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venerdì 13 maggio 2016

Invito alla lettura. don Curzio Nitoglia. Il Primato del Papa

Introduzione 

L’Editore Effedieffe ha pubblicato il libro di Curzio Nitoglia Il Primato del Papa. In esso l’Autore cerca - sul fondamento della teologia tradizionale - di esporre i termini del problema del governo monarchico della Chiesa, del potere episcopale subordinato a quello del Papa che è il Vicario di Cristo, del primato di Pietro e dei suoi successori, della conciliabilità tra Concilio Vaticano II e Tradizione apostolica.

Il lettore leggendolo potrà farsi un’idea dell’importanza e dell’attualità delle questioni che agitano soprattutto oggi, a partire dalla nuova ecclesiologia del Concilio Vaticano II, l’ambiente cattolico. Invitiamo, quindi, a leggere attentamente questo libro e soprattutto a pregare incessantemente il Signore di ristabilire l’ordine e la tranquillità nella Sua Chiesa, che ancora soffre i sintomi del virus neo-modernista infiltratosi nei suoi fedeli e soprattutto nei suoi pastori.

Un precedente della Collegialità: il Conciliarismo

Il Conciliarismo radicale è un errore ecclesiologico, secondo il quale il Concilio ecumenico è per sé superiore al Papa; mentre il  Conciliarismo moderato ritiene che il Papa è inferiore al Concilio solo in caso di eresia e quindi può essere giudicato e deposto dal Concilio.

Il principio speculativo da cui parte il Conciliarismo è quello secondo cui “il Papa può personalmente errare, la Chiesa o il Concilio, no” (H. Jedin, Breve storia dei Concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 97); la firmitas Ecclesiae non può risiedere nella infirmitas Petri, ma solo nella soliditas Concilii e il legame di Cristo con la Chiesa o il “collegio episcopale” è indissolubile, con il Papa no (H. Jedin, ibidem, p. 104). Quindi anche il Papa deve obbedienza al “collegio dei vescovi” e alla sua riunione in Concilio. “Il Concilio ecumenico radunato rappresenta l’intera Chiesa, il suo potere gli viene immediatamente da Cristo” (H. Jedin, ivi). A Costanza si gettò la base della teoria di rendere il Concilio ecumenico “un’istituzione ecclesiastica stabile e per conseguenza una specie di istanza di controllo sul Papato” (H. Jedin, ibidem, p. 107). Per affermare la “libertà del Concilio” non si esitò a “ridurre il più possibile la pienezza dei poteri del Papa” (ibidem, p. 108). Con il Grande Scisma d’Occidente e la crisi del Papato “il ristabilimento dell’unità della Chiesa fu gravata da una pesante ipoteca. La teoria conciliarista, nata dallo stato d’emergenza in cui si trovava la Chiesa [con tre Papi], continuò a prosperare, benché incompatibile con la struttura gerarchica della Chiesa” (ibidem, p. 112). Il conflitto tra il primato del Papa e il Conciliarismo è inevitabile, sia pure un Conciliarismo mitigato o la superiorità del Concilio sul Papa solo in caso di eresia di questi.

La dottrina cattolica, invece, insegna che il Papa da solo ha il pieno potere di Magistero e di giurisdizione sulla Chiesa universale; mentre  il Concilio imperfetto, ossia i vescovi senza il Papa non hanno il supremo potere di Magistero e di giurisdizione, che viene loro da Dio  tramite il Papa.

Inoltre secondo i teologi la teoria del Papa formalmente eretico è solo un’ipotesi puramente speculativa, un’opinione possibile, molto improbabile e per nulla certa. Quindi è inutile riprenderla oggi per ovviare alla situazione catastrofica nell’ambiente ecclesiale postconciliare, anche perché essa è inficiata di Conciliarismo mitigato, che è almeno teologicamente erroneo.

Molti conciliaristi erano spinti da amore sincero verso la Chiesa, la cui esistenza sino alla fine dei secoli ed il cui infallibile insegnamento vedevano compromesso dallo Scisma d’Occidente (v. sì sì no no, 15 marzo 2016, pp. 1 ss.). Tuttavia il rimedio che ponevano al problema era “un rattoppo peggiore dello strappo”, poiché per restaurare la Chiesa ne cambiavano la divina istituzione e da monarchica la rendevano democratica o aristocratica. Infatti un disordine pratico (un Papa cattivo, eretico o incapace che semina il caos nell’ambiente ecclesiale) non si corregge con un grave errore teologico per di più ereticale: la superiorità del Concilio sul Papa per sé considerato (Conciliarismo radicale ed eretico) o solo in caso di eresia (Conciliarismo mitigato ed erroneo teologicamente).

La Collegialità episcopale forma temperata di Conciliarismo
L’attuale Collegialità episcopale è una forma temperata di Conciliarismo, portata avanti dai modernisti durante il pastorale Concilio Vaticano II, ma essa è stata costantemente condannata dal dogmatico Magistero ecclesiastico sino a Pio XII, il quale ancora tre mesi prima di morire nell’enciclica Ad Apostolorum principis (29 giugno 1958), ribadì per la terza volta, dopo la Mystici Corporis del 1943 e la Ad Sinarum gentem del 1954, che la giurisdizione viene ai vescovi tramite il Papa. Il gallicanesimo o conciliarismo, invece, tende ad assegnare al Concilio ecumenico una funzione suprema eguale se non superiore a quella del Papa assolutamente o solo in caso di eresia del Papa.
Durante il Concilio Vaticano II «la dottrina che attribuiva al Collegio dei vescovi (del quale il singolo entra a far parte con la consacrazione episcopale) unito al suo capo, il Papa, potere e responsabilità sulla Chiesa intera» - era ritenuta da Siri, Staffa, Carli, Parente - «recante detrimento al potere primaziale del Papa ed essi contestavano che avesse solide basi nella S. Scrittura» (H. Jedin, Breve storia dei Concili, Brescia-Roma, Morcelliana-Herder, 1978, p. 240). Inoltre si riteneva che «il vescovo consacrato diventi per ciò stesso membro del Collegio episcopale [avente giurisdizione], che assieme al Papa e mai senza esso possiede la suprema potestà sopra tutta la Chiesa» (ibidem, p. 243).
La Nota explicativa praevia «nulla toglie alla dottrina della immediata origine divina dell’ufficio e del mandato episcopale [e non tramite il Papa], nonché della responsabilità del Collegio episcopale per la Chiesa universale [e non sulla sola diocesi del singolo vescovo]» (ibidem, p. 265). Invece la dottrina tradizionale, ribadita sin nel 1958 da Pio XII, insegna che la giurisdizione sulla sua singola diocesi giunge al vescovo da Dio tramite il Papa, il quale dopo la consacrazione gli dà il potere di giurisdizione realmente distinto dal potere d’ordine. Inoltre il Papa, se vuole, può far partecipare il Corpo dei vescovi (non il Collegio che era solo quello degli Apostoli) alla sua suprema potestà di magistero e d’impero sulla Chiesa universale, riunendoli in Concilio ecumenico, per il solo tempo della durata del Concilio. Quindi il Corpo dei vescovi non è un ceto stabile e permanente che con Pietro e sotto Pietro ha il supremo potere di magistero ed impero sulla tutta la Chiesa.
La Costituzione del Concilio Vaticano II Lumen gentium al n. 22 ripete parzialmente la dottrina tradizionale, espressa dal Gaetano e definita dal Concilio Vaticano I, riguardo ai rapporti tra Papa e Concilio, ma introduce anche delle novità, che sono in rottura oggettiva con la S. Scrittura, la divina Tradizione, il Magistero costante della Chiesa, l’insegnamento dei Padri, dei Dottori scolastici e dei teologi approvati dell’epoca post-tridentina.

Le novità inaccettabili

La Lumen gentium, n. 22 a-b, recita: 
“Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono un unico Collegio apostolico, allo stesso modo il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra loro uniti. […]. Ecco il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale, i Concili ecumenici comprovano apertamente tale natura collegiale dell’ordine episcopale. Tale natura è suggerita anche dall’antico uso di far partecipare più Vescovi alla consacrazione di un futuro Vescovo. Uno è costituito membro del Corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale. […]. L’ordine dei Vescovi, che succede al Collegio degli Apostoli nel magistero e nell’impero […] è pure soggetto di suprema (cioè, la più alta, che non ha eguali, ndr) e piena (totale o assoluta, cui non manca nulla nel suo genere e che può tutto da sola, ndr) potestà su tutta la Chiesa”. 
Da notare: 
  1. Si equipara il Corpo dei Vescovi al Collegio degli Apostoli, invece i Vescovi pur essendo successori degli Apostoli non ne hanno tutte la prerogative:
    1. la scelta diretta da parte di Cristo degli Apostoli;
    2. la giurisdizione data loro da Gesù sulla Chiesa universale ancora da impiantare.
  2. Si afferma che la natura dell’episcopato è collegiale e questo collegio include anche il Papa, che per l’ordine non si differenzia dai Vescovi, essendo il suo un primato di giurisdizione e quindi la Chiesa non è più monarchica.
  3. Non è esatto che i Concili comprovano la natura collegiale dell’ordine episcopale perché nel Concilio il Papa è il capo e i Vescovi sono il corpo a lui subordinato pur avendo con lui in comune l’ordine episcopale.
  4. Dei tre Vescovi con-consacratori uno solo è il consacrante principale ed efficiente. La presenza degli altri due Vescovi non è necessaria alla validità della consacrazione, ma serve solo a dare maggior solennità alla cerimonia; essi non consacrano e non sono segno della natura collegiale dell’episcopato. Si può fare un’analogia con la Messa solenne, in cui la presenza del diacono e del suddiacono non è necessaria alla validità della Messa (poiché chi consacra è solo il sacerdote celebrante), ma dà solamente maggior solennità alla cerimonia.
  5. Non è esatto che si è costituiti membri del  corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale. Il Vescovo prima di essere consacrato deve ricevere la giurisdizione, che viene da Dio tramite il Papa.
  6. Se l’episcopato è “soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa” abbiamo la novità di un duplice soggetto del sommo potere di magistero e giurisdizione nella Chiesa: Papa e Episcopato. Mentre il soggetto del supremo e pieno potere è uno solo: il Papa, che se vuole ne fa partecipare l’Episcopato in maniera temporanea, e non alla pari (in maniera inadeguata).
Poiché dai padri conciliari non modernisti fu fatto notare a Paolo VI che il testo di Lumen gentium poneva dei seri problemi quanto alla sua ortodossia, egli fece aggiungere una Nota praevia (che invece fu messa dopo il testo, ossia era insieme “previa” e “posteriore”). La Nota praevia tuttavia non cancella le ambiguità e gli errori del testo di Lumen gentium ed anche in essa permane qualche ambiguità. 

“Il Collegio - recita la Nota praevia - non si intende in senso strettamente giuridico, ma è un ceto stabile. […] Uno diventa membro del Collegio in virtù della consacrazione episcopale, e mediante la comunione gerarchica col capo del Collegio. […]. Il parallelismo tra Pietro e gli Apostoli da una parte, e il Sommo Pontefice e i Vescovi dall’altra, non implica la trasmissione del potere straordinario degli Apostoli ai Vescovi. […]. Infatti deve accedere la canonica o giuridica determinazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Il Collegio dei Vescovi è anch’esso soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale. Il Collegio necessariamente e sempre cointende col suo capo […]. Il Romano Pontefice è il capo del Collegio e può fare da solo alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi”.  
Da notare:
  1. Si afferma che il “collegio episcopale” è un ceto stabile”. In che senso? Nel senso erroneo che partecipa stabilmente e alla pari al potere supremo di magistero e di governo del Papa? 
  2. Si pospone la giurisdizione (o comunione gerarchica) alla consacrazione (o potere d’ordine), quasi che la giurisdizione venga al Vescovo immancabilmente solo perché consacrato. Novità che intacca il Primato di Pietro (cfr. U. E. Lattanzi, Il primato romano, Brescia, 1961).
  3. Si afferma che il “Collegio dei Vescovi”, che “necessariamente e sempre cointende col suo capo” è anch’esso “soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale”. La grande novità della Lumen gentium permane anche nella Nota praevia. Il Papa non è più l’unico soggetto per sua natura del supremo potere di magistero e imperio nella Chiesa universale e solo se vuole può far partecipare, in maniera non adeguata o a alla pari, al suo potere l’Episcopato riunito in concilio o sparso nel mondo, in maniera temporanea e per partecipazione o subordinatamente. La dottrina tradizionale era chiarissima, quella di Lumen gentium è per lo meno ambigua se non gravemente erronea in alcuni punti che permangono in rottura con l’insegnamento tradizionale, anche alla luce della Nota praevia, pur avendo quest’ultima cercato di ribadire alcuni capisaldi della dottrina cattolica. 
  4. Se “il Romano Pontefice è il capo del Collegio e può fare da solo alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi”, come si può conciliare questo secondo asserto con il precedente, secondo cui “il “Collegio dei Vescovi necessariamente e sempre cointende col suo capo […] ed è anch’esso soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale”? Qui si riscontra una palese contraddizione che sembra essere stata fatta espressamente per accontentare i padri conciliari di dottrina ortodossa. 
Come si vede la Collegialità (Lumen gentium, n. 22) è imparentata, anche se in maniera più sfumata o mitigata (grazie alla Nota praevia, che da una parte ha ribadito la sottomissione del Corpo episcopale al Papa, ma dall’altra ha mantenuto l’ambiguità del duplice soggetto adeguato, necessario e permanente del supremo potere di magistero e giurisdizione nella Chiesa universale), al Conciliarismo o gallicanesimo mitigato, il quale tende ad assegnare al Concilio ecumenico una potestà suprema sulla Chiesa universale eguale a quella del Papa (cum Petro sed non sub Petro) laddove il Concilio ecumenico (CIC 1917, can. 222-229) non ha nessun potere totale e supremo indipendentemente dal Papa, che, solo può indire un Concilio ecumenico. Perciò la dottrina tradizionale ha sempre parlato di episcopato monarchico e di episcopato subordinato, ossia sottomesso a Pietro come il corpo al capo, mentre con Lumen gentium si inizia a parlare di episcopato collegiale. È per questo motivo che a riguardo dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II i cardinali Benelli e Kasper hanno potuto parlare di Chiesa “conciliare” ossia conciliarista. 

Il pontificato di Francesco I

Oggi con il pontificato di Francesco I la situazione ecclesiale ha toccato il fondo, ma come non è stata la Collegialità episcopale del Vaticano II ad aver aiutato il Papato da “sinistra”, così non saranno i fedeli, preti e vescovi senza giurisdizione a salvare la Chiesa da “destra”, poiché Essa è stata fondata da Dio e da Lui assistita “ogni giorno sino alla fine del mondo” (Mt., XXVIII, 20), e soprattutto nelle epoche più burrascose in cui sembra che Dio abbia abbandonato la sua Chiesa, come avvenne sul Lago di Genezaret quando la barca in cui si trovavano gli Apostoli stava per essere inghiottita dalle onde e Gesù sembrava dormire…(Mt., VIII, 24).

Da “sinistra” i modernisti conciliaristi in nome di una pretesa Collegialità episcopale equiparano “democraticamente” il Papa all’Episcopato subordinato e distruggono la Monarchia petrina; mentre da “destra” i neo-Tradizionalisti ecclesiologicamente gallicaneggianti negando ogni valore al Magistero vorrebbero come gli Ortodossi sottomettere il Papa alla sola Traditio da loro interpretata  e non dal potere magisteriale vivente del Pontefice romano regnante in atto. La retta soluzione, dunque, è quella indicata dalla S. Scrittura, dalla Tradizione e dal Magistero: il Redentore ha affidato il Deposito della Rivelazione per la sua retta interpretazione non «ai singoli fedeli, né ai teologi, ma solo al Magistero ecclesiastico» (Pio XII, Encilica Humani generis, 12 agosto 1950, DS 3384, 3386).

Nella situazione odierna occorre 
  1. riconoscere che delle novità si sono infiltrate nella pastorale della Gerarchia ecclesiastica a partire da Giovanni XXIII, e bisogna custodire la propria fede “non ubbidendo nelle cose cattive e non adulando”; 
  2. che i Papi “conciliari”, pur avendo mal usato del loro sommo Potere, lo conservano; 
  3. non pretendere che l’Episcopato collegiale o la sola Tradizione gallicaneggiante senza Magistero vivente possano rimettere la Chiesa in ordine e quindi, bisogna, come consigliava il cardinal de Vio, ricorrere alla preghiera e alla riforma di se stessi perché negli uomini di Chiesa ritorni l’ordine, che solo Dio tramite il Papa può restaurare nella Chiesa.
La sana reazione

Durante e dopo la tempesta del Concilio Vaticano II, furono molti gli scritti sulla sua eventuale opposizione alla Tradizione della Chiesa (card. Alfredo Ottaviani, card. Antonio Bacci, card. Arcadio Larraona, card. Giuseppe Siri, card. Ernesto Ruffini, S. Ecc. Dino Staffa, S. Ecc. Antonio De Castro Mayer, S. Ecc. Marcel Lefebvre, S. Ecc. Luigi Carli, S. Ecc. Klaus Gamber, dr. Arnaldo Vidigal Xavier Da Silveira, dr. Romano Amerio, dr. Michel Davies, dr. Giuseppe Alberigo, mons. Francesco Spadafora, p. Cornelio Fabro, p. Michel Guérard des Lauriers, sino ai recenti studi di mons. Brunero Gherardini).

Questi eminenti teologi chiedevano di correggere o addirittura di abrogare gli errori e le ambiguità che avevano rilevate nei testi del Concilio e nella “Messa del Concilio” promulgata da Paolo VI nel 1969. Ma la risposta non è mai stata data. Si soltanto è affermato senza provare che vi è continuità tra Vaticano II e Tradizione apostolica da Paolo VI sino a Benedetto XVI, che ha fatto della “ermeneutica della continuità” il suo cavallo di battaglia.

La supplica inascoltata di mons. Gherardini

L’ultimo grande teologo della scuola romana (Brunero Gherardini) che ha riposto tali domande a papa Benedetto XVI dal 2009 al 2012 è rimasto anche lui senza nessuna risposta probante ed ha continuato a mantenere in sospensione l’assenso a tali insegnamenti pastorali dubbi del Vaticano II. 

Il suddetto Concilio presenta dei punti assai controversi che sono perlomeno teologicamente erronei, temerari, contrari alla dottrina comune, offensivi del senso religioso dei fedeli, male sonanti, ambigui, scandalosi, se non addirittura favorenti l’eresia.

In materia di Fede un’affermazione erronea, anche se non è seguita da atti esterni ereticali, costituisce un peccato grave contro la Virtù di Fede. Infatti i moralisti (S. Alfonso de’ Liguori, Prümmer, Merkelbach, Noldin, Ramirez, Roberti-Palazzini …) insegnano che si è obbligati, per Comando divino, a professare pubblicamente la Fede, quando il tacere o il tergiversare implica una negazione diretta o indiretta della Fede. 

Si rinnega indirettamente la Fede con omissioni che, non di loro natura, ma per le circostanze di fatto contengono una potenziale negazione esplicita di Essa. 

Dunque di fronte alle ambiguità e agli errori del Concilio Vaticano II non si può tacere, ma occorre far notare a chi di dovere la discrepanza tra la Tradizione apostolica e l’insegnamento del Concilio pastorale. 

In breve con il Concilio Vaticano II assistiamo ad un tentativo di modernistizzazione della Chiesa, che con la “Collegialità” ha fatto proprio l’odio luterano per il primato del Papa, con la “Libertà religiosa” l’odio contro l’unica vera religione fondata da Dio Figlio e con l’“Ecumenismo” l’odio per l’intolleranza dottrinale della Chiesa romana ed infine con la pseudo-“Riforma liturgica”, fatta assieme ai calvinisti, ha prodotto un rito oggettivamente ibrido o un incrocio (il Novus Ordo Missae di Paolo VI) tra due riti essenzialmente diversi, quello protestantico e quello cattolico. 

Il problema è quindi di dimostrare e non affermare soltanto (“quod gratis affirmatur, gratis negatur”) se realmente la dottrina della collegialità (Lumen gentium), della libertà religiosa (Dignitatis humanae), dell’unica fonte scritta della Rivelazione (Dei Verbum) e del dialogo ecumenico (Nostra aetate e Unitatis redintegratio), dell’antropocentrismo (Gaudium et spes) siano contenute nella Tradizione apostolica o siano una novità del Concilio (pastorale e non dogmatico) Vaticano II. Non è sufficiente dire che esse sono accettabili bisogna dimostrarlo. È quello che monsignor Brunero Gherardini, nei suoi numerosi libri sul problema del Concilio, ha chiesto a Benedetto XVI senza aver ricevuto risposta. Ora il fatto di non rispondere è di per sé significativo, non si sa, non si può rispondere, poiché non si può provare quanto si afferma. 

Conclusione

Il presente libro cerca di esporre i suddetti problemi e di trovarne una chiave di soluzione alla luce dell’insegnamento costante e tradizionale della Chiesa, dei Padri e dei Dottori. 

La risposta e la soluzione definitiva verrà soltanto dalla Chiesa gerarchica che, come chiedeva mons. Brunero Gherardini, può risolvere ogni problema affrontandolo dogmaticamente (mediante definizione e obbligatorietà di insegnamento magisteriale e quindi infallibile). È quello che ci aspettiamo e che chiediamo al Signore in questo periodo buio per l’ambiente ecclesiale e per l’umanità intera.

N. B.
Ripreso da sì sì no no, 15 maggio 2016, pp. 1-4
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1. Il libro può essere richiesto a: 
Edizioni Effedieffe, Podere Piscino, snc, Proceno di Viterbo; www.effedieffe.com; www.effedieffeshop.com; 335.45.74.64; 0763.71.00.69. Pagine 220; euro 13, 00. 

8 commenti:

  1. La giornata più sbagliata per presentare questo compitino. Non ne azzeccate una! Si vede proprio che i segugi vi stanno alle calcagna.

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  2. Anonimo dal sarcasmo in pillole.
    Perché non ci dimostra ciò che afferma?

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  3. Anonimo, oggi 13 maggio la Chiesa festeggia San Roberto Bellarmino che in quanto a dottrina sul Romano Pontefice qualche cosina ha insegnato. Per ciò ls data di presentazione non poteva essere più azzeccata, mettendosi sotto il patrocinio di cotanto Dottore della Chiesa.
    Marco P

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  4. "....mentre da “destra” i neo-Tradizionalisti ecclesiologicamente gallicaneggianti negando ogni valore al Magistero vorrebbero come gli Ortodossi sottomettere il Papa alla sola Traditio da loro interpretata e non dal potere magisteriale vivente del Pontefice romano regnante in atto."

    CHI SAREBBERO QUESTI NEOTRADIZIONALISTI?

    "...non pretendere che l’Episcopato collegiale o la sola Tradizione gallicaneggiante senza Magistero vivente possano rimettere la Chiesa in ordine..."

    QUALE SAREBBE QUESTA TRADIZIONE GALLICANEGGIANTE?

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  5. Molto, ma non tutto, di don Curzio è condivisibile. Non nego infatti che certe sue dichiarazioni, come quelle qui sopra opportunamente evidenziate da marius, siano decisamente irritanti. Anche se magari non è questa la sua intenzione, don Curzio sembra manifestare un certo astio nei confronti della Tradizione e dei tradizionalisti. Probabilmente dovrebbe chiarire meglio il suo pensiero. Altrettanto irritante è il suo ricorso alla figura retorico-politica degli "opposti estremisti": "neo-tradizionalisti gallicani" (chi sono? voi ne avete mai conosciuto uno?) versus progressisti. Poi, per quanto mi riguarda, non dimentico di certo i suoi ripetuti e ingiustificati attacchi alla persona e al pensiero di Joseph de Maistre, padre nobile della Contro-Rivoluzione Cattolica. Insomma i testi del Nostro sono spesso interessanti, ma vanno letti con vigile e non acritica attenzione.

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  6. @ Un errore di stampa nell'elenco degli "eminenti teologi"?

    Don Curzio, tra gli "emimenti teologi" che avrebbero voluto correggere o modificare il Vaticano II in senso conforme alla Tradizione della Chiesa mette anche "il dr. Giuseppe Alberigo", che e' il fondatore della "Scuola di Bologna"! Si tratta evidentemente di una svista. A. P.

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  7. Silente,
    io lo trovo spesso, come dire, "arruffone", cioe' tende a fare di tutta un'erba, un fascio, non distinguendo, non dettagliando. E poi ogni tanto sembra partire "per la tangente", come con le frasi riportate.
    A me non interessa più molto, o mi confonde, o mi delude.

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  8. Cara Rosa
    hai ragione. Ed è un peccato, perché don Curzio ha un'ottima capacità di ricerca, di analisi e di divulgazione. Alcuni suoi testi (penso ad esempio a Per padre il diavolo, edito dalla Società Editrice Barbarossa, che raccomando a tutti), sono magistrali. Poi cade in idiosincrasie come quelle sopra ricordate, in antipatie ingiustificate, in affermazioni apodittiche. Pazienza. Siamo fatti come siamo fatti.

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