Nella nostra traduzione da OnePeterFive la consueta meditazione settimanale di padre John Zuhlsdorf ci consente di approfondire, durante l'ottava, gli spunti della domenica precedente [qui].
Diebus Saltem Dominicis –
21a domenica dopo Pentecoste: il risarcimento
Questa domenica, la 21a dopo Pentecoste nel calendario romano tradizionale, la Santa Chiesa ci propone la parabola del Signore sul servo malvagio o ingrato, da Matteo 18, 21-35. Cristo usa questa parabola per istruire il Suo futuro vicario, Pietro, e quindi tutti i futuri vicari, sulla necessità di perdonare.
In quanti modi il Signore sottolinea quella parte critica della preghiera che Lui stesso ci ha insegnato, sulla necessità di perdonare per essere perdonati?
Credo che conosciate la storia della parabola. Un re sta facendo i conti con i suoi servi. Un servo deve al re una somma impossibile da restituire, in greco 10.000 talenti. Suddivisa in denarii (la moneta del salario giornaliero), sono 60 milioni di giorni di paga, circa 168.384 anni. Nell’antica legge romana, che era in vigore in Giudea al tempo della vita terrena di Gesù, i debitori che non potevano ripagare i loro debiti potevano essere ridotti in schiavitù per riscattare col loro lavoro il valore del debito. In questo caso, il servo sarebbe stato reso schiavo “per sempre”, il che rende questa una parabola non solo sul perdono in generale, ma sulla venuta del Signore alla fine dei tempi e sul Giudizio Universale, quando tutti i nostri conti saranno esaminati e saldati per l’eternità. Mano a mano che procediamo attraverso ottobre e novembre, la Parusia e la fine del mondo sono un tema sempre più dominante.
Questo servo destinato a essere condannato e ridotto in schiavitù implora pietà e ottiene il perdono del suo debito. Ciò ci insegna che non esiste peccato così grande che possiamo commettere che Dio non possa e non voglia perdonare, a condizione che chiediamo perdono. Tuttavia, dobbiamo essere sinceri nella nostra richiesta di perdono. Le azioni immediate del servo ingrato mostrano la sua interiorità. Incontrando un altro servo che a sua volta gli deve dei soldi, il malvagio prende per il collo il suo collega e lo minaccia di farlo prigioniero e schiavo, rovinando tutta la sua famiglia. Quando tutti gli altri servi riferiscono ciò al re, il re si adira e dà al malvagio ingrato la punizione che altrimenti gli sarebbe stata condonata: l’eternità all’inferno.
San Tommaso d’Aquino commenta questa parabola, facendo operando quelle distinzioni che tanto lo contraddistinguono. Il Dottore Angelico sottolinea cinque punti sul servo malvagio. Primo: ha attaccato subito il suo collega per il debito che aveva con lui, “mentre usciva” (v. 28). La brevità del tempo rende il suo comportamento ancora più rivoltante, dato che ha appena ottenuto il perdono. Secondo: era moralista e ipocrita. Momenti prima si stava prostrando e ora è minaccioso. Terzo: è stato estremamente scortese con un pari, un altro povero debitore come lui per il quale avrebbe dovuto provare simpatia. Ci si potrebbe chiedere se trattiamo correttamente i nostri colleghi. Quarto: è stato incredibilmente avaro, desiderando dal suo collega “qualche centinaio di denari”, un nonnulla rispetto ai 60 milioni di giorni di paga di cui era debitore lui. Infine, si consideri quanto fosse crudele. Ha preso per il collo il suo collega per la quella piccola somma, subito dopo aver vissuto il suo momento di perdono.
Mi viene in mente l’ingiunzione del Signore sul perdono, l’unica cosa che è tornato a spiegare nella preghiera del Signore in Matteo 6, per quanto è importante.
14 Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; 15 ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Mi viene in mente anche quanto dice il Signore sulla rabbia nei confronti degli altri, che ha a che vedere con l’immagine della prigione per il debitore:
23 Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24 lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello, poi torna ad offrire il tuo dono. 25 Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo! (Matteo 5, 23-26)
Di nuovo, questa parabola ha la sua dimensione morale in quanto ci guida a trattare gli altri con misericordia e comprensione. Non vogliamo essere trattati così tutti? Dobbiamo essere disposti a farlo anche noi. Se non lo vogliamo… c’è sempre l’inferno. È semplice.
Pertanto, faremmo bene a fare una breve rassegna dei punti salienti dell’inferno. Dopo tutto, la parabola dice:
35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello.
L’inferno è dolore. Ci sono diversi tipi di dolore, inevitabili, all’inferno.
In primo luogo, c’è il dolore della perdita. Se non possiamo immaginare cosa sia la gioia del paradiso, perché “occhio non ha visto né orecchio ha udito” (1 Cor 2, 9), questo vale anche per l’inferno. Sapere senza ombra di dubbio che la felicità del paradiso non sarà mai nostra sarebbe di per sé un tormento orribile e insanabile della mente e del cuore. Il dolore della perdita include la perdita del paradiso e la perdita della visione di Dio, il motivo per cui siamo stati creati. Quindi, San Tommaso d’Aquino sostiene che i tormenti dei dannati sono infiniti, perché implicano la perdita del Bene infinito che è Dio.
In secondo luogo, c’è il dolore dei sensi. Cristo parla in diverse occasioni di fuoco (ad esempio, Matteo 13, 42; 18, 9; 25, 41, Luca 16, 24). Isaia parla di fuoco divorante (33, 14). C’è il terribile versetto di Apocalisse 14, 11:
11 Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome.
Un buon avvertimento a non essere tolleranti con nessuna forma di idolatria, se mi capite.
I Padri della Chiesa affermano che esiste il fuoco. Sant’Agostino ha affermato che “al confronto con esso, ogni altro fuoco è come un dipinto di un fuoco”.
Quindi, assumiamo che esiste il fuoco.
Un altro tormento dei sensi verrà dagli altri dannati. È improbabile che essi siano tranquilli, pacifici e contenti della loro sorte, e quindi amichevoli. E nemmeno voi.
I dannati saranno torturati nella loro coscienza, descritta come un verme che rode eternamente (Marco 9, 47). L’infinito autorimprovero e la falsa autogiustificazione bugiarda non finiranno mai, sapendo che si sarebbe potuto essere salvati.
Inoltre, dopo la resurrezione della carne, i tormenti dei sensi includeranno i sensi fisici. Ciò è semplicemente logico, poiché gli esseri umani sono anima e corpo, non solo anima.
Ciò sarà per sempre. Non per un po’.Ciò ci porta a una necessità pratica.
Come ho riportato sopra, “va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello, poi torna ad offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario”; inoltre, dalla parabola:
29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito.
Spesso i peccati che commettiamo richiedono una qualche forma di risarcimento. La legge naturale ci richiede, in giustizia, di dare agli altri ciò che è loro dovuto. Dio ha scritto questa legge nel nostro essere. Siamo tenuti a riparare, come meglio possiamo, i danni che abbiamo causato. I pagani lo hanno capito. Abbiamo l’aiuto della Rivelazione Divina nel settimo Comandamento del Decalogo. Nell’Antico Testamento abbiamo molti esempi in cui Dio istruisce le persone su come risarcire. Inoltre, sotto la Nuova Alleanza, Paolo ha scritto ai Romani:
7 Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto. 8 Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. (Romani 13, 7-8)
La parte che si riferisce alle “tasse” non è esattamente la stessa cosa di quanto è dovuto alle persone, ma il concetto è chiaro.
La salvezza della nostra anima dipende dal perdono dei peccati: quello dei nostri peccati da parte di Dio, quello dei peccati degli altri da parte nostra. Il risarcimento è una questione chiave nel perdono dei nostri peccati da parte di Dio.
A volte si potrebbe sentire dire: “Beh, ma io faccio l’elemosina e do in beneficenza”. È fantastico. Ma non è un risarcimento. Sant’Antonio da Padova, Dottore della Chiesa, ha detto che senza risarcimento — se è possibile farlo — non fa alcuna differenza quali atti di penitenza facciamo, se digiuniamo o facciamo l’elemosina. È tutto vano.
Che ciò che abbiamo fatto sia stato ieri o anni fa, dobbiamo cercare seriamente di risarcire. Dio non ha dimenticato. Saremo chiamati a rendere conto. Se il risarcimento non è realmente possibile, dobbiamo avere il desiderio di fare almeno ciò che possiamo, anche se in modo parziale.
È una buona idea fare un esame di coscienza su ciò che abbiamo guadagnato in modi men che onesti o verificare se abbiamo maltrattato gli altri o le loro proprietà e non abbiamo dato nessun risarcimento.
Ricordate, se non per l’amore immenso di Dio e del prossimo (contrizione), fatelo almeno per paura dei dolori infernali della perdita e dei sensi (attrizione).
Padre John Zuhlsdorf, 11 ottobre 2024
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Buongiorno, sono un nuovo lettore e vi ringrazio di queste traduzione relativa alle meditazioni settimanali. Ottime meditazioni e ottime anche come omelie. Peccato non abbia la possibilità di sentirne di così ben fatte anche dal vivo. Nella prima parte mi ha ricordato anche coloro usano la dottrina come pietra da scagliare, come disse anche il Papa all'apertura del Sinodo. Cordiali saluti. Sergio.
RispondiEliminaPeter Kwasniewski:
RispondiEliminaNella Santa Regola, San Benedetto elenca tra gli strumenti delle opere buone: "Per riferire tutto ciò che di buono vede in sé, non a sé stesso, ma a Dio. Ma quanto a qualsiasi male in sé, si convinca che è suo e lo imponi a sé stesso. "
Questo è l'atteggiamento sano del credente, che è abbastanza umile da riconoscere che Dio, che solo è buono, è la fonte di ogni bontà ovunque essa esista, e che solo il disordine del libero arbitrio abusato potrebbe introdurre il male nell'universo.
Con la Rousseau, c'è una decisiva inversione. Per lui (e per i moderni in generale che prendono da lui), tutto il bene viene da dentro di me quando sono autentico a me stesso, e tutto il male viene da altre persone che mi opprimono (o istituzioni o costumi costruiti da altre persone, solitamente senza il mio consenso). Se solo fossi lasciato libero di essere quello che sono invece di essere formato, costretto o vittima di altri, sarei tutto bravo: un vero e proprio "nobile selvaggio. "
Così, per i moderni, la Regola empia recita: "Per riferire a se stesso tutto il buono vede in sé stesso, e per quanto riguarda qualsiasi male in sé, si convinca che è colpa di qualcun altro e deve essere imputato a loro. E devono risarcire, e strisciare davanti a me. "
Quanto a Dio, è uscito di scena, cosa che non sorprende affatto in una visione del mondo metafisicamente e moralmente invertita.
Si può vedere che il wokismo di oggi non è altro che l'applicazione coerente della Regola Unica di Rousseau. L'unica via di fuga è la Santa Regola di Benedetto.
"Dio ci offre il suo perdono prima ancora del nostro pentimento. È il nostro pentimento che convalida il perdono."
RispondiEliminaSe il senso della colpa sta nella coscienza di esserci allontanati da Dio e nel dolore di aver ferito qualcuno che amiamo; se il male che avvertiamo è un sintomo del rifiuto opposto all’invito dell’amore, allora dobbiamo preoccuparci non tanto del peccato, quanto del modo di cancellarlo e di ritrovare la pace. Serve amore per accorgersi che l’Amore è stato offeso.
L’Amore Divino ricompensa sempre col perdono questo riconoscimento; e una volta accordato il perdono, una maggiore intimità cementerà i rapporti riallacciati. Gli angeli del Cielo – ha detto Nostro Signore – gioiscono più per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi. Quando l’amore è profondamente sentito, noi non siamo mortificati perché Dio ci perdoni; ma siamo mortificati nell’accettare quel perdono. Dio ci offre il suo perdono prima ancora del nostro pentimento. È il nostro pentimento che convalida il perdono.
Il Padre aveva già perdonato al figliol prodigo fin dal primo momento. Ma il perdono non è diventato efficace finché il figlio non si è pentito di avere rotto i rapporti col padre e non ha cercato di ripristinarli. Come vi è sempre musica nell’aria e noi non la sentiamo se non sintonizziamo la radio, così c’è sempre un perdono che noi non possiamo ricevere finché la nostra anima non prova dolore e non forma il proposito di migliorarsi.
Noi troviamo solo ciò che cerchiamo; la natura ha molti segreti da rivelarci, ma non ce li rivelerà finché non ci metteremo pazientemente seduti davanti a lei per obbedire alle sue leggi. Soltanto in virtù di questa sottomissione riceveremo ciò che desideriamo. Finché mancherà il caldo desiderio di comunicare con Dio in modo diverso da quello timoroso e distante causato dal peccato, questo non può essere perdonato. Essere peccatori è la nostra miseria, ma sapere di esserlo è la nostra speranza.
(Fulton J. Sheen, da "La Pace dell'Anima")
Quaggiù, Gesù Nostro Signore si presenta a noi sulla Croce; il Crocifisso è la sua immagine ufficiale, e l'unione con Lui è impossibile se non vogliamo sentire i chiodi che Lo trafiggono. Noi siamo le Sue Membra ed è impossibile entrare nella Sua Gloria senza aver sofferto con Lui. Quanto più si è uniti a Gesù Cristo, tanto più si vive della Sua Vita e questa Vita quaggiù è una Vita di patimenti! Guardate la Vergine Maria, la Sua Santa Madre; nessuno ha sofferto come Essa, perché nessuno come Essa è stata unita a Lui. È impossibile giungere ad un'intima unione con l'Amore Crocifisso, senza sentire ogni tanto le spine e i chiodi: è questa la condizione dell'unione.
RispondiElimina(Beato Columba Marmion, dalle sue lettere.)