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mercoledì 29 febbraio 2012

Gli Stati Uniti all'avanguardia nell'applicazione del Summorum Pontificum

Mercoledì 7 marzo prossimo, festa di S. Tommaso d'Aquino, Padre Austin Dominic Litke, O.P. celebrerà una messa nel rito domenicano antico nella Chiesa di S. Vincenzo Ferrer a New York (vedi immagine). Si tratta della prima messa cantata secondo il rito domenicano nella provincia domenicana dell'Est dopo 40 anni!

La celebrazione sarà preceduta da una conferenza sul tema: « Al di là del dogma : san Tommaso e il modernismo postconciliare ».

Il successivo 26 marzo, a Manhattan, nella Chiesa dei Santi Innocenti, sarà celebrata una messa usus antiquior anche dai Cavalieri di Colombo. Celebrante il vescovo emerito Mons. James C. Timlin, che prima della celebrazione conferirà il sacramento della confermazione secondo il libri liturgici del 1962.

Dove sono da noi cardinali o arcivescovi come Dolan, Chaput o Burke? E dove sono qui da noi le fioriture di messe nella forma extraordinaria, anche nelle sedi universitarie, come viene garantito a molti studenti americani?

lunedì 27 febbraio 2012

Antonio Livi, VERA E FALSA TEOLOGIA. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”

Sono onorata di poter pubblicare questo articolo di Mons. Antonio Livi, discepolo di Etienne Gilson ed erede di Cornelio Fabro. Potremo apprezzare la sua profondità e chiarezza per meglio comprendere il senso dei recenti avvenimenti, e per saper riconoscere la vera e sana razionalità. L'articolo è stato scritto a corredo del nuovo importante saggio teologico VERA E FALSA TEOLOGIA. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012 pagine 3120, euro 25,00.
La sua competente e appassionata indagine, svolta con gli strumenti delle indeclinabili verità del sensus communis e dei principi della metafisica, da lui perfettamente padroneggiati, scova gli indirizzi immanentistici oggi infestanti la teologia cattolica, per una incontrollata cupidigia di novità, che contamina la vera fede.


La teologia, intesa come “scienza della fede” o «sacra doctrina», è sempre stata considerata dalla Chiesa come un contributo scientifico utile, e in certe circostanze addirittura indispensabile alla vita di fede dei cristiani, perché può essere di aiuto ai credenti perché ciascuno, in rapporto alle proprie esigenze culturali, possa prendere coscienza del contenuto e delle ragioni della sua fede. In questo senso si deve dire che la teologia ha molte cose da dire ai credenti, ma sempre nei limiti di quelle poche cose che sono effettivamente contenute nella rivelazione divina, e sono quindi davvero la “parola di Dio”. Quelle poche cose, oltretutto, sono rilevabili con adeguata certezza soltanto sulla scorta di quelle altre poche cose che per la ragione naturale sono assolutamente incontrovertibili e che costituiscono la materia di verità alla quale la filosofia applica la forma di scienza. La filosofia, da parte sua, può dire molte cose, ma anch’essa resta nei limiti di quello che la ragione umana riesce a inferire a partire dall’esperienza presa nella sua universalità. L’universalità e la necessità delle conoscenze costituiscono l’esclusivo e indispensabile servizio che solo la filosofia, come dialettica razionale, è in grado di offrire alla sapienza umana; allo stesso tempo, costituiscono il suo limite, che ingiustamente viene talvolta denominato come “astrattezza”. Si tratta in realtà di un necessaria delimitazione del campo d’indagine, quale ogni scienza deve operare per avere la sua specificità epistemica e il suo metodo appropriato; la specificità della filosofia consiste nel limitarsi a dire, con sufficiente giustificazione epistemica, ciò che riguarda l’intero dell’esperienza, «l’ente in quanto ente», così come la specificità delle scienze particolari consiste nel limitarsi a dire, con sufficiente giustificazione epistemica, ciò che riguarda determinati ambiti dell’esperienza. Ciò che le scienze particolari guadagnano in “concretezza” (cioè, in termini logici, in “comprensione”) perdono in universalità (cioè, in termini logici, in “estensione”). La filosofia gode del privilegio di riflettere su nozioni, a cominciare da quella di “essere”, che hanno il massimo possibile di “estensione” e il minimo possibile di “comprensione”. La teologia non è né filosofia né una delle scienze particolari: non riflette sull’esperienza naturale, non riguarda direttamente lo scibile umano ma ciò che lo trascende, ossia i misteri della natura divina e i disegni di salvezza di Dio nei riguardi del mondo. La teologia, infatti, si distingue dalla filosofia in quanto è, è l’interpretazione razionale della parola di Dio, consegnata alla Chiesa tramite la tradizione apostolica e la Sacra Scrittura. Ora, la teologia, pur essendo del tutto diversa dalla filosofia e dalle scienze particolari, ha con esse un rapporto di dipendenza epistemica ineliminabile, perché tanto la materia quanto la forma della rivelazione delle verità soprannaturali presuppongono la conoscenza certa di verità naturali. Tale dipendenza non deve però portare il teologo a dimenticare lo specifico statuto epistemologico della teologia; infatti, la scienza della rivelazione divina presuppone la fede, è opera di quei credenti che mettono i frutti della loro riflessione al servizio delle finalità pastorali della Chiesa. La teologia, dunque, ad altro non mira se non ad allargare i confini dell’interpretazione razionale del dogma, per l’edificazione di tutti i credenti nella fede comune. Di conseguenza, come la filosofia giunge a proposizioni che possono esibire una pretesa di verità solo se queste risultano conformi alle “prime verità” costituite dal senso comune, così la teologia giunge a proposizioni che possono esibire una pretesa di verità solo se queste risultano conformi alle “prime verità” costituite dal dogma, ossia dalla Parola di Dio così come essa viene proposta infallibilmente dalla Chiesa e che ogni cristiano è tenuto a credere come l’unica verità che salva. In caso contrario, non si tratta più di vera teologia, almeno nel senso cattolico del termine; si tratta, in alcuni casi, di mera “filosofia religiosa”, e in altri casi – e questo è ciò che avviene con maggiore frequenza e con peggiori conseguenze – di falsa teologia, se non addirittura di teologia falsa, già condannata dalla Scrittura lì dove l’Apostolo delle genti ammonisce il suo discepolo Timoteo dicendogli di guardarsi dai «discorsi che pretendono di introdurre delle novità che non sono ispirate dalla fede ma riflettono delle opinioni false che si presenta abusivamente come scienza e che già hanno sedotto alcuni portandoli a rinnegare la fede» (Prima Lettera a Timoteo, 5, 20-21).

In questo mio lavoro, che si avvale fondamentalmente della competenza epistemologica che ritengo di avere, mi guarderò bene dal pronunciare giudizi circa l’ortodossia di qualche dottrina teologica, ossia eviterò che quanto dico possa essere interpretato come una condanna di qualche studioso in quanto teologo. Mi limiterò a giudicare della coerenza epistemologica di alcuni discorsi genericamente denominati “teologici”, cercando di distinguere tra discorsi che possono legittimamente presentarsi come teologia e discorsi che invece debbono onestamente riconoscersi come mera filosofia religiosa. Riguardo ai primi, un filosofo come me può soltanto rilevare le categorie filosofiche, più o meno adeguate, che entrano a far parte integrante del discorso teoloogico in senso stretto, ma non può pronunciarsi in modo apodittico sull’ortodossia delle conclusioni, perché ciò spetta logicamente al Magistero; invece, riguardo ai secondi, un filosofo come me può e deve innanzitutto segnalare l’abuso del titolo di “teologia”, e poi anche esprimere un parere “tecnico”, un parere cioè circa la coerenza o l’incoerenza logica con i principi della scienza filosofica. Anche in questo secondo caso, dunque, io mi devo astenere da pronunciare condanne: infatti, come diceva il mio maestro Gilson, in filosofia nessuno può parlare di “errori” a proposito delle teorie di altri pensatori, ma deve limitarsi a dire che tali teorie non lo convincono, che non esibiscono, secondo lui, adeguate giustificazioni epistemiche, che non sono pienamente coerenti o addirittura cadono in radicali contraddizioni. Condannare gli errori – diceva Gilson – è diritto e dovere del magistero ecclesiastico quando si trova a dover esaminare una dottrina teologica e valutarne la compatibilità con il dogma, arrivando, se del caso, a dichiarare eretica quella dottrina ; ma in filosofia non ha senso parlare di errori e tanto meno di eresie (cfr Gilson 1960a).

Prima di terminare questa presentazione devo spiegare in quale senso utilizzo qui l’espressione “filosofia religiosa”, che appare fin dal sottotitolo del mio saggio. Per me la “filosofia religiosa” è cosa ben diversa dalla “filosofia della religione”; questa è una disciplina filosofica che legittimamente esamina l’esperienza religiosa in generale o una religione storica in particolare adottando in modo esclusivo il metodo fenomenologico, ossia considerando il fenomeno religioso (ivi comprese le credenze che lo caratterizzano) per così dire da fuori, senza alcuna valutazione aletica, senza cioè condividerne la pretesa di rappresentare una verità assoluta, logicamente non naturale (per via di indagine filosofica) ma soprannaturale (per via di rivelazione divina). Invece la “filosofia religiosa”, così come la intendo io, è una tipica espressione del razionalismo moderno, quello che, soprattutto con l’idealismo di Fichte, Hegel e Schelling, ha inteso edificare dei sistemi onnicomprensivi caratterizzati dall’esplicita pretesa (enunciata nella Wissenschaftslehre) di rappresentare la verità assoluta (definitiva, perfetta e priva di presupposti); in base a tale pretesa, i sistemi razionalistici assumono al loro interno termini e concetti propri del dogma cristiano, con il dichiarato intento di “razionalizzarli”, ossia per purificarli degli elementi irrazionali (mitologici, pragmatici, retorici) che avevano concorso alla loro formulazione storica. La verità che il cristianesimo pretende di custodire come rivelazione divina non è negata, ma nemmeno riconosciuta come tale dai sistemi razionalistici: essa diventa oggetto di una Aufhebung con la quale viene relativizzata, nel senso che viene sussunta, come “momento” intermedio della dialettica dello Spirito, dalla verità assoluta che è quella della filosofia idealistica. Ora, il fatto che tale “filosofia religiosa” si sia presentata (così soprattutto nel caso di Hegel) e si presenti ancora oggi (tra tanti diversi casi si possono citare quelli di Massimo Cacciari e di Emanuele Severino) come affine alla teologia vera e propria, sfruttando la circostanza che la sua tematica e il suo linguaggio sono in massima parte desunti dalla tradizione teologica cristiana, ha provocato un assai pernicioso disorientamento presso quei credenti che si accostano alla letteratura religiosa senza possedere i criteri di discermento che in questo campo sono invece indispensabili. Al necessario discernimento dell’autentica teologia ― l’unica che serva veramente all’incremento della fede dei credenti ― vuole contribuire questo mio breve trattato epistemologico.
Antonio Livi

domenica 26 febbraio 2012

Riflessioni sulla "concelebrazione"

Lettera del card. Pietro Palazzini a p. Enrico Zoffoli
Roma, 8-VI-1991

Rev.mo Padre,

ho ricevuto in cortese e gradito omaggio la sua pubblicazione La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione. La ringrazio sentitamente.

Nella parte storica ha ristabilito la verità storica e ce n'era bisogno perché il Bugnini non era il solo a sostenere l'«antica» consuetudine.

Ottima la difesa della Messa celebrata da solo e della celebrazione quotidiana.

Non sarei d'accordo con l'opinione che nella concelebrazione si abbia una sola Messa.

Per me sono tante Messe quanti sono i celebranti. Lei conosce gli argomenti di mons. Landucci e di altri. La Congregazione della dottrina della fede (allora S. Uffizio) ha dichiarato invalida la Messa di un concelebrante che assiste liturgicamente vestito, ma non pronuncia le parole (AAS 49 [1957] 370). Perciò è vero il contrario: se pronuncia le parole la sua messa è valida, cioè egli celebra e non solo concelebra.

Di più, i moralisti hanno sempre insegnato che il sacerdote che viene ordinato concelebra e celebra, tanto che può prendere lo stipendio per quella Messa.

Ha fatto bene a battere il chiodo sull'abuso delle concelebrazioni, perché siamo veramente fuori strada.

La ossequio cordialmente
Pietro card. Palazzini

Risposta di p. Zoffoli al card. Palazzini:
Roma, 16/6/'91

Eminenza Illustrissima e Reverendissima,

Le sono molto grato della benevolenza con cui si è degnato leggere il mio opuscolo ed esprimere il Suo autorevole giudizio, confidandomi poi la Sua deplorazione per gli abusi che si continuano a commettere. Sono pienamente d'accordo, e ciò mi conforta.

La difficoltà sollevata a proposito dell'unica Messa concelebrata da più sacerdoti mi ha stimolato a studiare nuovamente il problema. Queste le mie conclusioni:

a) gli argomenti di mons. Landucci non mi sembrano realmente solidi, convincenti, come ora si va rilevando da molti...;

b) non avendo il testo di AAS da Lei citato, non ho ben capito se la S.C.d.Dottr. d. Fede abbia dichiarato invalida:
- 1) la partecipazione del sacerdote che non ha pronunziato le parole della consacrazione, oppure
- 2) la Messa concelebrata da tutti gli altri che si sono comportanti come dovevano.

Nel primo caso, è troppo logico che la partecipazione di quel sacerdote all'azione liturgica è nulla: egli non ha concelebrato.

Nel secondo caso invece la dichiarazione supporrebbe la perfetta e inscindibile unità numerica della Messa; unità tale che il comportamento inqualificabile di un sacerdote annullerebbe la concelebrazione degli altri... Dunque, una è la Messa concelebrata da molti sacerdoti.

Ma, astraendo dalla dichiarazione citata, credo sia certo che nessuno dei sacerdoti concelebranti, per quanto possa essere sciocco o sacrilego, può invalidare la Messa celebrata bene da tutti gli altri. Dico "la Messa", e qui si ripropone il problema:quante sono realmente le Messe: una, oppure quanti sono i sacerdoti concelebranti?

Non esito a rispondere che tutti celebrano una sola Messa, se veramente con-celebrano. Infatti: se nella Messa individuale uno è il ministro offerente, in quella concelebrata sono molti; tali però solo fisicamente, non MORALMENTE; distinzione che, a mio parere, è sufficiente a risolvere la controversia. In realtà: unico è l'altare..., unica la materia da consacrare..., unica la consacrazione..., unico il tempo della pronunzia delle parole della medesima...; unico il sacerdozio ministeriale messo in evidenza dalla concelebrazione... Tutti, dunque, rappresentano e si comportano come se fossero (formassero) UN SOLO MINISTRO con l'intenzione di compiere una sola azione liturgica: «Multi sunt unum in Christo...» (S. Th., III, q.82, a.2, 3um). L'importante è che «omnium intentio debet ferri ad idem instans consecrationis»(iv., c.). Ha un senso inequivocabile dunque la "Declaratio de concelebratione" (7.8.1972): «Praecipua habetur manifestatio Ecclesiae in UNITATE SACRIFICII ET SACERDOTII IN UNICA gratiarum actione circa unum altare».

Ciò che non si verificava quando in una chiesa o cappella (specialmente di grandi comunità religiose) 20-40 sacerdoti, contemporaneamente celebravano in altrettanti altari, compiendo ciascuno - indipendentemente dagli altri, e quindi per conto proprio - quanto occorreva per celebrare. Se, oggi, "concelebrando" 100 sacerdoti, risultassero 100 messe, quante ieri ne risultavano quando ciascuno dei 100 sacerdoti "celebrava" per conto suo, a che scopo la "concelebrazione"?... che senso avrebbe?... come essa potrebbe ritenersi manifestazione dell'unità del sacerdozio?...

Se un'associazione cattolica offre al Papa un dono, non si hanno 1000 offerte quanti sono gli offerenti che la compongono, bensì una sola, che, appunto perché espressione dell'unica volontà che anima i medesimi, è assai più gradita che se ciascuno, per conto suo, indipendentemente dagli altri, compisse quel gesto di omaggio.

Il quesito, antecedentemente ad ogni mia affermazione e spiegazione, è stato più volte proposto a numerosi e scelti gruppi di fedeli, che all'unanimità e senza alcuna esitazione si sono pronunciati sostenendo che "la Messa" concelebrata è una, non molte Messe celebrate quanti sono i sacerdoti...

Infine, se ad ogni concelebrante è lecito ricevere lo "stipendium" per la Messa concelebrata, non significa che egli celebra una sua propria Messa e che ciascuno faccia altrettanto: l'unica Messa concelebrata è sufficiente a soddisfare le particolari intenzioni dei molti concelebranti... Sarebbe assurdo e blasfemo supporre che la Messa celebrata per una intenzione sia più fruttuosa di quella celebrata per cento intenzioni: il valore di ogni Messa, per sé, oggettivamente, è indivisibile e inesauribile, dipendendo dalla partecipazione dei fedeli trarne un vantaggio più o meno grande. Che valore avrebbe - altrimenti - per ogni fedele la "Missa pro populo" che il parroco è tenuto a celebrare in certi giorni?

Ella, Eminenza Reverendissima, è maestro in materia: sono sceso a particolari soltanto per esprimere le mie personali convinzioni che sottopongo al Suo giudizio di esperto. Scusi se mi sono dilungato e gradisca i più cordiali ossequi con la preghiera di benedirmi.

Di V.Em.za Rev.ma dev.mo P.Enrico Zoffoli c.p.

Una proposta dal Distretto Francese della Fraternità di S.Pietro. Offrire la vostra Quaresima per l'unità


Offrendo la nostra Quaresima per l'Unità Cattolica
(Ultimo aggiornamento: 24/02/2012)
In questo tempo quaresimale, alcuni tra i nostri amici hanno preso l'iniziativa di offrire le loro lotte e sacrifici per la riconciliazione e l'unità tra tutti i cattolici.

In un momento in cui il dialogo tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede raggiunge un punto decisivo per il futuro, il Distretto di Francia [della FSSP] incoraggia i suoi amici a raddoppiare il loro fervore nella preghiera.

PS materiale di lettura per arricchire la nostra meditazione: il Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima.
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[Fonte: Rorate caeli]

sabato 25 febbraio 2012

Soprattutto non evangelizzare né testimoniare!

Pubblico senza commenti. Li lascio a voi. La notizia è tratta da Riposte Catholique, by Perepiscopus


Una mostra sulla Bibbia - « La Bibbia, patrimonio dell'umanità »- è organizzata nella diocesi del Mans, dal 3 al 23 marzo, nella cappella dell'oratorio del liceo Montesquieu (entrata libera e gratuita).

Su 350 mq, attraverso testi ed immagini, suoni e video, i visitatori potranno conoscere le risposte a domande usuali come « tutti i cristiani hanno la stessa Bibbia? » « e gli ebrei ? » « si dispone di originali ? ». Predisposta dall'Alleanza Biblica Francese (ABF), l'esposizione fa il giro della Francia da molti anni, col patrocinio del Ministero della Cultura.

Ma ciò che non vuole la diocesi, diretta da Mons. Le Saux, è che la si possa accusare di proselitismo... Gilles Berthomé, presidente della locale associazione che ha promosso la mostra nel Mans, è formale :
« L'idea è nata dalla riflessione del gruppo ecumenico del Mans che comprende cattolici, protestanti riformati, evangelici e ortodossi. Vi è coinvolta anche la comunità ebraica. L'obiettivo è quello di far scoprire un testo del patrimonio dell'umanità che alla fine resta sconosciuto »
Gérard Chesnais, delegato (laico) ecumenico per la Chiesa cattolica, anche lui molto coinvolto nell'evento, precisa :
« Assolutamente non si tratta di recuperare fedeli! » « Ci situiamo sul terreno della conoscenza, non su quello della fede [...] è giocoforza che una mostra sulla Bibbia affronti la questione della fede e di Dio. Ma in maniera distaccata. »
Questo responsabile da tempo della formazione dei laici nel Mans, poi « cappellano » nella prigione di Coulaines, senza dubbio non ha mai letto quel libro della Bibbia che è il Vangelo secondo Matteo:
Andate, fatte discepoli in tutte le nazioni, battezzateli nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, e insegnate loro ad osservare tutto ciò che vi ho prescritto.

L'arcivescovo di Bourges si lamenta che ci sono molti « integristi » nella sua diocesi

Così riporta Riposte catholique, questa volta by Perepiscopus:

Il mio confratello Christophe Saint-Placide aveva riferito la prossima apertura di un liceo tecnico nella diocesi di Bourges da parte della Fraternità di San Pio X. Intervistato da La Nouvelle République, Mons Armand Maillard, arcivescovo di Bourges, esprime il suo disaccordo su questo progetto educativo : [fa il paio con quello di Nevers -ndR]
L’Indre è particolarmente ricco di comunità integriste. Il dipartimento si colloca al di sopra della media nazionale. Se ne trovano à Niherne, ma anche à Ruffec, Mérigny o Saint-Michel-en-Brenne. E' troppo ! Gli integristi non hanno relazioni con me né nei confronti di una Chiesa che segue gli orientamenti del Vaticano II.
« E' troppo » … Forse mons. Maillard, che qui mette nello stesso calderone luoghi di culto e scuola, può interrogarsi sulla volontà dei cattolici della sua diocesi di congiungersi con la Fraternità di San Pio X... E soprattutto sulla cattolicità delle scuole riconosciute dalla diocesi, sia nei loro progetti pedagogici che nei loro insegnamenti.

Quali sono i suoi punti di divergenza con i cattolici integristi?
L’ecumenismo, i rapporti tra cristiani, i dialoghi interreligiosi e il modo di celebrare la liturgia. C'è inoltre un atteggiamento nella relazione Chiesa-mondo che essi non hanno. Paolo VI diceva che la Chiesa deve dialogare col mondo, piuttosto che essere chiusa nella sua realtà, ciò che è il caso degli integristi.
L’accusa di essere « chiusa nella propria realtà » non è specifica (se lo è) riguardo ai fedeli della Fraternità di San Pio X. La Chiesa che è in Francia, ad esempio, è molto spesso chiusa nella sua propria realtà anit-romana...

La Nouvelle République ha la buona idea di pubblicare, sotto l'intervista con l'arcivescovo, la reazione della Lega dei Diritti dell'Uomo. Mons. Maillard apprezzerà l'accostamento. [Viene spontaneo considerare che diventa più facile ricevere giustizia dagli organismi laici piuttosto che dalle autorità ecclesiastiche...]

venerdì 24 febbraio 2012

Dignità degli antichi riti latini, odierni abusi liturgici cui si pretende dare dignità di riti

Riposte Catholique, by Summorum Pontificum, segnala oggi questa notizia, considerandola una manifestazione delle ricchezze, tuttora dispieganti la loro vitalità, dei riti latini. Sappiamo che il rito Mozarabico, insieme a tutti quelli che vantavano una tradizione di oltre 200 anni, sono stati 'salvati' dal Concilio Tridentino, in quanto ritenuti degni di coesistere accanto alla mirabile forma del Rito Romano, resa universale da San Pio V.


Nonostante la città di Bologna in Italia non sia un territorio in cui si celebra abitualmente la liturgia mozarabica, questa il 19 febbraio scorso ha svelato i suoi splendori nella bella città italiana. La ragione? Sua Eccellenza l'Arcivescovo di Toledo e nello stesso tempo primate di Spagna, mons. Braulio Rodríguez Plaza, ha celebrato la santa messa in questo venerabile rito nel Collegio Maggiore S. Clemente degli Spagnoli, che si trova a Bologna. Nella sua omelia il prelato ha affermato che il rito Mozarabico è « una liturgia vivente, mai morta ». Esso si colloca nella prospettiva del testo conciliare Sacrosanctum concilium di manifestare la vitalità di tutti i riti latini.

Riporto questo dato perché oggi, purtroppo, si ha la pretesa di conferire dignità di rito che si lascia coesistere al NO - con tanto flebili quanto inutili richiami a rispettare i libri liturgici - ad una celebrazione sincretistica inventata da un pittore spagnolo alla fine degli anni '60. (cf immagine a lato) La Chiesa dell'"inclusivismo" selvaggio e inquinante, che non chiama più l'errore col suo nome...

mercoledì 22 febbraio 2012

Non padroni, ma servi della Liturgia

Orientamento al Signore, servizio liturgico e fedeltà al rito: le caratteristiche del vero culto.
Costruire una pastorale liturgica attraverso il ministero
di d. James DeViese

In questa riflessione, intendo esaminare la liturgia da un punto di vista pastorale e pratico. Esploreremo brevemente le questioni che ho posto nella mia precedente conversazione [trascritta di seguito]: il come, dove, chi e che cosa della Messa. Guarderemo alla vera natura del ministero, daremo un rapido sguardo al ministero pastorale, e faremo un accenno a due delle frasi che circolano di più nella liturgia odierna: l'"ermeneutica della continuità" e l'"arricchimento reciproco".

1. L'orientamento della Liturgia

Quando si usa il termine "orientamento" riferito alla Messa, la maggior parte della gente subito pensa al sacerdote "che volge le spalle ai fedeli" o "tutti rivolti verso la stessa direzione" o "tutti rivolti ad oriente". Libri come "Spirito della Liturgia" del Cardinal Ratzinger e "Volgersi verso il Signore" di Michael Lang hanno affrontato in modo convincente questo tipo di orientamento liturgico dal punto di vista storico, teologico e spirituale. Non ripeterò perciò tutto quello che essi hanno già detto o scritto.

Intendo concentrarmi invece su un aspetto più fondamentale dell'orientamento liturgico, e cioè sul punto focale del culto liturgico. Nell'era post-moderna, il culto liturgico viene ridotto ad "atto della comunità" che si indirizza, attira l'attenzione e si concentra sull'assemblea riunita. Canti come "Raccoglici insieme", "Noi siamo la Chiesa" ecc., hanno consolidato questa tendenza nella mente di tanti cattolici. Abbiamo perso contatto con il vero scopo della sacra liturgia, che è il culto di Dio, e Dio solo.

Mi trovo a dovermi confrontare quasi ogni giorno con i miei parrocchiani, cercando di far capire loro la ragione per cui celebriamo la Messa, e perché è importante. E ripeto sempre lo stesso concetto: "non c'è niente di più sublime o più profondo dell'azione sacra con la quale rendiamo culto al Dio unico, vivo e vero. Ripeto ancora: "Non c'è niente di più sublime e più profondo dell'azione sacra con la quale rendiamo culto al Dio unico, vivo e vero". Tutti i nostri sforzi e la disposizione della nostra mente e del nostro cuore si devono focalizzare univocamente su questa realtà. La Messa è per Dio, non per noi.

Non è certo una frase popolare questa, ma lasciatemi spiegare. Il Divino Sacrificio della Messa, in quanto è la ri-presentazione incruenta del sacrificio di Cristo sul Calvario per la salvezza del mondo, attualizza ogni volta per noi la salvezza nella quale siamo stati battezzati e nella quale siamo tutti membra del Corpo Mistico. Il sacramento della santa Eucaristia, reso presente nella Messa, è - come tutti i sacramenti - per la santificazione e l'edificazione del popolo di Dio. Ma nella sua essenza, la Messa resta il nostro atto di culto a Dio - il nuovo sacrificio del tempio, l'agnello senza macchia immolato dal sacerdote nel Santo dei Santi ad espiazione del peccato - l'offerta del popolo a Dio perché sia a Lui gradita. E' così che si rende culto, né più né meno!

Eppure, non è affatto raro vedere quanto ciò sia trascurato, ridimensionato o perfino del tutto rigettato in favore di una interpretazione più protestantizzata, post-moderna, chiusa dentro la comunità autoreferenziale, privando così la Messa del suo significato di culto indirizzato al Divino, e lasciando il guscio vuoto di una riunione che celebra gli esseri umani e il loro rapporto con Dio (che - avete mai notato?! - è sempre perfetto). E' questa la mancanza di orientamento di cui sto parlando.

Ora, per non sembrare unilaterale, c'è realmente un aspetto "noi" nella Messa. Mons. Guido Marini nella sua relazione ad "Adoratio 2011", la prima Conferenza internazionale sull'Adorazione eucaristica tenuta a Roma nel giugno dell'anno scorso [2011], parla della necessaria relazionalità della Messa. Afferma: "siamo richiamati ad alcune delle dimensioni tipiche ed indispensabili della liturgia. Mi riferisco innanzitutto alla dimensione della cattolicità, costitutiva della Chiesa fin dall'inizio. Nella cattolicità, l'unità e la varietà si uniscono in armonia tanto da formare una realtà sostanzialmente unita, malgrado la diversità legittima delle forme.

E poi c'è la dimensione della continuità storica, in virtù della quale lo sviluppo ordinato appare essere quello di un organismo vivente che non rinuncia al suo passato, progredisce nel presente ed è orientato verso il futuro. E ancora vi è la dimensione della partecipazione alla liturgia del Cielo, per cui è appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il Cielo scende sulla terra. Solo per fare un esempio, considerate le parole della prima Preghiera Eucaristica, quando domandiamo: '..fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo, davanti alla tua maestà divina..'.

E per ultimo, c'è la dimensione della non-arbitrarietà, che evita la soggettività del singolo o del gruppo, e che appartiene invece a tutti come dono ricevuto, da custodirsi e trasmettere. La liturgia non è una sorta di intrattenimento dove uno si sente di dover aggiungere o sottrarre all'improvviso qualcosa a seconda del proprio gusto per soddisfare la propria bella creatività. La liturgia non è un festino in cui si deve sempre trovare qualcosa di nuovo per suscitare l'interesse dei partecipanti. La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo dato alla Chiesa, nel quale siamo chiamati sempre ad entrare con grande intensità, soprattutto in virtù della ripetizione provvidenziale e sempre nuova del rito.

Per entrare nel "noi" della Chiesa mediante l'Eucaristia, significa anche essere trasformati nella logica di quella cattolicità che è amore, o l'apertura del cuore secondo la misura del Cuore di Cristo. Essa abbraccia tutto, piega l'egoismo alle esigenze del vero amore, ed è disposto a dare la vita senza riserve. L'Eucaristia è la vera sorgente d'amore della Chiesa ed è nel cuore di ciascuno. Dall'Eucaristia la Chiesa prende forma ogni giorno nell'amore, che è lo stile evangelico al quale siamo chiamati".

Dobbiamo dunque cambiare la nostra mentalità su come accostarci alla Messa e all'Eucaristia. L'orientamento non deve essere verso se stessi, ma ad un autentico volgersi interiore verso il Signore.

2. Il servizio liturgico

Avendo ora una migliore comprensione della natura dell'atto liturgico e il fine proprio al quale esso è diretto, possiamo guardare qual è la nostra funzione all'interno dell'azione sacra. Pongo perciò la domanda: che cos'è un ministro? Il termine "ministro" viene dal latino "ministrare", che significa "servire". "Minister" in latino è un servitore. Pertanto, per comprendere nel modo giusto il ruolo di un ministro, dobbiamo accettare che il rapporto tra liturgia e ministro sia un rapporto di subordinazione, di servizio. Il servo non cerca di dominare il padrone, di sottometterlo, di piegarlo alla propria volontà. Il servo buono e fedele è quello che si compiace di essere umile e obbediente. E la ricompensa del servo buono e fedele è la fiducia e l'ammirazione del padrone, che conduce ultimamente a maggior libertà.

Come ministri della sacra liturgia, noi siamo per prima cosa servitori della liturgia, servitori della Chiesa. Anche la parola "liturgia" denota questa relazione. La sua radice in greco, si dice comunemente che voglia dire "l'opera del popolo" - e ciò era e rimane lo slogan tanto sbandierato dai sapienti progressisti per giustificare le grandi libertà che si prendono con la Messa. Tuttavia, "liturgia" è composta da due termini greci: "laos" che significa popolo o il pubblico, e "ourgia", che significa "servizio". Liturgia non è "l'opera" del popolo, ma "il servizio" del popolo.

Quali ministri della sacra liturgia, noi siamo in fondo dei servi che non devono presumere di imporre il proprio stile, atteggiamento, ideologia ecc., sulla liturgia. La nostra missione non è di creare la liturgia, ma di essere formati dalla liturgia. Come servitori, la nostra missione è di presentare fedelmente al popolo di Dio la liturgia come ci è donata dalla Chiesa per la nostra edificazione e santificazione, e ciò può essere fatto solo in uno spirito di vero e umile servizio.

Qual è dunque la nostra ricompensa per essere servi buoni e fedeli? Tanto per cominciare, va da sé che l'adesione alla Chiesa e la fedeltà ai suoi comandi sono graditi a Dio e, sullo stesso piano d'importanza, serve per soffocare il peccato dell'orgoglio nel nostro cuore. Fedeltà e umiltà nel ministero sono al cuore della liturgia. Se guardiamo ai santi, possiamo vederne tanti che sono cresciuti nella santità semplicemente mettendo la Chiesa al di sopra dei propri bisogni e desideri. Santa Teresa del Bambin Gesù scrive mirabilmente di quanto amasse fare la sacrestana, lucidare i vasi sacri e stendere sull'altare le tovaglie e i paramenti, tanto che non avrebbe voluto essere in nessun altro posto diverso da quello. Potrà sembrare eccessivo ad alcuni, ma il suo amore era radicato nel fatto di essere una vera e umile serva. Aveva capito così bene la profonda natura della sacra liturgia che, come la donna evangelica che soffriva di emorragia, desiderava toccare il lembo del mantello di Cristo per sentirsi realizzata dalle più semplici e umili delle azioni. Questa è un'immagine che dovremmo portare sempre con noi quando ci accostiamo alla sacra liturgia da veri ministri.

3. Essere "pastorali"

Senza ombra di dubbio, il termine più abusato e male usato nel vocabolario ecclesiastico post-conciliare è "pastorale". Per quelli che sono attorno ai cinquant'anni, è una parola che è diventata sinonimo di un atteggiamento disposto a infrangere qualsiasi regola, direttiva e norma, a qualsiasi livello, per rendere più facile la vita. Dalla mia esperienza di avvocato canonista, ricevo costantemente critiche da parte dei miei superiori ogni volta che emetto una sentenza negativa nei casi di nullità matrimoniale. La ragione è sempre la stessa: non è "pastorale" non dare alla gente quello che vuole. Ovviamente, rispondo che non dipende da me se una persona ha contratto validamente o meno il matrimonio, che io sono obbligato alla verità, non a scansare la verità nell'interesse di lasciare la gente ad "andare avanti nella vita". Come potete immaginare, mi hanno bollato quale orribile conservatore non-pastorale e integralista che non gli importa della gente. Figuratevi!

Il termine "pastorale" è ovviamente un aggettivo che denota qualcosa che attiene "al pastore od è come un pastore". Almeno questo era il significato originario. E io sono qui a dichiarare che è giunta l'ora che questa parola venga liberata da coloro che se ne sono impossessati, gli antinomisti [NdT: seguaci della dottrina eretica che sostiene essere inutile e non obbligante obbedire alla legge morale, in quanto giustificati per la sola fede - vedi QUI), e torni al suo significato più naturale. Per una nuova definizione di "pastorale", mi avvalgo di un'idea di Jason Pennington, autore del saggio "Il musicista pastorale: un vero pastore o un ladro alla porta?" pubblicato il 29 dicembre 2005 sul blog "Christus vincit". Mentre Pennington orienta tutte le sue osservazioni sul concetto di musicista pastorale, io prendo a prestito il suo paradigma di base con la speranza di allargarlo e di applicarlo per la riabilitazione di questa povera, pietosa parola.

Pennington scrive: "La risposta più semplice ed immediata alla domanda di cosa significhi essere pastorale, è: agire come un pastore, pascere il gregge. La tradizione occidentale permea la nostra percezione del 'pascere'. Il poeta romano Virgilio descrive con vivida immaginazione la vita pastorale (o bucolica) nella Egloga. La letteratura, lungo i secoli, sia religiosa che laica, offre varie descrizioni di pastorale. La vita pastorale è calma e gentile, è pacifica e serena. Gli agnelli saltellano mentre il pastore suona il flauto sotto l'ombra di un grande albero.

L'analogia con il Salmo 23 è notevole, guardiamo infatti come si armonizza: "Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla". E' il Signore che ha la supremazia, è il Buon Pastore, il vero pastore, e si prende cura di tutte le mie necessità. Essere pastorali vuol dire vegliare sui bisogni del gregge, far sì che riceva il meglio. Notate che non vi è cenno di quello che il gregge "desidera". Il vero pastore sa quello che ci vuole. Non si preoccupa di quello che manca. "Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l'anima mia". Il ministro pastorale crea un'atmosfera di pace e di sicurezza. Non sovraccarica il gregge, cerca piuttosto di ringiovanirne lo spirito - ancora una volta, con quello di cui ha bisogno, non con quello che vuole.

"Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza". Qui arriviamo al cuore della questione. Il rapporto tra pastore e gregge non è tutto rose e fiori! C'è il bastone e il vincastro. Pennington scrive: "il bastone e il vincastro del pastore hanno due scopi. Il pastore li usa come armi per tenere lontano i pericoli dal suo gregge. Li usa anche per tenere ben ordinate le pecore. Il bastone del pastore ha dopo tutto un'estremità ricurva per trattenere la pecora che si è smarrita. Certamente, il vincastro e il bastone confortano perché proteggono dai pericoli, ma dispensano anche disciplina. Il pastore dà alle pecore ciò che vogliono, ma soprattutto, dà quello di cui hanno bisogno, che piaccia o no. Conduce il gregge a gustosi pascoli, ma lo tiene anche insieme sulla buona strada. Se il pastore desse loro solo quello che vogliono, il gregge si frazionerebbe e vagherebbe in tutte le direzioni: "noi tutti eravamo sperduti come pecore" (Is. 53, 6).

Il gregge vuole ed esige di essere viziato, di essere coccolato. Ma questo non è essere pastorali, semmai è non fare loro favori. Uno dei miei professori di diritto canonico a Roma spiegava il termine "pastorale" così: "Il vero strumento pastorale risiede nell'osservare la norma, non nell'ignorarla". Il nostro dovere sempre è di garantire i diritti di tutti. L'autentica giustizia cristiana esige che noi garantiamo i diritti del fedele cristiano. Ogni volta che si viola una regola per essere "pastorali" con qualcuno, allora si violano i diritti di un altro. Se io altero le parole della consacrazione nella Messa perché sarebbe "pastorale" per i bambini ai primi banchi, allora io in realtà violo il loro diritto a ricevere i sacramenti e la liturgia della Chiesa, così come intende la Chiesa. Se siamo ministri pastorali, non possiamo garantire i diritti dei fedeli cristiani infrangendo le regole, ignorando le norme o schivando i problemi. E' vero, può essere che la gente non apprezzi ciò che facciamo; penserà che siamo duri o perfino arbitrari. Ma, ancora una volta, un ministro pastorale è alla fin fine solo quello che le parole descrivono: un servitore che pasce.

4. Liberarsi dagli anni Settanta

Negli ultimi anni, nuove espressioni e parole di moda sono apparse sul nostro vocabolario. Si parla di "una riforma della riforma", di un "nuovo movimento liturgico", di una "ermeneutica della continuità", e dell'"arricchimento reciproco" delle due forme del Rito romano. Sono espressioni che danno vigore ai giovani esperti conservatori, ma che fanno paura e gettano nella frustrazione i vecchi "progressisti", senza dubbio! Ma dobbiamo sempre essere attenti a come li affrontiamo.

Siamo ministri della liturgia in un tempo in cui corriamo il rischio di infliggere sulla liturgia gli stessi abusi scriteriati e arbitrari che la liturgia ha patito dai liturgisti "progressisti". Occorre fare ben attenzione che ciò che facciamo nella liturgia riguardi solo la liturgia, e non le nostre opinioni o ideologie. Potrei fare un elenco di centinaia di cambiamenti che mi piacerebbe fare alla mia celebrazione della Messa in nome della "continuità" o dell'"arricchimento reciproco". Ma io sono legato a una lealtà alla Chiesa molto più grande delle mie preferenze personali. Lo stesso è vero per tutti i ministri della liturgia.

Allora, come si conciliano le due vie: arricchimento reciproco e fedeltà ai libri liturgici? Prima di tutto, si deve tracciare una linea chiara. Abbiamo il dovere sempre di essere fedeli ai libri liturgici, così come la Chiesa ce li ha dati. A questo fine, modificare la Forma Ordinaria del Rito Romano per conformarlo di più alla Forma Straordinaria (o viceversa), è qualcosa che può avvenire solo quando i libri liturgici e gli stessi documenti fanno esplicita concessione per l'innovazione, o quando le rubriche e le norme lo diano per sottinteso, prestandosi così a qualche arricchimento.

"L'arricchimento reciproco" dei due Riti Romani è qualcosa che è ovviamente desiderato dal Santo Padre, come ha dichiarato nella sua lettera di accompagnamento ai Vescovi sulla promulgazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum". Segue logicamente una discussione sulla "ermeneutica della continuità" - l'accentuazione sulla continuità tra i riti precedenti e quelli attuali, opposti alla "ermeneutica della rottura" che sembra ricevere l'attenzione maggiore degli esperti negli ultimi quarant'anni. La grande ironia è la sostituzione della retorica di quarant'anni fa. Quando si introdusse per la prima volta il Novus Ordo Missae, i liturgisti gli diedero credibilità esaltando la sua conformità ai sani criteri storici, dicendo che in realtà si trattava di un recupero di una forma di culto molto più antica. E i contrari che affermavano che si trattasse di una rottura con la tradizione, erano coloro che sarebbero diventati i seguaci dell'Arcivescovo Lefebvre e soci. Come cambiano i tempi!

Tutto sommato, c'è molto spazio per cercare di capire meglio tutti questi criteri. Ciò che ho presentato qui è soltanto la punta dell'iceberg. C'è spazio per altre discussioni e per altre esplorazioni. E gli esempi sono fin troppo numerosi per cominciare a farne una lista.

5. Conclusione

In conclusione, vorrei riflettere brevemente sul quadro principale. Tutto ciò che ho trattato in questa conversazione è indirizzato a un gruppo di persone impegnate che servono la Chiesa e le loro comunità nel modo specifico della sacra liturgia. La nostra missione, comunque, non dev'essere quella di raccomandare il self-service. Abbiamo anzi esplorato i principi che dovrebbero essere al primo posto nella coscienza di ogni cattolico: il vero orientamento della liturgia, la vera natura della pastoralità, i fondamenti divini dell'autorità, la necessità della vera fedeltà, ecc.

Come ministri della sacra liturgia, incombe su di noi il mandato di catechizzare bene quelli che serviamo e di disporli degnamente a ricevere la ricchezza che offre il Rito Romano. Troppo spesso sorvoliamo sul Rito Romano e ci lasciamo ipnotizzare dalle campane, dal fumo e dai canti di altri riti, e cerchiamo di integrarli (senza che ve ne sia bisogno e illecitamente) ai nostri riti per "abbellirli". Ma il Rito Romano è integrale e completo. E vorrei dire che abbiamo il dovere morale di esplorare il nostro patrimonio per cercare di scoprire i tesori nascosti dei nostri riti e recuperarli entro i parametri dei nostri paradigmi liturgici correnti, per la gloria di Dio e l'edificazione della Sua Santa Chiesa. E' in questo modo, in ultima analisi, che il nostro Maestro e Signore ci può vedere suoi servi buoni e fedeli, servitori e ministri di ciò che la Chiesa ha affidato alla nostra cura.

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L'antinomismo e la Sacra Liturgia
di d. James DeViese

Vorrei esaminare alcuni aspetti chiave dei nostri rispettivi ruoli di servitori e ministri della Sacra Liturgia, e quali iniziative pratiche possiamo porre in atto per aiutare coloro che serviamo a fare una forte esperienza liturgica.

Parlerò innanzitutto dell'antinomismo e della Sacra Liturgia; dell'antinomismo (1) in generale, che cosa s'intende con questo termine e come si rapporta con la comprensione cristiana della legge. Poi, esaminerò l'applicazione dei principi antinomisti nella celebrazione dei sacri riti. Ed infine vi presenterò alcune preoccupazioni generali e specifiche riguardo al futuro della prassi liturgica.

1. L'antinomismo in generale

Padre John Coughlin, professore di Diritto Canonico e Teologia all'Università di Notre Dame, nel suo intervento alla Conferenza degli avvocati civili e canonisti tenutasi a La Cross in Wisconsin, nell'agosto del 2010, dichiara in termini decisi: "L'antinomismo riduce o rifiuta la validità della legge".

Il termine "antinomismo" fu coniato nientemeno che da Martin Lutero, ed è composto di due parole greche 'anti' e 'nomos', letteralmente 'contro la legge'. Per ironia della sorte, il termine fu impiegato da Lutero per descrivere in modo peggiorativo quei protestanti che aderirono alla dottrina eretica della "Sola Fide" - giustificazione solo per fede - e che deviarono in modo ancora più radicale di quanto non avesse fatto originariamente Lutero stesso. Il senso fondamentale antinomiano rimane comunque chiaro: rifiuto della legge stabilita (sia essa divina, naturale o positiva).

In una prospettiva storica, il sistema religioso giudaico-cristiano si è sempre fermamente basato sulla prevalenza della legge. Fin dai giorni di Mosè, gli aderenti alla fede abramitica hanno sempre compreso che vi è una intrinseca relazione tra il compiere il proprio dovere con Dio e obbedire alla legge di Dio. In effetti, l'uno conduce in modo naturale verso l'altra, poiché per piacere a Dio occorre seguire i suoi comandamenti. Appare molto chiaro nell'Antico Testamento che il rifiuto dell'autorità di Dio, la non accettazione appunto della legge divina, naturale e positiva, va presto incontro alla sua retribuzione: il diluvio universale, i quaranta anni nel deserto, Sodoma e Gomorra, l'esilio babilonese, ecc. Praticamente, ogni prova e tribolazione del popolo ebraico nell'Antico Testamento ha la sua radice nel rifiuto umano della legge.

Nel Nuovo Testamento, le fazioni pro o contro l'antinomianismo sono in continua polemica tra loro per stabilire da quale "parte" stiano i vangeli sul tema dell'adesione alla Legge. Ci sono prove in abbondanza per l'una e l'altra fazione. Riserverò l'approfondimento dei particolari per gli studiosi di Sacra Scrittura e di Teologia.

Per quanto se ne dica, un dato di fatto è chiarissimo: Dio ha creato un mondo ordinato sul quale ha imposto una gerarchia di autorità, sia in terra che nei cieli, per preservare la salvezza dell'uomo. Tale autorità, radicata nella legge divino-naturale e compiuta dalla volontà di Gesù Cristo nel trasmettere la Sua stessa autorità a Pietro e agli apostoli, è finalizzata alla crescita spirituale del Popolo di Dio per raggiungere lo scopo da Lui voluto: la vita eterna con il nostro Creatore nella Gerusalemme nuova.

Dichiarare che noi sperimentiamo, per paradosso, vera libertà quando aderiamo alla Legge, non è più irrazionale di quanto non lo fosse per Sant'Agostino affermare lo stesso concetto, dicendo che la libertà dal peccato si ottiene mediante la schiavitù alla volontà di Dio. Una vera adesione a Dio esige la nostra adesione a quelle leggi che Lui e la Santa Chiesa ci hanno dato, attraverso la legittima autorità conferitale e portata avanti con la successione dei Papi e dei vescovi.

L'antinomismo porta fuori dalla retta comprensione della Chiesa quale vera Sposa di Cristo che governa con la Sua stessa autorità sulla terra. Ma per il credente cattolico, rifiutare l'autorità della Chiesa è rifiutare l'autorità di Cristo, e quindi Dio stesso.

L'antinomismo in America ha una lunga storia. Si può dire che ha avuto il suo influsso nel dare origine alla rivoluzione americana, al suffragio delle donne, ai diritti civili, ecc. Pur essendo cose buone in se stesse, il retroterra antinomista che ha contribuito a portare quei movimenti alla pubblica attenzione e a renderli vincenti, si è però anche infiltrato nel pensiero della Chiesa negli Stati Uniti.

Si deve, tuttavia, fare una distinzione tra autorità derivata da Dio e quella stabilita dall'uomo. Dobbiamo sempre considerare la Chiesa per quello che essa è veramente: una istituzione divina donata all'uomo per la sua santificazione. L'ordine civile cerca legittimamente di invertire il rapporto: l'uomo stabilisce l'ordine per il bene comune imitando i precetti divini. La prima è il modello tipico dall'alto al basso; il secondo dal basso verso l'alto.

Come si presenta dunque l'antinomismo nella Chiesa americana? Uno degli esempi più evidenti è l'assenza significativa, in questo Paese, dei Capitoli di Canonici della Cattedrale. Quando si formarono le prime Diocesi degli Stati Uniti, la legge che disponeva che ogni Cattedrale avesse un Capitolo di Canonici, fu praticamente ignorata ovunque. L'unica ragione addotta fu che la Chiesa in America si considerava un nuovo ordine di Chiesa, tale da non dover più essere confinata nei ceppi della cultura europea da cui fuggivano tanti migranti. "Ridurre o rifiutare la validità della legge" per corrispondere ai desideri dei pochi a danno dei molti.

2. L'antinomismo e i riti sacri

Per quanto attiene ai sacri riti della Chiesa, vale la pena sottolineare che i riti liturgici predisposti dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, approvati dal Sommo Pontefice, possiedono la forza della legge. I libri liturgici, di per se stessi, costituiscono un rito giuridico la cui essenza è sia spirituale che strutturale. E tuttavia, in tutta la storia della Chiesa c'è sempre stata una lotta tra due poli: quello che cerca di imporre la struttura e quello che cerca di svincolarlo da tale struttura.

Fin dalla fine del primo secolo, la Chiesa ha cercato di dare una struttura al modo di celebrare dei cristiani e di renderla normativa. Ce lo confermano numerose fonti della primitiva celebrazione cristiana, quali la Didachè, i frammenti di Ippolito, l'Apologia del Santo martire Giustino e altri. Dai quei primi tempi, l'intento dei Vescovi e del Papa è stato di vigilare affinchè la celebrazione dei Sacramenti fosse sempre ortodossa e fedele. L'imposizione dei libri liturgici si rese necessaria fin dal terzo e quarto secolo per custodire l'integrità dei sacramenti, in particolare il Divino Sacrificio della Messa, e tutto in nome dell'antica massima "Lex orandi, Lex credendi".

Molti "studiosi" oggi non accettano la prassi di imporre libri liturgici, considerandola anatema al vero "culto". E' un falso significato del culto che proviene dall'adozione modernistica di antinomismo. Quanti di noi hanno sentito frasi del tipo: "Sì, so cosa dicono i libri liturgici, ma ...", oppure "E' quello che fanno a Roma, ma qui non siamo a Roma", o "Noi facciamo diverso...", o ancora (la mia preferita) "Se il Papa vuole che lo faccia, che venga qui a farmelo fare!". Queste dichiarazioni irriverenti e provocatorie sono sintomatiche di un antinomismo profondamente radicato e che è prevalente nella Chiesa americana di oggi. L'intera concezione delle direttive liturgiche, delle sue norme e rubriche che hanno forza di legge, sono o sconosciute o semplicemente ignorate al fine di ritagliare i sacri riti sulla misura dei nostri gusti e preferenze. Se accadesse la stessa cosa con la Fede in generale, io credo che il termine adeguato alla situazione sarebbe "protestante", se non "apostasia".

Sono consapevole che la mia posizione sembri intransigente. Non per niente mi hanno affibbiato i soprannomi di "tradizionalista folle" e di "orrendo arciconservatore"! Ma è innegabile che c'è un legame diretto tra i principi antinomisti e il presente stato della liturgia nella Chiesa. Se ciò sia per ignoranza dei documenti ecclesiali, o per un rifiuto irrazionale, ideologizzato, o premeditato al limite del lecito delle norme liturgiche a favore di un'alterazione "protestantizzata" e motivata egocentricamente, o ancora - arrivo a dire - per'"abusare" di quanto ci è stato trasmesso come liturgia della Chiesa, una cosa è chiara: la riduzione o il netto rifiuto della validità delle norme liturgiche, in quanto vincolano per legge i ministri della Chiesa, è antinomismo allo stato puro e, ciò che più importa, può e deve essere definito vera e propria violazione della legge della Chiesa.

Gli stessi sacri riti costituiscono un'alleanza tra Dio e il Suo popolo, mediata dalla Chiesa, la cui autorità in materia spirituale deve essere ritenuta assoluta. Negli ultimi cinquanta anni, tuttavia, siamo stati testimoni di un sistematico sgretolamento dell'autorità della Chiesa, perpetrato non da una singola fazione o gruppo, ma causato da una varietà di fattori diversi, quali norme liturgiche i cui documenti sembrano spesso in conflitto tra loro o senza direttive chiare, la legge della Chiesa stessa che ha eliminato le relative sanzioni da comminare alle violazioni, le Conferenze Episcopali che spesso sminuiscono l'autorità dei singoli Vescovi, alcuni Vescovi e parroci che non si curano di legiferare e di emanare solide norme liturgiche, i cosiddetti "esperti" e "liturgisti" il più delle volte ideologi, il movimento ecumenico con il pretesto che "dobbiamo essere come gli altri, così piaceremo loro", e i fedeli laici con affermazioni come "anch'io devo avere un potere!". Di per sé, nessuna di queste istituzioni, gruppi o movimenti sono cattivi, anzi hanno un ruolo proprio e svolgono tutti una funzione nella Chiesa, per cui dare la "colpa" a una qualsiasi delle "cause" suddette per lo stato attuale della prassi liturgica, sarebbe irresponsabile e inesatto. Si può dire invece, essendo l'osservanza delle norme liturgiche l'intenzione della Chiesa e l'obbligo dei suoi ministri, che ogni realtà della vita della Chiesa ha contribuito, in maggiore o minore misura, a un generale antinomismo.

Alla luce di tutto ciò, pongo tre interrogativi: primo, perché succede? Secondo, come ci si è arrivati? E per ultimo, che cosa si può fare?

Le prime due domande stanno insieme. E' stato detto da alcuni studiosi che il tempo in cui si è celebrato il Concilio Vaticano II, e non il Concilio in sé, ha portato a molta di quella confusione che la Chiesa attraversa oggi in termini di atteggiamento dei credenti verso la Chiesa. Ripeto che non è un discorso sui meriti o le lacune dei documenti conciliari, ma la temperie di quegli anni. Che cosa voglio dire? Consideriamo l'ambiente sociale dei primi anni Sessanta. Le agitazioni sociali esplodevano a tutti i livelli, soprattutto negli Stati Uniti. Tra le battaglie per i diritti civili, la liberazione delle donne, "l'amore libero", le campagne contro la guerra, e un gran numero di movimenti contro l'establishment negli anni '60, la percezione del Concilio Vaticano II come un Concilio "modernizzante" che avrebbe spezzato le catene del Medioevo e avrebbe lanciato la Chiesa all'aggiornamento con quegli anni, contribuirono ultimamente a una cattiva comprensione di ciò che la Chiesa e il Concilio intendevano mettere in atto.

E' una percezione che è presente ancora oggi in non pochi ambienti nei quali circola abitualmente lo slogan "lo spirito del Concilio". Questo Concilio Ecumenico spesso vituperato porta perciò il peso di dover essere ancora veramente compreso, apprezzato e realizzato.

Similmente, si può dire che la riforma liturgica del '68-'69 di Papa Paolo VI con la promulgazione della prima edizione dell'attuale Messale Romano, aiutò a rafforzare questa erronea interpretazione del Concilio Vaticano II. Ancora una volta, occorre dire che la colpa non è del contenuto della Riforma, ma del momento storico in cui si è fatta la riforma, che sembrava dare ragione a quello che tanta gente, sbagliando, diceva già del Concilio: "Ehi, sta cambiando tutto! Niente più regole! Possiamo fare quello che vogliamo!".

In realtà, da una prospettiva storica e giuridica, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Non voglio discutere né criticare la saggezza della riforma di Paolo VI. Ma la transizione apparentemente improvvisa da un sistema di riti liturgici pieno di norme e di regole, infrangere le quali costituiva spesso un peccato mortale per il sacerdote, a un sistema privo di penalità e con licenza apparentemente ampia data all'improvvisazione e a commenti ad libitum, a qualsiasi livello, era destinato fin dall'inizio a inaugurare un'epoca contrassegnata da un antinomismo in ebollizione e da desideri alimentati da agitazioni sociali nell'ambito civile. In punto di fatto, si trattò di una convergenza di due eventi innocui e (oso dire) necessari, associati in un clima sociale di opposizione all'establishment, per cui i sentimenti antinomisti esaltanti la libertà individuale fecero da perfetto contesto tempestoso perché le radici dell'antinomismo nella Chiesa penetrassero in maniera importante.

3. L'antinomismo ed il Messale Romano

Per questioni di tempo, non elencherò i molteplici esempi di antinomismo nella liturgia. Gli abusi inflitti sulla Sacra Liturgia negli ultimi quarant'anni sono troppi per essere descritti. Basti soltanto dire che ci sono state violazioni generalizzate delle norme e direttive liturgiche, causate da ignoranza o da rifiuto delle dette norme. Per essere onesti, la prima e seconda edizione del Messale Romano davano maggiore spazio alla "creatività" liturgica di quanto non faccia la terza edizione attuale (NdT, delle Conferenze Episcopali di lingua inglese). Il cambiamento più significativo tra la precedente e l'attuale edizione, è la notevole diminuzione in vari punti dei riti, della frase prima onnipresente "con queste parole o altre simili". In questa terza edizione del Messale Romano non risultano più accettabili le varie forme di saluti ed esclamazioni tanto comuni nella prima e seconda edizione. La scelta attuale della Chiesa, senza dare giudizi, è di non ritenere più accettabile l'atteggiamento disinvolto e a ruota libera nei confronti della liturgia, una permissività che non è più ammessa per parole alternative o non approvate nelle varie parti della Messa. Non sono più permessi, ad esempio, discorsi estemporanei durante il rito d'ingresso, l'atto penitenziale, ecc. Rimangono invece in quelle parti che l'Istruzione Generale del Messale Romano e le rubriche permettono ancora per commenti e introduzione.

Eppure, nella nostra esperienza di tutti i giorni, quanti preti seguono fedelmente la terza edizione del Messale Romano, o hanno smesso la vecchia abitudine di saluti e congedi superficiali o introduzioni alternative alle preghiere? Ancora una volta, la Chiesa ha cercato di ridurre le opzioni non per diventare più rigida ma per il vivo desiderio di custodire la dignità dei riti, non ammettendo l'abuso dei testi e delle consuetudini che possono essere (e spesso lo sono) in contrasto con la vera fede ortodossa che si manifesta nella Sacra Liturgia. Gli antinomisti cercano di diffamare e demonizzare la Chiesa bollandola di essere un'istituzione patriarcale che vuole solo "tenerci sottomessi e oppressi". C'è da chiedersi se Martin Lutero non venga evocato dagli opinionisti più loquaci che si scagliano contro il Magistero della Chiesa in questi giorni.

Per non sembrare unilaterale, guardiamo però anche all'alternativa dell'antinomismo "liberale". In effetti, ci sono altrettanti antinomisti dalla parte "conservatrice" (chiedo scusa per le crude etichette di 'liberale' e 'conservatore' che sono davvero inappropriate). Molti, sospinti verso espressioni più tradizionali della nostra unica Fede, si trovano in situazioni nelle quali anch'essi sbagliano nel voler modificare i riti secondo la moda antinomista per compiacere le loro esigenze. Non è per esempio raro ascoltare nelle Messe di esequie "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem", quando gli attuali libri liturgici non permettono una tale alterazione del testo. Oppure, capita che un giovane prete tradizionalista incroci la stola sotto la casula o insista nell'indossare il manipolo, quando i libri liturgici in vigore non li ammettono (per la stola è esplicito, per il manipolo è oggetto di dibattito a vari livelli). Conta molto di più la fedeltà alla liturgia che non dire soltanto ciò che è contenuto nel Messale. C'è bisogno che si osservino tutte le norme e rubriche con la dovuta obbedienza e deferenza all'autorità della Chiesa, perché è l'unico modo che i ministri hanno per essere veramente "ministri, servi e servitori" della Sacra Liturgia, e non legislatori di propria iniziativa.

4. Suggerimenti per la discussione

Infine, alcune riflessioni sul futuro della prassi liturgica:

Per primo, rispondendo alla terza domanda su ciò che si può fare nella Sacra Liturgia, non esiste un'unica soluzione, ma occorre cambiare tutta la mentalità. Cosa non facile e neppure rapida, ma assolutamente necessaria se la Santa Romana Chiesa vuole difendere i suoi riti liturgici. Il primo compito è catechizzare le persone. La maggior parte (preti e laici insieme) semplicemente ignorano quello che i documenti sulla Sacra Liturgia effettivamente dicono. C'è stata tanta disinformazione negli anni e molti (soprattutto sacerdoti) non vogliono riconoscere che forse fanno qualcosa che non è corretto o addirittura illecito! E' fondamentale una ferma comprensione delle norme liturgiche così come sono attualmente, conoscerne la storia, lo sviluppo e come applicarle alla celebrazione dei sacri riti.

In secondo luogo, dobbiamo guidare con l'esempio. Non possiamo aspettarci cambiamenti radicali nel modo di esprimersi dei documenti liturgici, né che le persone si mettano subito in riga appena si confrontano con la verità. Ma se celebriamo la liturgia in modo adeguato al Divino Sacrificio della Messa, usando la terminologia propria, attenti alle rubriche e ai testi, allora c'è la possibilità concreta di aiutare la gente a vedere che non aspiriamo al minimo comun denominatore, ma che è nostro dovere presentare fedelmente la liturgia della Chiesa in punto di principio e in punto di legge.

In terzo luogo, dobbiamo sforzarci di infondere nei nostri fratelli cattolici un più profondo senso di quel che vuol dire essere sottomessi all'autorità. In America abbiamo un senso ultra-sviluppato di libertà individuale che è in contrasto con l'antropologia autenticamente cristiana e la comprensione dell'unità grazie all'autorità. Il rispetto di quella autorità stabilita da Dio stesso è fondamentale per aiutare gli altri a ritrovare una conoscenza più equilibrata e accurata di dove venga la liturgia, a chi la sacra azione è diretta, e la nostra funzione di servitori della liturgia.

5. Conclusione

Non intendevo certo che questa mia conversazione fosse esaustiva. Sono stati scritti interi volumi sulla necessità di una maggiore fedeltà all'autorità ecclesiale, e quei principi si possono ben applicare alla celebrazione della Sacra Liturgia. Ho offerto solo materiale per la riflessione - un modo nuovo di osservare lo stesso problema della "creatività" liturgica e "infedeltà" che hanno imperversato nella Chiesa per secoli.

Non c'è mai stata "un'epoca perfetta" della Chiesa. Sempre combattiamo una battaglia tra di noi, le fazioni di "liberali" e "conservatori", di "progressisti" e "tradizionali" si scontrano costantemente. E non pare esserci una fine in vista. Una tregua a questa lotta infinita arriverà solo quando avremo un più alto senso di rispetto per quello che la liturgia fa, a Chi lo fa, come la si celebra e da dove essa viene.
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(1) antinomismo
Termine creato da Lutero per designare polemicamente la dottrina di Johann Agricola (Eisleben 1494 - Berlino 1566) che dalla tesi della salvezza mediante la sola fede deduceva l’assoluta inutilità delle opere buone, quindi dei precetti del Decalogo. Il termine esprime tuttavia un fatto più antico, e cioè l’avversione di numerosi gruppi cristiani (gnostici e marcioniti nella Chiesa antica; varie sette medievali) contro non solo le prescrizioni rituali, ma l’intero Antico Testamento, sentito come mera costrizione e vincolo, in antitesi al Nuovo Testamento, cioè alla nuova economia della Grazia e della libertà.

Sacrosanto Concilio Tridentino
Sessione VI - 13 gennaio 1547

Canone 19: Chi afferma che nel Vangelo non si comanda altro, fuorché la fede, che le altre cose sono indifferenti, né comandate, né proibite, ma libere; o che i dieci comandamenti non hanno nulla a che vedere coi cristiani: sia anàtema.

Canone 20: Se qualcuno afferma che l’uomo giustificato e perfetto quanto si voglia non è tenuto ad osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma solo a credere, come se il Vangelo non fosse altro che una semplice e assoluta promessa della vita eterna, non condizionata all’osservanza dei comandamenti: sia anàtema.

Canone 21: Se qualcuno afferma che Gesú Cristo è stato dato agli uomini da Dio come redentore, in cui confidare e non anche come legislatore, cui obbedire: sia anàtema.

Canone 27: Se qualcuno afferma che non vi è peccato mortale, se non quello della mancanza di fede, o che la grazia, una volta ricevuta, non può essere perduta con nessun altro peccato, per quanto grave ed enorme, salvo quello della mancanza di fede: sia anàtema.
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fonte: http://www.pastormontanus.blogspot.com, 26/01/2012
http://www.pastormontanus.blogspot.com/2012/01/building-pastoral-liturgy-through.html
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri
by http://paparatzinger5blograffaella.blogspot.com/

martedì 21 febbraio 2012

Cos'abbiamo da festeggiare per il 500.mo anniversario delle tesi di Lutero?

Le notizie di stampa sono sempre da prendere un po' con le molle, facendo la tara tra elementi certi e pennellate più o meno di parte. Ma questa che ho appena letto su Vatican Insider, da qualunque parte la giri, suona molto male al cuore di un cattolico.


Da Vatican Insider: un servizio dalla Città del Vaticano su “Un documento comune che rilancia il dialogo tra le chiese, annunciata dal cardinale Koch presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani”!
Un documento comune sulla fede cristiana che li unisce, al di là delle divisioni degli ultimi secoli: lo stanno preparando la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale in vista del 500.esimo anniversario delle 95 tesi di Martin Lutero nel 2017.

Ad anticipare l'iniziativa era stato papa Benedetto XVI lo scorso dicembre, durante l'udienza al presidente dei luterani mondiali, il vescovo Munib A. Younan. In questi giorni, il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unita' dei Cristiani, ha anticipato alcuni dettagli del documento in una intervista all'agenzia cattolica tedesca Kna.

La dichiarazione comune, preparata dalla Commissione internazionale luterano-cattolica sull'unità, dovrebbe leggere l'evento della Riforma alla luce dei 2000 anni di storia cristiana, di cui 1500 prima della divisione tra cattolici e protestanti. Per il porporato, la divisione della Chiesa non era l'obiettivo dell'azione di Lutero.

Secondo il cardinale Koch, la commemorazione comune della Riforma potrebbe essere l'occasione di arrivare ad una comune ammissione di colpa da parte delle due parti, sulla scia della richiesta di perdono fatta da papa Giovanni Paolo II nel 2000 per il ruolo cattolico nelle “divisioni della Chiesa”. «Senza una consapevolezza comune, ha detto il card. Koch, senza una purificazione comune della memoria e senza una ammissione di colpa da entrambe le parti, secondo me non ci può essere una sincera commemorazione della Riforma ».

Il porporato ha anche sottolineato che è stato proprio papa Ratzinger, che da tedesco è cresciuto in un Paese la cui popolazione è divisa pressochè equamente tra cattolici e protestanti, a chiedere che il dialogo ecumenico avesse un ruolo più centrale nella sua visita in Germania del prossimo settembre.

Durante l'udienza al vescovo Younan dello scorso 16 dicembre, papa Ratzinger aveva anticipato che il documento per il 500.esimo anniversario delle 95 tesi avrebbe documentato “ciò che i luterani e i cattolici sono capaci di dire insieme a questo punto, guardando alla nostra maggiore vicinanza dopo quasi cinque secoli di separazione”. Nell'anniversario del 1517, aveva aggiunto, “i cattolici e i luterani sono chiamati a riflettere nuovamente su dove il nostro cammino verso l'unità ci ha portato e per invocare la guida di Dio e il suo aiuto per il futuro”.

Si poteva mai immaginare che saremmo arrivati a questo punto?

E' la conseguenza ormai consolidata della innovazione sostanziale operata dal Concilio (e dalla Ut unum sint che disegna l'ecumenismo sulla strategia del dialogo piuttosto che come espressione di una profonda e inalienabile esigenza dell’unità e unicità della Chiesa): praticamente la Chiesa di Roma non è più il fondamento e il centro dell’unità cristiana e la vita storica della Chiesa, che è la persona collettiva del Cristo, converge intorno a più centri (le varie confessioni cristiane) il cui centro più profondo sussiste al fuori di ciascuna di esse; il cambiamento implica che i separati non devono muovere verso il centro immobile che è la Chiesa guidata da Pietro. L'unità quindi non è più considerata già nella storia e cade la necessità di rifarsi ad essa escludendo a priori qualunque pluralismo paritario. Viene meno quindi, come afferma in Iota unum Romano Amerio, la « riaffermazione della trascendenza del Cristianesimo il cui principio, che è il Cristo, è un principio teandrico vicariato storicamente dal ministero di Pietro ».

La variazione nella dottrina consiste nel fatto che l’unione di tutte le Chiese si faccia anziché nella Chiesa cattolica, nella cosiddetta Chiesa di Cristo e per un moto di convergenza di tutte le confessioni verso un centro che è fuori di ciascuna. Da una variazione del genere del concetto di unione dei cristiani consegue inevitabilmente anche la variazione nel concetto di missione: le religioni non cristiane devono entrare nell’unità religiosa dell’umanità e, esattamente come per i fratelli separati, ciò avviene non già per effetto della loro conversione al Cristianesimo, ma è già presente nei loro intrinseci valori che basta approfondire, ritrovando così quella più profonda verità che soggiace a tutte le religioni.

Lo stesso Benedetto XVI ha più volte ribadito “L’impegno ecumenico della Chiesa cattolica nella ricerca dell’unità cristiana è irreversibile”. Ora, un conto è riconoscere e affermare l’ecumenicità del Chiesa nel senso della sua costitutiva proprietà insita nella cattolicità proiettata su tutta la terra e su tutta l’umana famiglia (Καθ’όλον), un conto è fondare l’impegno ecumenico sulle strategie umane, senza più avere come punto di partenza l’ontologia della Chiesa e la sua implicita tensione all’unità, che non può discendere da comportamenti contingenti, ma nella fedeltà alla sua missione universalistica.

L'“ut unum sint” per il quale il Signore ha pregato ed ha donato se stesso, la vera unità - che non è né pragmatica né organizzativa né di assenso della ragione, ma è comunione in Cristo nella Sua Chiesa - non sono le cosiddette buone volontà umane a realizzarla, ma essa stessa si realizza come dono Soprannaturale che si invera in chi “ritorna” e in chi “rimane” nella Chiesa così come il Signore l'ha voluta e istituita: l'Una, Santa, Cattolica, Apostolica e anche Romana.

E, invece, siamo costretti ad assistere ad un evento che si profila ben peggiore di Assisi in tutte le sue edizioni.

lunedì 20 febbraio 2012

Santa Sede - FSSPX . «Magistero o tradizione vivente?», don Gleize denuncia un falso dilemma

Pubblico una recente interessantissima puntualizzazione di Don Jean-Michel Gleize che centra il problema all'origine dell'apparente "dialogo tra sordi" cui ci è dato assistere in quest'epoca di confusione e oscuramento della verità nel dibattito tra Santa Sede e FSSPX. Il problema non è solo ermeneutico, è molto più profondo, perché vede di fronte due concezioni diverse del magistero, frutto di una vera e propria rivoluzione copernicana, collegata con una nuova concezione di Chiesa, inutile nasconderselo:
  1. quella nata dal concilio, che ha spostato il fulcro di ogni cosa dall'oggetto al soggetto.
    Il Magistero bimillenario della Chiesa poteva dirsi 'vivente' nel senso che trasmetteva inverandolo in ogni generazione - ma curandone l'integrità nella sostanza: eodem sensu eademque sententia - il Depositum fidei della Tradizione Apostolica, fondamento oggettivo, dato, pur se sempre ulteriormente approfondito e chiarito nelle sue innumerevoli ricchezze
  2. il magistero attuale si dice invece vivente, in senso storicistico, perché portatore dell'esperienza soggettiva della Chiesa di oggi (che sarà diversa da quella di domani) perché soggetta all'evoluzione determinata dalle variazioni contingenti legate alle diverse epoche.
Insomma è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa/Popolo-di-Dio pellegrina nel tempo e di fatto trasferito dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza.

Non può non essere conseguenza - del resto abbastanza ovvia - della nuova antropologia introdotta dal concilio, passata dal teocentrismo all'antropocentrismo: un uomo centrato su se stesso e non più fontalmente orientato a Dio con le innumerevoli implicazioni, anche in campo liturgico, che non possono ovviamente essere sviluppate qui. Frutto dello storicismo, del personalismo e di ogni altra spinta modernista, che hanno nutrito la Nouvelle Théologie che la sta facendo tuttora da padrona, in una Chiesa non più docente ma dialogante, nella quale il munus docendi viene impropriamente esercitato dai teologi. [Vedi Gaudium et spes 12 24 - Gaudium et Spes 22]

Mi ha colpito la conclusione del documento citato da don Gleize alla fine: una Catechesi del Papa sulla Tradizione di aprile 2006: « ...Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. » Sul 'succo' del discorso non possiamo che essere d'accordo; ma il vero problema sta nel fatto che quelle che vengono definite cose o parole come "collezione di cose morte", nella vulgata modernista vengono riferite al "magistero perenne" diventato "cosa morta" da sostituire sempre col magistero vivente, quello attuale...


«Magistero o tradizione vivente?», don Gleize denuncia un falso dilemma.

Durante una Conferenza del 25 gennaio scorso, a Sion (Svizzera), sul tema "magistero o tradizione vivente?" Don Jean-Michel Gleize, professore di ecclesiologia al Seminario di Ecône, ha fatto alcune precisazioni in ordine al suo studio Una question>e cruciale, apparso sull'ultimo Courrier de Rome di dicembre 2011, destinato a corredo della risposta di mons. Fellay al "Preambolo dottrinale". Ecco gli estratti più significativi di questa conferenza:

« Ci si obietta insomma che il magistero vivente, non quello di ieri, è oggi il solo degno di questo nome. Solo il magistero attuale è capace di dire ciò che è conforme alla Tradizione e ciò che le è contrario, perché solo esso rappresenta il magistero vivente interprete della Tradizione. Dunque, delle due l'una: o noi rifiutiamo il Vaticano II giudicandolo contrario alla Tradizione, ma contraddicendo il solo magistero possibile, il magistero vivente, che è quello di oggi (quello di Benedetto XVI), allora noi non siamo cattolici ma protestanti; oppure decidiamo di non essere protestanti e siamo obbligati ad accettare il Vaticano II per obbedire al magistero vivente, che è quello di oggi, il quale dichiara che il concilio è conforme alla Tradizione. C'è un dilemma, cioè un problema senza soluzione apparente, al di fuori delle due indicate: se si vuole sfuggire ad uno dei due ambiti, non si scappa dall'altro. Ma in realtà questo dilemma è falso. perché ci sono dei falsi dilemmi. (...)

Le due alternative sono evitabili, entrambe nelle stesso tempo, perché esiste una terza soluzione. È possibile rifiutare il Vaticano II senza essere protestanti e obbedendone al magistero; è possibile di non essere protestanti e di obbedire al magistero senza accettare il Vaticano II (...) Il dilemma è falso, perché si mostra che esiste una terza alternativa. La nostra risposta consiste dunque nel distinguere:

(...) il magistero vivente si dice non in opposizione al magistero passato; esso si dice in opposizione al magistero postumo. Il Magistero vivente è quello del presente, ma anche quello del passato. L'obiezione che ci viene fatta consiste nell'assimilare magistero vivente al magistero presente, e ad opporre questo magistero vivente a quello passato. Questa assimilazione ha luogo perché ci si pone esclusivamente dal punto di vista del soggetto. Non si distingue più tra i due punti di vista: quello della funzione (in cui il magistero vivente è nello stesso tempo presente e passato) e quello del soggetto (in cui il magistero vivente non è che presente). Si confondono i due punti di vista e si riduce così il magistero vivente a quello presente.

Il sofisma che ci si oppone consiste nel confondere i due sensi dell'aggettivo "vivente" attribuito al magistero. Noi diciamo che il magistero vivente ricopre tutto il magistero passato e presente, o ci poniamo così nel giusto punto di vista della costanza di una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l'oggetto. Chi obbietta, si pone dal punto di vista del soggetto e pretende che il magistero vivente coincida esclusivamente col magistero di un individuo in vita al momento presente.

Perché questa confusione? Perché ridurre il magistero vivente al magistero del presente? Perché si è voluto inventare, dopo il Vaticano II, un nuovo magistero. Il magistero è ridefinito, perché ha per obbiettivo quello di esprimere la continuità di un soggetto e non più quella di un oggetto. Continuità di un soggetto, ci dice Benedetto XVI nel discorso del 2005, 'che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino'. Per Roma, il magistero vivente è precisamente il magistero di Benedetto XVI, in opposizione al magistero di san Pio X o di Pio XII. E questo magistero è attuale perché è soggettivo, perché esprime la continuità d'un soggetto. È uno dei presupposti della Tradizione vivente, nel discorso del 2005.

Il magistero non si definisce più in funzione della verità eterna e atemporale della rivelazione (che rimane la stessa passata, presente o futura che sia). Questo nuovo magistero si definisce in funzione del soggetto presente dell'autorità, lui stesso organo di un altro soggetto più fondamentale che è l'unico Popolo di Dio in cammino attraverso il tempo. Il magistero vivente è sempre quello di questo tempo presente, perché si situa in riferimento al Popolo di Dio che vive in questo tempo presente. Il ruolo del magistero è di assicurare la continuità di una esperienza, è lo strumento dello Spirito che alimenta la comunione 'assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa' (Benedetto XVI "La comunione nel tempo: la Tradizione", allocuzione del 26 aprile 2006, L'Osservatore Romano n.18 del 2 maggio 2006, p.12) »

sabato 18 febbraio 2012

Santa Sede- FSSPX - Inopinate e opinabili dichiarazioni del Card Ricard

Riprendo da Le Forum catholique un articolo pubblicato da la Croix, che riporta dichiarazioni che toglierebbero ogni speranza ad una risposta accogliente della Santa Sede nei confronti delle ultime richieste di Mons. Fellay.
Lo faccio con grande rammarico, ma anche con costernazione e disappunto per la poca serietà di comportamento di un porporato della levatura del card Ricard. E continuo a sperare che le sue dichiarazioni siano solo un gran fuoco di paglia, ad uso dei progressisti francesi e non, in fibrillazione per la possibilità di accordo. In ogni caso esse non sono un documento ufficiale né sembra possano corrispondere esplicitamente alla mens del Papa.
Non posso non notare come la redazione dell'intero testo sia infarcita di elementi poco precisi in riferimento allo svolgersi degli eventi ed in uno stile di totale avversione per la Fraternità, purtroppo fin troppo diffusa.


Il card Ricard conferma il disaccordo di Roma con gli integristi.
Il cardinale francese Jean-Pierre Ricard, venerdì 17 febbraio, ha affermato : esiste una "presa d'atto" del disaccordo tra la Chiesa cattolica e i tradizionalisti della Fraternità di San Pio X, perché si ostinano a rifiutare le "grandi affermazioni" del concilio Vaticano II.
« Ci troviamo in una situazione in cui esiste una "presa d'atto" del disaccordo, non soltanto sull'interpetazione dei passaggi dei testi conciliari ma sul concilio stesso e sul magistero (....) dei papi su un certo numero di "grandi affermazioni" conciliari »: questo il giudizio espresso dal vescovo di Bordeaux, presente a Roma in occasione del Concistoro in cui devono esser creati 22 nuovi cardinali.

In settembre la Santa Sede aveva fatto un gesto verso la Fraternità sacerdotale, separata da Roma dal 1988. Le aveva proposto l'accettazione, nel quadro di un "preambolo dottrinale", di "alcuni principi" in vista del suo ritorno nella comunione con la Chiesa cattolica.

Ma da allora, La Fraternità fondata da mons. Marcel Lefebvre non ha accettato l'offerta, fornendo al Vaticano molti documenti l'ultimo in gennaio, mentre il suo superiore, mons. Bernard Fellay, ed altri responsabili esprimevano pubblicamente il loro grande malcontento.

Mons. Fellay, dopo febbraio, aveva preteso che una reintegrazione sarebbe potuta intervenire solo se il loro risoluto rifiuto del concilio fosse stato accettato da Roma. Il concilio Vaticano II ha riconosciuto la libertà religiosa, il rispetto per le altre confessioni cristiane e le altre religioni, evoluzioni catastrofiche all'occhio dei Lefebvriani. Questo rifiuto "non è accettabile", ha insisitito mons. Ricard, che ha partecipato alla pontificia commissione Ecclesia Dei, incaricata dell'esame del dossier integrista.

"IL PAPA E' ARRIVATO AL MASSIMO"

"Il papa è arrivato al massimo, ha fatto molto per avvicinarsi, per accettare un certo numero di condizioni preliminari. Ma è arrivato il momento in cui egli non può accettare che non soltanto si rifiuti il concilio ma che si manifesti il rifiuto dell'insegnamento dei papi successivi, da Giovanni XXIII fino a Benedetto XVI, del catechismo della Chiesa e il codice di diritto canonico."

Poiché questo codice e questo catechismo "sono l'attuazione per il diritto e per la catechesi dell'insegnamento del concilio", egli ha osservato, "Roma dirà loro: la porta resta sempre aperta, ma questa volta bisogna che siate voi a fare un passo avanti e che riprendiate i contatti", ha dichiarato il cardinale francese.

venerdì 17 febbraio 2012

Mons. Athanasius Schneider, La nuova evangelizzazione e la Santa Liturgia. Le cinque piaghe del corpo mistico e liturgico

Quel che la Chiesa ha sempre insegnato e che il nostro cuore desidera.


4° Incontro per l'Unità Cattolica - 15 gennaio 2012

Intervento di Monsignor Athanasius Schneider
Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria d’Astana,
Segretario della Conferenza dei vescovi cattolici del Kazakhstan


Per parlare correttamente della nuova evangelizzazione è indispensabile portare innanzitutto il nostro sguardo su Colui che è il vero evangelizzatore, Nostro Signore Gesù-Cristo il Salvatore, il Verbo di Dio fatto uomo. Il figlio di Dio è venuto su questa terra per espiare e riscattare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato per eccellenza dell'umanità consiste nel rifiuto di adorare Dio, nel rifiuto di riservargli il primo posto, il posto d'onore. Questo peccato degli uomini consiste nel fatto che non si presta attenzione a Dio, nel fatto che non si possiede più il senso delle cose, nel fatto che non si vuol vedere Dio, nel fatto che non ci si vuole inginocchiare davanti a Dio.

Di fronte ad un simile atteggiamento, l'incarnazione di Dio è imbarazzante, ugualmente e di riflesso imbarazzante è la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico, imbarazzante la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle chiese. L'uomo peccatore vuole in effetti mettersi al centro, tanto all'interno della Chiesa che al di fuori della celebrazione eucaristica, vuole esser visto, vuol farsi notare.

È la ragione per cui Gesù eucaristia, Dio incarnato, presente nei tabernacoli sotto la forma eucaristica, si preferisce piazzarLo di lato. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all'altare al momento della celebrazione di fronte al popolo è imbarazzante, perché il viso del prete se ne troverebbe nascosto. Dunque l'immagine del Crocifisso al centro come pure Gesù eucaristia nel tabernacolo similmente al centro dell'altare, sono imbarazzanti. Conseguentemente la croce e il tabernacolo sono piazzati di lato. Durante la celebrazione, chi assiste deve poter osservare in permanenza il viso del prete, di colui a cui piace mettersi letteralmente al centro della casa di Dio. E se per sbaglio Gesù eucaristia è quanto meno lasciato nel suo tabernacolo al centro dell'altare, perché il ministero dei beni culturali persino sotto un regime ateo, ha vietato di spostarlo per ragioni di conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso durante tutta la celebrazione liturgica, gli gira senza scrupolo le spalle.

Quante volte bravi fedeli adoratori del Cristo, nella loro semplicità ed umiltà, avranno esclamato : « Benedetti voi, Monumenti storici! Per lo meno voi ci avete lasciato Gesù al centro della nostra Chiesa. »
È solo a partire dall'adorazione e dalla glorificazione di Dio che la Chiesa può annunciare in maniera adeguata la parola di verità, cioè evangelizzare. Prima che il mondo ascoltasse Gesù, il Verbo eterno fattosi carne, predicare e annunciare il regno, Gesù ha taciuto e ha adorato per trent'anni. Ciò resta per sempre la legge per la vita e l'azione della Chiesa così come di tutti gli evangelizzatori. « È dal modo di curare la liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa », ha detto il cardinal Ratzinger, nostro attuale Santo Padre e Papa Benedetto XVI. Il concilio Vaticano II voleva richiamare alla chiesa la realtà e l'azione che dovevano prendere il primo posto nella sua vita. È ben per questo che il primo documento conciliare è dedicato alla liturgia. In esso il concilio ci dà i seguenti principi: Nella Chiesa e da qui nella liturgia, l'umano deve orientarsi al divino ed essergli subordinato, ed anche ciò che è visibile in rapporto all'invisibile, l'azione in rapporto alla contemplazione, e il presente in rapporto alla città futura, alla quale aspiriamo (cf. Sacrosanctum Concilium, 2). La nostra liturgia terrestre partecipa, secondo l'insegnamento del Vaticano II, al pregustare la liturgia celeste della città Santa, Gerusalemme (cf. idem, 2)

Per questo, tutto nella liturgia della Santa Messa deve servire ad esprimere in maniera più netta la realtà del sacrificio di Cristo, cioè le preghiere di adorazione, di ringraziamento, d'espiazione, che l'eterno Sommo-Sacerdote ha presentato al Padre Suo.

Il rito e tutti i dettagli del Santo Sacrificio della Messa devono incardinarsi nella glorificazione e nell'adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza del Cristo, sia nel segno e nella rappresentazione del Crocifisso, che nella Sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e soprattutto al momento della consacrazione e della santa comunione. Più ciò è rispettato, meno l'uomo di pone al centro della celebrazione, meno la celebrazione somiglia ad un circolo chiuso, ma è aperta anche in maniera esteriore sul Cristo, come una processione che si dirige verso di lui col prete in testa, più una tale celebrazione liturgica rifletterà in modo fedele il sacrificio d'adorazione del Cristo in croce, più ricchi saranno i frutti provenienti dalla glorificazione di Dio che i partecipanti riceveranno nelle loro anime, più il Signore li onorerà.

Più il sacerdote e i fedeli cercheranno in verità durante le celebrazioni eucaristiche la gloria di Dio e non la gloria degli uomini, e non cercheranno di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li onorerà lasciando partecipare la loro anima in maniera più intensa e più feconda alla Gloria e all'Onore della Sua vita divina. Nel momento attuale e in diversi luoghi della terra, sono numerose le celebrazioni della Santa Messa delle quali si potrebbero dire le seguenti parole, inversamente alle parole del Salmo 113,9: « A noi, o Signore, e al nostro nome dai gloria » ed inoltre a proposito di tali celebrazioni si applicano le parole di Gesù : « Come potete credere, voi che ricevete la vostra gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo ? » (Giovanni 5, 44).

Il Concilio Vaticano II ha emesso, riguardo ad una riforma liturgica, i seguenti principi:
  1. Durante la celebrazione liturgica, l'umano, il temporale, l'attività, devono orientarsi al divino, all'eterno, alla contemplazione e avere un ruolo subordinato in rapporto a questi ultimi (cf. Sacrosanctum Concilium, 2).
  2. Durante la celebrazione liturgica, si dovrà incoraggiare la presa di coscienza che la liturgia terrestre partecipa della liturgia celeste (cf. Sacrosanctum Concilium, 8).
  3. Non deve esserci alcuna innovazione, dunque alcuna nuova creazione di riti liturgici, soprattutto nel rito della messa, tranne se ciò è per un frutto vero e certo in favore della Chiesa, e a condizione che si proceda con prudenza sul fatto che eventuali forme nuove sostituiscano in maniera organica le forme esistenti (cf. Sacrosanctum Concilium, 23).
  4. I riti della Messa devono esser tali che il sacro sia espresso più esplicitamente (cf. Sacrosanctum Concilium, 21).
  5. Il latino deve essere conservato nella liturgia e soprattutto nella Santa Messa (cf. Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).
  6. Il canto gregoriano ha il primo posto nella liturgia (cf. Sacrosanctum Concilium, 116).
I padri conciliari vedevano le loro proposizioni di riforma come la continuazione della riforma di S. Pio X (cf. Sacrosanctum Concilium, 112 e 117) e del servo di Dio, Pio XII, e in effetti, nella costituzione liturgica, la più citata è l'enciclica Mediator Dei di papa Pio XII.

Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa, tra gli altri, un principio importante della dottrina sulla Santa liturgia, e cioè la condanna di ciò che chiama archeologismo liturgico, le cui proposizioni coincidevano largamente con quelle del sinodi giansenista e protestantizzante di Pistoia del 1976 (cf. « Mediator Dei », n° 63-64) e che di fatto richiamano le idee teologiche di Martin Lutero.
Perciò già il Concilio di Trento ha condannato le idee liturgiche protestanti, specialmente l'esagerata accentuazione di banchetto nella celebrazione eucaristica a detrimento del carattere sacrificale, la soppressione dei segni univoci della sacralità in quanto espressione del mistero della liturgia (cf. Concilio di Trento, sessio XXII).

Le dichiarazioni liturgiche dottrinali del magistero, come nel caso del Concilio di Trento e dell'enciclica Mediator Dei, che si riflettono in una prassi liturgica secolare, anzi da più di un millennio, costante e universale, queste dichiarazioni dunque, fanno parte di quell'elemento della santa tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in grandi danni sul piano spirituale. Queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, il Vaticano II le ha riprese, come può constatarsi leggendo i principi generali del culto divino nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

Come errore concreto nel pensiero e nell'azione dell'archeologismo liturgico, il papa Pio XII cita la proposizione di dare all'altare la forma di una tavola (cf. Mediator Dei n° 62). Se già papa Pio XII rifiutava l'altare a forma di tavola, si immagini come avrebbe a fortiori rifiutato la proposizione di una celebrazione come intorno ad una tavola « versus populum » !

Se la Sacrosanctum Concilium al n° 2 insegna che, nella liturgia, la contemplazione deve avere la priorità e che tutta la celebrazione della messa deve essere orientata verso i misteri celesti (cf. idem n° 2 et n° 8), vi si trova un'eco fedele della seguente dichiarazione di Trento che diceva: « E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.» (sessio XXII, cap. 5).

I citati insegnamenti del magistero della Chiesa e soprattutto quello di Mediator Dei sono stati riconosciuti senza alcun dubbio anche dai padri conciliari come pienamente validi; di conseguenza essi devono continuare ancor oggi ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa.

Nella lettera indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica unita al Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, il papa fa questa dichiarazione importante: « Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso ». Dicendo questo, il papa esprime il principio fondamentale della liturgia che il Concilio di Trento e papa Pio XII hanno insegnato.

Se si guarda senza idee preconcette e in maniera obbiettiva la pratica liturgica della stragrande maggioranza delle chiese in tutto il mondo cattolico nel quale è in uso la forma ordinaria del rito romano, nessuno può negare in tutta onestà che i sei principi liturgici menzionati dal Concilio Vaticano II sono rispettati poco o niente addirittura. Ci sono un certo numero di aspetti concreti nell'attuale pratica liturgica dominante, nel rito ordinario, che rappresentano una vera e propria rottura con una pratica religiosa costante da oltre un millennio. Si tratta dei cinque usi liturgici seguenti che si possono considerare come le cinque piaghe del corpo mistico liturgico di Cristo. Si tratta di piaghe, perché rappresentano una violenta rottura col passato, perché mettono apertamente meno l'accento sul carattere sacrificale che è quello centrale ed essenziale della messa, mettono avanti il banchetto; tutto ciò diminuisce i segni esteriori dell'adorazione divina, perché esse mettono meno in rilievo il carattere del mistero in ciò che ha di celeste ed eterno.

In ordine a queste cinque piaghe, si tratta di quelle che - ad eccezione di una (le nuove preghiere dell'offertorio) - non sono previste nella forma ordinaria del rito della messa, ma sono state introdotte in modo deplorevole dalla pratica.

La prima piaga, la più evidente, è la celebrazione del sacrificio della messa in cui il prete celebra volto verso i fedeli, specialmente durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro dell'adorazione dovuta a Dio. Questa forma esteriore corrisponde per sua natura più al modo in cui ci si comporta quando si condivide un pasto. Ci si trova in presenza di un circolo chiuso. E questa forma non è assolutamente conforme al momento della preghiera ed ancor meno a quello dell'adorazione. Ora questa forma, il concilio Vaticano II non l'ha auspicata affatto e non è mai stata raccomandata dal magistero dei papi post-conciliari. Papa Benedetto XVI nella sua prefazione al primo tomo della sua Opera Omnia scrive: « l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo. ».

La forma di celebrazione in cui tutti portano il loro sguardo nella stessa direzione (conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche evocata dalle rubriche del nuovo rito della messa (cf. Ordo Missae, n. 25, n. 133 et n. 134). La celebrazione che si dice « versus populum » certamente non corrisponde all'idea della Santa Liturgia tal quale è menzionata nelle dichiarazioni di Sacrosanctum Concilium n°2 e n° 8.

La seconda piaga è la comunione sulla mano diffusa dappertutto nel mondo. Non soltanto questa modalità di ricevere la comunione non è stata in alcun modo evocata dai Padri conciliari del Vaticano II, ma apertamente introdotta da un certo numero di vescovi in disobbedienza verso la Santa Sede e nel disprezzo del voto negativo nel 1968 della maggioranza del corpo episcopale. Solo successivamente papa Paolo VI l'ha legittimata controvoglia, a condizioni particolari.

Papa Benedetto XVI, dopo la Festa del Corpus Domini 2008, non distribuisce più la comunione che a fedeli in ginocchio e sulla lingua, e ciò non soltanto a Roma, ma anche in tutte le chiese locali alle quali rende visita. Attraverso ciò egli donò all'intera Chiesa un chiaro esempio di magistero pratico in materia liturgica. Se la maggioranza qualificata del corpo episcopale, tre anni dopo il concilio, ha rifiutato la comunione nella mano come qualcosa di nocivo, quanti più Padri conciliari l'avrebbero fatto ugualmente!

La terza piaga, sono le nuove preghiere dell'offertorio. Esse sono una creazione interamente nuova e non sono mai state usate nella Chiesa. Esse esprimono meno l'evocazione del mistero del sacrificio della croce che quella di un banchetto, richiamando le preghiere del pasto ebraico del sabato. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa d'Occidente e d'Oriente, le preghiere dell'offertorio sono sempre state espressamente incardinate al sacrificio della croce (cf. p. es. Paul Tirot, Storia delle preghiere d'offertorio nella liturgia romana dal VII al XVI secolo, Roma 1985). Una tale creazione assolutamente nuova è senza nessun dubbio in contraddizione con la formulazione chiara del Vaticano II che richiama « Innovationes ne fiant … novae formae ex formis iam exstantibus organice crescant » (Sacrosanctum Concilium, 23).

La quarta piaga è la sparizione totale del latino nell'immensa maggioranza delle celebrazioni eucaristiche della forma ordinaria nella totalità dei paesi cattolici. È una infrazione diretta contro le decisioni del Vaticano II.

La quinta piaga è l'esercizio dei sevizi liturgici di lettori e di accoliti donne, così come l'esercizio degli stessi servizi in abito civile penetrando nel coro durante la Santa Messa direttamente oltre lo spazio riservato ai fedeli. Quest'abitudine non è giammai esistita nella Chiesa, o per lo meno non è mai stata la benvenuta. Essa conferisce alla messa cattolica il carattere esteriore di qualcosa di informale, il carattere e lo stile di un'assemblea piuttosto profana. Il secondo concilio di Nicea vietava già, nel 787, tali pratiche, redigendo questo canone: « Se qualcuno non è ordinato, non gli è permesso fare la lettura dall'ambone durante la santa liturgia », (can. 14). Questa norma è stata costantemente rispettata nella Chiesa. Solo i suddiaconi o i lettori avevano il diritto di fare la lettura durante la liturgia della Messa. Al posto dei lettori e accoliti mancanti, sono uomini o ragazzi in veste liturgica che possono farlo, e non donne, essendo un dato di fatto che il sesso maschile sul piano sacramentale dell'ordinazione non sacramentale dei lettori ed accoliti, rappresenta simbolicamente il primo legame con gli ordini minori.

Nei testi del Vaticano II, non è fatta alcuna menzione della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato, né dell'introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium n° 28, il concilio fa la differenza tra « minister » e « fidelis » durante la celebrazione liturgica, e sancisce che l'uno e l'altro hanno diritto di fare ciò che loro spetta in ragione della natura della liturgia. Il n° 29 meziona i « ministrantes », cioè gli addetti al servizio dell'altare che non hanno ricevuto alcuna ordinazione. In opposizione a costoro ci sarebbero, scondo i termini giuridici dell'epoca, i « ministri », cioè coloro che hanno ricevuto un ordine maggiore o minore che sia.

Con il Motu proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI afferma che entrambe le forme del Rito romano sono da guardare e trattare con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera che accompagna il Motu proprio, il Papa auspica che le due forme si arricchiscano reciprocamente. Inoltre, auspica che nella nuova forma "appaia, più di quanto non sia avvenuto finora, il senso del sacro che attira molte persone verso il vecchio rito."

Le quattro ferite liturgiche o usi infelici (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano e l'intervento delle donne per il servizio di lettura e quello di accolito) non hanno di per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa e sono inoltre in contraddizione con i principi liturgici del Vaticano II. Se si ponesse fine a questi usi, si ritornerebbe al vero insegnamento del Vaticano II. E allora le due forme del Rito romano si avvicinerebbero enormemente così che, almeno esternamente, non si dovrebbe constatare una rottura fra di loro e, quindi, nessuna rottura tra la Chiesa di prima del Concilio e quella del dopo.

Per quel che riguarda le nuove preghiere dell'Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisca con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria o almeno che permetta il loro uso ad libitum. Così, non è solo esteriormente, ma interiormente, che la rottura tra le due forme sarebbe evitata. La rottura nella liturgia, è appunto quel che la maggior parte dei padri conciliari non ha voluto ; lo testimoniano gli atti del Concilio, perché in duemila anni di storia della liturgia nella Santa Chiesa, non c'era mai stata rottura liturgica e, pertanto, non deve mai essercene. Invece ci deve essere una continuità come deve essere per il Magistero.
È per questo che c'è bisogno oggi di nuovi Santi, di una o più Santa Caterina da Siena. Abbiamo bisogno della "vox populi fidelis" che reclama la soppressione di questa rottura liturgica. Ma il tragico della storia, è che oggi, come al momento dell'esilio di Avignone, una larga maggioranza del clero, soprattutto del clero alto, si accontenta di questo esilio, di questa rottura.

Prima che possiamo aspettarci frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve innanzitutto instaurarsi un processo di conversione all'interno della Chiesa. Come si può chiamare gli altri a convertirsi fino a quando, tra chi la reclama, nessuna conversione convincente a Dio non è ancora avvenuta perché, nella liturgia, non sono sufficientemente rivolti a Dio, sia interiormente che esteriormente? Si celebra il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della fede, l'atto di adorazione più sublime in un cerchio chiuso, guardandosi a vicenda.

Manca la necessaria "conversio ad Dominum", anche esternamente, fisicamente. Perché durante la liturgia si tratta Cristo come se non fosse Dio e non Gli si mostrano i segni esterni chiari di un'adorazione dovuta a Dio solo, non solo nel fatto che i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi ma che la prendono nelle loro mani come un cibo ordinario, prendendolo e mettendolo loro stessi in bocca. C'è il pericolo di una sorta di arianesimo o un semi-arianesimo eucaristico.

Una delle condizioni necessarie per una fruttuosa nuova evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa sul piano del culto liturgico pubblico, osservando almeno questi due aspetti del culto divino, vale a dire:

  1. Che su tutta la terra la Santa Messa sia celebrata, anche nella forma ordinaria, nella "conversio ad Dominum", interiormente e necessariamente anche esternamente.
  2. Che i fedeli pieghino il ginocchio davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come San Paolo lo domanda, evocando il nome e la persona di Cristo (cfr. Phil 2, 10) e che Lo ricevano con il più grande amore e il massimo rispetto possibile, come è suo diritto in quanto Vero Dio.
Dio sia lodato, Papa Benedetto ha iniziato, con due misure concrete, il processo di ritorno dall'esilio avignonese liturgico, attraverso il Motu proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del rito tradizionale per la comunione.

C'è ancora molto bisogno di preghiera e forse di una nuova Santa Caterina da Siena perché seguano gli altri passi, in modo da guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con lo stesso amore, rispetto, senso del sublime che hanno sempre rappresentato la realtà della Chiesa e del suo insegnamento, specialmente attraverso il concilio di Trento, papa Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei, il concilio Vaticano II nella sua costituzione Sacrosanctum Concilium e papa Benedetto XVI nella sua teologia e liturgia, nel suo magistero liturgico pratico e nel Motu proprio citato.

Nessuno può evangelizzare se non ha prima adorato, e parimenti se non adora in permanenza e non dà a Dio, il Cristo Eucaristia, la vera priorità nella maniera di celebrare e in tutta la sua vita. In effetti, per riprendere le parole del card Joseph Ratzinger : « È nel modo di trattare la Liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa ».

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[Fonte: Réunicatho] - Traduzione dall'originale francese di Maria Guarini