogni unità.

Dopo questo esordio il Concilio definisce come articoli di fede le seguenti quattro verità:
  1. San Pietro fu costituito immediatamente da Gesù Cristo Principe degli Apostoli e Capo visibile di tutta la Chiesa militante con un Primato di vera e propria giurisdizione (cap. I, can. 1; DB 1822-1823). 
  2. Poiché l’opera della salvezza doveva perpetuarsi nei secoli, per volontà divina, Pietro ebbe ed avrà in perpetuo dei successori, per l’esercizio del Primato in tutta la Chiesa, nella persona dei romani Pontefici (cap. II, can. 2; DB 1824-1825). 
  3. Il Primato del Papa consiste nel potere pieno di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, ossia nella giurisdizione suprema, ordinaria, immediata, universale e indipendente da ogni autorità umana (cap. III, can. 3; DB 1826-1831).
Per quanto riguarda l’origine della giurisdizione dei Vescovi, in passato alcuni ritenevano che siccome l’Episcopato è di diritto divino il potere dei Vescovi viene loro dalla stessa consacrazione episcopale, ma questa opinione è stata abbandonata. Oggi la dottrina più comune ed anche certa teologicamente, espressa dal Magistero ordinario e ripetuta costantemente, è che il Papa è la fonte di ogni potere di giurisdizione nella Chiesa. Quindi i Vescovi ricevano la giurisdizione dal Papa.

Già Sant’Ambrogio, ripreso dal Concilio Vaticano I (DB 1831), insegna: “da Roma vengono a tutti i diritti della veneranda comunione”.

Pio VI condannò i giansenisti di Pistoia insegnando: “Dal Romano Pontefice i Vescovi ricevono la loro autorità, come il Papa riceve da Dio il suo supremo potere” (DB 1500).

Pio XII ribadì per la terza volta ancora tre mesi prima di morire nell’enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958), dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che “I Vescovi ricevono immediatamente dal Sommo Pontefice la loro ordinaria potestà di giurisdizione”.

Perciò per la costanza dell’insegnamento del magistero ordinario, secondo quanto insegnato da Pio IX nell’Enciclica Tuas libenter (1863), quest’insegnamento è infallibile.
d. Curzio Nitoglia
12/2/2016
______________________________ 
1. Cfr. E. Florit, Il Primato di San Pietro negli Atti degli Apostoli, Roma, 1942
2. Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma, Lateranum, 1952.
3. Cfr. anche H. Dieckmann, De Ecclesia, Friburgo, 1925.
4. T. Zappelena, De Ecclesia Christi, Roma, 1903, pp. 230-235
5. Sermo IV de natali ipsius, cap. II; PL 54, 150 B. 6. Cfr. Is., XXII, 20; Apoc., III, 7.
7. L’8 novembre del 1963 il card. Alfredo Ottaviani, durante i dibattiti dell’ultima assise conciliare, spiegava in questi termini il Primato di Pietro: «chi vuol essere una pecora di Cristo deve essere condotto al pascolo da Pietro che è il Pastore, e non sono le pecore [i Vescovi] che debbono dirigere Pietro [pastore], ma è Pietro che deve guidare le pecore [i Vescovi] e gli agnelli [i fedeli]. Infatti Gesù disse a Pietro: “Pasci i miei agnelli [i fedeli], pasci le mie pecorelle [gli Apostoli]” (Gv., XXI, 15-16)». È dunque chiaro che secondo l’allora Prefetto del S. Uffizio per la S. Scrittura (Gv., XXI, 15-16), la Tradizione apostolica, il Magistero e l’insegnamento unanime dei teologi approvati il Papa è il capo dei Vescovi, è il pastore che conduce le pecorelle (Vescovi) e gli agnelli (fedeli) al pascolo (cielo).
8. PL 15, 1942 AB.
9. Cfr. P. Parente, De Ecclesiae charactere theandrico, in Theologia fundamentalis, Torino, Marietti, 1946, p. 141-145.
10. M. Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma, Lateranum, 1952, p. 19.
11. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 23.
12. Ep. LVIII, 1; LXI, 4; LXIII, 14.
13. Ep. LXIII, 14.
14. Si distingue 1°) la “Apostolicità formale”, in cui vi è una successione dagli Apostoli non solo cronologica ma vivificata o informata dalla sottomissione a Pietro e al Papa ed è chiamata “continuità legittima” e 2°) la “Apostolicità materiale”, che comporta una discendenza cronologica dagli Apostoli, ma priva di legittimità perché separata da Pietro vivente nel Romano Pontefice, cui i Vescovi sono soggetti come già gli Apostoli a San Pietro.
15. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 32.
16. Ep. LIX, 14; Ep. XV, 8; De catholicae Ecclesiae unitate, c. 4.
17. Sul Primato del Papa al Concilio di Calcedonia cfr. Pio XII, Enciclica Sempiternus Rex dell’8 settembre 1951.
18. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 98.
19. Ep. 575; PL 180, 1589.
20. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 138.
21. Cfr. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 192-193.
22. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 226.
23. M. Maccarrone, Vicarius Christi, cit., p. 231.
24. L’indefettibilità è una prerogativa della Chiesa di Cristo, in virtù della quale essa durerà ininterrottamente sino alla fine del mondo, conservando sostanzialmente inviolato il deposito della Rivelazione consegnatole da Gesù. Ora ciò sarebbe impossibile se la Chiesa non fosse assistita infallibilmente da Dio. Quindi l’indefettibilità implica l’infallibilità.
25. Cfr. Pacifico Massi, Magistero infallibile del romano Pontefice secondo la dottrina di Giovanni da Torquemada, Pontificio Ateneo Lateranense, 1952.
26. Cfr. V. Mondello, La dottrina del Gaetano sul Romano Pontefice, Messina, 1965, specialmente il cap. V, Il Papa eretico e il Concilio, pp. 163-194; vedi anche A. X. Da Silveira, La Messe de Paul, VI: Qu’en penser?, Chiré-en-Montreuil, DPF, 1975, II partie, Hypothèse théologique d’un Pape hérétique, pp. 213-332.
27. Cfr. M. Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma, Lateranum, 1952, p. 276, n. 181; V. Mondello, La dottrina del Gaetano sul Romano Pontefice, Messina, 1965, p. 116ss.
28. Cfr. M. Maccarrone, cit., pp. 278 ss.

4 commenti:

  1. Nello storico decreto Haec sancta synodus (Costanza) si legge che il sinodo generale riceve il suo potere immediate dal solo Cristo e che chiunque di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirgli in ciò che riguarda la fede e la riforma generale nel capo e nelle membra della stessa chiesa di Dio. Inoltre dichiara che chiunque, di qualunque condizione, stato, dignità, compresa quella papale, è tenuto ad "obbedire alle disposizioni, decisioni, ordini o precetti presenti o futuri di questo sacro sinodo e di qualsiasi altro concilio generale legittimamente riunito, nelle materie indicate o in ciò che ad esse attiene". Queste sono le decisioni di un sinodo non sono opinioni di sommi teologi, sia pure di papi: è dogma della chiesa. La stessa verità del dogma dell'infallibilità del papa si appoggia gerarchicamente sulle decisioni formali di un sinodo generale non su sé stessa, in nome di una sostanziale e non ancora formalizzata, al momento della sua decretazione, infallibilità del papa. Essa è vera in quanto è già dogma ma non divenne dogma in quanto fu già vera. Ché, se la verità può prescindere anche solo una volta dai dogmi allora non si vede come non possa prescinderne sempre. Si deve allora attribuire ad essi un potere di ordine e di giurisdizione relativamente, rispettivamente, all'ordine (sacerdotium) e alla giurisdizione interna (magistero) ma non a quella esterna (imperium) in quanto tale potere di decisione, e del papa e dei Sinodi, non è veritativo in sé stesso, è appunto un potere vicario. Necessario per evangelizzare il mondo non necessario per sostituirsi alla coscienza di chi vive nel mondo. Essendo il Cristo il sole della verità, che illumina il mondo, la Chiesa la luna, che quella luce umilmente riflette (annunzia),(luce) che brilla poi anche senza i dogmi. Gesù stesso dice: chi non è contro di noi è per noi. (Marco 9,38)
    «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?»...

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  2. Lc., X, 16 si riferisce ai 72 non ai 12

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  3. OK. Ma non erano Apostoli, cioè 'mandati' anche i 72?

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  4. lei si ferma al 1958 . Ma ci fu il concilio e con esso la revolution dettata da Melloni. Tanto più adesso che il titolo di pater patrum è scomparso dal suo originale significato e si assiste al vescovo di Roma.

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