Il 29 Aprile 1380 si concludeva la vita terrena di santa Caterina da Siena. Ecco come Pio XII ci presenta la Patrona della nostra Italia che festeggiamo oggi, nel Discorso sui Patroni d'Italia a Santa Maria sopra Minerva, 5 maggio 1940. Santa Caterina, intercedi per noi!
Ammirevole spettacolo e al tutto degno della universale paternità apostolica, Venerabili Fratelli e diletti Figli, fu più volte, in secoli dal nostro lontani, il vedere in questo insigne tempio di Santa Maria sopra Minerva i Successori di Pietro, Nostri Antecessori, venuti con solenne corteo a celebrare i divini misteri nella dolce festività della Santissima Annunziata, e onorare con mano amorevole la pubblica distribuzione alle fanciulle di doti claustrali e nuziali, estimatori, com’erano, della verginità sacra a Dio e della onesta maternità familiare, vegliante, insieme con gli angeli celesti, sulle candide culle, nidi di angeli umani. A tale lieta storica ricordanza l’animo Nostro esulta in mezzo al Nostro amato popolo che Ci circonda devoto; e nella visione del passato, se pur bello di altra luce, contempliamo rinnovato e ripresentato, in festa di duplice e novissima aureola, lo splendore di questo altare, sotto cui dormono le venerate spoglie di una vergine eroica, sposa di Cristo, paladina della Chiesa, madre del popolo, angelo di pace all’italica famiglia. Al Nostro sguardo accanto a lei leva la fronte un poverello, vestito di saio e cinto di una corda, dall’aspetto serafico, dalle mani e dai piedi segnati di cicatrici, dall’occhio che contempla il cielo, i monti e le valli, il valico dei fiumi e dei mari, e nel suo amore e nel suo saluto abbraccia l’agnello e il lupo, gl’infelici e i felici, i concittadini e gli estranei. Sono questi, o Italia, i tuoi alti Patroni al cospetto di Dio, il quale pure ti ebbe privilegiata fra tutte le sponde del Mediterraneo e degli oceani, stabilendo in te, attraverso le mirabili vicende di un popolo prode, ignaro del consiglio e della mano divina, la sede e l’impero pacifico del Pastore universale delle anime redente dal sangue di Cristo. Caterina e Francesco, sotto il beatificante ciglio di Dio, guardano Roma e le regioni italiche, perché l’amore, che nutrirono quaggiù vivendo e operando, non si spegne nel cielo, ma si rinfiamma nell’imperituro amore di Dio.
Ammirevole spettacolo e al tutto degno della universale paternità apostolica, Venerabili Fratelli e diletti Figli, fu più volte, in secoli dal nostro lontani, il vedere in questo insigne tempio di Santa Maria sopra Minerva i Successori di Pietro, Nostri Antecessori, venuti con solenne corteo a celebrare i divini misteri nella dolce festività della Santissima Annunziata, e onorare con mano amorevole la pubblica distribuzione alle fanciulle di doti claustrali e nuziali, estimatori, com’erano, della verginità sacra a Dio e della onesta maternità familiare, vegliante, insieme con gli angeli celesti, sulle candide culle, nidi di angeli umani. A tale lieta storica ricordanza l’animo Nostro esulta in mezzo al Nostro amato popolo che Ci circonda devoto; e nella visione del passato, se pur bello di altra luce, contempliamo rinnovato e ripresentato, in festa di duplice e novissima aureola, lo splendore di questo altare, sotto cui dormono le venerate spoglie di una vergine eroica, sposa di Cristo, paladina della Chiesa, madre del popolo, angelo di pace all’italica famiglia. Al Nostro sguardo accanto a lei leva la fronte un poverello, vestito di saio e cinto di una corda, dall’aspetto serafico, dalle mani e dai piedi segnati di cicatrici, dall’occhio che contempla il cielo, i monti e le valli, il valico dei fiumi e dei mari, e nel suo amore e nel suo saluto abbraccia l’agnello e il lupo, gl’infelici e i felici, i concittadini e gli estranei. Sono questi, o Italia, i tuoi alti Patroni al cospetto di Dio, il quale pure ti ebbe privilegiata fra tutte le sponde del Mediterraneo e degli oceani, stabilendo in te, attraverso le mirabili vicende di un popolo prode, ignaro del consiglio e della mano divina, la sede e l’impero pacifico del Pastore universale delle anime redente dal sangue di Cristo. Caterina e Francesco, sotto il beatificante ciglio di Dio, guardano Roma e le regioni italiche, perché l’amore, che nutrirono quaggiù vivendo e operando, non si spegne nel cielo, ma si rinfiamma nell’imperituro amore di Dio.
La carità, che non viene meno verso Dio e verso i fratelli e fa che a Dio la mente dell’uomo rivolga se stessa e le sue azioni, è religione, che, quanto più sale al cielo e adora, tanto più nel ridiscendere in mezzo agli uomini si espande e grandeggia, illumina e riscalda, come i raggi emananti dal sole. E sole di Siena fu Caterina, a quel modo che sole di Assisi fu Francesco. I loro raggi furono luce e calore non solo dell’Umbria e della Toscana, ma ancora delle terre e del cielo d’Italia, e oltre i confini delle Alpi e del mare. Due anime giganti in fragili corpi: anima di virago la vergine di Siena; anima di cavaliere il giovane di Assisi. Uguali e diverse; perché è vanto della santità il pareggiare i suoi eroi nell’ardore e nel fuoco dello spirito; come è arte sua il differenziarli nelle vie e nelle opere anche di un medesimo bene, e rendere l’uno più pronto a conversare cogli umili, l’altra più presta a trattare coi grandi; l’uno vestito del suo scuro saio di Patriarca della milizia francescana, l’altra in abito candido sotto il nero manto domenicano.
Il manto domenicano e il saio francescano, che già per le sue vie la Città eterna vide in Domenico e in Francesco abbracciarsi con palpito di perenne amicizia, oggi s’incontrano nell’ombra di questo glorioso tempio innanzi alla tomba di Caterina da Siena, e si uniscono fraternamente nell’esaltare in Roma i due primari Patroni celesti d’Italia. Se le sacre spoglie di Domenico e di Francesco sono lontane, qui presenti stanno i figli dell’uno e dell’altro Patriarca; e dalle loro labbra esce una voce che fa un solo coro risonante dei nomi di Caterina e di Francesco e li avvolge nella stessa lode e invocazione, cui non vale a dividere o scemare il tempo che li separa, mentre li congiunge una medesima santa idea di lotta e di pace per Cristo, per la Chiesa e per l’Italia.
Dio fece grande e operosa in Caterina la donna; operoso e grande in Francesco l’uomo, esaltando in essi, con tratti di divine e somme immagini, le radici dell’umana famiglia, e coronando ambedue del sigillo di stimmate di passione ineffabile, in Francesco aperte, in Caterina (lei vivente) invisibili, quasi a dimostrare che anche sotto il velo della carne con un medesimo dolore si vive e si opera nell’amore. È il mistero della vita e dell’opera dei santi, degli eroi e delle eroine di Cristo: di sublimarsi nell’amore per inabissarsi in un dolore, che è imitazione di Cristo, compassione degl’infelici, sacrificio e olocausto di se stessi per la loro rigenerazione e concordia, restaurazione dei costumi, rimedio dei mali, lotta per il bene e per la pace, vittoria e trionfo della verità nella giustizia e nella carità dei fratelli e dei popoli; in un dolore che non soffoca o spegne il sorriso sul labbro, né la benignità della parola o nel cuore il balzo della tenerezza e l’ardore del coraggio. Non è forse questo il gaudio di Paolo negli affanni delle sue tribolazioni? «Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra » [1].
Caterina era nata con un cuore di donna e un ardimento di martire, con una mente pronta e un animo virile; e in lei voi vedete un fulgido esempio di ciò che in tempi agitatissimi può la donna forte. Se, di sotto a quest’altare, si levasse viva in mezzo a noi, ne udireste, meglio che dalle mirabili sue lettere, l’ardente e mite impeto di uno zelo apostolico, vibrante in voce di vergine, la quale altra patria non conosce che il cielo, e in cielo vorrebbe cambiata anche la patria di quaggiù. La Chiesa di Cristo, ella scrive, è un glorioso giardino, dove Dio mette i suoi lavoratori che lo coltivino, e quei lavoratori siamo tutti noi; in un modo, tutti i fedeli cristiani, i quali debbono lavorare con umili e sante orazioni e con vera obbedienza e riverenza alla Santa Chiesa; in altro modo, coloro che sono posti per ministri dei santi sacramenti a pascere e nutrire spiritualmente i credenti; in terzo modo, coloro che servono la Chiesa fedelmente dell’avere e della persona per il suo incremento e la sua esaltazione, « virilmente affaticandosi con vera e santa intenzione per la dolce sposa di Cristo. È questa (dice la vergine Senese) la più dolce fatica, e di più utilità, che alcuna altra fatica del mondo » [2]. Tutto è dolce per lei, che di dolcezza insapora la croce e la morte, il cielo e la terra. E in questo servigio della Chiesa voi ben comprendete, diletti Figli, come Caterina precorra i nostri tempi, con una azione che amplifica l’anima cattolica e la pone al fianco dei ministri della fede, suddita e cooperatrice nella diffusione e difesa del vero e nella restaurazione morale e sociale del vivere civile. « Ora è il tempo dei martiri novelli…», essa esclamava, « però che, servendo alla Chiesa e al Vicario di Cristo, servite a… Cristo crocifisso » [3]. E l’eroica vergine di Siena, sorretta dalla visione e dal mandato del suo dolce Gesù, combatté per la Chiesa e per il Vicario di Cristo; nuova Debora, liberatrice della sua gente [4], nuova Giuditta senza ferro. Se per lei la Chiesa era il giardino dei cristiani, era pure insieme la vigna del Signore, nella quale conviene lavorare la vigna dell’anima nostra e la vigna del prossimo [5], che è quella dei fratelli per sangue, per vicinato, per patria; tra i quali si sentì figlia, sorella, madre di affetto, di compassione e di aiuto.
E come lavorasse l’anima sua, non lo dicono forse i gigli virginei del suo cuore e il fuoco della carità, onde fu innamorata di Dio e del prossimo? Nella breve giornata dei suoi trentatré anni, quanto non fece questa angelica vergine d’Italia! Dall’opera di lei comprenderete l’indole e la tristezza del suo tempo, quando la sede di Pietro era esule dall’Urbe, quando Roma vedovata era in preda alle fazioni, quando i municipi italiani venivano parteggiando e fieramente guerreggiandosi, quale per i guelfi, quale per i ghibellini. Nell’azione di questa donna forte splende tutto ciò ch’è di vero, di onesto, di giusto, di santo, di amabile, tutto ciò che fa buon nome, che è virtù e lode di disciplina [6]. A lei la massima gloria di aver ricondotto a Roma il Pontefice, impresa, a cui non valse la più armoniosa lira del suo secolo temprata dalla dolcezza italica. Per Urbano VI Caterina fu la rinata Matilde di Canossa; e con lettere a regine, a principi, a municipi, gli mantenne fedele l’Italia, umiliando l’avversario con l’esaltazione della vittoria riportata a Marino dall’esercito di Alberico da Barbiano.
In Roma morirà l’eroica donna; moriva nel settimo lustro dei suoi anni pieni di ardente vita; moriva fra la sua famiglia spirituale commossa, presente l’addoloratissima sua madre. Spettacolo memorando e sublime in quell’ora della nascita, non alla terra, ma al cielo! Moriva pregando per il Papa e per la Chiesa, divina tutrice della fede e della gloria d’Italia; e nella tranquillità della morte, aspettando la risurrezione rinnovatrice di vita più fulgida e non caduca, Noi la contempliamo sotto quest’ara e invochiamo il suo potente nome a protezione non solo di Roma, ma dell’Italia tutta.
[...]
Il manto domenicano e il saio francescano, che già per le sue vie la Città eterna vide in Domenico e in Francesco abbracciarsi con palpito di perenne amicizia, oggi s’incontrano nell’ombra di questo glorioso tempio innanzi alla tomba di Caterina da Siena, e si uniscono fraternamente nell’esaltare in Roma i due primari Patroni celesti d’Italia. Se le sacre spoglie di Domenico e di Francesco sono lontane, qui presenti stanno i figli dell’uno e dell’altro Patriarca; e dalle loro labbra esce una voce che fa un solo coro risonante dei nomi di Caterina e di Francesco e li avvolge nella stessa lode e invocazione, cui non vale a dividere o scemare il tempo che li separa, mentre li congiunge una medesima santa idea di lotta e di pace per Cristo, per la Chiesa e per l’Italia.
Dio fece grande e operosa in Caterina la donna; operoso e grande in Francesco l’uomo, esaltando in essi, con tratti di divine e somme immagini, le radici dell’umana famiglia, e coronando ambedue del sigillo di stimmate di passione ineffabile, in Francesco aperte, in Caterina (lei vivente) invisibili, quasi a dimostrare che anche sotto il velo della carne con un medesimo dolore si vive e si opera nell’amore. È il mistero della vita e dell’opera dei santi, degli eroi e delle eroine di Cristo: di sublimarsi nell’amore per inabissarsi in un dolore, che è imitazione di Cristo, compassione degl’infelici, sacrificio e olocausto di se stessi per la loro rigenerazione e concordia, restaurazione dei costumi, rimedio dei mali, lotta per il bene e per la pace, vittoria e trionfo della verità nella giustizia e nella carità dei fratelli e dei popoli; in un dolore che non soffoca o spegne il sorriso sul labbro, né la benignità della parola o nel cuore il balzo della tenerezza e l’ardore del coraggio. Non è forse questo il gaudio di Paolo negli affanni delle sue tribolazioni? «Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra » [1].
Caterina era nata con un cuore di donna e un ardimento di martire, con una mente pronta e un animo virile; e in lei voi vedete un fulgido esempio di ciò che in tempi agitatissimi può la donna forte. Se, di sotto a quest’altare, si levasse viva in mezzo a noi, ne udireste, meglio che dalle mirabili sue lettere, l’ardente e mite impeto di uno zelo apostolico, vibrante in voce di vergine, la quale altra patria non conosce che il cielo, e in cielo vorrebbe cambiata anche la patria di quaggiù. La Chiesa di Cristo, ella scrive, è un glorioso giardino, dove Dio mette i suoi lavoratori che lo coltivino, e quei lavoratori siamo tutti noi; in un modo, tutti i fedeli cristiani, i quali debbono lavorare con umili e sante orazioni e con vera obbedienza e riverenza alla Santa Chiesa; in altro modo, coloro che sono posti per ministri dei santi sacramenti a pascere e nutrire spiritualmente i credenti; in terzo modo, coloro che servono la Chiesa fedelmente dell’avere e della persona per il suo incremento e la sua esaltazione, « virilmente affaticandosi con vera e santa intenzione per la dolce sposa di Cristo. È questa (dice la vergine Senese) la più dolce fatica, e di più utilità, che alcuna altra fatica del mondo » [2]. Tutto è dolce per lei, che di dolcezza insapora la croce e la morte, il cielo e la terra. E in questo servigio della Chiesa voi ben comprendete, diletti Figli, come Caterina precorra i nostri tempi, con una azione che amplifica l’anima cattolica e la pone al fianco dei ministri della fede, suddita e cooperatrice nella diffusione e difesa del vero e nella restaurazione morale e sociale del vivere civile. « Ora è il tempo dei martiri novelli…», essa esclamava, « però che, servendo alla Chiesa e al Vicario di Cristo, servite a… Cristo crocifisso » [3]. E l’eroica vergine di Siena, sorretta dalla visione e dal mandato del suo dolce Gesù, combatté per la Chiesa e per il Vicario di Cristo; nuova Debora, liberatrice della sua gente [4], nuova Giuditta senza ferro. Se per lei la Chiesa era il giardino dei cristiani, era pure insieme la vigna del Signore, nella quale conviene lavorare la vigna dell’anima nostra e la vigna del prossimo [5], che è quella dei fratelli per sangue, per vicinato, per patria; tra i quali si sentì figlia, sorella, madre di affetto, di compassione e di aiuto.
E come lavorasse l’anima sua, non lo dicono forse i gigli virginei del suo cuore e il fuoco della carità, onde fu innamorata di Dio e del prossimo? Nella breve giornata dei suoi trentatré anni, quanto non fece questa angelica vergine d’Italia! Dall’opera di lei comprenderete l’indole e la tristezza del suo tempo, quando la sede di Pietro era esule dall’Urbe, quando Roma vedovata era in preda alle fazioni, quando i municipi italiani venivano parteggiando e fieramente guerreggiandosi, quale per i guelfi, quale per i ghibellini. Nell’azione di questa donna forte splende tutto ciò ch’è di vero, di onesto, di giusto, di santo, di amabile, tutto ciò che fa buon nome, che è virtù e lode di disciplina [6]. A lei la massima gloria di aver ricondotto a Roma il Pontefice, impresa, a cui non valse la più armoniosa lira del suo secolo temprata dalla dolcezza italica. Per Urbano VI Caterina fu la rinata Matilde di Canossa; e con lettere a regine, a principi, a municipi, gli mantenne fedele l’Italia, umiliando l’avversario con l’esaltazione della vittoria riportata a Marino dall’esercito di Alberico da Barbiano.
In Roma morirà l’eroica donna; moriva nel settimo lustro dei suoi anni pieni di ardente vita; moriva fra la sua famiglia spirituale commossa, presente l’addoloratissima sua madre. Spettacolo memorando e sublime in quell’ora della nascita, non alla terra, ma al cielo! Moriva pregando per il Papa e per la Chiesa, divina tutrice della fede e della gloria d’Italia; e nella tranquillità della morte, aspettando la risurrezione rinnovatrice di vita più fulgida e non caduca, Noi la contempliamo sotto quest’ara e invochiamo il suo potente nome a protezione non solo di Roma, ma dell’Italia tutta.
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RispondiElimina@ DAlle "Lettere a Papi e a cardinali" di s. Caterina da Siena, a cura di Giuseppe Pensabene, Volpe Ed., Roma, 1968. Estratti.
Dopo aver incitato più volte il Papa ad essere "uomo virile" e a tornare finalmente a Roma, affidandosi all'aiuto di Cristo, e dopo avergli rispettosamente detto queste cose anche di persona ad Avignone, la Santa scrisse a Gregorio XI, già tornato a Roma da poco, incitandolo, su indicazione del Signore, a riformare i mali della Chiersa o ad abdicare ("rifiutare quello che è preso"):
"Oimè, oimè, perdonate alla mia presunzione, di quello che vi ho detto, e dico: son costretta dalla prima dolce Verità [Nostro Signore} di dirlo. La volontà sua, Padre, è questa e così vi dimanda. Egli vi dimanda che facciate giustizia delle molte iniquità che si commettono per coloro che si notricano [nutriscono] e pascolano nel giardino della santa Chiesa. Dicendo che l'animale non si debba notricare del cibo degli uomini. Poiché Egli v'ha data l'autorità e voi l'avete presa. Dovete usare la virtù e la potenzia vostra: e non volendole usare meglio sarebbe rifiutare quello che è preso: più onore di Dio e salute dell'anima vostra sarebbe. Non dico di più. Perdonatemi, perdonatemi: chè il grande amore ch'io ho alla salute vostra, e il grande dolore quando veggo il contrario, mel fa dire" (op. cit., pp. 81-82).
[A cura di PP]
Ringrazio anch''io, anche perché mi pareva di ricordare questo invito di santa Caterina ad abdicare in caso di inadempienza, ma non riuscivo a rintracciare il riferimento.
RispondiElimina--
Fabrizio Giudici
" E se voi, fratelli miei, sarete come dovrete essere, incendierete l'Italia di amore per Dio!"
RispondiEliminahttp://www.parrocchiasanmichele.eu/phocadownload/buonastampa/dialogo%20divinaprovvidenza.pdf
RispondiEliminaRendici partecipi, o Vergine, di quel tuo attaccamento filiale alla santa Chiesa che ti fece intraprendere cose così grandi. Tu ti affliggevi delle sue afflizioni, e ti rallegravi delle sue gioie, quale figlia devota. Noi pure vogliamo amare la Madre nostra, confessare sempre quel vincolo che ci unisce a lei, difenderla contro i suoi nemici, guadagnarle nuovi figli generosi e fedeli.
RispondiEliminaIl Signore si servì del tuo debole braccio, o donna ispirata, per rimettere sulla sua cattedra il Pontefice, di cui Roma rimpiangeva l'assenza. Fosti più forte degli elementi umani che si agitano per prolungare una situazione disastrosa per la Chiesa. Le ceneri di Pietro, in Vaticano, quelle di Paolo sulla via Ostiense, le altre di Lorenzo, di Sebastiano, di Cecilia, di Agnese e di tante migliaia di martiri trasalirono nelle loro tombe, quando il carro trionfale che riconduceva Gregorio XI entrò nella Città. Per merito tuo Caterina, avevano termine in quel giorno i settant'anni di quella desolante cattività; e Roma, tornava alla vita.
... per l'Italia.
Prega pure per l'Italia che ti ha tanto amata, che fu così fiera delle tue glorie e di cui tu sei la Padrona. L'empietà e l'eresia oggi vi circolano liberamente; si bestemmia il nome del tuo Sposo, si propagano le dottrine più perverse ad un popolo smarrito, gli s'insegna a maledire tutto ciò che esso aveva venerato; la Chiesa è spesso oltraggiata, la fede, affievolita da un pezzo, minaccia di spegnersi: ricordati della tua patria, Caterina! è ora di accorrere in suo aiuto e di strapparla dalle mani dei suoi mortali nemici. Tutta la Chiesa spera in te per la salvezza di questa illustre provincia del suo impero: calma la tempesta, e salva la fede, in questo naufragio che minaccia di inghiottire tutto.
da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 585-588
Breve agiografia e testi scelti di S. Caterina: http://traditiomarciana.blogspot.it/2017/04/s-caterina-da-siena-patrona-ditalia.html?m=1
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