Pubblichiamo di seguito un commento giuridico-pastorale dell'Avvocato Rotale Fabio Adernò, JCD, alla Lettera della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" (4 aprile 2017) riguardante i matrimoni celebrati dalla Fraternità San Pio X.
Richiamiamo precedenti commenti dello stesso Autore:
Richiamiamo precedenti commenti dello stesso Autore:
1) alla Lettera con la quale Papa Francesco conferiva la liceità delle assoluzioni di confessori sacerdoti della FSSPX in occasione dell’Anno Giubilare straordinario della Misericordia [qui] e
2) alla Misericordia et misera con la quale (cfr. n. 12) lo stesso Pontefice estendeva sine die tale liceità indipendentemente dall’arco temporale dell’Anno Santo [qui].
Bocconi di giurisdizione
Il 4 aprile scorso il Bollettino della Sala Stampa Vaticana diffondeva la Lettera del 27 marzo 2017 (prot. N. 61/2010) con la quale la Pontificia Commissione «Ecclesia Dei» informava i Vescovi diocesani dell’orbe cattolico che d’ora in avanti è lecito conferire le facoltà per assistere ai matrimoni anche ai Sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X, «[…] certi che anche in questo modo si possano rimuovere disagi di coscienza nei fedeli che aderiscono alla FSSPX e incertezza circa la validità del sacramento del matrimonio, e nel medesimo tempo si possa affrettare il cammino verso la piena regolarizzazione istituzionale» (ibid.).
Continua, dunque, da parte della Santa Sede la politica di attenzione alla Fraternità Sacerdotale fondata da Mons. Lefebvre, i cui quattro Vescovi dal 2009 non sono più scomunicati per esser stati consacrati senza mandato pontificio nel 1988 ma rimangono, insieme ai sacerdoti, in una condizione canonica “irregolare” (cfr. Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo la remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, 10 marzo 2009).
Nello spiegare all’Episcopato mondiale il significato del suo gesto di paterna sollecitudine e di pacifica riconciliazione, il S.P. Benedetto XVI così scriveva:
«Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere – continuava Papa Raztinger – tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.» (loc. cit.).
Effettivamente, quest’ultimo provvedimento ha un ulteriore peso specifico nel panorama delle relazioni tra la Santa Sede e la Fraternità, che trascende a modesto avviso di chi scrive anche le più recenti disposizioni circa il riconoscimento della giurisdizione in foro interno.
Abbiamo infatti già commentato tanto la Lettera con la quale Papa Francesco conferiva la liceità delle assoluzioni di confessori sacerdoti della FSSPX in occasione dell’Anno Giubilare straordinario della Misericordia (vedi qui) quanto la Lettera Misericordia et misera con la quale (cfr. n. 12) lo stesso Pontefice estendeva sine die tale liceità indipendentemente dall’arco temporale dell’Anno Santo (vedi qui).
Tali disposizioni pontificie sono state accolte con positivi entusiasmi dal cosiddetto “mondo tradizionalista”, che vedeva in esse un atto di paterna sollecitudine di Papa Bergoglio nei confronti della Fraternità (peraltro spesso destinataria di attestati di stima da parte sua, sia da Arcivescovo sia da Papa), anche perché riguardano la sfera intima dei fedeli della FSSPX, e riconoscono, insieme ad una mai discussa validità, anche la liceità della giurisdizione in foro interno.
La lettera del 27 marzo della Pont. Comm. «Ecclesia Dei» è stata ex audientia approvata (si presume “in forma generica”) dal Papa, che ne ha ordinato la pubblicazione: pertanto si può pacificamente affermare che in essa sia contenuta una disposizione del Pontefice che esprime la di Lui volontà.
Nel testo della lettera, firmata dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – da cui la PCED dipende – Card. Gerard L. Müller e dall’Arcivescovo Segretario Mons. Guido Pozzo, così si legge:
Dal testo emergono diversi argomenti e spunti di riflessione.«Di recente, il Santo Padre ha deciso, per esempio, di concedere a tutti i sacerdoti del suddetto istituto le facoltà per confessare validamente i fedeli (Lett. Misericordia et misera, n. 12), in modo da assicurare la validità e la liceità del sacramento da loro amministrato e non lasciare nell’inquietudine le persone.Nella stessa linea pastorale mirata a contribuire a rasserenare la coscienza dei fedeli, malgrado l’oggettiva persistenza per ora della situazione canonica di illegittimità in cui versa la Fraternità di San Pio X, il Santo Padre, su proposta della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Commissione Ecclesia Dei, ha deciso di autorizzare i Rev.mi Ordinari del luogo perché possano concedere anche licenze per la celebrazione di matrimoni dei fedeli che seguono l’attività pastorale della Fraternità, secondo le modalità seguenti.Sempre che sia possibile, la delega dell’Ordinario per assistere al matrimonio verrà concessa ad un sacerdote della diocesi (o comunque ad un sacerdote pienamente regolare) perché accolga il consenso delle parti nel rito del Sacramento che, nella liturgia del Vetus ordo, avviene all’inizio della Santa Messa, seguendo poi la celebrazione della Santa Messa votiva da parte di un sacerdote della Fraternità.Laddove ciò non sia possibile, o non vi siano sacerdoti della diocesi che possano ricevere il consenso delle parti, l’Ordinario può concedere di attribuire direttamente le facoltà necessarie al sacerdote della Fraternità che celebrerà anche la Santa Messa, ammonendolo del dovere di far pervenire alla Curia diocesana quanto prima la documentazione della celebrazione del Sacramento.»
Il primo è certamente la conferma della persistenza – quantunque temporanea, grazie alla locuzione in corsivo «per ora» – della irregolarità canonica della FSSPX, che investe tanto l’istituzione quanto i singoli membri.
Il secondo è che la concessione delle facoltà per assistere al matrimonio, di cui al can. 1108 CIC, è nella disponibilità dell’Ordinario, di fatto però senza condizione alcuna. Non vi sono, infatti, né le locuzioni classiche «si casus ferat» o «omnibus bene perpensis» et similia, né si rintracciano gli elementi che ordinariamente identificano le condizioni alle quali si concede una licenza (i.e. la “giusta causa”); si cita solo – e tra le righe peraltro – il “grave incomodo” da parte dell’intero presbiterio diocesano (sic!) a ricevere il consenso dei nubendi, per cui non solo si permetterà ad un sacerdote della FSSPX di celebrare la Messa votiva per gli sposi, ma anche di riceverne il consenso egli stesso, e dunque fungere da teste qualificato.
Innanzitutto si usa genericamente il sostantivo «Ordinario» (cfr. can. 134, §1) , sebbene riteniamo si presuma sia da intendersi l’Ordinario del luogo (cfr. can. 134, §2) a ragione del primo paragrafo della lettera… ma a questo punto ci chiediamo: si tratta di una “concessione” ab Ordinario tantum o della “delega” di cui al can. 1111 che può essere conferita tanto dall’Ordinario del luogo quanto dal parroco, in forma anche generale?
Il testo parla di “concessione di facoltà”, e risulta essere un po’ anomalo atteso che l’Ordinamento prevede che anche «Dove mancano sacerdoti e diaconi, il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché assistano ai matrimoni» (can. 1112, §1); trattasi, dunque, sempre dell’istituto della «delega», non già della concessione di una facoltà da parte di una autorità ecclesiastica che la detiene originariamente per il diritto stesso in forza dell’ufficio (cfr. can. 1109) nei confronti di un soggetto che ipso iure, invece, ne è sprovvisto e, mediante il provvedimento di collazione, ne diventa eo ipso titolare.
Abbiamo pertanto un problema: atteso che nell’Ordinamento, in questa materia, usare il termine “concessione” sia improprio perché troppo generico, c’è da capire se trattasi di un “conferimento di un diritto” – quello di assistere ai matrimoni – per cui il destinatario diventa equiparato agli altri soggetti di cui al can. 1109, oppure se trattasi di una “delega” che i titolari dello stesso diritto operano legittimamente in forza del can. 1111. E su questo punto, in realtà, persistono alcune perplessità.
L’imprecisione lessicale apre, poi, altre questioni a ventaglio.
Il testo recita: «l’Ordinario può concedere di attribuire direttamente le facoltà necessarie al sacerdote della Fraternità che celebrerà anche la Santa Messa». Ci chiediamo: perché si usa l’espressione «concedere di attribuire» e non semplicemente «concedere» o «può conferire» direttamente al sacerdote? Se l’Ordinario concede, di fatto attribuisce…
Ora l’espressione è palesemente tautologica – «Plus semper in se continet quod est minus» (Reg. Iur., 35) – e crea un problema interpretativo, perché se per un verso sembra che sia lo stesso Ordinario, personalmente, a conferire «direttamente» al singolo sacerdote della FSSPX le facoltà, dall’altro potrebbe anche darsi l’ipotesi (legittima crediamo) per la quale si possa immaginare che l’Ordinario conceda (rectius “dia licenza”) al parroco la “possibilità di conferire”, a sua volta, le facoltà; e dunque delegarle, perché nessun’altro le possiede per il diritto stesso se non in forza dell’ufficio. Ma se così fosse non saremmo più nell’ambito del conferimento di una facoltà (o della titolarità di un diritto), ma tratterebbesi, piuttosto, di ampliamento della possibilità di delegare.
In effetti dovrebbe essere proprio così, e cioè che i titolari dell’ufficio per il quale godono delle facoltà abituali (Vescovi diocesani e parroci) possano concedere – quantunque ancora in una situazione di irregolarità canonica – la delega di dette facoltà ai sacerdoti della FSSPX, che così sono destinatari espliciti di una norma che riguarda tutti quei soggetti che si presumono non impediti dal diritto (cfr. can. 1111, §1), sebbene a tal riguardo è corretto notare che il Codice enunci genericamente «Loci Ordinarius et parochus, quamdiu valide officio funguntur, possunt facultatem intra fines sui territorii matrimoniis assistendi, etiam generalem, sacerdotibus et diaconis delegare».
A tal fine si può affermare, dunque, che la disposizione della Pont. Comm. «Ecclesia Dei» sia da intendersi come una “specificazione ulteriore” di ciò che già il diritto prevede, atteso che il Legislatore ai termini «sacerdotibus et diaconi» non aggiunge espressioni come «iure habilis» o «impedimento non detentis» et similia, e che nessuno ha mai messo in dubbio che i sacerdoti della Fraternità siano, appunto, «sacerdoti». E pertanto, ad oggi, non si potrebbe sollevare alcun diniego a causa della condizione canonica della persona dell’assistente individuato o scelto.
Epperò, nel secondo paragrafo della Lettera si trova l’espressione «concedere licenze». E dunque non si tratta di una delega ma di una licenza, cioè di un permesso, di un’autorizzazione… e se così, la questione diventa ancora più complessa, perché la licenza non gravita nell’ambito dei diritti esigibili ma delle grazie.
Da un punto di vista canonistico, l’imprecisione lessicale del testo della Lettera crea, dunque, un oggettivo problema di interpretazione e traduzione pratica, perché non si comprende se la concessione che viene disposta sia da applicare in un rapporto duale “Vescovo-Sacerdote FSSPX” ovvero “Vescovo-Parroco-Sacerdote FSSPX”.
E, al riguardo del sacerdote, nella lettera si aggiunge l’inciso: «che celebrerà anche la Santa Messa». Per cui, la celebrazione della Messa pare essere conditio sine qua non la concessione della licenza. E se si svolgesse – così come prevede l’antico rituale, considerato “autonomo” come ogni Rituale – il solo Rito del Matrimonio sine Missa? Sarebbe sempre lecito delegare la facoltà oppure no?
Qui, poi, si apre un’altra questione: il Ritus celebrandi Matrimonii Sacramentum (la cui ultima edizione tipica è del 1952) non implica di necessità la celebrazione della Messa votiva degli Sposi; così come è liturgicamente impreciso scrivere che lo scambio del consenso «nella liturgia del Vetus ordo, avviene all’inizio della Santa Messa» perché la rubrica dice chiaramente «Parochus Matrimonio adfuturus…in ecclesia, superpelliceo et stola alba indutus…»: il fatto che sia prevista l’assistenza in cotta e stola è chiaro indice che non ha nulla a che vedere con la Messa; e anche quando dopo avrà luogo la celebrazione della Messa votiva, il sacerdote non indossa il manipolo, mentre i Prelati sono soliti indossare il piviale sul rocchetto.
In più: considerato, ad esempio, il regime concordatario per l’Italia, sarebbe stato opportuno che nella lettera – o con apposito documento – si fosse disposto e ricordato che, attesa l’efficacia anche civile della celebrazione canonica, nella celebrazione del Matrimonio secondo il Rito antico dovranno essere letti gli articoli del Codice civile oggi vigenti, e non quelli presenti nel vecchio Rituale, in ossequio al Decreto Generale sul Matrimonio canonico della CEI del 1990 (cfr. ibid., artt. 19 e 25).
Oltretutto è da notare che già la stessa celebrazione del Matrimonio secondo l’antico Rituale è certamente permessa, ma è sottoposta alla licenza del parroco: «Parochus item, omnibus bene perpensis, licentiam concedere potest utendi rituali antiquiore in administrandis sacramentis Baptismatis, Matrimonii, Poenitentiae et Unctionis Infirmorum, bono animarum id suadente.» (Benedetto XVI, M.P. Summorum Pontificum, 7.7.2007, art. 9, § 1).
Allorché c’è da chiedersi se la concessione sia da intendersi una tantum e dunque trattasi di delega speciale (cfr. can. 1111, §2) oppure etiam generale (cfr. can. 1111, §1) considerato l’eventuale ripetersi della fattispecie, e pertanto valga semel pro semper ogniqualvolta che dei fedeli chiedano al proprio parroco di celebrare il Rito del Matrimonio e la Messa votiva degli Sposi nella forma straordinaria domandando espressamente che sia un sacerdote della FSSPX a benedire le nozze e a celebrare la Messa.
Nel comunicato diffuso dalla Casa Generalizia, la Fraternità ha ringraziato «profondamente il Santo Padre per la sua sollecitudine pastorale, così com'è espressa attraverso la lettera della Commissione Ecclesia Dei, al fine di togliere la “incertezza circa la validità del sacramento del matrimonio”. Il Papa Francesco vuole chiaramente che, come per le confessioni, tutti i fedeli che desiderano sposarsi in presenza di un sacerdote della Fraternità San Pio X, possano farlo senza alcuna inquietudine riguardo alla validità del sacramento. C'è da augurarsi che tutti i Vescovi condividano la stessa sollecitudine pastorale.» e ha assicurato che « I sacerdoti della Fraternità San Pio X si adopereranno fedelmente, come fanno sin dalla loro ordinazione, a preparare al matrimonio i futuri sposi, secondo la dottrina immutabile di Cristo circa l'unità e l'indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 16), prima di ricevere il consenso secondo il rito tradizionale della Santa Chiesa.»
Alla luce di queste dichiarazioni, viene tuttavia da riflettere.
La nuova disposizione è destinata soltanto ai «fedeli che seguono l’attività pastorale della Fraternità», o a tutti i fedeli che richiedano la presenza di un determinato assistente? Secondo il principio di uguaglianza, considerato che non si tratta di soggetti sudditi della Fraternità (che, ad oggi, non avrebbe diritto di averne), bisogna dedurre che ciascun battezzato possa esprimere il suo consenso davanti ad un sacerdote della FSSPX.
Per quanto attiene all’identificazione del luogo della celebrazione delle nozze, prima facie ci viene da pensare che sia, verosimilmente, una cappella della Fraternità (che comunque ricade sotto la giurisdizione di un parroco e nel territorio di una data circoscrizione ecclesiastica); ma potrebbe anche essere qualsivoglia altro luogo (chiesa, oratorio o luogo conveniente), previa autorizzazione dell’Ordinario (cfr. can. 1118). A questo punto, ci chiediamo: considerata la licenza da concedere all’eventuale assistente, dovrà essere il Vescovo a dare il permesso di celebrare il matrimonio in luogo diverso dalla chiesa parrocchiale o lo stesso parroco di cui almeno uno dei due nubendi è suddito (cfr. cann. 1109-1110)? E nel caso fosse lo stesso parroco, a questi è lecito delegare un sacerdote della FSSPX o dovrà provvedere l’Ordinario, atteso che dal testo della Lettera appare sia in capo a quest’ultimo la potestà di delegare la facoltà?
In più, tale delega – continuiamo a pensare che sia tale – potrà essere concessa anche laddove si esuli dalla condizione di impossibilità oggettiva del parroco o di altro sacerdote «pienamente regolare» presente in Diocesi?
E potrebbe la facoltà di assistere validamente al matrimonio essere conferita ad un sacerdote della FSSPX anche laddove, per i più svariati motivi (come può essere, ad esempio, un’amicizia o una parentela coi futuri sposi), non ricorrano le condizioni enunciate dalla Lettera della Pontificia Commissione e, ad esempio, si tratti di fedeli di un Ordinariato o di una parrocchia personale di rito tradizionale (cfr. can. 1110) che desiderino la benedizione proprio di quel sacerdote della FSSPX?
Ci sono buone ragioni per credere di sì: «Odia restringi, et favores convenit ampliari» (Reg. Iur., 15), anche se la questione non è di poco momento, perché in realtà si apre un ginepraio di considerazioni di ordine ecclesiale, prima ancora che giuridico, senz’altro non trascurabili.
Per anni, infatti, sono state emesse sentenze – anche Rotali – affermative di nullità per difetto di forma dei matrimoni celebrati in seno alla Fraternità proprio perché si escludeva, per i fedeli della San Pio X, il ricorso alla supplenza di facoltà di cui al can. 144 («Ecclesia supplet») e si argomentava che essi, all’atto di contrarre matrimonio, non erano incorsi né nell’errore né nel dubbio bensì avevano inteso volutamente sottrarsi alla giurisdizione ordinaria della Chiesa, indipendentemente dal fatto di condividere o meno l’impostazione dottrinale tradizionale; fonti certe, addirittura, ricordano che la Fraternità, per un dato periodo, aveva anche istallato dei tribunali propri per giudicare eventuali situazioni matrimoniali naufragate e valutarne la nullità.
Son queste le condizioni di «incertezza circa la validità del sacramento» di cui si parla nella Lettera della Pontificia Commissione e i «disagi di coscienza nei fedeli che aderiscono alla FSSPX» che è intenzione della Santa Sede «rimuovere» con questo provvedimento.
Tornando alla questione iniziale, sarebbe da comprendere se con la Lettera del 27 marzo scorso il Papa, per il tramite della PCED, abbia inteso conferire ai sacerdoti della Fraternità San Pio X un diritto o una legittimazione a ricevere un diritto ovvero una grazia (l’autorizzazione, cioè la delega di facoltà).
In dottrina è controversa la questione se la facoltà di assistere al matrimonio sia da intendere come un atto di giurisdizione strictu sensu ovvero un esercizio del munus di teste qualificato «ad meram testificationem authenticam ex officio peractam» (G. Michiels, De potestate ordinaria et delegata, 1964, pp. 55ss; cfr. Sentenze Rotali c. Teodori, 31.3.1949, e c. Bruno, 22.2.1980), ma tanto attraverso una lettura sistematica e organica delle norme circa la delegazione, la subdelegazione, la cessazione e la supplenza stabilite per la potestà di giurisdizione che si applicano anche alla materia della forma canonica del matrimonio, quanto grazie, tra l’altro, ad una Risposta autentica della Pontificia Commissione per l’Interpretazione del Codice del 26 marzo 1952 sull’applicazione del canone circa la supplenza di facoltà anche al difetto di delega nell’assistenza al matrimonio – ribadito nel citato vigente can. 1108, §1 – si può pacificamente tenere che l’assistenza al matrimonio sia un atto di giurisdizione, a ragione del fatto che la forma canonica è ad validitatem della celebrazione delle nozze (sin dai tempi del Concilio di Trento), e che il Legislatore ha previsto che tale giurisdizione sia in capo al Vescovo e al Parroco. Il fatto, poi, che possa essere delegata anche ad un soggetto che non sia insignito dell’Ordine Sacro rientra in casi di eccezione con una serie articolata di passaggi di autorizzazioni da parte delle Conferenze Episcopali e della Santa Sede (cfr. can. 1112, §1).
Ma il punto è che, a voler essere precisi, nella Lettera non si parla di «delega» ma di «licenze per la celebrazione dei matrimoni», da concedersi da parte degli Ordinari del luogo «direttamente ai sacerdoti» della Fraternità.
Alla luce di quanto fin qui osservato, sembrerebbe quasi che quanto concede la Santa Sede sia, ancora una volta, una sorta di giurisdizione generali modo collata in favore della Fraternità e dei suoi membri, scavalcando a piè pari – senza farne mistero – la loro condizione di irregolarità canonica, ed esercitando a loro favore, in modo singolare, la potestas directa del Pontefice, derogando anche – specie per quanto attiene alla giurisdizione in foro interno, già loro conferita direttamente dal Papa e non già secondo la forma stabilita dal Codice (cfr. cann. 966 e 969) – ai vincoli di dipendenza che sussistono tra i sacerdoti della Fraternità e i loro Superiori (cfr. can. 968, §2).
Di fatto, dunque, se passasse l’interpretazione ampia della novella disposizione, si rintraccerebbe a buona ragione in capo a ciascun sacerdote della Fraternità se non un titulum in iure quantomeno una habilitas ad ius assai forte e peculiare; e se già, per quanto riguarda la giurisdizione in foro interno, in forza di una disposizione sovrana, si è equiparata la loro capacità giuridica – saltem de facto – a quella dei Vescovi o dei Cardinali di S.R.C. (cfr. can. 977), ad oggi non è da meno.
In un’antica pubblicazione dal titolo “Decisioni dei casi di coscienza e di dottrina canonica del Padre Faustino Scarpazza, Domenicano e Prof. di S. Teologia” (Venezia 1832, vol. IX, pp. 23-25) si legge che è l’Ordinario ossia chiunque ha giurisdizione vescovile che può assistere ai matrimoni e può concedere la licenza ad assistervi. «Adunque – leggiamo – oltre ai Vescovi, hanno tal facoltà gli Abbati delle chiese non soggette ad alcun vescovo, il Legato a latere nella provincia della sua legazione, i Cardinali nelle chiese dei loro titoli, il Capitolo di canonici in sede vacante prima dell’elezione del Vicario Capitolare, perché tutti questi vengono sotto il nome di Ordinario», ivi compreso il Vicario Generale (loc. cit.).
Certamente la Chiesa non è nuova nel concedere la licenza ad assistere ai matrimoni ai sacerdoti non parroci, senza per questo ledere i diritti di questi ultimi che il Concilio di Trento ha ben consacrato (cfr. Decr. De reformatione, Sess. XXIV, c. 13), tuttavia la concessione oggetto della nostra analisi importa non solo le riflessioni di ordine strettamente giuridico sopra formulate, ma anche altre riflessioni di ordine pastorale ed ecclesiologico.
È senz’altro lodevole e apprezzabile da parte della Santa Sede la sollecitudine nei confronti dei fedeli della Fraternità, ma non possiamo non considerare che con queste concessioni graduali si superano i limiti della mera questione liturgica – che potrebbe essere, appunto, l’opzione rituale (riconosciuta dal M.P. Summorum Pontificum, legittima e sacrosanta, oggi peraltro abbastanza diffusa anche tra le giovani generazioni desiderose di fruire dei “tesori della Tradizione”) da parte dei singoli fedeli che scelgono il Rito antico, – fino a giungere ad un continuo, progressivo, crescente razionamento della giurisdizione ecclesiastica, che la Santa Sede sembra concedere “a porzioni” alla Fraternità San Pio X, senza però prima conferire ad essa una veste giuridica solida e robusta che possa mutare queste concessioni graziose in diritti di cui sia pienamente titolare.
Pertanto, se da una parte si concede la possibilità di esercitare una qual certa forma di giurisdizione (in foro interno, per quanto attiene alle confessioni, e in foro esterno per quanto riguarda il matrimonio) ma dall’altra si continua ad affermare che sussiste una condizione di irregolarità, avremmo sempre situazioni giuridicamente gracili ed instabili che integrerebbero – come di fatto integrano – realtà giuridiche che producono effetti (perché valide) ma restano adombrate dalla mancanza di piena liceità perché con un fondamento oggettivo (e peraltro dichiarato) di irregolarità canonica.
È chiaro che ciò che conta, alla fine, è sempre il risultato. Ciò nondimeno, ragionevolmente, considerato che «Quod semel placuit amplius displicere non potest» (Reg. Iur., 21), che interesse dovrebbe avere, ad oggi, la Fraternità a ricomporre la questione con Roma se già ha molti più privilegi di qualsivoglia congregazione religiosa o prelatura personale, svolgendo peraltro la sua missione e il suo apostolato in totale libertà e autonomia rispetto alla giurisdizione dei Pastori delle Chiese locali? Ai posteri l’ardua sentenza.
Fabio Adernò
RispondiElimina"@ Chiudere la questione della "irregolarità canonica" oppure no? Chiudere e affidarsi alla Provvidenza.
Dall'approfondito commento dell'avvocato rotale Fabio Adernò, sviluppato con impeccabile ed esemplare dottrina, si deduce che l'interpretazione più ampia della concessione pontificia è quella più giusta: detta in soldoni, i matrimoni celebrati dai sacerdoti della FSSPX sono validi e non si possono più sollevare cavilli in proposito. E questo, per volontà espressa del Papa, il quale, abbiamo appreso, non si è limitato ad applicare il diritto canonico vigente ma ha anche in una certa misura innovato rispetto allo stesso, nel concedere alla FSSPX quelli che l'Autore chiama significativamente "bocconi di giurisdizione". Rientra certamente nei poteri del Papa, in quanto supremo legislatore nella Chiesa, agire in questo modo.
La questione essenziale, adesso, è quella posta dall'Autore nell'ultimo paragrafo. Dati i privilegi dei quali in sostanza la FSSPX gode, grazie alla politica della mano tesa di Papa Bergoglio, le conviene ottenere alla fine la c.d. "regolarità canonica", che, si suppone, accanto al bene della "regolarità", potrebbe porle anche nuovi e difficili problemi?
Bisogna dire, per restare ai fatti, che nessun Papa si è dimostrato così desideroso di venire incontro alla FSSPX come Bergoglio. Evidentemente, egli vuole chiudere (e in fretta) la frattura Chiesa - FSSPX. Le sue aperture nei confronti della Frat. sono state sempre unilaterali. Concedevano il riconoscimento della validità di Sacramenti quali la Confessione e il matrimonio, parlare di rifiuto da parte della FRat. è semplicemente assurdo.
Ma deve la FRat. aderire all'ultima concessione di Bergoglio: l'inserimento nel CIC mediante una prelatura personale ad hoc, come si dice? Penso che, a questo punto, debba. Purché non le si richiedano in nessuna forma, anche indiretta, riconoscimenti dottrinali al Concilio o alla nuova Liturgia, comunque espressi, a voce e/o per iscritto.
Come ci ha ben spiegato l'avvocato Adernò, la Frat. gode attualmente di "bocconi di giurisdizione", non di una "giurisdizione" completa. Una volta "rientrata", cioè riinserita nel Codice di dir. can., la Frat. si vedrà costretta a continuare la sua battaglia (è inutile illudersi) in particolare contro quella parte della Gerarchia che le è notoriamente ostile. Combatterà però da una "piattaforma" diversa. Certo, i rischi ci sono, lo sappiamo. Ma, come dice il proverbio: "chi non risica non rosica". Penso a quei fedeli (pochi? tanti?) che si tengono lontani dalla Messe VO celebrate dalla Frat. proprio perchè si sentono dire che essa è come che sia sempre "non a posto" con la Chiesa, col Papa (per esprimermi sempre in soldoni). PP
Importante puntualizzazione.
RispondiEliminaGrazie all'avv. Adernò a Mic e a PP per l'ottimo commento.
Cara Maria, col commento che ho fatto prima e che non hai messo, volevo dire solo una cosa importante ""MA LO STATO DI NECESSITA' E' TERMINATO? - Nella Chiesa di Roma è tornato tutto normale oppure è ancora tutto rovesciato rispetto ai duemila anni precedenti""?
RispondiEliminaSub tuum præsidium confugimus,
RispondiEliminaSancta Dei Genetrix.
Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus nostris,
sed a periculis cunctis libera nos semper,
Virgo gloriosa et benedicta.
http://www.medias-presse.info/mariages-dans-la-fsspx-lettre-de-doyens-de-la-fsspx-et-des-communautes-religieuses-amies/73700/
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