[Vedi le Quattro parti precedenti unificate qui e l'Indice degli articoli sulla Musica Sacra pubblicati sul blog [qui].
L’origine del disastro liturgico-musicale.
Parte V : Il repertorio gregoriano nelle feste introduttive alla Quaresima
Parte VI : La Pasqua nelle domeniche di Quaresima
Parte VII : La Santa Pasqua
Parte VIII - L'Ascensione e la Pentecoste
Prima dell'inizio del tempo di Quaresima, la liturgia cattolica inizia a preparare a una dimensione penitenziale con il tempo di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima.
“Circumdederunt me gemitus mortis, dolores inferni…”, “mi circondano gemiti di morte e i dolori dell’inferno”, recitava l’introito della Settuagesima, con pesanti allargamenti ritmici sulle parole “gemitus mortis” quasi a voler sovraccaricare il senso di questo nuovo tempo liturgico che la liturgia cattolica si appresta a celebrare, ovvero la Quaresima.
E poi ancora, in Sessagesima, la supplica “Exsurge, quare obdormis, Domine? exsurge et ne repellas in finem: quare faciem tuam avertis, oblivisceris tribulationem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsurge, Domine, adiuva nos et libera nos” (“Alzati, perché dormi, Signore? Destati e non ci respingere per sempre, perché volgi la tua faccia e non ti curi della nostra tribolazione? Siamo prostrati nella polvere, sorgi, o Signore, e liberaci”).
Ma non lasciamoci fuorviare, però: in tutta la straziante drammaticità di questi brani e di queste feste introduttive alla Quaresima è già contenuto il germe della Pasqua. Basta osservare il graduale “De profundis” della domenica di Settuagesima, modellato sulla stessa melodia dei cantici (tratti) della Veglia Pasquale. Nell’inizio della penitenza, dunque, è già racchiuso, quasi in guisa di prelibato assaggio, il gusto melodico proprio della Pasqua.
E ancora, nella domenica di Sessagesima, nell’udire il graduale “Commovisti, Domine, terram, et conturbasti eam” (“Sconvolgesti la terra, Signore, e la fendesti”), come non mandare immediatamente la nostra mente all’altra “terra squassata”, questa volta dalla Risurrezione di Cristo, narrata dall’offertorio Terra tremuit del giorno di Pasqua? E’ un parallelo, quello tra mestizia quaresimale e letizia pasquale, tra penitenza e gioia, che accompagna pressoché tutto questo tempo forte.
Non voglio aggiungere altro, per ora, a questo legame: avremo modo di ritornarci nella prossima puntata. Vorrei, invece, concludere segnalando una curiosa caratteristica della I domenica di Quaresima. Dico curiosa perché, certamente, ha molto da insegnare agli odierni compositori liturgici.
La I di Quaresima – analogamente alla I d’Avvento, del resto – si presenta, da un punto di vista dei testi liturgici, in maniera totalmente omogenea: tutti i cinque brani del Proprium (introito, graduale, tractus, offertorio e communio) derivano da un’unica fonte biblica, il salmo 90.
È quello stesso salmo che, citato dal diavolo in persona, riecheggia nelle parole del vangelo delle tentazioni della domenica: «Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano», recita il graduale citando le parole di Satana che invita Gesù a gettarsi dal pinnacolo del Tempio. Stesso tenore le antifone di offertorio e communio che fanno risuonare lo stesso medesimo testo: «Scapulis suis obumbrabit tibi Dominus, et sub pennis eius sperabis: scuto circumdabit te veritas eius» (Il Signore ti avvolgerà con le sue ali e troverai rifugio tra le sue penne: la sua fedeltà ti difenderà come scudo).
Ebbene, cosa dice chi della “creatività” ha fatto la propria bandiera nell’inventarsi nuovi riti, nuovi repertori, nuovi canti…? La Chiesa insegna tutt’altro: la vera esegesi, quella corretta, meditata e ponderata sul Verbum Domini, richiede forzatamente tempo, puntualità e precisione.
Il modellare un’intera Messa (ben cinque brani!) sul medesimo testo ma con melodie, estetiche, ritmi, accenti diversi fa un qualcosa che i più derubricherebbero a terribilmente monotono, ma che, in realtà, è totalmente insostituibile: offrire ai fedeli una coralità (quella vera, non quella del laissez-faire dottrinale dell’attuale Babele) di spunti, interpretazioni ed esegesi. Il gregoriano, così, contribuisce davvero a formare un rito nel quale la Parola è una ed è ‘gustata’ in modi diversi, ma sempre complementari e, soprattutto, con la certezza che siano integralmente cattolici. [Fonte]
* * *
L’origine del disastro liturgico-musicale.
Sesta parte: La Pasqua nelle domeniche di Quaresima
Tra gli scopi di questa rubrica, vi è principalmente quello di mostrare quanto l’oblio del canto gregoriano abbia significato, in primis, un abbandono di teologia e dottrina cattoliche.
Proseguiamo, quindi, in questo intento prendendo come spunto alcuni brani che ci hanno accompagnato e ci accompagneranno in questa Quaresima.
Avevo già accennato, nella scorsa puntata, alcune caratteristiche della I domenica di Quaresima (la sua totale uniformità testuale, ad esempio). Ma ora, coll’avvicinarsi della Pasqua, risaliamo per un momento a quella domenica per fare ancora qualche riflessione.
L’introito Invocabit me della I domenica di Quaresima è composto, così come quello della I d’Avvento, in VIII modo. La scelta di questo modo gregoriano non è casuale: gli otto modi gregoriani, infatti, ci insegna Guido d’Arezzo, sono sempre stati visti come perfettamente adattabili «ai diversi stati d’animo». Ebbene, l’ottavo modo, nei teorici, viene definito “perfectus”: è l’ultimo e, in quanto ultimo, è simbolo del compimento e della perfezione ultraterrena, richiama l’Ottavo giorno, quello della “Creazione nuova”, che ha inizio nell’Incarnazione e culmina nella Pasqua.
È esattamente per questo che i due introiti sono scritti nel modo perfectus: come all’inizio dell’Avvento la Chiesa fa pregustare l’Incarnazione, così nella I di Quaresima, l’introito in VIII modo fa “udire” il compimento della Quaresima nella perfezione della letizia pasquale e della Risurrezione.
L’inizio della Quaresima, dunque, ha in sé già il suo completamento: la Pasqua. E la stessa cosa è avvenuta anche con l’introito Reminiscere della II domenica: è scritto in IV modo, lo stesso su cui è composto l’introito del giorno di Pasqua Resurrexi, con un incipit addirittura identico.
Quando sostengo che il gregoriano è un manuale di teologia intendo proprio questo: esso, attraverso l’immanenza della forma artistica e del suono, instaura legami e rimandi musicali a un qualcosa che è sovrannaturale e legato al divino. E per comprendere che tutto ciò non sia un caso, basterà andare a leggere l’introito che ascolteremo il Giovedì Santo: “Nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri Jesu Christi: in quo salus, vita, et resurrectio nostra per quem salvati et liberati sumus”.
Lo stesso IV modo dell’introito della II domenica quaresimale lo ritroveremo in questo introito del Giovedì Santo, inizio del Triduo, quando si canterà solennemente che noi dobbiamo gloriarci nella croce di Nostro Signore grazia alla quale troviamo salvezza, vita e, appunto, risurrezione.
Proseguiamo e questi evidenti accenni musicali alla Pasqua li troviamo anche nella IV domenica di Quaresima “Laetare”, quella esplicitamente deputata alla gioia, al pregustare la letizia pasquale. E il canto gregoriano, oltre alla letizia melodica che accompagna l’introito Laetare Ierusalem, inserisce nel Proprio un tratto, il Qui confidunt, composto sullo stesso impianto modale dei tratti della Veglia Pasquale.
È evidente che il tratto in tetrardus plagale della IV di Quaresima sulla stessa melodia dei cantici pasquali, associato all’invito dell’introito – “Rallegrati!” – non può che rimandare al compimento dell’itinerario quaresimale, ovvero alla Risurrezione.
È un lento scandire della teologia, dunque, l’incedere quaresimale: all’inizio della Quaresima è già “musicalmente” annunciata la Pasqua in quell’ottavo modo “perfetto”; ritorna, poi, in modo ancor più esplicito nella IV domenica, e cioè nel mezzo del percorso; infine, all’inizio del Triduo, a pochissimi giorni dal grido dell’alleluia, ricompare quella melodia in IV modo che, col suo sapore mesto e drammatico, ci ricorda che essa sarà trasfigurata nel canto della Risurrezione dell’introito di Pasqua.
La Pasqua è, per antonomasia, il tempo dell’alleluia. Tale canto, che letteralmente significa “lodate Dio” (allelu, lodate + Yah, contrazione del tetragramma sacro), nei primi manoscritti compare come canto precedente il vangelo riservato solamente al giorno di Pasqua. Venne poi esteso a tutto il tempo pasquale e, ai tempi di Gregorio Magno, a tutte le domeniche dell’anno, fatta eccezione per la Quaresima.
Storicamente, il carattere dell’alleluia era di “preparazione” alla lettura evangelica seguente (come il graduale era di “meditazione” sulla lettura precedente). Da un punto di vista compositivo, invece, soprattutto nella struttura del versetto, esso si presenta come brano molto ornato e di natura virtuosistica, ben lontano dall’“acclamazione” come è (erroneamente e antistoricamente) inteso oggi.
Questo, per inciso, dimostra quanto del tutto illogica, oltre che nefasta, fu la riforma di Bugnini & Montini: ad oggi, infatti, all’interno della “messa” Novus Ordo, è del tutto naturale considerare l’alleluia un’acclamazione e non un vero e proprio canto tanto da esser stato praticamente ridotto ad un breve intervento o ritornellino il più delle volte privo del versetto. Il “messale” montiniano ha tolto, in sostanza, la funzione liturgica propria dell’alleluia di canto interlezionale prima del vangelo.
Ma tornando al nostro discorso, ben più interessante delle porcherie moderniste, occorrerà notare il messaggio simbolico che l’alleluia propone. Quasi tutti gli alleluia, infatti, sono strutturati in maniera simile: le sillabe allelu- sono, generalmente, poco ornate, mentre sulla sillaba finale -ia sfociano lunghissimi vocalizzi detti jubilus. Questo sta a simboleggiare che sul nome DIO la musica ne trascende il concetto e il canto si trasfigura: Egli è l’impronunciabile per eccellenza e neanche la musica, nemmeno con un’infinità di note, riesce a descriverLo. L’alleluia è il canto che più ci ricorda la distanza incolmabile tra l’immanenza terrena e l’Immacolato Sacrificio, l’indispensabile distanza tra la debolezza umana e la potenza di Dio.
L’alleluia, dunque, nella sua concezione meta-sonora, diventa il canto nuovo del salmo 95: la letteratura patristica, vera fonte esegetica per il compositore gregoriano, ci insegna che dobbiamo «cantare un canto nuovo» perché nella risurrezione di Cristo «tutto è rinnovato» (Cirillo di Alessandria). E il canto della Pasqua è proprio l’alleluia.
Sul repertorio pasquale si può anche condurre un’analisi di carattere macroscopico leggendo questo tempo nella sua globalità.
Esso è interamente costellato, sin dal primo brano proprio del tempo (il I cantico della Veglia), da una sensibilità laudativa di stampo universalistico riassumibile in espressioni come «Iubilate Domino omnis terra», «Laudate Dominum omnes gentes» e simili. Nel repertorio pasquale, queste espressioni ricorrono complessivamente nove volte: I e IV cantico della Veglia pasquale; introiti della III, IV, V e VI domenica dopo Pasqua; alleluia e offertorio della V domenica dopo Pasqua; introito della domenica di Pentecoste.
È evidente come, con la risurrezione, abbia inizio l’annuncio di Cristo e del suo Regno a tutti i popoli: ecco, allora, chiaro perché tale repertorio insista a dismisura non tanto sulla risurrezione in sé, quanto, piuttosto, sulla funzione salvifica che essa assume dinanzi all’universo intero.
E ciò che completa questa struttura universalistica è il suo inserimento in una dimensione trinitaria: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum» annuncia l’introito di Pentecoste – la solenne chiusura del tempo pasquale – a ricordare che la potenza del Padre che ha risuscitato il Figlio si manifesta ai popoli tutti per mezzo dello Spirito. [Fonte]
* * *
L’origine del disastro liturgico-musicale.
Settima parte: La Santa Pasqua
Settima parte: La Santa Pasqua
La Pasqua è, per antonomasia, il tempo dell’alleluia. Tale canto, che letteralmente significa “lodate Dio” (allelu, lodate + Yah, contrazione del tetragramma sacro), nei primi manoscritti compare come canto precedente il vangelo riservato solamente al giorno di Pasqua. Venne poi esteso a tutto il tempo pasquale e, ai tempi di Gregorio Magno, a tutte le domeniche dell’anno, fatta eccezione per la Quaresima.
Storicamente, il carattere dell’alleluia era di “preparazione” alla lettura evangelica seguente (come il graduale era di “meditazione” sulla lettura precedente). Da un punto di vista compositivo, invece, soprattutto nella struttura del versetto, esso si presenta come brano molto ornato e di natura virtuosistica, ben lontano dall’“acclamazione” come è (erroneamente e antistoricamente) inteso oggi.
Questo, per inciso, dimostra quanto del tutto illogica, oltre che nefasta, fu la riforma di Bugnini & Montini: ad oggi, infatti, all’interno della “messa” Novus Ordo, è del tutto naturale considerare l’alleluia un’acclamazione e non un vero e proprio canto tanto da esser stato praticamente ridotto ad un breve intervento o ritornellino il più delle volte privo del versetto. Il “messale” montiniano ha tolto, in sostanza, la funzione liturgica propria dell’alleluia di canto interlezionale prima del vangelo.
Ma tornando al nostro discorso, ben più interessante delle porcherie moderniste, occorrerà notare il messaggio simbolico che l’alleluia propone. Quasi tutti gli alleluia, infatti, sono strutturati in maniera simile: le sillabe allelu- sono, generalmente, poco ornate, mentre sulla sillaba finale -ia sfociano lunghissimi vocalizzi detti jubilus. Questo sta a simboleggiare che sul nome DIO la musica ne trascende il concetto e il canto si trasfigura: Egli è l’impronunciabile per eccellenza e neanche la musica, nemmeno con un’infinità di note, riesce a descriverLo. L’alleluia è il canto che più ci ricorda la distanza incolmabile tra l’immanenza terrena e l’Immacolato Sacrificio, l’indispensabile distanza tra la debolezza umana e la potenza di Dio.
L’alleluia, dunque, nella sua concezione meta-sonora, diventa il canto nuovo del salmo 95: la letteratura patristica, vera fonte esegetica per il compositore gregoriano, ci insegna che dobbiamo «cantare un canto nuovo» perché nella risurrezione di Cristo «tutto è rinnovato» (Cirillo di Alessandria). E il canto della Pasqua è proprio l’alleluia.
Sul repertorio pasquale si può anche condurre un’analisi di carattere macroscopico leggendo questo tempo nella sua globalità.
Esso è interamente costellato, sin dal primo brano proprio del tempo (il I cantico della Veglia), da una sensibilità laudativa di stampo universalistico riassumibile in espressioni come «Iubilate Domino omnis terra», «Laudate Dominum omnes gentes» e simili. Nel repertorio pasquale, queste espressioni ricorrono complessivamente nove volte: I e IV cantico della Veglia pasquale; introiti della III, IV, V e VI domenica dopo Pasqua; alleluia e offertorio della V domenica dopo Pasqua; introito della domenica di Pentecoste.
È evidente come, con la risurrezione, abbia inizio l’annuncio di Cristo e del suo Regno a tutti i popoli: ecco, allora, chiaro perché tale repertorio insista a dismisura non tanto sulla risurrezione in sé, quanto, piuttosto, sulla funzione salvifica che essa assume dinanzi all’universo intero.
E ciò che completa questa struttura universalistica è il suo inserimento in una dimensione trinitaria: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum» annuncia l’introito di Pentecoste – la solenne chiusura del tempo pasquale – a ricordare che la potenza del Padre che ha risuscitato il Figlio si manifesta ai popoli tutti per mezzo dello Spirito. [Fonte]
* * *
L’origine del disastro liturgico-musicale.
Ottava parte: L'Ascensione e la Pentecoste
Ottava parte: L'Ascensione e la Pentecoste
Se è vero che con l’Ascensione e la Pentecoste si chiude liturgicamente il ciclo pasquale, è anche vero che, da un punto di vista simbolico e retorico, le due feste hanno anche una stretta correlazione con l’Avvento e il Natale dei quali sono il completamento.
Duplici sono i richiami, nel repertorio dell’Ascensione, all’attesa per la seconda venuta – propria dell’Avvento – e all’Incarnazione. Basta leggere l’introito Viri Galilaei, che “cita” melodicamente il communio d’Avvento Ecce Dominus veniet, e l’offertorio Ascendit Deus dove, per ben due volte, ricorre lo stesso intervallo melodico di quinta che apre, sulla parola «puer», l’introito del giorno di Natale Puer natus.
Come nel Natale si era celebrata l’Incarnazione, ovvero la discesa del Figlio di Dio sulla terra, così nell’Ascensione si celebra l’ascesa dello stesso Figlio di Dio: e il gregoriano rammenta questo con un segnale musicale che diventa, così, un segnale teologico.
L’introito della solennità di Pentecoste, invece, ha il preciso scopo di chiudere il tempo pasquale. Scrivevamo nella scorsa puntata di questa rubrica come il repertorio delle domeniche dopo Pasqua fosse interamente costellato da una sensibilità laudativa di stampo universalistico: erano ricorrenti, infatti, le espressioni come «Iubilate Domino omnis terra», «Laudate Dominum omnes gentes», «Iubilate Deo universa terra…», «Nuntiate usque ad extremum terrae…», «Benedicite gentes Dominum Deum nostrum» e simili.
Ebbene, queste costanti sottolineature dell’universalità della redenzione pasquale trovano sintesi e compimento proprio nel giorno di Pentecoste: «Spiritus Domini replevit orbem terrarum, alleluia, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis, alleluia, alleluia, alleluia» (Lo Spirito del Signore riempie l’universo, alleluia, e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce, alleluia, alleluia, alleluia), canta l’introito.
Anche la musica delle prime parole sembra tradurre questa “universalità” partendo dal punto più grave del brano, la prima nota su «Spiritus» (incipit melodico ricavato dall’omonima antifona del repertorio dell’Ufficio), per arrivare all’estremo acuto su «orbem» formando un ideale abbraccio in musica dei due antipodi melodici del brano, figura degli antipodi dell’orbe.
Una piccola chiosa, per tornare da dove eravamo partiti, ovvero all’Incarnazione, va fatta anche sull’antifona di comunione Factus est repente. Anche questa composizione è strutturata attraverso una connotazione fortemente trinitaria e simbolica: il brano che narra la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli si apre con la stessa formula d’intonazione dell’introito natalizio Puer natus, il brano della kenosis, della discesa sulla terra di Cristo. Ancora una volta, il Puer natus, il brano che celebra il Natale, la discesa terrena, connota specularmente anche quello dell’ascesa al cielo.
La Pentecoste, conservando una sequenza propria, il Veni Sancte Spiritus, ci permette di spendere finalmente qualche riga di questa rubrica per analizzare questa forma musicale.
Come abbiamo avuto modo di vedere la scorsa puntata, la struttura compositiva di quasi tutti gli alleluia è pressoché simile e comune: le sillabe allelu- sono poco ornate, mentre sulla sillaba finale -ia sfociano lunghissimi vocalizzi. Gli jubilus, che in alcuni casi sono costituiti anche da centinaia di note, diventano ben presto difficilmente memorizzabili. Da qui, nacquero le sequenze. La loro origine è narrata da Notker Balbulus, un monaco del monastero di San Gallo nato nell’840 nell’odierna Zurigo. Egli, che deriso dagli amici per un difetto di pronuncia, dovuto alla mancanza di un dente, si affibbiò il soprannome di “balbulus” (balbuziente), fu l’autore del Liber Hymnorum, la prima raccolta di sequenze dedicata all’allora vescovo di Vercelli Liutwardo.
Notker, nella prefazione del suo Liber, dichiara che ebbe, fin da giovinetto, grandi difficoltà a ricordare le lunghissime catene di note, le longissimae melodiae che caratterizzavano gli jubilus degli alleluia: viste, allora, tali difficoltà egli salutò con gioia le novità apportate da un monaco francese in fuga dopo la distruzione dell’abbazia di Jumièges, ad opera dei Normanni, nell’anno 851. Quel monaco aveva con sé un Antifonario in cui vi si potevano leggere «aliqui versus» in corrispondenza delle sequenze: il melisma, cioè, era suddiviso in sillabe. L’espediente è chiaro: per facilitare la memorizzazione degli jubilus alleluiatici, vennero inseriti dei testi che, poco a poco, divennero autonomi nella loro composizione testuale e musicale.
A partire dal XII secolo, si tentò di avvicinare la sequenza alla forma dell’inno (facilmente memorizzabile e dallo scopo catechetico) introducendo la composizione in versi e la rima. A questo stadio avanzato appartengono le sequenze che il Concilio di Trento mantenne (è stato calcolato che, nelle varie tradizioni manoscritte tardomedievali, si è arrivati a raccogliere circa cinquemila sequenze), e che ancora oggi noi conosciamo, come il Veni Sancte Spiritus, sequenza di Pentecoste, attribuito, probabilmente in modo verisimile, a Stephan Langton (1150 ca.-1228), cardinale e arcivescovo di Canterbury. [Fonte]
La I di Quaresima – analogamente alla I d’Avvento, del resto – si presenta, da un punto di vista dei testi liturgici, in maniera totalmente omogenea: tutti i cinque brani del Proprium (introito, graduale, tractus, offertorio e communio) derivano da un’unica fonte biblica, il salmo 90.
RispondiEliminaBello scoprire questo legame.
Ero rimasta molto toccata, nella celebrazione di domenica scorsa, dal Salmo 90.
http://www.radiospada.org/2016/02/la-prima-domenica-di-quaresima/
RispondiElimina