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giovedì 31 maggio 2012

L'Ecclesia Dei fa un passo indietro rispetto al passato negando l'adempimento del precetto domenicale a chi assiste a S. Messe in Cappelle affiliate FSSPX (!?)

Importante chiarimento, da Rorate Caeli: La questione sembrerebbe ridimensionata. Ma resta una supposizione. Sta di fatto che l'ED, non avendo motivato il suo parere, non risulta neppure aver fatto le indagini e quindi la comunicazione resta ambigua.
Chiarimento (2100 GMT) : A seguito di nostra richiesta di un chiarimento, siamo stati informati dal Distretto statunitense della Fraternità San Pio X (FSSPX) che la cappella menzionata nella lettera di seguito non è una cappella della Fraternità e che, mentre il suo nome specifico è stato espressamente menzionato dal mittente nei dati cancellati, essa non è inclusa nella lista pubblica di cappelle, anche in quelle altre cappelle individuate pubblicamente come 'Amici della Fraternità San Pio X'. È molto probabile che queste informazioni, facilmente rintracciabili on-line sul sito del Distretto degli Stati Uniti, aabbiano potuto portare qualcuno in Commissione a ritenere che questa cappella specifica, che è amica della FSSPX, ma non elencata da essa e non  uno degli " Amici della Fraternità San Pio X " o "altri luoghi tradizionali (non-Fraternità San Pio X)", è un luogo senza alcuna affiliazione alla FSSPX e ha portato a questa valutazione diversa da parte della Commissione.


Rorate Caeli ha pubblicato poco fa, per notizia, quanto ripreso da Queen of Martyrs Press, che sintetizzo nei seguenti termini:

[...] Queen of Martyrs Press ha ricevuto copia della risposta, datata 28 marzo 2012, della Pontificia Commissione Ecclesia Dei  ad una richiesta rivolta da un fedele il precedente 19 febbraio... La risposta è un'apparente un'inversione di 180° dalle precedenti risposte rese pubbliche dalle autorità romane, tra cui quella della Pontificia Commissione Ecclesia Dei (link ai precedenti [1] e [2]), per quanto riguarda l'adempimento del precetto di assistere alla Santa Messa in cappelle affiliate alla Fraternità San Pio X. Ciò che è interessante in ordine alla data della risposta è che essa è stata scritta 12 giorni dopo la scadenza richiesta a Mons. Fellay di chiarire la sua posizione sul preambolo dottrinale. 

(Q-of-M.  precisa che la notizia viene data unicamente a scopo informativo e non si pronuncia sulla posizione della Commissione Pontificia)

Inserisco l'immagine della Lettera. Segue commento.
Ai tempi in cui presiedeva la Commissione ED il cardinale Dario Castrillon Hoyos, erano state formulate tre domande, alle quali mons. Camille Perl dette risposta chiara ed esplicita :
  1. Posso adempiere il precetto domenicale, frequentando una Messa San Pio X ?
  2. Risposta di Mons. Perl (18 gennaio 2003):
    In senso stretto lei può adempiere al suo obbligo domenicale assistendo ad una messa celebrata da un sacerdote della Società San Pio X
  3. È un peccato per me partecipare a una Messa Pio X ?
    Risposta di Mons. Perl:
    Abbiamo già detto che non possiamo raccomandare la vostra partecipazione a tale messa spiegando il motivo. Se il motivo principale per la partecipazione è quello di manifestare il suo desiderio di separarsi dalla comunione con il Romano Pontefice e di coloro che sono in comunione con lui, sarebbe un peccato. Se la sua intenzione è semplicemente quella di partecipare ad una Messa secondo il Messale del 1962 per motivi di devozione, questo non è un peccato.
  4. È un peccato per me contribuire alla raccolta durante la Messa domenicale presso la San Pio X ? Risposta di Mons. Perl:
    Un modesto contributo alla raccolta durante la Messa sembra possa essere giustificato
Non possiamo fare a meno di chiederci: a che gioco stanno giocando, all'Ecclesia Dei? Non lo dico solo nei confronti della Fraternità, ma di tutta la Tradizione.

Il Parroco di Poggiorenatico salva il "Santissimo" dalle macerie

Cogliamo l'occasione per rivolgere il nostro pensiero e la nostra preghiera agli amici emiliani che in questi giorni stanno vivendo la paura, la precarietà, le difficoltà, il pericolo e per ricordare uno degli episodi edificanti segnalati dal Corriere. Ci auguriamo che che la rete di solidarietà e di interventi che già si è costituita si allarghi, accompagni la situazione difficoltosa e contribuisca ad avviare a soluzione quanto è possibile.

Notare le vistose crepe sul campanile
(su Il Correre della Sera del 24-05-2012) POGGIO RENATICO (Ferrara) – Vive per strada, dorme dal macellaio del paese e di tanto in tanto entra in chiesa, la sua chiesa, quella di San Michele Arcangelo, patrono di Poggio Renatico. [La Chiesa è stata danneggiata all'interno ma, a differenza di molte altre è ancora in piedi -ndR].

Don Simone Zanardi è il parroco sfollato di questo terremoto dell’Emilia. Quella notte ha perso in un colpo solo la casa e la chiesa ma lui non vuole saperne di abbandonarla e allora rimane lì, seduto sulle panchine di questa grande piazza dell’abbazia dove la gente si ritrova ancora nonostante le macerie.

«Non so dove altro andare, francamente, e comunque mi fa piacere stare con loro». Non ha nemmeno quarant’anni ma è già un abate-parroco perché quella di San Michele Arcangelo è anche un’abbazia.

Domenica mattina, dopo che la chiesa era stata bloccata e nessuno poteva più entrare, lui se n’è infischiato e saltellando fra le rovine è arrivato al Tabernacolo per prendere il Santissimo: «Ho voluto salvarlo. L’ho portato a San Pietro in Casale dove la struttura è solida». Tutti lo salutano, tutti gli sorridono. «Forza don Simone». «Grande don». Sono le otto di sera. Ancora un’oretta di piazza e poi a letto. Lo aspetta il macellaio.A.P

Don Simoulin aggiorna il suo editoriale di giugno. Importanti puntualizzazioni

Don Michel Simoulin, maggio 2012
Questa integrazione fa seguito all'Editoriale del Seignadou di giugno 2012 e completa le riflessioni dell'Editoriale di maggio.

Al fine di rassicurare coloro che considerano approssimativa la mia affermazione che « Non è per una questione dottrinale né su quella dello statuto offerto alla Fraternità, ma sulla data della accordata consacrazione del vescovo che il processo si è arrestato », aggiungerò alcune precisazioni. 

Innanzitutto, è noto che la grande preoccupazione di Mons. Lefebvre nel 1987-1988 era quella della sua successione. Affermare ciò non significa che egli non avesse altre preoccupazioni, tra le altre dottrinali. I suoi reiterati interventi all'epoca della visita del papa alla Sinagoga o all'epoca della riunione di Assisi sono là per testimoniarlo. Ma, superati gli 80 anni, Monsignore voleva passare la fiaccola ad un altro vescovo atto a continuare la sua opera e la sua battaglia. Ora, all'epoca, eccetto Mons de Castro-Mayer in Brasile, nessun vescovo aveva manifestato l'intenzione di seguirlo. Dunque, bisognava consacrarne uno preso tra i suoi preti. È questa eventualità annunciata all'epoca dell'omelia durante le ordinazioni del 1987 che aveva provocato la reazione di Roma. Ed il Cardinale Ratzinger aveva lasciato intravedere allora la possibilità di procedere ad una tale consacrazione episcopale. Lo dimostra questa lettera del 15 aprile 1988: « Il fatto di avere un successore nell'episcopato mi rallegra vivamente e ne ringrazio il Santo Padre e voi stesso. Un solo vescovo è appena sufficiente allo scopo, non sarebbe possibile averne due o, almeno, che sia prevista la possibilità di aumentarne il numero tra 6 mesi o un anno?

Il protocollo del 5 maggio considerava ancora questa possibilità: « Per ragioni pratiche e psicologiche, sembrerebbe opportuna la consacrazione di un vescovo membro della Fraternità. Perché, nel quadro della soluzione dottrinale e canonica della riconciliazione, suggeriamo al Santo Padre di nominare un vescovo scelto nella Fraternità, su indicazione di Mgr Lefebvre ». È questa speranza di ottenere un vescovo che ha condotto Monsignore a dare la sua firma ad un testo che giudicava peraltro molto insufficiente.

Questa, tuttavia, rimaneva non più che una semplice eventualità. E, così come indicò nella sua lettera del 6 maggio Monsignore si ricordava delle esitazioni del cardinale a fissare una data per questa consacrazione: « Le reticenze espresse a proposito della consacrazione episcopale di un membro della Fraternità, sia per iscritto, che a viva voce, mi fanno temere legittimamente i rinvii. [...] La delusione dei nostri sacerdoti e dei nostri fedeli sarebbe grandissima. Tutti si augurano che questa consacrazione si realizzi con l'accordo della Santa Sede, ma già delusi per le precedenti dilazioni, non comprenderebbero se accettassi un nuovo termine. Sono innanzitutto coscienti e preoccupati di avere dei veri vescovi cattolici che trasmettano loro la vera fede e comunichino loro in modo certo, le grazie di salvezza alle quali aspirano per sé e per i propri figli »

Non era tanto la data del 30 giugno che importava, ma la certezza di poter procedere a questa consacrazione. È il senso di questa lettera scritta al cardinale la mattina del 6 maggio (una bomba, dice, consegnandola a don du Chalard, incaricato di portarla a Roma). Mons. Lefebvre voleva sperare ancora una risposta positiva, pure essendo già quasi sicuro di un rifiuto, ciò che si è verificato.  È dunque Monsignore che ha provocato questa interruzione dei colloqui, ma non è lui che l'ha decisa. Ciò spiega perché poi se ne sia attribuita la responsabilità. Il cardinale nella sua risposta ha confermato che Roma non era decisa ad accordare questo vescovo, e mise fine ai colloqui. Ciò era previsto, considerato, etc... ma quando si è trattato di venire al dunque, Roma è venuta meno. È facile promettere, meno facile mantenere la promessa, e Monsignore ha dunque giudicato che non poteva correre il rischio di aspettare ancora e di morire forse senza successore. Ha quindi consultato i superiori di comunità religiose amiche, ha preso consigli da molti, ma non ha giudicato opportuno riunire il capitolo generale della Fraternità. La decisione da prendere riguardava solamente il suo ruolo di vescovo, e nessuno gli ha contestato di prenderla da solo.

Nelle sue ultime settimane di malattia, diceva di essere in pace. Mentre in un'altra occasione, quando doveva essere ricoverato, era inquieto per il seguito, questa volta diceva essere tranquillo:  Adesso, sono in pace, tutto è a posto e tutto funziona. Avete tutto ciò che occorre, seminari, priorati, e quattro vescovi, non avete più bisogno di me.

Oggi, Roma ha riabilitato i nostri quattro vescovi. Il timore che aveva Mons. Lefebvre nel 1988 non ha dunque più ragione di esserci. Dobbiamo accettare o dobbiamo rifiutare ciò che egli aveva accettato allora? Dobbiamo essere più esigenti, meno esigenti? Se accettiamo ciò che Monsignore aveva accettato, saremo prigionieri o liberi di continuare la sua opera e la sua azione? Se rifiutiamo, saremo fedeli alla nostra vocazione prioritaria?

Spetta ai nostri superiori giudicare ciò e decidere. In quanto a noi, è senza dubbio più importante pregare e rimanere molto uniti dietro di loro, fedeli e fiduciosi. Riuniti intorno alla Vergine Immacolata, unanimi nella preghiera come erano gli Apostoli, dobbiamo pregare per tutti i nostri superiori, il Papa in primo luogo e Mons. Fellay. Potremo sperare allora che lo Spirito Santo potrà agire per il bene della chiesa, non secondo le nostre corte vedute umane ma secondo quelle di Dio.

N.B.1. Ogni genere di autorità viene da Dio, e da Dio solo: Non est potestas nisi a Deo (Rom)., XIII.) Sì, ogni specie di autorità viene di Dio:  autorità sacerdotale, autorità regale, autorità legislativa, autorità giudiziale, autorità paterna: Non est potestas nisi a Deo." (Mons Gaume. Questo principio dell'origine di ogni autorità è stato ricordato molto da Leone XIII, Immortale Dei, e da San Pio X, (Notre charge apostolique), tra gli altri. I sottoposti possono designare la persona che riceverà di Dio l'autorità, ma non possono dargli questa autorità che non appartiene loro. Questo principio che si applica alla società civile, si applica anche alla chiesa, e dunque anche ad ogni società religiosa o sacerdotale, come ad ogni famiglia? Un Conclave, un capitolo generale potrà designare colui che governerà la comunità che rappresenta, ma non può dargli l'autorità su questa, né ritirargliela, né pretendere di avere più autorità di lui. Non più di quanto il Papa non sia sottomesso al Concilio, un superiore religioso non è sottomesso al suo capitolo o un padre di famiglia ai suoi figli. Questo sarebbe rinnovare l'eresia conciliarista che vuole che il concilio abbia più autorità del papa, principio di ogni rivoluzione che si ritrova nella collegialità conciliare, e che potrebbe sedurre i nostri spiriti pronti ad ogni contestazione. Che Dio ce ne preservi.

N.B.2. Posso ancora aggiungere, come meglio di me ha fatto Pio XII ( Mystici corporis) che la chiesa non è una realtà disincarnata, puramente spirituale o « pneumatica ». La chiesa prolunga il mistero del Verbo Incarnato e, se la sua realtà divina è la sorgente di tutti i suoi privilegi di santità, essa vive nell'ordine dell'incarnazione, ferita nei suoi membri umani. La chiesa che serviamo e che amiamo è la chiesa come si incarna oggi. Se ammettiamo che Benedetto XVI è il Papa, la chiesa nella quale crediamo, che amiamo, che serviamo è la chiesa di Gesù Cristo il cui vicario è Benedetto XVI. Quando parliamo di chiesa conciliare, designiamo questa parte umana della chiesa infettata dal veleno delle idee conciliari. Non può trattarsi della Santa Chiesa cattolica, che amiamo e vogliamo spogliare di questa « crosta »  umana malsana, per renderle il suo volto, riflesso del volto del « buon Dio » Gesù Cristo.

mercoledì 30 maggio 2012

Aggiornamento sulle dichiarazioni di Mons. Fellay a Pentecoste

Aggiornamento da DICI:   [Il resto è leggibile qui]

Intervista : “ Ci sono dei rumori che circolano ma la cosa ufficiale è che i cardinali ed i vescovi della Congregazione della Fede hanno esaminato il testo proposto da me. È tutto, non so altro. Hanno detto che lo avevano consegnato al Santo Padre, che il Santo Padre avrebbe preso una decisione. Nel medesimo documento si dice anche che ne avrebbero riparlato con me, che ci sono delle precisazioni, delle domande da fare. È tutto quello che so, come voi, dalla stampa. Non so niente di più, né riguardo ai tempi né riguardo alla sostanza. Si può dire che è tutto ancora aperto. Evidentemente mi pare proprio che da qualche mese ci sia una linea, di cui si parla, che il Papa voglia darci una normalizzazione, un riconoscimento canonico ma accompagnato da quali condizioni? Mi pare che da qualche mese tutti gli interrogativi riguardino questo problema. Infine, se stimiamo che le condizioni siano sufficienti perché possiamo vivere, continuare a vivere, ebbene diremo di sì; se non ci permettono di vivere, o se esigessero che perdiamo la nostra identità o tutto ciò che ha costituito la nostra forza e tutto ciò per cui possiamo apportare qualcosa alla Chiesa, oggi, vale a dire la Tradizione, allora non ne vale la pena. Tutto si riduce a questo interrogativo, che è ancora aperto. Aspettiamo la risposta da Roma. Non so quando. Alcuni dicono presto. Padre Lombardi sembra dire che sarà differita senza sapere però fino a quando. Dunque resto in attesa.”

Come agisce la discontinuità? Con un discorso fluido e mai definitorio. Parole nuove che velano l’antica Sapienza

Il compito di svelare le sorgenti non è solo del Poeta ma anche del Testimone.
E soprattutto del Maestro.

Dice il filologo: “La parola è come l'acqua di fonte, un'acqua che ha in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata”. Le parole hanno il loro peso e incidono nella comunicazione e quindi nella conoscenza nella misura in cui sono portatrici e veicolano tutto lo spessore della realtà che significano. Nella nostra epoca oscura e caratterizzata da confusione e disorientamento anche le parole hanno perso la loro pregnanza, non sono più feconde luminose e incandescenti del fuoco originario della Verità, ma diffondono il pallido chiarore lunare di un significato originario attenuato, diluito o spesso addirittura sovvertito. Molte di esse addirittura sono sparite dall'orizzonte della fede annunciata e trasmessa alle nuove generazioni. Basti pensare a termini come espiazione, vittima, sacrificio, redenzione.

La studiata ma colpevole strategia modernista ha usato la dichiarata non-dogmaticità del Concilio Vaticano II come varco per introdurre nella Chiesa novità dottrinali attraverso la ‘pastorale’; con l'accortezza, quindi, di non intaccare de voce il Depositum fidei, ma operando de facto la sua mutazione attraverso un linguaggio affascinante e coinvolgente, sentimentale e soggettivista, centrato sull'uomo e sulla sua “nuova consapevolezza” della Chiesa, fondata sul personalismo e non più sulla Rivelazione. Un linguaggio non definitorio per scelta perché solo rimanendo in bilico sul dire e non dire si possono veicolare alcune interpretazioni piuttosto che altre.

Ed è così che la Tradizione da viva perché evolutiva è diventata “vivente”, nel senso storicistico di cangiante a seconda delle contingenze che attraversa nel tempo. Il rischio, terribile, è che si usino le stesse parole per veicolare significati totalmente diversi: basti pensare al concetto di redenzione ad esempio... Se non si parla nemmeno più del peccato originale da che cosa da parte di Chi e in che modo avviene la nostra redenzione? Come possiamo conoscere e vivere che siamo stati riscattati a caro prezzo se persino dei vescovi possono affermare che "Cristo è morto solo per un grande atto di solidarietà" o che dobbiamo oltrepassare la concezione “doloristica” vista come eredità del Tridentino o della mistica medioevale; il che significa rinnegare la Croce e la sua dirompente forza, l'unica che scardina il Male dalle radici perché nasce da un "fiat" totalmente e liberamente orientato alla Volontà del Padre?

Riformare Roma con Roma

Il Concilio - fu proclamato e poi ripetuto - è stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi d’azione e di apostolato è diventata così la forma del Magistero per eccellenza. 

Mentre nel corso dei secoli, la Chiesa “ha parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale”, già nel periodo pre-conciliare negli ambienti accademici e anche in quelli mediatici si afferma il dominio della filosofia marx-hegeliana. Nel linguaggio comune appaiono termini mutuati da quelle idee immanentiste, quali “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si afferma una visione dialettica che si esprime in nuove parole d’ordine: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. La vera matrice ideologica del fenomeno è quella illuminista “del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste”.[1]

È la cultura progressista degli anni Sessanta che ha esercitato il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti della necessità di  cambiare atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per cogliere il positivo della modernità. È la tesi di Yves Congar, che fu uno degli antesignani della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. Si attesta con lui la convinzione che la Chiesa, condannando gli errori, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento le istanze positive in essi presenti: le cosiddette istanze “esigenziali”. È da qui che nasce il proposito di cambiare la Chiesa dall’interno, mediante “una riforma senza scisma”. Si realizza il sogno modernista di Ernesto Buonaiuti: “Fino ad oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.

Aprire la gabbia del linguaggio

Appare in tutta evidenza la prima immediata conseguenza: il cambiamento di linguaggio, e quindi di prospettiva, in cui la chiesa si pone. La chiesa si autocomprende al servizio della parola rivelata e come mediazione di essa nel mondo. La chiesa è pellegrina con l’uomo del suo tempo, per lui rappresenta la «compagnia della fede» nella ricerca della autentica volontà di Dio che spazia e agisce mediante il suo Spirito anche fuori i confini istituzionali della chiesa cattolica (LG 8: EV 1/304-307). GS 44. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l'aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta. (EV 1/1461).

Appare molto eloquente l'annotazione che fa Mons. Rino Fisichella, su L'Osservatore Romano del 21 gennaio 2011, a proposito della “Nuova evangelizzazione”, il cui dicastero egli aveva appena assunto:
« L'esigenza di un linguaggio nuovo, in grado di farsi comprendere dagli uomini di oggi, è un'esigenza da cui non si può prescindere, soprattutto per il linguaggio religioso così improntato a una specificità tale da risultare spesso incomprensibile. Aprire la "gabbia del linguaggio" per favorire una comunicazione più efficace e feconda è un impegno concreto perché l'evangelizzazione sia realmente nuova. »
In una successiva intervista al Corriere Fisichella pone come denominatore comune “tornare all'essenziale”, ma egli non pronuncia le parole chiare e forti di un Pastore che sa già quello che deve insegnare; ma piuttosto di uno che ‘democraticamente’ deve impararlo o scoprirlo insieme a movimenti et alii.
Del resto è questo il volto della Chiesa, oggi. Cosa potremmo aspettarci di diverso?

Tornare all'essenziale dovrebbe significare, invece, nella sostanza:
  1. tornare ad insegnare la retta dottrina della Chiesa (non più catechesi ridotte a incontri socializzanti o a cammini a tappe con contenuti giudeo-luterano gnostici, o manifestazioni di creatività sganciata da ogni regola);
  2. ritrovare la sacralità e soprattutto i ‘significati’ corretti della Liturgia, secondo le norme della Chiesa, perché è in essa che il Signore Opera e ci salva e ci trasforma; la Grazia del Sacramento della Penitenza dove ci attende l'inesauribile pazienza di Dio; l'insostituibile ricchezza dell'Adorazione.
  3. riscoprire il valore della testimonianza e della tensione etica... ma senza la Grazia che ci divinizza e che giunge a noi tramite i Sacramenti, non potremmo mai conoscere Cristo Signore e non potremmo vivere in maniera evangelica, perché è solo un cuore ‘redento’ dal Signore che compie le opere della fede, altrimenti si resta fermi a quelle della legge o, peggio, si vive senza punti di riferimento.
Le strategie e gli arcani del cammino neocatecumenale

Chissà come intendono “aprire la gabbia del linguaggio” dalle parti del Pontificio Consiglio per i Laici o della Congregazione per la dottrina della Fede a proposito del Direttorio Neocatecumenale appena approvato, coacervo di diversi volumi, del quale è legittimo affermare:  ...che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, perché contiene l’Arcano e per questo non viene pubblicato! Può esistere una sorta di ‘catechismo’ cattolico non a disposizione di tutti i credenti che volessero conoscerlo o di chi aderisce al movimento che lo usa? Eppure molte diocesi hanno attuato la cosiddetta “conversione pastorale” a questo metodo chiavi in mano, nelle mani esclusive di iniziatori e catechisti, loro pedissequi ripetitori ed esecutori per quanto concerne le rigide ‘prassi’, persino quelle che violano il “foro interno” delle persone,  costrette a rivelare in pubblico i loro segreti più intimi.[2]

Si usa il nuovo lessico per definire nuove prassi: la conversione  è ri-orientamento del cuore e della vita al Signore, mentre la CEI per conversione pastorale intende “cambiamento di rotta” in senso pastorale, cioè di prassi con la quale si vuole formare e condurre il popolo dei fedeli: significa che la Chiesa intende cambiare rotta e prassi? Ma, in questo caso, la “conversione” avviene nei confronti di un “metodo” – che fa di sé un assoluto e che purtroppo si identifica col Signore – non nei confronti del Signore.

Riguardo alle sue catechesi e alle sue prassi, ad esempio, il Cammino neocatecumenale, continua a magnificare l'arcano, e conosciamo tutti la differenza tra “ascoltare” e “leggere”, che si continua a sottolineare, come se la “sorpresa” di ciò che accade ne giustificasse l'efficacia... ma non è lo Spirito che opera nell'annuncio? Che bisogno c'è di strategie, di metodi psicologici manipolatori o di arcani? Quello che conta è se nelle parole annunciate e nel cuore di chi le pronuncia c'è Verità che è una Presenza: quella del Signore... e allora le parole possono cambiare. Anzi, se sono parole autentiche non schemi rigidi, come accade in questa realtà ecclesiale, di fatto cambiano per ogni situazione a seconda del bisogno di chi ascolta, non del progetto di chi addottrina... E può esistere nella Chiesa cattolica una catechesi  ed una prassi che continua a rimanere ‘segreta’, ma è di fatto utilizzata per la “nuova evangelizzazione”? 

L'insegnamento cristiano non è una dottrina né un fare gnostico e anche molto ebraico; è un incontro, un fatto, ma è soprattutto la narrazione e quindi la condivisione di un evento che le parole di Salvezza provocano per effetto dello Spirito e della buona volontà di accogliere e operano nella semplicità... non c'è bisogno di creare l'atmosfera, il clima, i canti, l'emozionalità esasperata, quei questionari, quella catechesi, quel percorso a tappe uguale per tutti, quei martellamenti... Se il cuore non assapora il Sacro Silenzio da cui le parole scaturiscono e nel quale prendono vita, gli ammaliati staranno tanto bene (momentaneamente, resta da vedere alla distanza), ma al cuore non succede nulla, rimane nella ‘morte’ anche se l'allegria lo frastorna, lo scuote e lo inganna.

E neppure c'è bisogno di “Aprire la gabbia del linguaggio” per favorire una comunicazione più efficace e feconda e un impegno concreto perché l'evangelizzazione sia realmente nuova, come dicono i nuovi ‘guru’ dell'evangelizzazione che vanno per la maggiore.

Si possono cambiare tutti i linguaggi del mondo, ma se nel comunicare dei parlanti manca la Parola Viva, che è il Signore (e che è quella che rende veri parlanti), allora c'è bisogno di trovare strategie comunicative e linguaggi nuovi... invece il linguaggio dell'Amore è uno solo ed è sempre quello. Servono solo veri parlanti portatori della Presenza del Verbo, che sappiano tirar fuori dal tesoro del loro cuore, per ogni situazione cose vecchie (la Rivelazione ricevuta) e cose nuove (l'attualizzazione necessaria per il momento che si sta vivendo), che il Signore ogni volta fa germogliare come “ruscelli d'acqua viva”, che portano la Sua Vita qualunque situazione e qualunque cuore ‘tocchino’.

Il problema dell'«ermeneutica»

Se la nostra fede cristiana - e cattolica - è rationabile obsequium ed è una fides quaerens intellectum, essa esige di essere pensata in termini teoretici, cioè in termini di verità essenziale. Invece il prassismo o il fenomenismo insiti nella pastorale conciliare non consentono – proprio perché tali – di pensarla in termini di verità.

Per risolvere la dicotomia esistente nella Chiesa a questo riguardo molto dipende dal problema metodologico dell’approccio all'ermeneutica, così sentita e invocata da tutti, ma fortemente legata all'approccio ai testi conciliari e alle loro ricchezze e/o asperità secondo la forma mentis dell'interprete. Se non si acquisisce consapevolezza di questo, si rischia di protrarre i dibattiti all'infinito senza giungere a soluzioni condivisibili e finalmente condivise.

In sostanza il problema su quali categorie di pensiero sono obiettivamente idonee ad argomentare per scoprire il vero empirico o essenziale o per pensare il vero accolto mediante la fede è già stato affrontato tanto dall’enciclica Pascendi, che pone a tema il nucleo filosofico del modernismo (individuato nell’agnosticismo fenomenistico), e successivamente dall'enciclica Humani generis, che sottolinea, contro la nuova teologia, l'inconciliabilità con il dogma cattolico dell'idealismo, dell'immanentismo, del materialismo e dlel'esistenzialismo. Inoltre l’enciclica Fides et ratio, al n. 83, afferma: « … Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione ».

I dibattiti che si infittiranno in occasione del triennio di celebrazioni dei 50 anni del Vaticano II, a partire da ottobre 2012, al pari di quelli svoltisi finora, risulteranno prevedibilmente rigorosamente paralleli (apologeticamente acritici o criticamente propositivi) rischiando di protrarsi all'infinito e senza costrutto. L' asse principale intorno al quale girano tutte le discussioni è l'ermeneutica. Molti fedeli interpreti dello “spirito del concilio” insistono sulla impossibilità di dissociarsi e dunque opporre la lettera e lo spirito del concilio stesso perché, sostengono, ciò è coerente con l'opzione fondamentale che ha caratterizzato la sua forma di espressione “epidittica” cioè il suo “carattere pastorale”, che ha implicato l'uso di un linguaggio dialogico ed esortativo anziché “apodittico”, cioè dimostrativo. Si è privilegiata la ‘descrizione’ mettendo insieme una serie di elementi la cui coesione, alla fine, si rivela apoditticamente artificiale, estromettendo la ‘dimostrazione’ e quindi la ‘prescrizione’. Il risultato, paradossale, è che ora ci si trova di fronte ad un insieme che ha fatto della sua disinvolta ‘descrittività’ con intenti pastorali qualcosa di intoccabile e rigidamente prescrittivo. Un ingranaggio, che non esiterei a definire perverso e difficilmente smontabile finché ci saranno molti improvvidi custodi ad ungerne le ruote.

Fermarsi ad una visione del genere porterebbe all'impossibilità di far chiarezza nella confusione, che ormai regna sovrana, anche perché chi ci è dentro mani e piedi neppure se ne accorge, anzi ci si avviluppa sempre di più.

D’altra parte, se alcuni documenti e atti pongono problemi, perché vi sarebbe obbligo di ignorarli? Rilevare problemi significa incontrare domande che esigono risposte. Ogni opportunità per porre a tema fatti e questioni non può che essere considerata come propizia per l’esigenza di intendere – e quindi di penetrare intellettualmente – andando al di là di ogni opinare. Cercare le risposte, in termini di verità – con sagacia ed con accuratezza, con generosità e con coraggio – costituisce, a ben vedere, l’unica strada autentica, ovvero razionale e teologale, per soddisfare l’esigenza di capire e quindi anche quella di rendere ragione, sotto il profilo storico filosofico e teologico, prima ancora che con le parole.[3]
__________________________
1. Roberto de Mattei, Relazione al Convegno di Roma sul Vaticano II sotto il profilo storico - filosofico - teologico, 16-18 dicembre 2010
2. “Conversione pastorale” viene indicata dal Documento CEI per il primo decennio del nuovo millennio “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”.  Un saggio significativo sul tema qui
3. Ibidem

martedì 29 maggio 2012

Francesco Agnoli, Scandali e fede

L'articolo di Francesco Agnoli che fa un'analisi credente della situazione, può essere perfettamente integrato dalle parole di Vittorio Messori, riferite al Papa:
...Addolorato, certo, e lo ha detto senza esitare davanti a tanti fatti penosi. Ma è un dolore che non scalfisce in alcun modo la sua convinzione che, per quanto facciano gli uomini di Chiesa, per quanto pecchino gli uomini dell'Istituzione, mai riusciranno a scalfire ciò che conta. La fede, cioè, nell'Innocente per antononasia che proprio i giorno di Pentecoste ha iniziato la sua marcia missionaria nel mondo intero. Ciò che conta, ha detto una volta, è la perla, non lo sgraziato involucro.

La Chiesa è travolta dagli scandali: dopo la pedofilia, gonfiata quanto si vuole, certo mondo gode a far conoscere altre miserie. Miserie di uomini di Chiesa intrallazzoni, carrieristi, faccendieri… povera gente, che ha anche lei il suo significato nell’economia della salvezza: mettere alla prova e fortificare la fede di chi, in qualche modo, riesce a conservarla, come un lumicino colpito dal vento del laicismo e da quello, molto più pericoloso, delle infedeltà dei credenti. Immagino i poveri discepoli di fronte a Cristo prigioniero prima e crocifisso poi. Si saranno scandalizzati a venderne l’impotenza. Si saranno sentiti traditi, abbandonati.

Ebbene quel Cristo che si lasciò imprigionare dalla soldataglia, schiaffeggiare e sputacchiare da tanti, si lascia anche oggi incarcerare dalle mene e dalla malvagità di tanti cattolici, di tanti ecclesiastici, anche molto in alto, forse anche per metterci alla prova come mise, un tempo, i suoi discepoli: voi credete in me? Credete nella mia Chiesa, “una, santa, cattolica ed apostolica”? Sì, scandalizzati, arrabbiati, confusi, crediamo. Perché conosciamo la miseria prima di tutto di ognuno di noi, e chi conosce un poco il proprio peccato, si scandalizza meno di quello degli altri; mentre chi è sempre pronto a salvare se stesso, perdona molto di rado gli altri. Crediamo, perché chi vuole, scorge lo stesso, dietro tanto male, il bene che ancora la Chiesa fa per tanti corpi e per tante anime; perché chi vede e conosce la miseria di tanti pastori, vede nel contempo anche, se vuole, che la dottrina della Chiesa rimane l’unico spiraglio di luce nelle tenebre fitte della modernità. 

Conosco per esperienza di cosa sono capaci certi sacerdoti; conosco a quali menzogne possono arrivare certi cattolici, che magari scrivono sui giornali; so bene a quali bassezze giungono persone che sembrerebbero dedite ad “opere buone”… Ma so anche che i pulpiti che per primi si lanciano nelle accuse, sono, sovente, sepolcri imbiancati, che nascondono vermi e putredine. Prendiamo il libro di Gianluigi Nuzzi. Non lo compererò mai, per non finanziare certe operazioni; perché non ritengo necessario, né per me né per il miglioramento del mondo, leggere di tante povertà umane. 

Ne ho letto solo un estratto, su Corriere Sette, e alla fine mi sento di condividere alcuni pensieri espressi da Francesco Colafemmina sul suo salace Fides et forma. Con lui condivido l’idea secondo cui molti documenti sono usciti non per un disegno di qualche tipo, ma come ribellione di persone che vivono con angoscia certe atmosfere e certi comportamenti. Scrive Colafemmina: “E mi si parlava da tempo - a me che conto quanto il due di picche - di documenti scottanti, documenti che raccontano gli episodi più impensabili. Li si voleva rendere noti non certo per innescare guerre sante fra cordate cardinalizie, ma per destare una Chiesa sclerotizzata dal sonno dell'indifferenza, dalla garanzia dell'impunità, dal culto del clericalismo autoreferenziale. E per questo più che di accuse e indagini basterebbe, a mio modestissimo parere, un mea culpa, un mea culpa forse non proclamato davanti ai media, ma vissuto attraverso una azione di governo a tutti i livelli più decisa e coerente con il Vangelo”. 

Ma dopo le pagine sui segreti vaticani svelati, sempre sullo stesso numero di Corriere Sette, c’è un altro articolo, di Mario Suttora. Si intitola: “Pio XI fu assassinato dal padre di Claretta Petacci?”. In esso si ipotizza, con argomenti convincenti, la possibilità che Pio XI sia stato ucciso per la sua posizione avversa, oltre che al comunismo, anche al nazismo. Per le sue denunce coraggiose. Ecco, questo articolo mi ricorda di guardare anche al libro di Nuzzi con la lucidità di chi, per mestiere, insegna storia. Di chi, dovendo bilanciare i pro e i contro, non può che osservare un fatto: che il male esiste ed esisterà sempre nella storia, persino nel cuore dei papi; però è solo nella Chiesa che accade qualcosa di straordinario: che uomini limitati e miseri, come siamo, compiano opere immense. Che i santi camminino insieme agli altri. 

Pio XI sfidò i mostri dell’ateismo novecentesco, e come lui Pio XII, come nessun’altro seppe fare. I pontefici per primi compresero l’intrinseca malvagità del comunismo, quando ancora non aveva fatto un morto; per primi denunciarono la barbarie del nazionalismo. Cristiani, e non per caso, sono stati e sono gli eroici nemici delle dittature disumane: da Solgenitsyn ai ragazzi della Rosa Bianca, da Armando Valladares a Cuba a Xiaobo e Chen in Cina… 

La Chiesa, ancora oggi, a ranghi ridotti quanto vogliamo, è rimasta l’unica a lottare per i diritti veri dei bambini e della famiglia, mentre la cultura contemporanea, assedia e cerca di distruggere ciò che resta di umano e di civile nella nostra civiltà. E allora, alla malora gli intrallazzoni, preti, vescovi o cardinali che siano. Esiste ancora un popolo, come quello festante e virile che ho conosciuto a Roma il 13 maggio, che non perderà mai la speranza, che non rimarrà schiacciato dagli scandali, né da quelli del mondo, né da quelli degli uomini di Chiesa. La sua fede è in Colui che è risorto. Avrà la pazienza di aspettare sia il venerdì che il sabato santo… 
Francesco Agnoli, 
Il Foglio, 24/5/2012

lunedì 28 maggio 2012

Roma - FSSPX. Mons. Fellay parla il giorno di Pentecoste

30 maggio. Aggiornamento da DICI:
Intervista “ Ci sono dei rumori che circolano ma la cosa ufficiale è che i cardinali ed i vescovi della Congregazione della Fede hanno esaminato il testo proposto da me. È tutto, non so altro. Hanno detto che lo avevano consegnato al Santo Padre, che il Santo Padre avrebbe preso una decisione....leggi tutto

Mons. Fellay a Villepreux
Importante: riprendo da Rorate Caeli di oggi. Il testo conserva lo stile del linguaggio parlato, dato che è stato tradotto dalla trascrizione dell'audio nell'originale francese ascoltabile qui. Non faccio commenti. Le incognite della situazione restano immutate, immutati gli spiragli positivi, immutata la fortissima opposizione. La soluzione appare nella volontà e nelle mani del Santo Padre. L'attesa è sofferta e vissuta nella preghiera.

Nel corso di un lungo sermone pronunciato ieri, Domenica di Pentecoste a Villepreux, Francia, durante il pellegrinaggio dei sacerdoti e fedeli a Orléans (quest'anno non Parigi, in occasione del 600° anniversario della nascita di S. Giovanna d'Arco), il Superiore Generale della Fraternità San Pio X, il Vescovo Bernard Fellay, ha detto alcune parole su temi di attualità con Roma. Il contesto generale del discorso è la nascita della Chiesa nella Pentecoste e la fiducia nella Divina Provvidenza, quando tutto sembra perduto, come appariva in Francia a Giovanna, anche se (e soprattutto perché) il futuro è ignoto.

Rorate riporta la propria traduzione della parte del sermone che riguarda questi temi, che ha cercato di mantenere la maggior fedeltà possibile al tono generale orale e al senso delle parole, che riprendo di seguito:

« Un'altra cosa molto simile è la deplorevole, quasi disperata, situazione, non di un paese, ma della Chiesa. La Chiesa, la Sposa di Cristo in una situazione del genere! Chi poteva immaginarlo? La demolizione, i colpi subiti, dal Concilio, durante e dopo, sono lì, proprio davanti a noi. Triste. Deplorevole. Abbiamo il coraggio di pensare: "come potrà la Chiesa risorgere?" E, osiamo dire, umanamente, è finita. Ma non abbiamo il diritto di dire "umanamente" quando si parla di Chiesa, perché la Chiesa resta, rimane, la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo. E, anche se la vediamo in questo stato deplorevole, non abbiamo il diritto di associare questo deplorevole stato con la Chiesa e poi dire, "la Chiesa non è più". No! La Chiesa rimane, ma come sfigurata, come se avesse un cancro generalizzato, e non abbiamo questa certezza che risorgerà....

Quando diciamo che Roma vorrebbe darci un riconoscimento canonico, siamo pieni di diffidenza. Vedendo il modo con cui le autorità hanno trattato la Tradizione e tutto ciò che ha un po' di sentire tradizionale, o tendenze tradizionali, quando vediamo come sono stati trattati, siamo pieni di diffidenza. E anche con la paura. La paura del futuro, e diciamo: "ma come sarà possibile che ciò accada?" Ma abbiamo il diritto di sentirci in questo modo? È un vero reale sentire o troppo umano? ...

Certo, è necessario agire con tutta la prudenza, certamente, analizzando i pericoli, per vedere se è possibile o no, ma fino ad ora, miei cari fratelli, possiamo dire che una certa direzione sembra apparire, che potrebbe dire che potrebbe forse essere possibile che ci venga riconosciuto, che si continui, ma, fino a questo momento, io stesso non ho tutti gli elementi, cioè gli elementi finali, che possono permettere di dire, "sì o no". E così fino ad oggi, e siamo a questo punto... Questo è tutto. Se abbiamo elementi sufficienti per decidere che, sì, è possibile, bene, allora, possiamo giungere alla conclusione. E se si giunge alla conclusione che, no, non è possibile, è troppo pericoloso, allora, no, è impossibile, non si può andare avanti. E diremo "no". Tutto qui. Non siamo noi che cercheremo di imporre al Buon Dio la nostra decisione, la nostra volontà. Al contrario, tentiamo di cercarla, attraverso gli eventi, le cose che procedono, qual è la Sua volontà, che cosa vuole, il Buon Dio? È così sorprendente che siamo arrivati ​​a questo punto. Non siamo stati a cercar questo. Oggi, almeno io ho conseguito la certezza, che colui che vuole riconoscere la Società è, in fin dei conti [ bel et bien ], il Papa. Vedo che, a Roma, tutti non sono della stessa idea. A Roma e altrove. Ma il Papa, sì. E allora si va fino alla fine? Riuscirà a cedere di fronte alla pressione, all'opposizione? ... Preghiamo, continuiamo a pregare, chiediamo questa luce per tutti. Che si possa rimanere molto uniti. Perché è vero che una tale decisione, ed è anche uno dei motivi di questa paura, implica un cambiamento di prospettiva.... Da alcune parti si sente: "è possibile?". Con tutti gli elementi che ho nelle mie mani, io dico, "sì, sembra possibile per me", ma, ancora una volta, a condizione che ci si lasci liberi di agire. Sembra chiaro che, se ci vogliono, se si reintroduce la Tradizione nella Chiesa, si può parlare in questo modo. Quindi non per noi soltanto, ma anche per tutta la Chiesa, in modo che tutta la Chiesa può ottenere da essa, da questa cosa magnifica, la vita cristiana.

Ci sono certamente molte domande che restano aperte. Questa questione di una non-intesa su alcuni punti del Concilio, non siamo d'accordo. È proprio questo che è sorprendente: perché, allora, perché allora ci offrono questo percorso, ci deve essere un motivo. ... il motivo è questo stato della Chiesa. »

domenica 27 maggio 2012

Da Babele a Pentecoste

Oggi, Domenica di Pentecoste, il Santo Padre Benedetto XVI, nel corso della Celebrazione Eucaristica in San Pietro, ha pronunciato un'omelia particolarmente toccante, perché inquadra nell'orizzonte di Fede e nella Sacra Scrittura, le vicende sconcertanti e destabilizzanti che siamo costretti a registrare in questi giorni in Vaticano e altrove. Specchio di questa nostra epoca densa di Grazia e di tenebra dentro e fuori la Chiesa.
Veni Sancte Spiritus!


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di celebrare con voi questa Santa Messa, animata oggi anche dal Coro dell’Accademia di Santa Cecilia e dall’Orchestra giovanile - che ringrazio -, nella Solennità di Pentecoste. La Pentecoste è la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana. Tutti possiamo constatare come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l’uno all’altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, e le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione e la comunione tra le persone è spesso superficiale e difficoltosa. Permangono squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo a fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, possiamo veramente trovare e vivere quell’unità di cui abbiamo tanto bisogno?

La narrazione della Pentecoste negli Atti degli Apostoli, che abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11), contiene sullo sfondo uno degli ultimi grandi affreschi che troviamo all’inizio dell’Antico Testamento: l’antica storia della costruzione della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9). Ma che cos’è Babele? È la descrizione di un regno in cui gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di non dover fare più riferimento a un Dio lontano e di essere così forti da poter costruire da soli una via che porti al cielo per aprirne le porte e mettersi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verifica qualcosa di strano e di singolare.

Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme.

Questo racconto biblico contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo. Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di sorpassato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo. Ma non ci accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele. È vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia? E come?

La risposta la troviamo nella Sacra Scrittura: l’unità può esserci solo con il dono dello Spirito di Dio, il quale ci darà un cuore nuovo e una lingua nuova, una capacità nuova di comunicare. Questo è ciò che si è verificato a Pentecoste. In quel mattino, cinquanta giorni dopo la Pasqua, un vento impetuoso soffiò su Gerusalemme e la fiamma dello Spirito Santo discese sui discepoli riuniti, si posò su ciascuno e accese in essi il fuoco divino, un fuoco d’amore, capace di trasformare. La paura scomparve, il cuore sentì una nuova forza, le lingue si sciolsero e iniziarono a parlare con franchezza, in modo che tutti potessero capire l’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto. A Pentecoste dove c’era divisione ed estraneità, sono nate unità e comprensione.

Ma guardiamo al Vangelo di oggi, nel quale Gesù afferma: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Qui Gesù, parlando dello Spirito Santo, ci spiega che cos’è la Chiesa e come essa debba vivere per essere se stessa, per essere il luogo dell’unità e della comunione nella Verità; ci dice che agire da cristiani significa non essere chiusi nel proprio «io», ma orientarsi verso il tutto; significa accogliere in se stessi la Chiesa tutta intera o, ancora meglio, lasciare interiormente che essa ci accolga. Allora, quando io parlo, penso, agisco come cristiano, non lo faccio chiudendomi nel mio io, ma lo faccio sempre nel tutto e a partire dal tutto: così lo Spirito Santo, Spirito di unità e di verità, può continuare a risuonare nei cuori e nelle menti degli uomini e spingerli ad incontrarsi e ad accogliersi a vicenda. Lo Spirito, proprio per il fatto che agisce così, ci introduce in tutta la verità, che è Gesù, ci guida nell’approfondirla, nel comprenderla: noi non cresciamo nella conoscenza chiudendoci nel nostro io, ma solo diventando capaci di ascoltare e di condividere, solo nel «noi» della Chiesa, con un atteggiamento di profonda umiltà interiore. E così diventa più chiaro perché Babele è Babele e la Pentecoste è la Pentecoste. Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce.

La contrapposizione tra Babele e Pentecoste riecheggia anche nella seconda lettura, dove l’Apostolo dice: "Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne" (Gal 5,16). San Paolo ci spiega che la nostra vita personale è segnata da un conflitto interiore, da una divisione, tra gli impulsi che provengono dalla carne e quelli che provengono dallo Spirito; e noi non possiamo seguirli tutti.

Non possiamo, infatti, essere contemporaneamente egoisti e generosi, seguire la tendenza a dominare sugli altri e provare la gioia del servizio disinteressato. Dobbiamo sempre scegliere quale impulso seguire e lo possiamo fare in modo autentico solo con l’aiuto dello Spirito di Cristo. San Paolo elenca le opere della carne, sono i peccati di egoismo e di violenza, come inimicizia, discordia, gelosia, dissensi; sono pensieri e azioni che non fanno vivere in modo veramente umano e cristiano, nell’amore. È una direzione che porta a perdere la propria vita. Invece lo Spirito Santo ci guida verso le altezze di Dio, perché possiamo vivere già in questa terra il germe di vita divina che è in noi. Afferma, infatti, san Paolo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace» (Gal 5,22). Notiamo che l’Apostolo usa il plurale per descrivere le opere della carne, che provocano la dispersione dell’essere umano, mentre usa il singolare per definire l’azione dello Spirito, parla di «frutto», proprio come alla dispersione di Babele si contrappone l’unità di Pentecoste.

Cari amici, dobbiamo vivere secondo lo Spirito di unità e di verità, e per questo dobbiamo pregare perché lo Spirito ci illumini e ci guidi a vincere il fascino di seguire nostre verità, e ad accogliere la verità di Cristo trasmessa nella Chiesa. Il racconto lucano della Pentecoste ci dice che Gesù prima di salire al cielo chiese agli Apostoli di rimanere insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. 

Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr At 1,14). Raccolta con Maria, come al suo nascere, la Chiesa anche quest’oggi prega: «Veni Sancte Spiritus! - Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore!». Amen.
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Il libro di don Curzio Nitoglia: “Sovversione & Restaurazione”

Il libro di don CURZIO NITOGLIA “Sovversione & Restaurazione”, edito dal Centro Studi Jeanne D’Arc di Milano (73 pagine, 9 euro), può essere richiesto a  redazione@ordinefuturo.info

Esso vuol essere un manuale di base per la formazione del militante [la Chiesa Militante è ognuno di noi, insieme a quella Trionfante e Purgante], che oggi si trova a dover combattere contro la Sovversione e per la Restaurazione. La ‘Sovversione’ è il disordine che l’uomo sperimenta in sé dopo il peccato originale, dietro la spinta delle tre Concupiscenze (orgoglio, avarizia e lussuria); la ‘Restaurazione’ è il cercare di ritornare all’ordine turbato dalle tre Concupiscenze nell’individuo, nella famiglia e nella Società civile.

Più precisamente la ‘Sovversione’ è il ribaltamento, il rovesciamento e lo sconvolgimento dell’ordine individuale, familiare e sociale. La ‘Restaurazione’ è il riportare l’ordine perduto e quindi in breve consiste nel ripristinare l’ordine individuale, familiare e sociale.

Per poter restaurare l’ordine nella Società civile occorre prima averlo in sé (“nemo dat quod non habet”, nessuno dà quel che non ha), poi nella  famiglia e infine lo si può portare nello Stato, che è un insieme di famiglie unite al fine di conseguire il benessere comune temporale subordinatamente a quello spirituale. L’ordine è la sottomissione dell’anima a Dio e la padronanza dell’anima sul corpo e i suoi istinti. La ‘Sovversione’ è lo scardinamento di quest’ordine. La vita spirituale consiste nel ristabilire quest’ordine nell’animo del singolo uomo; la vita politica consiste nel riportarlo nella Società civile.

Infatti la Politica o azione sociale è la Virtù di Prudenza (che ci fa scegliere i mezzi migliori per conseguire un fine) applicata alla Società, mentre l’Economia si occupa del focolare domestico e la Monastica del singolo individuo. Invece per Machiavelli la “politica” è un “vizio”, ossia è l’arte della furbizia e dell’inganno per ottenere il proprio fine (“il fine giustifica i mezzi”).

L’uomo per natura è socievole; quindi lo  Stato o la Società civile per natura deve conoscere, amare e servire Dio così come lo deve l’insieme di uomini da cui è formata.

La ‘Sovversione’ è nata col peccato di Adamo, ma, a partire dalla  Cristianità, ossia dall’epoca in cui  lo spirito del Vangelo informava le leggi della Società, essa ha conosciuto varie tappe: l’Umanesimo e il Rinascimento (1400-1500), che hanno cercato di rimpiazzare il Vangelo con la Cabala o l’esoterismo ebraico a livello delle élite intellettuali o Accademie culturali; poi è venuto il Protestantesimo (1517), che ha  immesso il soggettivismo e il relativismo nella Religione rendendola una  pura esperienza soggettiva e sentimentale, essenzialmente antigerarchica e sovvertitrice dell’ordine voluto da Gesù quando ha fondato la Sua Chiesa su una persona che è il Papa, il quale è il Re del Corpo Mistico; infine è venuta la Rivoluzione francese (1789), che ha portato il disordine nella Società, nella scienza e nell’azione Politica. Il Comunismo (1917) ha peggiorato il disordine della Rivoluzione francese – cercando di distruggere la proprietà privata, la famiglia e la religione – ed ha conosciuto il suo vertice con il 1968 sposando il freudismo, che ha portato il disordine in interiore homine eccitando al parossismo le tre Concupiscenze e rendendo l’uomo un animale selvaggio ed impulsivo. Oggi ci troviamo nell’ultima fase della  Sovversione, il Mondialismo, che a partire dall’11 settembre del 2011 cerca di impadronirsi del mondo intero e di edificare un unico Tempio e una sola Repubblica universale per rendere schiava la quasi totalità dell’umanità sotto il giogo di Israele e dell’America, i due Stati dominati dai principali agenti della Sovversione: il giudaismo e la massoneria.

La Restaurazione comporta la Gerarchia. Non bisogna cadere nel vizio del fariseismo calvinista e  liberista, il quale scambia gerarchia per prepotenza, sfruttamento ed oppressione del debole. Gerarchia significa che vi è una differenza accidentale tra gli uomini  (chi è più buono chi meno, chi più intelligente chi meno, chi più lavoratore chi meno), la quale fa sì che il migliore sia più in alto e comandi, senza disprezzare e maltrattare chi si trova più in basso ed obbedisce.

L’apologo di Menenio Agrippa ci fa capire con un semplice esempio cosa sia la vera gerarchia: “Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso, ruppero gli accordi con lui e cospirarono dicendo che le mani non avrebbero portato cibo alla bocca, né la bocca lo avrebbe accettato, né che i denti masticato a dovere. Ma mentre, cercavano di domare lo stomaco, s’indebolirono anche loro, e il corpo intero deperì. Di qui si vide come il compito dello stomaco non era quello di un pigro, ma che esso distribuiva il cibo a tutti gli altri organi. Fu così che le varie membra del corpo tornarono in amicizia tra loro e con lo stomaco. Così Senato e Popolo, come se fossero un unico corpo, deperiscono con la discordia, mentre con la concordia restano in buona salute” (Tito Livio, Ab Urbe condita, II, 32).     

 San Paolo a sua  volta insegna:   «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Né l’occhio può dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi […]. Anzi quelle membra che sembrano più umili sono le più necessarie. […]. Dio ha composto il corpo affinché non vi fosse disunione in esso, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro sta bene, tutte le altre gioiscono con lui» (1 Cor., XII, 4-20).

Le ineguaglianze e la gerarchia tra i membri del corpo fisico e di quello civile, convergendo verso un fine comune (il benessere del tutto), formano l’unità e l’armonia dell’organismo. Così è nella Chiesa: laici, chierici, parroci (Chiesa discente), Vescovi e Papa (Chiesa docente). Così pure in Paradiso: Angeli, Arcangeli, Potestà, Troni, Dominazioni, Cherubini e Serafini.

Senza diversità e gerarchia tutto è piatto, brutto, immobile e morto. Se le cinque dita della mano umana fossero tutte eguali, la mano sarebbe informe e anche mostruosa; i palazzoni delle periferie urbane sono tutti eguali e perciò sono deformi, brutti e alienanti, mentre le casette medievali, costruite pietra su pietra dai loro proprietari, sono piccoli gioielli e una è diversa dall’altra.

L’unica disuguaglianza sostanziale infinita esiste tra Creatore e creature; disuguaglianza finita, ma sostanziale esiste tra specie diverse (angelo, uomo, animale, vegetale, minerale) mentre nella stessa specie (umana) vi è un’eguaglianza sostanziale (tutti gli uomini sono animali razionali, composti di anima immortale e corpo) con delle differenze accidentali, sulle quali si fonda la gerarchia umana, che non è schiavismo disumano. Ora il liberismo di derivazione calvinista pretende che tra gli uomini vi siano disuguaglianze sostanziali (il ricco è benedetto e predestinato, il povero è maledetto e dannato); mentre il comunismo inculca al povero l’odio verso il ricco come se la ricchezza in sé fosse intrinsecamente cattiva.

È importante che il militante antisovversivo si abitui a vivere bene, rispettando la Legge divina, poiché “bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finisce per pensare male se si vive male”. Non si può restaurare la Società se abbiamo il disordine o la Sovversione in noi  (“agere sequitur esse, modus agendi sequitur modum existendi”: si agisce come si è, il modo di agire segue il modo di essere).

I consigli pratici per restaurare se stessi, la famiglia e la Società civile sono i seguenti:

1°) riforma te stesso, poi la tua famiglia e quindi la Società; 2°) ritorna al buon senso, al realismo che conforma il pensare alla realtà e possibilmente studia la filosofia perenne di S. Tommaso che ha elevato a scienza il senso comune e la retta ragione che ogni uomo normale possiede; 3°) vinci l’ozio, che è il “padre dei vizi” e incoraggia lo sforzo fisico, intellettuale e morale; 4°) ricorri a Dio onnipotente, che solo può debellare il Leviatano mondialista che attualmente schiaccia gli uomini come schiavi. 

Spero che questo libretto sia studiato e commentato assieme e settimanalmente dai giovani militanti per potere ritrovare l’ordine in sé e riportarlo nelle famiglie e nella Società. In questo tempo in cui la Sovversione è penetrata anche in ambiente cattolico e persino “tradizionalista” è più che mai  necessario che i giovani abbiano idee chiare sulla dottrina cattolica sia a livello spirituale (teologia ascetica e mistica) che sociale (dottrina sociale). Solo la preghiera unita all’azione e allo studio della filosofia politica, la pratica dei Sacramenti, la frequenza degli Esercizi Spirituali di S. Ignazio, daranno al giovane militante le forze necessarie per combattere la buona battaglia che non è solo contro le forze di questo mondo, ma contro il Principe di esso, che è il diavolo e Satana.
 d. Curzio Nitoglia
 20 maggio 2012

sabato 26 maggio 2012

Card. Brandmüller. Non tutto il Vaticano II è vincolante. Distinguere per capire meglio.

Il Card. W. Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Consiglio di Scienze Storiche, ha contribuito con Sua Ecc.za Mons. Agostino Marchetto e Mons. Nicola Bux ad un libro in uscita per Cantagalli sulle chiavi di Benedetto XVI per leggere il Concilio Vaticano II.

In una recente intervista ha parlato della giusta ermeneutica da applicare ai documenti del Concilio: altro è una costituzione dogmatica altro una semplice dichiarazione. [È la tesi di Gherardini, Lanzetta [vedi anche] ed altri. Anche nell'ambito dello stesso documento ci sono diversi livelli di infallibilità. Chi volesse approfondire può consultare l'ampia documentazione dai link sulla colonna sinistra del Blog]

Per quanto riguarda i documenti conciliari sul dialogo interreligioso e la libertà religiosa, le rispettive dichiarazioni del Concilio non contengono un “contenuto dogmatico vincolante”, dice. I documenti Nostra Aetate e Dignitatis Humanae sono dichiarazioni. Queste si dovrebbero “prendere seriamente” come espressione del Magistero vivo senza “voler vincolare l’intera Chiesa, perché accetti questa forma”.
Si può discutere su questi documenti.

Questo è il punto di partenza per un “fruttuoso dialogo” con la Fraternità S. Pio X, poiché ogni concilio deve essere visto nel contesto storico, dice Brandmüller.

Deve essere messo in conto il diverso carattere giuridico dei documenti del Concilio Vaticano II. Si tratta di considerare la grande differenza tra il documento conciliare sulla Chiesa, il quale ha la forma di una “Costituzione” e la semplice Dichiarazione sui mass-media.

Brandmüller ha stima per il canonista di Monaco Klaus Mörsdorf (1909-1989). Il Cardinale spera così anche in una felice conclusione dello sforzo vaticano per l’unità con la FSSPX.
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[Fonte: Approfondimenti di "Fides Catholica" - by Kath.net]
Traduzione di Fides Catholica

Video dell'intervista di Mons. Fellay al Catholic News Sercice CNS

Questo è il video dell'intervista concessa da Mons. Bernard Fellay, al Catholic News Service (CNS) della Conferenza degli Stati Uniti dei Vescovi Cattolici (USCCB), nella Casa Generalizia della Fraternità, a Menzingen. Fornisce il contesto per la versione scritta pubblicata qui


Prima parte     

Seconda parte  
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[Fonte: Rorate Caeli]

venerdì 25 maggio 2012

Benedetto XVI alla CEI. Il Concilio, unico «leit motiv» della autocoscienza ecclesiale e della nuova evangelizzazione

Il 24 maggio scorso, nell’Aula del Sinodo in Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i partecipanti alla 64ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) in corso dal 21 al 25 maggio sul tema: Gli adulti nella comunità: maturi nella fede e testimoni di umanità. Dal Discorso rivolto all'Assemblea ricaviamo le coordinate della ennesima riproposizione del Concilio come faro e bussola e unico leit-motiv per l'autocoscienza ecclesiale e per la nuova evangelizzazione.

Mi permetto esprimere le osservazioni che mi sono venute spontanee perché restano tuttora aperte questioni sostanziali, anche se è innegabile il tentativo di Benedetto XVI di pilotare una interpretazione corretta del dettato conciliare.

giovedì 24 maggio 2012

Don Nicola Bux. La riforma liturgica del Concilio Vaticano II nell’insegnamento di Benedetto XVI


(Relazione al Convegno sul Summorum Pontificum – Madrid, 24 aprile 2010)

1. “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto”[1]. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, questi  perde l’orientamento con le conseguenze deleterie che constatiamo, in primis la deriva etica e l’immoralità. Ora, la Chiesa e il Successore di Pietro esistono per condurre gli uomini a Dio e in secondo luogo unire i credenti. Queste le ragioni addotte da Benedetto XVI, della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità S.Pio X fondata da Mons. Marcel Lefebvre.

Queste ragioni si ritrovano nel Proemio della Costituzione sulla sacra Liturgia, il primo testo fondamentale del concilio ecumenico Vaticano II, che “ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma (instaurandam) e dell’incremento (fovendam) della Liturgia” (1). Quantunque si parli nei testi magisteriali di “riforma liturgica del Concilio (liturgica Concilii reformatio)”[2], il verbo ‘instaurare’ – tanto in latino tanto in italiano – va inteso come restaurare e non già come trasformare. ‘Instaurare’, allora, significare ‘ritornare ai fondamenti’. Mi sembra questo il senso di ‘riforma’ nell’insegnamento di Benedetto XVI e prima di Joseph Ratzinger teologo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Io sono evidentemente per il Vaticano II, che ci ha portato tante belle cose. Ma dichiarare ciò insuperabile e giudicare inaccettabile ogni riflessione su ciò che noi dobbiamo riprendere dalla storia della Chiesa, ecco un settarismo che io non accetto! […] io sono per la stabilità! Se si cambia la liturgia ogni giorno, essa non è più vivibile! Bisogna anche avere un po’ di memoria: personalmente, tutto quello che ho vissuto in più di settanta anni ha nutrito  la mia spiritualità. Ma, d’altra parte, il fissismo – “Ora tutto è fatto…” – è comunque sbagliato. Infatti, spetta ad ogni generazione valutare ciò che si può migliorare per essere sempre più conformi alle origini e al vero spirito della liturgia. E io penso che ci sia effettivamente materia anche oggi, per la nuova generazione, per “riformare la riforma”. Non attraverso delle rivoluzioni (io sono un riformista, non un rivoluzionario…),  ma cambiando ciò che deve essere cambiato. Dichiarare ogni riforma impossibile mi sembrerebbe un dogmatismo assurdo”[3].

2. Ora veniamo alla liturgia come intesa dalla Costituzione liturgica. La Chiesa è una realtà divina e umana, permanentemente rivolta a Gesù Cristo che riconosce presente in mezzo a lei grazie alla potenza dello Spirito Santo (cfr Sacrosanctum Concilium 7): tale riconoscimento si chiama adorazione, cioè una religione o relazione di culto pubblico integrale o – dal greco – liturgia, che imita quella celeste come è descritta nell’Apocalisse (cfr ivi). Lo sforzo  imitativo tra quella celebrata in terra e la celeste porta necessariamente a deformazioni che necessitano poi di ri-forme, a cominciare da quella di se stessi, cioè della Chiesa e quindi della liturgia. Il fine della liturgia è la gloria e l’adorazione del Signore e non l’esibizione o peggio esaltazione di sé. Più l’uomo dà gloria a Dio Padre e più si salva. Bisogna sapere che il cielo è aperto da quando Gesù Cristo il Figlio di Dio vi è salito con l’Ascensione e dal quale egli scende nella liturgia con tutti i suoi santi (cfr 8). Tale esercizio di mediazione tra Dio e l’uomo è la liturgia e lo compie il sacerdote, dal latino ‘sacrum’, perciò “è azione sacra per eccellenza”( 7). Sacro non è la stessa cosa di santo: sono due concetti diversi. Il primo termine riguarda cose fisiche o giuridiche (la vita, la legge…); il secondo la persona. Un fedele laico può essere un santo, un sacerdote può non essere santo, anche se è un ministro sacro. Infatti può amministrare ‘cose sante’, i sacramenti, ma non essere santo. La definizione del sacro è l’irruzione della Presenza divina, della vita soprannaturale, il massimo di vita e di purezza: è questo il criterio per ordinare i segni nella liturgia.

La sacra o divina liturgia – termini con cui è definita rispettivamente dai latini e dagli orientali “non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa” [4]. La presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [5], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi[6]. Così scrive Pio XII nella enciclica Mediator Dei,  fondamentale per comprendere la Costituzione liturgica: si capisce meglio la celebre frase: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (cfr 10). Soprattutto “i segni visibili, di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà divine invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa”(33): questo è essenziale per capire la sua sacralità, quindi la sua immutabilità. È di istituzione divina, possiamo dire di diritto divino ed è opus publicum. Si configura qui l’ ius o dimensione giuridica della liturgia. Forse la valutazione di alcuni studiosi per i quali “SC 21 distingue la parte mutabile della liturgia dalla parte immutabile senza però definire quale quest’ultima sia”[7] può essere riveduta almeno quanto ai principi.

Quindi l’ “accurata riforma generale” della liturgia che il Vaticano II riprendeva in continuità con la Mediator Dei e l’opera di Pio XII aveva tali intenti; non certo toccare questa “parte immutabile, perchè di istituzione divina” (Sacrosanctum Concilium 21), ma quelle parti in cui “si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (ivi). Tale riforma doveva tener conto di alcune norme generali: che regolare la sacra liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto (non in deroga ma in applicazione), al vescovo ed entro certi limiti alle assemblee episcopali territoriali. “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(22,3); anche per il fatto che: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa …” (26).

La Costituzione liturgica pone una condizione per la riforma: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre si prendano in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalla più recente riforma liturgica e dagli indulti qua e là concessi. Infine, non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti”(23).

Si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi che pure erano stati periti conciliari, che tale auspicio è stato disatteso. Un esempio: la Costituzione liturgica raccomanda che i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni (cfr ivi, 23), ma solo nei momenti più opportuni (cfr 35,3); invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele.

Un altro esempio: si invita a ristabilire nella Messa ciò che è caduto in disuso, secondo la tradizione dei padri (cfr 50): l’uso del latino, da conservare nei riti latini (cfr 36,1), mentre la lingua volgare si concede nelle letture e monizioni, in alcune preghiere e canti, nell’orazione comune e altre parti spettanti al popolo (cfr 54); si esorta anche a che “si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi”(54); per i chierici l’ufficio divino in lingua latina (cfr 101,1). Perché il latino? La liturgia non è una devozione privata nella quale rivolgersi a Dio in modo individuale, con la propria lingua, ma azione pubblica della Chiesa che per l’occidente ha la sua lingua liturgica e sacra, il latino, fattore di unità ecclesiale oltre che culturale. Inoltre, il latino è garanzia di ortodossia del linguaggio dottrinale e liturgico. Certo, la comunicazione di Dio all’uomo nella Scrittura è giusto che per essere compresa possa avvenire nella liturgia anche in lingua vernacola; ma è altrettanto degno e giusto che la comunicazione della Chiesa col Signore avvenga ‘una voce dicentes’, come fa comprendere l’espressione conclusiva del prefazio: e il latino esprime ciò adeguatamente. Gli orientali questo principio l’hanno conservato, usando, per esempio, l’aramaico, il greco antico e lo slavo ecclesiastico. Poi, non conserviamo nella liturgia latina parole ebraiche e greche come amen, alleluia, osanna? Nella cosiddetta società multiculturale odierna e con lo strumento di internet, l’argomento dell’incomprensibilità del latino è superato, in primis per i giovani.

Così per il gregoriano: la Costituzione liturgica afferma che è riconosciuto dalla Chiesa e gli è riservato nella liturgia il posto principale perchè è il canto proprio della liturgia romana (cfr 116) e i suoi libri sono da rieditare: lo ha fatto Paolo VI col Graduale simplex (36,1, 37 e 117). Il gregoriano è musica sacra perchè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo, anche se se ne serve. Perciò, va rimediata la sparizione del repertorio musicale rimpiazzato dalla musica derivata dalla cultura profana, secolarizzata e incompatibile col Vangelo. Quanto all’arte sacra, per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche (Ivi,122) e di valutare ciò che può essere ritenuto sacro perché rispondente alla fede, alla pietà e ai canoni della tradizione (cioè le norme religiosamente tramandate), allontanando  dalla casa di Dio quelle contrarie “che offendono il genuino senso religioso,o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(124). In tal senso la Costituzione invita alla revisione dei canoni dell’arte sacra (cfr 128).

3. C’è un insegnamento previo di J. Ratzinger che traduce la Costituzione liturgica: da dottore privato, teologo perito del Concilio e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha prodotto studi alcuni dei quali ora raccolti nell’Opera omnia e in parte reperibili in Davanti al Protagonista e soprattutto nell’Introduzione allo spirito della liturgia tradotto in molte lingue.  Da collaboratore di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ecclesia de Eucharistia a cui è seguita la  Istruzione Redemptionis sacramentum.

Alcuni mesi prima dell’elezione pontificia, egli si è appellato ad un’altra riforma liturgica che rappresenterebbe un vero “sviluppo organico” in rapporto al movimento liturgico come si è svolto fino al 1948 e che ha preso corpo nelle riforme di Pio XII. Egli presenta la riforma post-conciliare come una deviazione della vera riforma pensata in Concilio e che questo stesso avrebbe voluto armonicamente continuare: non di rottura ma di continuità, per usare i termini da lui stesso usati nel celebre passaggio sull’ermeneutica  del Concilio nel discorso tenuto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 a pochi mesi dall’elezione. Paolo VI aveva istituito un Consilium ad exsequendam (per eseguire) la Costituzione liturgica non per interpretarla o stravolgerla. Ci sarà bisogno dello studio d’archivio, in specie del diario del segretario mons. Bugnini, per capire se le prime riforme postconciliari, quelle del 1964-1965, fossero nell’alveo stabilito dal concilio, prima della svolta radicale del 1967 con la cosiddetta “messa normativa” presentata al sinodo dei vescovi e che sorprese la maggior parte di loro: una messa nuova in cui era abolita la specificità essenziale della liturgia romana, cioè la preghiera eucaristica unica. Questo giudizio è condiviso oggi da non pochi liturgisti [8].

Ora che è pontefice, con l’Esortazione Sacramentum caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, si può parlare di avvio della “riforma della riforma”. La liturgia resta sempre «culmine e fonte» della vita della Chiesa (cfr Sacramentum caritatis nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93).

Dunque, nell’insegnamento di Benedetto XVI la riforma della liturgia deve avvenire in modo organico, modificarsi un po’ come si modifica il paesaggio, in modo impercettibile, naturale nell’evoluzione. In tal senso vanno intesi i principi generali per il restauro e l’incremento della liturgia nella Costituzione conciliare. La chiave per capire i successivi articoli è il 14: lo scopo della riforma è la partecipazione dei fedeli, ove il termine actuosa, tradotta con attiva, significa invece interna e contemplativa, di mente e di cuore [9]; così l’hanno sempre intesa e raccomandata la tradizione e i pontefici.

Lo spirito da cui scaturisce la riforma è indicato nei n 15-19: la riforma comincia dall’educazione e formazione del clero, a cominciare dal seminario, e dei laici a partire dal catechismo, allo “spiritu et virtute liturgiae”, altrimenti si tratta di attivismo. I fondamenti della liturgia sono ora reperibili nel Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1077-1112.

L’alveo in cui deve rimanere la riforma dei riti è descritto, come già detto, nell’“avvertenza” di Sacrosanctum Concilium 23: “…che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti”. Questo richiama l’art. 50 circa l’instaurazione di pratiche cadute in disuso. La frase cruciale del 23: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa” spiega che la riforma che il concilio dava mandato di fare, non era un ‘assegno in bianco’ per una riforma liturgica radicale, ma per una equilibrata e moderata, prudente e tradizionale. Per esempio, circa la riforma della Messa, la Commissione liturgica del Concilio aveva assicurato i padri così: “Hodiernus Ordo Missae, qui decursu saeculorum succrevit, retinendus est”[10]. Cosa è successo con quella promulgata nel 1969?

4. Dunque il concilio ha voluto dire che la liturgia è suscettibile di riforma, ma deve essere uno sviluppo organico e non un’innovazione radicale. In tal senso si sono espressi studiosi come Jounel. La Chiesa non deve inventare le forme dei suoi riti, nati dalla tradizione apostolica, non deve la liturgia apparire come una rottura col passato o come una rivoluzione dei riti. La liturgia è vita e questa, ordinariamente non si sviluppa attraverso mutamenti repentini [11]. La riforma postconciliare è andata oltre i legittimi e tradizionali confini che il concilio stesso aveva stabilito: pur enunciando i principi in modo preciso “la loro forza normativa vien fortemente attenuata dalle non poche e sempre generiche eccezioni previste…A tali eccezioni, infatti, va ricondotta la rozza situazione di anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti e sta quotidianamente ingigantendosi”[12].

Se la liturgia ha subito seri danni, come va riparata? 1. Seguire il Papa che sa bene come fare; 2. Studiare; 3. Celebrare degnamente. “Ciò che era sacro rimane sacro”, ha scritto nel Motu proprio. Dove cominciare la riforma della riforma? “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”[13]. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Perciò vanno eliminate le “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile”[14]. La liturgia non può essere fabbricata, perciò c’è bisogno di arricchimento vicendevole tra la forma antica ora straordinaria e quella nuova ordinaria: questa dovrà ispirarsi al carattere sacro e stabile della prima. Perchè nella liturgia Cristo diviene contemporaneo a noi.

Ratzinger osserva che si è andati oltre col nuovo messale: così la crisi della Chiesa è dovuta alla crisi della liturgia, diventata senza regole, dimentica del ius divinum, self- made, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”[15]. E aggiunge: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita […]come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta…”[16].

Allora si può riassumere la riforma di Benedetto XVI in tre priorità: 
  1. la nozione di participatio actuosa di ognuno alla Messa [17]: non troppe parole, non teatralizzazione, non spontaneismo e improvvisazione; salvaguardare il rito romano: per aprirci alle altre culture non dobbiamo dimenticare la nostra; 
  2. il posto del silenzio ‘riverente’ nella Messa (cfr SC 30); perchè l’azione a cui prendere parte è il dono di Cristo sulla Croce; la Costituzione liturgica non chiede di essere ‘attivi’ in ogni parte della Messa, ma di fare l’offerta di sé e l’adorazione (con i segni di croce, le mani giunte, l’inginocchiarsi con riverenza), soprattutto il silenzio dei fedeli e del sacerdote. 
  3. l’orientamento del sacerdote all’altare, specialmente dall’offertorio in poi. La posizione verso il popolo è stato un errore tragico, mutuato dal fraintendimento dell’Ultima Cena. Il sacerdote invece deve essere rivolto al Signore, il Sole che sorge, il Risorto e il veniente. Così la Chiesa ha espresso la vera forma della Messa cioè l’eucaristia “pignus futurae gloriae”, perché nella Messa la salvezza è incompleta. La Messa verso il popolo fa della liturgia un “cerchio chiuso”[18].
Dunque, bisogna ripartire dalla teologia della liturgia per un nuovo movimento liturgico: “come il (primo) movimento liturgico, che ha preparato l’avvento del concilio Vaticano II, è cresciuto rapidamente in una corrente impetuosa, così anche in questo caso l’impulso dovrà venire da chi veramente vive la fede. Tutto dipenderà dall’esistenza di luoghi esemplari in cui la liturgia sia celebrata correttamente, in cui si possa vivere di persona ciò che questa è…”[19] . Esso è già in atto, di giovani fedeli laici. Basta andare su internet.

È cominciata una riforma paziente: “in questo tempo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza”[20].
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[1] Benedetto XVI, Lettera ai Vescovihttp://www.internetica.it/BenedettoXVI-ai-VescoviCattolici.htm, 10 marzo 2009.
[2] Cfr. Redemptionis sacramentum, n. 4; Ecclesia de Eucharistia, n. 10. [3] Davanti al Protagonista, Siena 2009, p 181.
[4] Pio XII, Enciclica Mediator Dei; DS 3855.
[5] Ivi, 61.
[6] Ivi, 2.
[7] R.Amerio, IotaUnum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di E.M.Radaelli, Lindau,Torino 2009, p 561-562.
[8] cfr C.Barthe, La Messe a l’endroit, Orthez 2020, p 34.
[9] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello B. 2001, p 171-177.
[10] A.Reid, in Aa.Vv, The Genius of the Roman Rite. Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, ed.U.M.Lang, Chicago/Mundelein,Illinois,2010, p 208.
[11] Cfr anche McManus, Bouyer, Jungmann in: ivi, p 204 s.
[12] cfr B.Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II: un Discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Av), 2009, p 140.
[13] Davanti al Protagonista, p 56-57.
[14] Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, 7 luglio 2007, n.5.
[15] Via Crucis 2005: Meditazione IX stazione, Città del Vaticano 2005; cfr anche: Introduzione allo spirito della liturgia, p 19.
[16] J.Ratzinger, La mia vita, San Paolo 1997, p 113.
[17] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, p 168. [18] Ivi, p 77-78.
[19] J.Ratzinger, Dio e il mondo, S.Paolo 2005, p 380.
[20] V.Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, C. Balsamo 1985, p 10.
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[Fonte : missagregoriana.it]