A pochi giorni dalla Quinta Domenica di Pasqua su cui abbiamo meditato [qui], anche questa settimana giova riprendere, nella nostra traduzione da OnePeterFive, la meditazione di Padre John Zuhlsdorf del 14 maggio.
Quinta domenica dopo Pasqua: le bugie che ci diciamo
Padre John Zuhlsdorf
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
Padre John Zuhlsdorf
Continuiamo con l’obiettivo di quest’anno, vale a dire il nostro tuffo nell’Epistola, la prima lettura della Santa Messa domenicale nel Vetus Ordo del Rito Romano. Abbiamo iniziato questo tempo pasquale con la lettura di 1 Pietro. Avvicinandoci alla festa dell’Ascensione, ascoltiamo le parole di San Giacomo il Minore contenute nella sua Lettera. Per ulteriori informazioni su San Giacomo, si veda l’articolo della scorsa settimana.
Ogni lettura si situa all’interno di un contesto. Ad esempio, è utile sapere che l’apostolo Giacomo ha indirizzato la sua lettera a un vasto pubblico, e non a una comunità specifica. Questo fatto — almeno per me — rende le sue parole più immediate.
Un altro elemento offertoci dal contesto è il nostro posto all’interno della linea temporale del sacro anno liturgico. Siamo sicuramente nel periodo pasquale, ma la prossima settimana è la Settimana delle Rogazioni.
“Rogazione” deriva dal verbo latino rogare, che significa “chiedere”. Le Rogazioni sono suddivise in due fasi: la “maggiore”, il 25 aprile, e la “minore”, dal lunedì al mercoledì prima del giovedì dell’Ascensione. La vera Ascensione cade di giovedì, non un altro giorno (Novus Ordo). Nei giorni delle Rogazioni, con il digiuno, le processioni e il canto delle Litanie dei Santi, chiediamo a Dio di proteggerci da ogni pericolo. Nel mondo antico la scarsità del raccolto era un pericolo molto serio. La tradizione delle Rogazioni cristiane deriva infatti dalla pratica pagana romana della processione dei Robigalia del 25 aprile con, tra le altre stranezze, il sacrificio di un cane al dio (in realtà un demone) Robigus contro la ruggine del grano, malattia che attaccava quel prezioso raccolto. Nel V secolo, in varie zone della Francia, i cristiani avevano sostituito tutte le usanze pagane con pratiche sane. Questa pratica si è diffusa in modo salutare, come tutte le altre pratiche salutari. Papa Leone III (†816) ha incorporato le Rogazioni all’interno del Rito Romano, quindi esistono da oltre mille anni, secolo più, secolo meno.
In alcuni luoghi, le processioni delle Rogazioni erano uno strumento importante per mantenere viva la conoscenza dei confini in un’epoca anteriore alle mappe moderne. Le processioni annuali giravano intorno ai confini di una città o di una parrocchia. In Inghilterra questa abitudine divenne nota come il “rastrellamento dei confini”. Il suo scopo più profondo, tuttavia, rimaneva la richiesta a Dio di concedere buoni raccolti e di scongiurare le calamità.
A quanto pare, dopo il roseo e ottimista Concilio Vaticano II, non si è ritenuto necessario implorare da Dio il cibo o la protezione dal male. Pertanto, in barba al fatto che siano state celebrate per un millennio, nella “riforma” del calendario liturgico della Chiesa le Rogazioni [qui - qui] e le Quattro Tempora [vedi] sono state entrambe relegate al giudizio delle conferenze episcopali regionali, che nella loro saggezza collettiva potevano raccomandare o meno queste pratiche. Le Rogazioni e le Quattro Tempora, pur rimanendo una “cosa” nascosta in un breve cenno all’interno dei calendari liturgici ufficiali del Novus Ordo, hanno fatto la fine di altri elementi considerati non più così centrali nella vita dei cattolici, come la penitenza del venerdì o la Confessione o il ricevere la Comunione in stato di grazia. E, santo cielo, oggi non stiamo molto meglio dei nostri antenati!
Pertanto, nell'appropinquarci alla Settimana delle Rogazioni e al giovedì dell’Ascensione, ascoltiamo San Giacomo.
[Fratelli], siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla. Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo. [Gc, 22-27 — N.d.T.]L’Apostolo ci offre un aiuto per l’autoriflessione e l’autenticità.
Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi.
Il cristiano devoto che riflette su se stesso non permette che la Parola (alias Cristo) gli entri da un orecchio e gli esca dall’altro. Il cristiano si sforza di afferrare saldamente la Parola e di farla propria. Mangiamo il pane dei buoni raccolti che Dio protegge e lo trasformiamo nelle nostre ossa e nella nostra carne. A un livello più profondo, la Parola (alias Cristo) non è ciò che noi, in quanto agenti di trasformazione, trasformiamo in noi stessi. La Parola è l’agente di cambiamento che ci trasforma sempre di più in ciò che Lui è, in immagini più manifeste di Dio alla cui somiglianza siamo stati creati. Questo vale tanto per quanto riguarda la Parola — Cristo — all’interno della Sacra Scrittura come per la Parola nell’Eucaristia.
Se ci dichiariamo cristiani e non ci sforziamo attivamente di essere trasformati dalla Parola, non siamo fedeli né a noi stessi né alla Parola.
Se rovesciamo il calzino, per così dire, capiamo anche che non è verace nemmeno chi parla ma poi non “cammina”. È facile vantarsi di fare qualcosa. Più difficile è cercare di farlo. Anche se non ci riusciamo, è nello sforzo che risiede la verità. In entrambi i casi ci dev’essere armonia tra l’ascolto della Parola, il farla nostra, il pronunciare parole che magari riecheggiano anche la Parola e il concretizzarla. Altrimenti inganniamo noi stessi allo stesso modo in cui possono ingannarci gli altri.
Giacomo usa la metafora di un’immagine. Si ricordi che gli specchi antichi non erano così chiari e ben fatti come gli specchi moderni. Ai tempi di Giacomo, l’immagine sarebbe stata distorta dalla superficie irregolare dello specchio, ma ai nostri tempi gli specchi mostrano solo le distorsioni che sono realmente presenti. Metterci davanti a uno specchio è ancora oggi un modo potente per compiere il processo di autoesame in cui dovremmo essere impegnati ogni giorno. Vediamo i nostri difetti, difetti che gli altri vedono. Siamo quindi spinti a trovare i difetti meno facilmente discernibili.
Per essere chi siamo per mezzo del nostro carattere battesimale, per essere chi siamo come ascoltatori e realizzatori della Parola in costante trasformazione, dobbiamo intraprendere regolari esami di coscienza, la revisione delle nostre azioni, dei nostri misfatti e delle nostre omissioni. Se Socrate affermava riguardo alla vita mondana che “una vita non esaminata non è degna di essere vissuta” (Platone, Apologia 38a5-6), dobbiamo affermare che una vita non esaminata probabilmente non otterrà le benedizioni della vita eterna. E se è così, allora potremmo essere come colui di cui Cristo stesso ha affermato: “Sarebbe stato meglio per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mt 26, 24).
Il contatto con la Parola è un invito all’azione. L’azione non contrasta con la contemplazione, naturalmente. Su questa terra ci sarà sempre una tensione tra i benefici della vita attiva e quelli della vita contemplativa. Queste tensioni saranno perfettamente risolte solo in Cielo. In questo saggio, quindi, riconosciamo semplicemente l’esistenza di queste tensioni e concentriamoci sul lato attivo, come ha fatto Giacomo.
Giacomo non era tipo da riversare un mucchio di parole sui suoi ascoltatori: nel mondo antico queste lettere venivano lette ad alta voce nelle riunioni. In questo frammento della Scrittura — in questa pericope (greco περικοπή, ‘ritaglio’) — l’Apostolo fornisce tre punti pratici per l’uso liturgico. Non sono complicati, ma sono importanti: 1) tenere a freno la lingua, 2) compiere opere di misericordia, 3) non farsi contaminare dal mondo. Forse il numero 3 è un po' misterioso.
In primo luogo, il tenere a freno la lingua non è un concetto troppo difficile da capire. La parola greca utilizzata in tal senso è divertente: χαλιναγωγέω (chalinagōgéō), che significa ‘condurre con una briglia’, come lo strumento con cui guidiamo un cavallo in una direzione o nell’altra, o da nessuna parte. Imbrigliare non significa rimanere sempre totalmente in silenzio. Sì, possiamo “parcheggiare” un cavallo legando la briglia a qualcosa. Ma la funzione della briglia è quella di regolare il movimento in avanti e all’indietro (con buona pace di un certo tizio che risiede a Roma). Quando leghiamo un vitello, facciamo indietreggiare il cavallo mantenendo così la tensione sulla corda per controllare l’animale imbrigliato. Dobbiamo stare attenti a usare parole ben ragionate, con il tono giusto, al momento giusto. A volte è necessario tornare sui nostri passi per correggere i nostri errori o per dire che ci dispiace. E, certamente, potremmo evitare molti problemi legando la lingua in più situazioni di quante forse siamo disposti ad ammettere.
In secondo luogo, conoscerete sicuramente a memoria le opere di misericordia corporali e spirituali. Le state facendo? Se la risposta è no, mettetevi in azione. Il loro mancato compimento potrebbe causare la pena suprema della dannazione eterna:
Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. (Mt 25, 41)Questo è sufficiente per il secondo punto.
Il terzo, come detto, è il non farsi “contaminare dal mondo”. Qui chiedo aiuto a 1 Gv 2, 16 in cui vengono descritte la concupiscenza della carne (gola, impurità e tutti gli altri piaceri peccaminosi), la concupiscenza degli occhi (concupiscenza, brama smodata di beni temporali e attaccamento peccaminoso ad essi) e l’orgoglio (ambizione, che include i peccati di vanità e orgoglio). Non credo sia esagerato affermare che gran parte dell’umanità è infetta da questi tre vizi, ivi compresi molti cristiani che vivono una vita esteriormente ben ordinata. Il piacere temporale, i piaceri della carne, le soddisfazioni che fanno appello alla vanità e all’orgoglio sono contagiosi e perniciosi e il Nemico dell’anima può, attraverso di essi, ottenere una forte presa sugli uomini. Ancora una volta, l’analisi brutalmente onesta di sé nello specchio di un regolare esame di coscienza è una potente medicina contro queste malattie spirituali.
Dato che qui sopra ho citato Platone, continuerò a menzionare l’antica sapienza pagana che abbiamo fatto nostra, in senso cristiano. Dopotutto, quel che è giusto è giusto, e come diceva il mio vecchio pastore: “Quando hai ragione, non puoi sbagliare”. Nei cosiddetti “Versi aurei” attribuiti a Pitagora († ca. 495 a.C.) troviamo (40-46):
Non permettere mai al sonno di chiuderti le palpebre, dopo che sei andato a letto, fino a quando non avrai esaminato tutte le tue azioni della giornata con la tua ragione. In cosa ho sbagliato? Cosa ho fatto? Cosa ho omesso che avrei dovuto fare? Se in questo esame scopri di aver agito male, rimproveratene severamente; e se hai fatto del bene, rallegrati. Pratica a fondo tutte queste cose; meditale bene; dovresti amarle con tutto il tuo cuore. Sono quelle che ti introdurranno alla via della virtù divina.
Il filosofo stoico romano Seneca, sicuramente influenzato da queste parole, ha scritto:
Sfrutto questa opportunità perorando quotidianamente la mia causa presso il mio tribunale. Quando spengo la luce e mia moglie rimane in silenzio, consapevole com’è della mia abitudine, esamino tutta la mia giornata, ripercorrendo ciò che ho fatto e detto. Non nascondo nulla a me stesso, non trascuro nulla. Non ho nulla da temere dai miei errori quando posso dire: “Vedi di non farlo più. Per il momento ti perdono”.
È bene perdonarsi, perché la purificazione della memoria è importante. Ma tutti noi dobbiamo anche chiedere perdono a Dio attraverso il Sacramento della Penitenza, che è il mezzo che Cristo stesso ha voluto per la nostra riconciliazione e per la nostra pace. Andate a confessarvi.
Infine, visto che questa settimana mi sono dilungato, permettetemi di concludere con un semplice ma efficace e a volte spaventoso esame di coscienza. Potrebbe essere una buona idea — si pensi a quello che ha detto Giacomo sull’autoinganno — chiedersi:
Quali bugie mi sono detto oggi?“Ho dovuto farlo. Me l’ha fatto fare”.
“Beh, è stato solo un piccolo peccato. Non importa”.
“Era giusto farlo, lo fanno anche gli altri”.
“È troppo difficile smettere di farlo”.
“Sono contento di non essere un peccatore come quel tizio”.
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Non credo che l esame di coscienza sia molto diffuso anche tra cattolici, eppure è la strada maestra per cercare di migliorare e per incontrare la Grazia. Il confronto con i filosofi antichi, che poi può forse essere esteso alla parte più pura delle grandi religioni pagane orientali ed occidentali, mostra come il Cristianesimo Cattolico sia la Summa, il perfezionamento e la via necessaria alla spiritualità umana per la sua santificazione e quindi per l incontro con Dio, Uno e Trino faccia a faccia. Attenzione sempre a non farsi abbagliare dai punti in comune, ben vediamo sulla nostra pelle quanto sia poi facile andare fuori strada, così è accaduto a moltitudini di cattolici ieri ed oggi ancor di più essendo le tentazioni conoscitive incredibilmente aumentate e la vecchia invidia del mondo verso la Fede Cattolica incredibilmente potenziata e fattasi sfacciata.
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