Come già ricordato nel thread precedente, l’equivoco antropocentrico trova per Mons. Brunero Gherardini le sue radici nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae), nella dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra aetate) e nel decreto sul dialogo ecumenico (Unitatis redintegratio).
L’antropocentrismo ha contaminato tutta la cultura moderna e il pensiero maggioritario conciliare, e nulla «nel modernismo e nella sua assatanata reviviscenza neomodernista è risparmiato del tesoro di verità ricevute e trasmesse», ovvero la Sacra Scrittura, i dogmi, la Liturgia, la morale.
Oggi quel tarlo modernista che erodeva dal di dentro è emerso con spavalderia, ma l’aula conciliare ne fu già testimone quando si trattarono tematiche nodali, che si distanziavano, nella loro elaborazione, dalla Tradizione. (la numerazione delle note è su questo brano, non segue quella del libro: Il Vaticano II alle radici d’un equivoco, Lindau, pp. 410, € 26.00, pp.195-204).
Abbiamo già pubblicato uno studio su Nostra Aetate tratto da Divinitas e quello sull'antropocentrismo della Gaudium et Spes, pure tratto dal volume citato.
L’antropocentrismo ha contaminato tutta la cultura moderna e il pensiero maggioritario conciliare, e nulla «nel modernismo e nella sua assatanata reviviscenza neomodernista è risparmiato del tesoro di verità ricevute e trasmesse», ovvero la Sacra Scrittura, i dogmi, la Liturgia, la morale.
Oggi quel tarlo modernista che erodeva dal di dentro è emerso con spavalderia, ma l’aula conciliare ne fu già testimone quando si trattarono tematiche nodali, che si distanziavano, nella loro elaborazione, dalla Tradizione. (la numerazione delle note è su questo brano, non segue quella del libro: Il Vaticano II alle radici d’un equivoco, Lindau, pp. 410, € 26.00, pp.195-204).
Abbiamo già pubblicato uno studio su Nostra Aetate tratto da Divinitas e quello sull'antropocentrismo della Gaudium et Spes, pure tratto dal volume citato.
2. L'antropocentrismo della dichiarazione DH
Se qualcuno potesse aver ancora dei ragionevoli dubbi sull'orientamento antropocentrico del Vaticano II, tutti verrebbero fugati dall'attenta lettura della Dichiarazione sulla libertà religiosa. I principi in essa contenuti son infatti il trionfo definitivo dell'antropocentrismo conciliare. Con essi s'aprì una nuova base dottrinale, cui rispose la molteplicità di contraddittorie interpretazioni, di cui a tutt'oggi si soffre. Il peggio è che, più il tempo passa, più difficile diventa il ricupero della retta dottrina.
La storia di questo documento e la sua approvazione conciliare son fonte di non poche perplessità. De Mattei[1] ricorda che ben settanta oratori s'espressero al riguardo, tra i quali tre cardinali: Ruffini, Siri ed Arriba y Castro. Dall'alto della loro statura morale, questi porporati dimostraron l'errore teorico e pratico che il Concilio, con il suo eventuale si, avrebbe commesso. Avrebbe infatti decretato sia «la rovina della religione cattolica» come unica vera religione, da Dio stesso voluta e rivelata, sia il suo allineamento fra le tante e come una delle tante. Né questa sarebbe stata l'unica conseguenza. Altre ne sarebbero derivate, quali l'umanesimo naturalista e quindi la concezione antropocentrica delle cose e della storia, l'indifferentismo religioso, il laicismo, l'irenismo. Non solo, ma alla resa dei conti e tutto ben considerato, si poteva già prevedere che le conseguenze negative sul piano del diritto internazionale e del diritto pubblico ecclesiastico sarebbero state ancora più gravi.
Nel prosieguo degl'interventi in aula (15-22 settembre 1965), ai tre surricordati cardinali altri se n'aggiunsero e di rilevante valore, quali gli Em.mi Florit, Dante ed Ottaviani, totalmente sommersi, però, nel coro dei sì superficiali e largamente maggioritari. Il testo fu rimaneggiato più volte, lasciando sempre dietro di sé un'ondata impressionante d'insoddisfazione e l'assordante plauso di chi non va troppo per il sottile nell'analisi delle cose, sempre pronto com'è a schierarsi con la maggioranza. Dopo ben sei redazioni, il 7 dicembre 1965, alla vigilia della chiusura conciliare, DH diventò dottrina della Chiesa grazie al seguente esito dell'ultima votazione: 2308 suffragi a favore, 70 contro, 8 nulli.
Parrebbe fuori discussione che i pronunciamenti d'un Concilio, soprattutto in ambito etico-teologico, dovessero sempre procedere dalla Parola di Dio scritta o detta, ossia tanto dalla Sacra Scrittura quanto dalla viva Tradizione della Chiesa: una Tradizione in tanto viva, in quanto reperibile nella continuità sostanziale e provata del suo insegnamento. DH esordisce, invece, ponendo in primo piano la consapevolezza della dignità della persona umana e della sua libertà «da misure coercitive», quale meta raggiunta dagli uomini d'oggi. Alla base del documento e della sua dottrina sta, dunque, la suddetta consapevolezza. Affermando poi di dedurre dalla «sacra Tradizione e dalla dottrina della Chiesa elementi nuovi sempre in armonia con quelli già posseduti», dichiara l'intero complesso delle sue deduzioni «conforme alla verità e alla giustizia» (1/a).
Parole d'una sconcertante gravità, da allineare con quelle d'un F. de Lamennais[2] e d'un C. Montalembert, il cui liberalismo, giustamente ed immediatamente proscritto, non era molto più rivoluzionario ed innovativo, nei confronti della dottrina cattolica tradizionale, di quanto non lo sia il culto conciliare per l'uomo, la sua dignità e la sua libertà. E l'aver dedotto un tale culto da una «rimeditazione della Tradizione sacra e della dottrina della Chiesa»[3], aggrava la situazione, non la chiarisce. In realtà, per riconoscer un minimo d'attendibilità ad espressioni siffatte, sarebbe stato necessario indicar in che cosa la «rimeditazione» sia consistita, che cosa abbia scoperto, quali elementi di continuità abbia rilevato. Così come si legge, il testo manca della sua necessaria, o quanto meno opportuna, fondazione storica ed teologica.
Dico «storica» non solo in riferimento al passato: indubbiamente, in nessuna epoca del passato il culto alla persona umana, che oggi si presume derivante dalla Tradizione e dalla sua costante dottrina, figura in codesti medesimi termini come un insegnamento cattolico, né come una sua lontanissima premessa, né come una sua vaga allusione. Dico «storica» anche in riferimento al presente. Eccezion fatta per il Magistero che, da Paolo VI in poi s'esprime in genere sulla base del Vaticano Il più che di precedenti atti magisteriali, quando si parlò d'umana dignità la si dedusse sempre dalla sua scaturigine soprannaturale e la si riconobbe, perciò, nel suo valore trascendente[4]. Il grande Leone I fu perentorio: «Non prerogativa terreni originis, [...] sed dignatio caelestis gratiae»[5]. Al riguardo, è ben noto quel testo di straordinaria importanza, che viene spesso citato dagli oratori sacri e che non ammette alternative: «Riconosci, o cristiano, la tua dignità; e reso consorte della divina natura (2Pt 1,4), non ritornare con una degenerata condotta all'antica miseria. Ricordati di quale Capo e di quale corpo sei membro e non dimenticare che sei stato trasferito dalla potestà delle tenebre nell'ammirabile luce e nel regno di Dio»[6]. Poiché tali parole non han per oggetto l'uomo in quanto tale, ma l'uomo in quanto battezzato, esse spiegano perché la dignità del cristiano «non è prerogativa terrena ma dono dell'accondiscendente grazia divina». In esse, pertanto, i cristiani troveranno la ragione ultima della loro immensa dignità. Ma d'una tale ragione nessun'eco s'avverte e nessuna continuità si percepisce nella «rimeditazione» di cui sopra, attenta soltanto alla «consapevolezza oggi sempre più viva della dignità della persona umana».
Si è poi così sicuri che tale consapevolezza sia il distintivo, o uno dei più sintomatici distintivi dell'odierna stima per la dignità della persona umana? Basta che l'attenzione si fissi:
- sulle enormi disparità che dividon il consorzio umano;
- sulla fame nel mondo;
- sulle guerre ininterrottamente insorgenti dalle ceneri dei due ultimi conflitti mondiali;
- sulla filosofie ancor oggi ispirate al materialismo storico e dialettico;
- sull'organizzazione del profitto anziché del bene comune;
- sulle spese senza fondo degli Stati industrializzati e no per l'approvvigionamento ed il rinnovamento del proprio apparato d'armi sempre più sofisticate;
- sul controllo mondiale di dati pubblici e privati[7];
- sull'infamante ecatombe di vite umane appena sbocciate, e subito la fisima della grande e crescente stima per la dignità della persona umana finisce in una bolla di sapone.
È notorio che l'espressione libertà religiosa non fu coniata dai Padri consiliari. Essi se la trovaron fra le mani, proveniente sia dalle condizioni di quotidiana coesistenza negli Stati in cui la Chiesa è presente, sia ed in modo speciale dal diritto pubblico, cui essa non poteva sfuggire. In ultim'analisi, non era sfuggita nemmeno a Leone XIII, il quale più d'una volta precisò che, «anche nel caso d'una popolazione interamente cattolica, lo Stato mantiene la competenza nel temporale e la Chiesa nello spirituale; le due competenze non si fondono in una teocrazia, sul tipo di quella veterotestamentaria»[8]. Come a dire che la Chiesa non può né abdicar al suo diritto esclusivo in materia religiosa, né ignorare la competenza dello Stato di garantire, con i mezzi ad esso propri, ossia con atti civili e con opportuna legislazione, il rispetto dei valori religiosi e l'articolazione pubblica dei culti. Certo, con Leone non s'era ancor alla libertà dei culti; egli infatti, che pur ebbe a cuore il problema della libertà in quanto tale, non ammise la parità, e quindi la libertà d'ogni religione, ma chiese agli Stati, in caso di pluriconfessionalismo, d'instaurar un regime d'illuminata tolleranza. Vale a dire, di rapporti pacifici, tutelati dalla legge, fra persone e gruppi che non condividon le stesse convinzioni religiose e son distinti dai rispettivi culti. Fu soprattutto il grande pontefice Pio XII a chiarire questo concetto, invitando le maggioranze cattoliche a farsi carico delle ripercussioni che il loro stesso comportamento avrebbe potuto suscitar in appartenenti a gruppi religiosamente minoritari[9]. Donde una tolleranza non puramente formale né tantomeno di sussiego, ma animata da comprensione e carità, nata anzi dalla consapevolezza d'aver a che fare con un errore da sopportare pro bono pacis. L'errore non ha diritti, ma la carità lo tollera. DH però non si fermò alla tolleranza. Pur riconoscendone la matrice nell'amore e questo considerando come contenuto positivo della tolleranza stessa, la superò sostituendole la libertà: a questa si ha il diritto di cui è privo l'errore ed al quale si provvede con un compromesso, che non lo contesta ma lo tollera[10].
Dunque, un diritto. Il problema è tutto qui. O più esattamente in ciò che DH dichiara come fondamento d'un tale diritto. Il testo (2/a) è cristallino: la sua logica un po' meno: «Il diritto (ius) alla libertà religiosa si fonda realmente sulla dignità della persona umana, quale si conosce mediante la divina Rivelazione e la stessa ragione»[11]. A riprova, però, di codesto fondamento e della sua duplice conoscenza, neanche una parola. La libertà religiosa, tanto nel suo aspetto negativo (assenza d'ogni coercizione in materia di religione e di culto) quanto in quello positivo (diritto fondato sulla dignità della persona umana, conforme all'insegnamento della Rivelazione e della ragione), è dal testo conciliare declamata ma non dimostrata. È pertanto un'affermazione gratuita. Se ne potrebbe far a meno senza sentirne la mancanza. Se non che 2/a continua: «Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa dev'esser riconosciuto e sancito come un diritto civile nell'ordinamento giuridico della società». «Deve» esprime sia l'indiscussa perentorietà con cui la Chiesa non lascia alternative allo Stato, sia il dovere in corrispondenza al diritto. Altro che farne a meno. Poiché esso prorompe, come 2/a ha appena ricordato e confermato, dal diritto naturale sia dei singoli sia delle loro comunità (4/a), ne consegue che ad esse, a tutte e ad ognuna, qualora «non ne sian violate le giuste esigenze dell'ordine pubblico, è doveroso riconoscer il diritto all'immunità da ogni misura coercitiva nel reggersi secondo le norme proprie», nonché all'esercizio di tutte le libertà in ambito personale, familiare, sociale, educativo (4/b-e). Un tale riconoscimento potrebbe avere la sua giustificazione nella concezione moderna dello Stato, estraneo al fanatismo ed al secolarismo e lontano dal fare tanto della religione quanto dell'ateismo i suoi fondamenti etico-politici[12]. Ma non in una concezione cristianamente ispirata, che ignora - o dovrebbe ignorare - l'aconfessionalità radicale delle istituzioni socio-politiche e non esime la società dall'obbligo del culto pubblico all'unico vero Dio mediante l'unica vera religione. Non basta, in una katholische Weltanschauung, che lo Stato crei le condizioni ideali perché i suoi sudditi dian vita al culto pubblico: occorre che lo Stato stesso, senza sostituirsi alla coscienza dei suoi sudditi, si dimostri non indifferente all'imperativo sociale del problema religioso. E là dove tra i sudditi ci fossero membri di religioni diverse, il metterle tutte su uno stesso piano configurerebbe, sotto l'aspetto della modernità, una decisione di liberalità formalmente democratica; ma sotto l'aspetto del bene comune, quella stessa decisione potrebbe seriamente comprometterlo, perché un vero apporto al bene comune non può scaturire da statuti e comportamenti contraddittori. Non ho titoli nell'ambito delle scienze politiche e sociali e forse per questo non riesco a scorger un effettivo contributo al bene comune da un pluralismo contraddittorio e non controllato dalla legge. Che la legge lo tuteli non esclude che lo controlli ad evitare che dal pluralismo stesso sia accesa la miccia del disordine sociale.
Dallo Stato, pertanto, in un contesto di pluralismo religioso, parrebbe lecito attendersi la garanzia d'una libertà democraticamente riconosciuta ai singoli gruppi religiosi, non già il giudizio sulla religione vera o falsa, ciò non essendo di sua competenza, né il ripristino della religione-di-Stato contestabile sul piano d'una sana laicità. Affinché l'esercizio dei culti e la diffusione di credenze che s'elidono spesso a vicenda non costituiscan un pericolo per l'ordine pubblico e la pace sociale, ossia per il bene comune, è necessario che il tutto avvenga nel pieno rispetto della legge. Uno Stato che, tutelando la libertà all'esercizio dei vari culti, la disciplini per renderla un coefficiente del bene comune, attuerebbe già una forma di libertà religiosa, forse l'unica possibile: quella che né obbligherebbe lo Stato ad una scelta al di fuori o contro le sue competenze, né impedirebbe, anzi regolerebbe un esercizio dei culti in tanto proficuo in ordine al bene comune, in quanto pacifico. Una libertà religiosa, pertanto, spoglia dell'ingombrante e spesso incongruente teoresi di DH, pur essendo ed attuandosi come vera libertà religiosa. Era questa, tutto sommato, la dottrina in base alla quale la Chiesa ha da sempre sostenuto che nessuno dev’esser obbligato a credere.
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1. Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, p. 459.
2. Che era passato da posizioni di semigallicanesimo al grado estremo dell'ultramontanismo e difendeva l'istituzione dell'episcopato derivandola dalla centralità fontale del papato, cfr. Tradition de l'Église sur l'institution des évéques, 3 voll., pubblicati clandestinamente a Liegi 1814.
3. In verità il verbo « rimeditare» è solo nella traduzione italiana: l'originale latino ha « scrutatur».
4. Basterebbe a dimostrarlo risalire addirittura fin a sant'Ireneo e leggerne alcuni brani dall'Adversus hxreses, come 4,37,7 PG 7,1104; 4,39,2 PG 7,111
5. Leone Magno, Sermones, 3,1 PL 54,145.
6. Sermones, 21,3 PL 54,192. È vero che qui il discorso riguarda non tana l'uomo in sé, quanto il cristiano. Ma anche un Concilio ecumenico si rivolge, in prim'istanza, ai cristiani e più esattamente ai cattolici.
7. Sembra che esistano (in Francia, per esempio, ed in Spagna) degli organismi ufficiali per la computerizzazione d'ogni dato d'ogni singola persona, con speciale attenzione ai dati bancari, agli orientamenti politici, agli spostamenti e comportamenti dei cittadini, dei politici e degli uomini di Stato, per capire che tutta la dignità della persona umana è ormai andata a finir in un semplicissimo e banalissimo «clic». E taccio sulle aberrazioni quotidiane delle navigazioni in internet.
8. Leone XIII, enciclica Immortale Dei, 1° novembre 1885, in Acta, editio Romana, V (1886), p. 188; Id., enciclica Sapientiae christianae, 10 gennaio 1890, in Acta, 10 (1890), p. 14
9. Pio XII, Discorso ai giuristi cattolici, 6 dicembre 1953, in Pio XII, Discorsi e Radiomessaggi, Poliglotta Vaticana 1954, vol. XV, pp. 485-486.
10. Si veda su quest'argomento M. Nicolau, Storia del magistero pontificio circa la libertà di coscienza, in Rafael Lopez Jordan (a cura di), Problematica della libertà religiosa, Ancora, Milano 1964; P. Barbaini, La libertà religiosa, Storia e dottrina di un problema cristiano, Studium, Roma 1964; P. Pavan, Libertà religiosa e pubblici poteri, Ancora, Milano 1965.
11. Tale dichiarazione è seguita da una lunga nota (n. 2), che dovrebbe confermare e giustificare l'asserto, ma non è capace di dargli alcun fondamento. Il riferimento a Giovanni XXIII collega il diritto d'onorare Dio al solo «dettame della retta coscienza»; quello a Pio XII ricorda «i diritti fondamentali della persona», tra cui «il culto di Dio privato e pubblico»; quello a Pio XI si rifà al diritto naturale di professare la propria fede; quello a Leone XIII sottolinea il collegamento della libertà con la dignità della persona. Neanche un rimando ad una parvenza di fondazione biblica.
12. Cfr. Giovanni Paolo II, Omelia del 25 gennaio 1998, a Cuba, in «Documentation Catholique» 1998, n. 2177, pp. 230-232. Altrettanto nel messaggio per la giornata mondiale della pace, 8 dicembre 1987, in «Documentation Catholique» 1988, n. 1953, p. 1.
"...Fu soprattutto il grande pontefice Pio XII a chiarire questo concetto, invitando le maggioranze cattoliche a farsi carico delle ripercussioni che il loro stesso comportamento avrebbe potuto suscitar in appartenenti a gruppi religiosamente minoritari. Donde una tolleranza non puramente formale né tantomeno di sussiego, ma animata da comprensione e carità, nata anzi dalla consapevolezza d'aver a che fare con un errore da sopportare pro bono pacis. L'errore non ha diritti, ma la carità lo tollera. DH però non si fermò alla tolleranza. Pur riconoscendone la matrice nell'amore e questo considerando come contenuto positivo della tolleranza stessa, la superò sostituendole la libertà: a questa si ha il diritto di cui è privo l'errore ed al quale si provvede con un compromesso, che non lo contesta ma lo tollera..."
RispondiEliminaEcco il punto
Ciao Mic,
RispondiEliminaso che sono fuori tema, ma uso il commento per farti una domanda.
Hai letto l'ultimo Commento Eleison di Williamson, in cui dice che consacrerà nuovi vescovi?
Hai qualche informazione in merito?
No Juan,
RispondiEliminaho letto solo il commento e ho notato un gran cambiamento: una maggiore determinazione rispetto allo scorso anno.
Per il resto non so nulla.
Mala tempora, su tutti i fronti...