Come invidio quelle donne, prigioniere di gulag eppure “vive come l’erba”
Pubblichiamo l’introduzione firmata da Marina Corradi per Vive come l’erba. Storie di donne nel totalitarismo, volume edito da La Casa di Matriona (2105) che raccoglie le storie vere di otto donne vissute sotto regimi totalitari di tipo sovietico.
Noi, donne e uomini nati e vissuti in Italia in settanta anni di pace, cresciuti fra diritti che diamo per scontati, noi che spesso crediamo che “libertà” sia seguire la propria inclinazione, o capriccio, leggendo le storie delle donne riportate in questo libro, per prima cosa, ammutoliamo. Come resi coscienti che la Storia, che con noi si è mostrata tutto sommato finora benevola, civile, forse anche banale, con altri, altrove, ma solo una manciata di anni prima di noi, ha preso volti spaventosi di sopraffazione, e violenza e prigionia. Com’è possibile dunque, viene da domandarsi, vivere in condizioni tanto tragiche, eppure non disperare? (Quando noi, nei nostri tempi molli, siamo talvolta, anche senza una autentica ragione, tristi e spenti). E invece Ella, Milena, Ol’ga e le altre, non soltanto lottano strenuamente, ma riescono perfino, in ore pure drammatiche, a essere liete. Come può essere possibile? (E forse, ti dici, bisognerà che anche noi la impariamo, questa segreta strada, in giorni che rapidamente paiono declinare in anni oscuri, e forse, non possiamo escluderlo, feroci).
Le stesse parole di Etty Hillesum
L’opposizione contro l’annientamento progettato dal socialismo reale non è, in queste donne, violenta, anche in situazioni in cui la violenza parrebbe legittima. Protagoniste di una forte resistenza spirituale, queste donne non sono sempre esplicitamente sorrette dalla fede, ma preservano in modo religioso la propria essenza più intima, la maternità, fisica o spirituale, la pietà, che arriva ad abbracciare i carnefici, come fa Ekaterina Peskova.
Combattono, Ella, Milena e le altre, su un piano del tutto diverso. Se un filo tiene unite le loro storie, è la passione per la bellezza. Bellezza della poesia o della pittura, o del samizdat, o semplicemente della umana amicizia: comunque tutte ci appaiono trascinate da questa fascinazione potente. Può essere l’icona di un santo in una chiesa, o la ben custodita memoria del mondo splendente dell’infanzia: ma ognuna sembra inseguire silenziosamente una bellezza, e con intensità tale da poter sopravvivere ad ogni miseria. Sedotte dalla bellezza, dunque; come se questa fosse il solo possibile contravveleno all’annientamento pianificato e attuato negli anni dello stalinismo. Bellezza, ma nella accezione di una segreta rispondenza a una domanda interiore originaria di felicità e di bene. Bellezza, in fondo, come ultimo schermo con cui la realtà nasconde il volto di Cristo.
Non sono state fanciulle da oratorio, Ella, Milena e le altre. Ella, addirittura, si chiamava in realtà Kommunella, nata com’era da genitori comunisti ardenti. C’è spesso comunque, nelle loro vite, un movimento di allontanamento, e poi di ritorno; quasi che, esuli, nel deserto avessero compreso che veramente senza Cristo non potevano vivere. E questo provenire da una lontananza le rende, almeno a me, più vicine. Leggendo di Ella Markman, di famiglia marxista e ebrea, e della sua giovinezza irrequieta, mi è venuta in mente Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta a Auschwitz che nel Diario e nelle Lettere ci ha lasciato la sbalorditiva testimonianza di una vita non annientata, ma invece colmata di grazia, pure nel fondo dell’inferno.
Sono simili le parole con cui le due donne parlano del lager e del GULag, come di una scuola straordinaria di umanità; e uguale la parola “miracolo”, che usano a indicare l’inconcepibile aprirsi di una pienezza, là dove gli altri sono solo annientati. «Devo dire che nella vita quasi sempre sono stata aiutata da grandi fortune, da veri e propri miracoli», scrive Ella; e la Hillesum: «La mia vita, è una catena di miracoli». Entrambe nate ebree, entrambe, da ragazze, non credenti, entrambe per segrete vie ricondotte a Cristo. Ella: «Quando sono arrivata al lager ero atea. Ma una notte che non riuscivo a dormire, ho incominciato a chiedermi chi mi poteva essere vicino in quel momento d’angoscia. (…) Poi, all’improvviso ho capito che c’era Cristo, lui era veramente vicino. Da allora è sempre stato con me». Mentre la Hillesum, gaia e intellettuale studentessa nella Amsterdam alla vigilia della occupazione nazista, una sera, leggendo la prima Lettera di Paolo ai Corinzi, cade a terra in ginocchio: «Spinta a terra da una forza più grande di me», scrive, meravigliata.
Piccoli roditori furiosi
Miracoli, voglio tornare su questa parola. Molte delle biografie evocano una capacità, in queste donne, di cogliere il miracolo nascosto nella opacità del quotidiano. Dagmar Simková parla espressamente di «miracoli quotidiani, di tutti i giorni, che ci mostrano che non siamo da soli, né viviamo in un mondo insensato». Etty Hillesum nel campo di Westerbork sperimenta un istante di grazia, semplicemente perché ha visto in cielo un arcobaleno. Questa capacità di thauma, di stupore di fronte a cose che altri direbbero piccole, sembra una femminile àncora di salvezza in quei luoghi di annichilimento che sono i lager. La stessa Simková annota che le donne possiedono «un istinto di sopravvivenza più forte». Mentre l’uomo in carcere possiede «la tragicità di un leone catturato e umiliato», la donna si trasforma «in un piccolo roditore furioso», capace di «rodere e raspare con la complicità dei propri simili – fuori metafora, di ritagliarsi spazi impensabili di libertà».
Donne resistenti, dunque, alla spaventosa quantità di dolore che si rovescia sui loro destini. Prigionia, persecuzione, tortura, lutti, emarginazione: noi in questo Terzo millennio leggiamo, trattenendo il fiato per l’angoscia. Già ci stupisce che si possa sopravvivere, a simili prove. Ma che si possa, addirittura, uscirne più forti e più umane, ci sbalordisce. Ci sbalordisce la testimonianza di come si possa affrontare un destino oscuro e feroce, e, invece di esserne distrutti, crescere, e diventare più buoni. Per noi è già una dura prova perdere la casa, o il lavoro; e queste donne invece, che hanno perso tutto, come rinascono, incredibilmente. Ancora la Simková: «Eravamo state messe faccia a faccia con qualcosa di nuovo… Era un complotto premeditato, scientifico, contro ciò che distingue un essere umano dalle altre creature. Infatti non si trattava neppure tanto di distruggerci fisicamente… Si trattava di strappare il cuore dal petto dell’uomo, di costringere la sua anima a una prostrazione servile… Distruggere la coscienza dell’io umano, perché cessi di esistere». Che cosa dunque ha salvato Dagmar Simková e le altre?
«Abbiamo soprattutto fede in Dio», annota Dagmar. «Questo dà alla vita una dimensione che va oltre il suo confine fisico. Non abbiamo più paura di deperire, di ammalarci, d’invecchiare, di essere annientate. Preghiamo regolarmente, è una catena che non si interrompe mai, come a Cluny durante il Medioevo». Forse che allora, ti domandi, in tempi tragici viene donata, a chi la domanda a Dio, una grazia che permette di superare i nostri limiti? Nella mia casa in un’Italia in pace, questa sera, aspetto mio marito, e i figli, che torneranno a cena: e sono liberi, sani, contenti. Non posso non vedere quanti doni ho e ho avuto – e non posso non avvertire quale immensa paura provo, all’idea di perderli. Come può essere che queste donne non fossero, invece, nei loro GULag, disperate? «Non abbiamo più paura di deperire, di ammalarci, d’invecchiare, di essere annientate…». Come vorrei poterlo dire io, e invece non posso. Ma, si può dunque vivere in un altro modo?
«Ci incontriamo al gabinetto oppure in bagno, ci sediamo sulle casse e sui secchi della marmellata e sui seggiolini che ci siamo costruite, ascoltiamo le lezioni e prendiamo appunti con zelo» scrive la Simková. Nel deserto, lei e le sue compagne si fanno oasi, limpide fresche sorgenti; e infatti molti, attirati, si avvicinano e non se ne staccano, avendo scoperto in questi piccoli circoli clandestini l’acqua, di cui avevano sete. Pare che queste donne sappiano attirare intorno a sé, naturalmente, come l’acqua va al mare, persone buone. Nei circoli segreti si mangiano biscotti, si leggono versi, si studia, si prega. Fuori è una notte cupa, e apparentemente infinita. Dentro, però, che luce. Luce che filtra e vuole, come è nella natura della luce, diffondersi più oltre. E mi viene da pensare a Natal’ja Trauberg, china a tradurre i testi dei samizdat che clandestinamente si diffonderanno, come semi sparsi dal vento su un terreno duro e incolto: eppure che là dove si posano affonderanno radici, e germoglieranno. Oppure penso alle icone dipinte da Ioanna Rejtlinger. Chissà quante sono e dove sono, custodite in case sconosciute; chissà se non germinano – senza che, fuori, non se ne accorga nessuno.
Eppure, e mi commuove, queste donne straordinarie sono ancora donne. La sera nei GULag, sfinite dal lavoro forzato, si mettono l’un l’altra i bigodini, perché hanno ancora il desiderio di essere belle; e, confessa una di loro, e mi ha fatto sorridere, nelle strade di Vienna «le vetrine dei negozi mi fanno impazzire, non sai mai dove fissare lo sguardo». (Di nuovo mi viene in mente Etty Hillesum nel suo Diario, che ordina a se stessa: «Smettila con quello specchio, tu sciocca!» – detto in un tono severo eppure sommessamente ridente, come di chi sa che, un’ora dopo, sarà di nuovo, a quello specchio, davanti).
Là dove gli altri vedono il nulla
C’è una bellezza profondamente femminile nelle storie delle cristiane dei GULag, martiri del socialismo eppure umanamente trionfatrici. Come un segreto, legato forse alla stessa femminile capacità di generare; in virtù della quale una donna, come intuiva Dagmar Simková, davvero possiede una più strenua volontà di sopravvivenza nelle condizioni più dure; e una capacità di vedere miracoli, là dove gli altri vedono il nulla. Forse la stessa voce della natura, che come la freccia di un arco tende a vivere e ostinatamente a riprodursi, governa queste donne arcanamente; ma la vita che esse generano non è solo biologica, è invece una forza spirituale rivoluzionaria e possente.
Per questo mi piace ricordare le parole con cui Ol’ga Popova, nata in un GULag, descrive come sua madre ne uscì, con lei fra le braccia. Quasi miracolosamente, infatti, qualche mese dopo il parto, sua madre venne liberata: «Raccontava che quando d’un tratto si era vista spalancare davanti il portone del carcere, si era messa a correre, stringendomi tra le braccia, e era fuggita attraverso tutta la città, dimentica del tempo, senza sentire la stanchezza e il mio peso, ma solo l’ebbrezza della libertà, e il terrore che ci fosse stato un equivoco, che potessero da un momento all’altro rimetterle le mani addosso; solo più tardi si accorse, fermandosi, di aver percorso un tragitto lunghissimo». Quella madre con un figlio in braccio, quasi come una Madonna, icona di una vita e di una speranza che nessun muro di GULag, o di lager, può annientare. [Fonte]
Oggi è il giorno di San Massimiliano Kolbe, il Santo che, al nazista che lo stava per uccidere, disse: «Lei non ha capito nulla della vita…l’odio non serve a niente. Solo l’Amore crea!»
RispondiEliminaDalle lettere di san Massimiliano Maria Kolbe
RispondiElimina(Cfr. Scritti di Massimiliano M. Kolbe, traduzione italiana, Vol. I, Firenze 1975, pp. 44-46. 113-114).
Zelo apostolico per la salvezza e la santificazione delle anime
Sono pieno di gioia, fratello carissimo, per l’ardente zelo che ti spinge a promuovere la gloria di Dio. Nei nostri tempi, constatiamo, non senza tristezza, il propagarsi dell’«indifferentismo». Una malattia quasi epidemica che si va diffondendo in varie forme non solo nella generalità dei fedeli, ma anche tra i membri degli istituti religiosi. Dio è degno di gloria infinita. La nostra prima e principale preoccupazione deve essere quella di dargli lode nella misura delle nostre deboli forze, consapevoli di non poterlo glorificare quanto egli merita.
La gloria di Dio risplende soprattutto nella salvezza delle anime che Cristo ha redento con il suo sangue. Ne deriva che l’impegno primario della nostra missione apostolica sarà quello di procurare la salvezza e la santificazione del maggior numero di anime. Ed ecco in poche parole i mezzi più adatti per procurare la gloria di Dio nella santificazione delle anime. Dio, scienza e sapienza infinita, che conosce perfettamente quello che dobbiamo fare per aumentare la sua gloria, manifesta normalmente la sua volontà mediante i suoi rappresentanti sulla terra.
L’obbedienza, ed essa sola, è quella che ci manifesta con certezza la divina volontà. È vero che il superiore può errare, ma chi obbedisce non sbaglia. L’unica eccezione si verifica quando il superiore comanda qualcosa che chiaramente, anche in cose minime, va contro la legge divina. In questo caso egli non è più interprete della volontà di Dio.
Dio è tutto: solo lui è infinito, sapientissimo, clementissimo Signore, creatore e Padre, principio e fine, sapienza, potere e amore. Tutto ciò che esiste fuori di Dio ha valore in quanto si riferisce a lui, che è creatore di tutte le cose, redentore degli uomini, fine ultimo di tutte le creazioni. Egli ci manifesta la sua volontà e ci attrae a sé attraverso i suoi rappresentanti sulla terra, volendo servirsi di noi per attrarre a sé altre anime e unirle nella perfetta carità.
Considera, fratello, quanto è grande, per la misericordia di Dio, la dignità della nostra condizione. Attraverso la via dell’obbedienza noi superiamo i limiti della nostra piccolezza, e ci conformiamo alla volontà divina che ci guida ad agire rettamente con la sua infinita sapienza e prudenza. Aderendo a questa divina volontà a cui nessuna creatura può resistere, diventiamo più forti di tutti.
Questo è il sentiero della sapienza e della prudenza, l’unica via nella quale possiamo rendere a Dio la massima gloria. Se esistesse una via diversa e più adatta, il Cristo l’avrebbe certamente manifestata con la parola e con l’esempio. Il lungo periodo della vita nascosta di Nazareth è compendiato dalla Scrittura con queste parole: «e stava loro sottomesso» (Lc 2, 51). Tutto il resto della sua vita è posto sotto il segno dell’obbedienza, mostrando frequentemente che il Figlio di Dio è disceso sulla terra per compiere la volontà del Padre.
Amiamo dunque, fratelli, con tutte le forze il Padre celeste pieno di amore per noi; e la prova della nostra perfetta carità sia l’obbedienza, da esercitare soprattutto quando ci chiede di sacrificare la nostra volontà. Infatti non conosciamo altro libro più sublime che Gesù Cristo crocifisso, per progredire nell’amore di Dio.
Tutte queste cose le otterremo più facilmente per l’intercessione della Vergine Immacolata che Dio, nella sua bontà, ha fatto dispensatrice della sua misericordia. Nessun dubbio che la volontà di Maria è la stessa volontà di Dio. Consacrandoci a lei, diventiamo nelle sue mani strumenti della divina misericordia, come lei lo è stata nelle mani di Dio.
Lasciamoci dunque guidare da lei, lasciamoci condurre per mano, tranquilli e sicuri sotto la sua guida. Maria penserà a tutto per noi, provvederà a tutto e allontanando ogni angustia e difficoltà verrà prontamente in soccorso alle nostre necessità corporali e spirituali.
La rivolta deve essere innanzitutto culturale: deglobarizzazione delle menti, deeconomicizzazione dei cuori. (Diego Fusaro)
RispondiElimina
RispondiEliminaA propos du Goulag — et du grand Soljénitsyne, dont va fêter cette année le centenaire de sa naissance —, bel article d'Antonio Socci :
https://www.antoniosocci.com/anniversario-di-solzenicyn-vero-ispiratore-di-putin-e-della-sua-russia-con-grande-scorno-di-comunisti-come-napolitano-e-ultra-atlantisti-come-napolitano/
Avec quelques rappels fort opportuns sur le sinistre Napolo-Cosmopolitano…
La vera rivoluzione viene dal silenzio in cui è possibile incontrare Dio.
RispondiElimina
RispondiEliminaPendant ce temps, dans l'état juif de Palestine, de plus en plus de jeunes israéliennes, formatées dès l'enfance par le fanatisme talmudo-sioniste, s'engagent dans l'armée :
https://fr.sputniknews.com/defense/201808081037566043-israel-tsahal-femmes-service-armee/
Le leggi qualcuno le vuole, qualcuno le vota, qualcuno le promulga.
RispondiEliminaAl di là della bontà progettuale di un manufatto di 50 anni fa e delle restrizioni economiche che hanno ridotto all'osso gli interventi di manutenzione, c'è anche da dire che oggi possono transitare carichi che un tempo il codice della strada non consentiva.
Ogni progetto è pensato per certe condizioni e limitazioni d'uso.
Solo che poi chi asseconda certe modifiche successive al progetto non pensa più.
Non vale solo per i ponti e i viadotti, dato che gli stessi criteri "progressisti" si applicano sempre più acriticamente al genere umano.
Comunque le modifiche ai pesi massimi non sono di molti anni fa.
Chi le volle, raccoglie la sua seminagione. Forse ce l'ha chiesto l'Europa...
Nell'articolo, dai martiri abbiamo sempre da imparare.
RispondiEliminaGrazie anche ad Anonimo h. 9.21 per aver riportato la bella riflessione di San Kolbe, che il martirio l'ha subito.
Richiamo l'attenzione sull'obbedienza a cui accenna San Kolbe con la grande chiarezza dei santi.
La questione e' delicatissima nella situazione attuale, perché e' un dato di fatto oggettivo che il modernismo e' la sintesi di tutte le eresie e che e' arrivato alla guida della Chiesa con l'attuale papa
E' stato giustamente definito, non da me, come un fiume carsico che ha la sua fonte nel CVII e che, dopo varie fuoriuscite in superfice, ha la sua foce in Bergoglio.
Di conseguenza, in base alla superiorità gerarchica al suo massimo livello, pretendono che si obbedisca al nuovo e diverso Vangelo che vanno predicando in modo ormai sempre piu' aperto e sfacciato, con un fiume che scorre in superficie e in discesa.
Dice San Kolbe, riguardo all'obbedienza, che:
"...L’unica eccezione si verifica quando il superiore comanda qualcosa che chiaramente, anche in cose minime, va contro la legge divina. In questo caso egli non è più interprete della volontà di Dio".
Quindi si può e ai deve disobbedire.
Per quanto mi riguarda, e' chiaro come il sole che il papa e il clero che lo sostiene "non è più interprete della volontà di Dio", nelle piccole e grandi cose.
E quindi, nella piccolezza della mia esistenza, sono autorizzato a non obbedirgli.