Pagine fisse in evidenza

domenica 2 febbraio 2014

CATTOLICITÀ E ROMANITÀ DELLA CHIESA NELL'ORA PRESENTE

Convegno Roma, ottobre 2009:
Il Motu proprio "Summorum Pontificum". Un grande dono per tutta la Chiesa. 
Intervento del Prof. Roberto De Mattei

CATTOLICITÀ E ROMANITÀ DELLA CHIESA NELL'ORA PRESENTE

Le note distintive della Chiesa

La verità della Chiesa cattolica, la sua divinità, la sua unicità, ciò che ci autorizza a dire che fuori di essa non c'è salvezza, è dimostrata, o confermata, dalle sue caratteristiche fondamentali, dalle sue note distintive che professiamo dal IV secolo nel simbolo niceno-costantinopolitano: "Credo unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam".

Le note della Chiesa sono segni a tutti visibili. La Chiesa è, dalla sua fondazione, una e indivisa nella sua dottrina, nei suoi sacramenti e nel suo governo; è santa, pura e senza macchie, mai peccatrice, pur comprendendo in sé dei peccatori; è cattolica cioè universale, destinata a diffondere nel mondo il solo Battesimo di Cristo e l'unica salvezza; è apostolica, perché è fondata sulla successione ininterrotta dei suoi Pastori, da san Pietro e dagli apostoli ai nostri giorni[21].

Il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica riafferma queste note come "tratti essenziali" della Chiesa e della sua missione. "La Chiesa" dice "non se li conferisce da se stessa; è Cristo che per mezzo dello Spirito Santo concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica"[22].

Nel Regina Coeli del 27 maggio 2007, Benedetto XVI ha ricordato queste note, aggiungendo che la Chiesa ha come proprietà essenziale anche quella di essere "Romana".

Il Catechismo di san Pio X afferma con più precisione: "La Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa Cattolico-Romana, perché essa sola è una, santa, cattolica e apostolica quale Egli la volle"[23].

La Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica è la Chiesa Romana. La Romanità è però qualcosa di più e di diverso da una nota della Chiesa: essa è l'attuazione di queste note, è il loro compendio concreto e storico: nella Romanità si riassume, per così dire, il volto visibile del Corpo mistico di Cristo. Per questo si parlava un tempo e dobbiamo continuare a parlare di Santa Romana Chiesa. Il termine "Romana" cala la Chiesa nel tempo e nello spazio, in un luogo e in una memoria storica.
Ma che cosa è la Romanità della Chiesa? E qual è il suo significato nell'ora presente?

Roma: una parola di mistero

Il nome di Chiesa Romana associa due realtà diverse. La parola "Roma" evoca una realtà storica: una città, una civiltà, un Impero, che ha avuto inizio e fine nel tempo; la parola "Chiesa" rimanda ad una realtà soprannaturale, immersa nella storia, ma appartenente all'eternità. Il nesso tra questi due termini è però intimo e inscindibile. È un'intima e misteriosa relazione stabilita non dagli uomini, ma dalla Divina Provvidenza.

L'allora Cardinale Eugenio Pacelli in una conferenza che tenne il 24 febbraio 1936 presso l'Istituto di Studi Romani sulla "sacra vocazione di Roma", disse che Roma è "una parola di mistero" e parlò della "città che profonda il piede nelle zone pagane del Tevere e nei sacri meandri delle catacombe, e leva e nasconde il capo fra le stelle, per chinarlo innanzi al trono di Dio"[24].

Tacito definiva Roma "caput rerum"[25]; Orazio la chiamava "principis urbium"[26]; Tibullo, "aeterna urbs"[27]; Tito Livio, "caput orbis terrarum"[28]. La città che regnava sul mondo chinò il capo innanzi al trono di Dio e divenne la sede della Cattedra universale di Pietro, destinata a un regno spirituale. La caput mundi pagana divenne la città eterna, quella città "onde Cristo è romano" che Dante evoca nella Divina Commedia[29].
Come e quando accadde questa trasmutazione storica?

A tale domanda pretesero rispondere alcuni storici e teologi modernisti come Auguste Sabatier e Adolf von Harnack. Per essi, il prestigio della capitale dell'Impero Romano avrebbe fatto sì che il Vescovo di Roma fosse il Vescovo di tutte le Chiese. Il primato del Romano Pontefice sarebbe dunque una conseguenza della grandezza dell'Impero Romano.

La tesi modernista, ancora oggi ricorrente, affonda la sua origine nel dibattito teologico del primo millennio tra la Chiesa di Roma e le Chiese d'Oriente e già affiora nel 28° canone del Concilio di Calcedonia (451), cancellato da san Leone Magno. Le Chiese orientali riconoscevano il primato di Roma come un primato onorifico dovuto al fatto che Roma era stata la capitale dell'Impero Romano. Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente e il trasferimento della "nuova Roma" a Costantinopoli, anche il primato sarebbe dovuto passare al Patriarca di quella città.

La condanna di questa tesi fu ribadita da san Pio X nel decreto "Lamentabilis" annesso alla "Pascendi" (1907). Il Papa in quel documento anatemizza la seguente proposizione: "La Chiesa Romana diventò capo di tutte le Chiese non per disposizione della Divina Provvidenza, ma per circostanze puramente politiche" ("Ecclesia Romana non ex divinae providentiae ordinatione, sed ex mere politicis condicionibus caput omnium Ecclesiarum effecta est")[30].
L'errore è quello di fondare la giurisdizione della Chiesa su di un primato di natura politica. In realtà la ragione della scelta di Roma come sede della Cattedra di Pietro non sta nella grandezza e nell'autorità dell'antica Roma, ma nel fatto che Roma fu il luogo in cui esercitò il suo ministero san Pietro, l'apostolo cui era stato conferito da Cristo il primato universale. Se san Pietro si fosse fermato in Antiochia e vi fosse morto, i Vescovi antiocheni avrebbero avuto la stessa autorità che conseguirono i Vescovi di Roma. Roma sarebbe stata una città storica, centro di una grande diocesi, ma non di più, e la Chiesa Cattolica non potrebbe dirsi Romana.
Fu una disposizione della Divina Provvidenza che Pietro scegliesse Roma come sua sede vescovile. Qui, nel circo di Nerone, egli subì il martirio; sotto il punto centrale della cupola vi è il luogo del suo sepolcro. I suoi successori, i papi, hanno continuato la sua missione fino al presente.
La Roma cristiana trae dunque la sua grandezza dal martirio di Pietro e non dal potere dell'Impero. E, d'altra parte, il Patriarcato di Costantinopoli, mentre negava il primato religioso di Roma, in nome del primato politico che la nuova Roma esercitava nel mondo, introduceva il diritto di ingerenza dell'Imperatore bizantino negli affari ecclesiastici, fino a fare del Patriarca di Costantinopoli un proprio proconsole religioso. La sottomissione della religione alla politica caratterizzerà da allora tutta la storia dell`ortodossia".

Roma cristiana e Roma pagana

Una seconda domanda si pone a questo punto: perché la Divina Provvidenza designò Roma, e non un'altra città, come luogo del ministero e della morte del principe degli apostoli?
Molti autori cristiani hanno trattato questo argomento: la Città di Dio di sant'Agostino nasce proprio da una meditazione su tale tema. Nessuno forse come un discepolo del Dottore di Ippona, san Prospero di Aquitania (390 ca-463), ne sintetizza bene il pensiero: "Crediamo che la Provvidenza di Dio abbia predisposto nella sua estensione l'Impero Romano, affinché le nazioni che sarebbero state chiamate all'unità del Corpo dì Cristo fossero prima unite nella legge di un solo impero; sebbene la grazia di Cristo non si accontenti di avere gli stessi confini di Roma"[31].
La grazia di Dio va ben oltre i confini dell'Impero Romano, perché il mandato di Gesù Cristo è quello di predicare il Vangelo a tutte le genti, da un capo all'altro della terra (Mc 29,19). Ma poiché la Grazia presuppone la natura, Dio predispose una cornice naturale idonea alla diffusione e all'accoglimento della Sua Parola. Questa cornice storica e giuridica fu l'Impero Romano.
Roma appare nel bacino del Mediterraneo come la città destinata a unificare il mondo per prepararlo alla diffusione del Cristianesimo. Le grandi vie consolari su cui avevano marciato le legioni aprirono la strada ai predicatori del Vangelo; la lingua latina diventò la lingua universale e sacra della Chiesa; il diritto romano offrì le basi giuridiche al diritto canonico della Chiesa e al diritto comune dell'Occidente.
Eppure Roma, culla e patria del diritto universale, si macchiò della più grande ingiustizia della storia: il processo e la condanna di Gesù Cristo. Dopo aver condannato a morte Gesù, l'Impero Romano, che ospitava nel Pantheon tutti i culti della terra, rifiutò la Verità del Vangelo e perseguitò la Chiesa nascente come mai aveva fatto nei confronti di nessuna delle numerose sette che proliferavano al suo interno. Ciò segnò la sua fine. La causa della decadenza e della fine dell'Impero Romano non sta nel Cristianesimo, come ancora pretendono molti storici, ma nel rifiuto della parola di Verità e di Vita che il Cristianesimo annunciava.
La storia della Chiesa si presentò fin dall'inizio come la lotta di due Rome: la Roma pagana, che cercò di distruggere il Cristianesimo, e la Roma cristiana che vinse, con le sole armi della verità e dell'amore, il più grande potere politico e militare che la storia avesse conosciuto.
Nessun altro impero raggiunse lo splendore di quello Romano. Sembrò creato per i millenni, eppure anch'esso fu sottomesso alla legge del tempo e della storia. Della Roma pagana rimangono oggi solo le rovine. È la legge di tutto ciò che è umano e terreno: ai grandi successi, ai trionfi mondani succedono, con rapidità ancora maggiore, la decadenza, il disfacimento, la morte. Ce lo ricorda Pio XII, che così continua: "Quando noi ci troviamo invece dinanzi alle testimonianze del passato cristiano, per quanto antiche esse possano essere, sentiamo sempre qualche cosa d'immortale: la fede, che esse annunziano, vive ancora, moltiplicata indefinitamente nel numero di coloro che la professano: vive ancora la Chiesa, a cui esse appartengono, sempre la stessa attraverso i secoli"[32].
All'imperatore Costantino si deve, nel IV secolo, il merito di aver riconciliato Roma con il Cristianesimo, di essere il padre di un'era che avrebbe assorbito l'eredità della cultura e delle istituzioni romane, innestando in esse lo spirito e la legge del Vangelo e offrendo all'umanità un vincolo non solo esterno, qual era stato imposto dalla lex romana, ma interiore e spirituale.
Lo stesso Costantino trasferendo la capitale dell'impero sulle sponde del Bosforo incrinò però quell'unità, anche geografica, tra Roma e il Cristianesimo che aveva restaurato nel 313 con l'Editto di Milano. E tuttavia anche Costantino fu inconsapevole strumento della Divina Provvidenza. Non c'era posto a Roma per due imperi: un impero cristiano e un impero terreno. Se l'Impero Romano non fosse caduto, il Cristianesimo nascente ne sarebbe stato schiacciato. Il Sacro Romano Impero fu restaurato con l'incoronazione di Carlo Magno a Roma nella notte di Natale dell'800, da parte del Papa Leone III, ma gli imperatori non risiedettero mai più a Roma, che rimase città sacra riservata alla Cattedra di Pietro.
San Leone Magno (440-461) fu il maggior artefice della romanizzazione del Cristianesimo che avvenne nel V secolo, mentre crollava l'Impero Romano d'Occidente. Egli fa un'affermazione analoga a quella di san Prospero d'Aquitania, di cui fu contemporaneo e amico: "Dio ebbe cura che i popoli fossero riuniti in un solo impero, di cui Roma era il capo, affinché da questo la luce della Verità, rivelata per la salute di tutte le gemi, più efficacemente si diffondesse in tutti i suoi membri"[33].
Leone fu il grande protagonista del suo secolo, il quinto, che vide la definitiva caduta dell'Impero Romano d'Occidente. Nessuno come lui ebbe piena consapevolezza del declino inesorabile di Roma, ma anche dell'ascesa di una nuova Roma il cui impero sarebbe stato molto più vasto e glorioso dell'antico.
Nei lunghi secoli di anarchia che vanno dalla caduta dell'Impero Romano alla nascita del Sacro Romano Impero, nell'Europa travolta dai barbari e lacerata da conflitti interni, restò in piedi, in tutta la sua maestà soltanto il Papato. La società era allora un magma ribollente, in cui nulla più restava di stabile e di permanente. In questo crogiuolo, si solidificò la Sede Apostolica, come centro unitario di governo e di giurisdizione, ma anche come punto di irradiazione di una civiltà che nasceva.
San Tommaso d'Aquino negli articoli della Summa Theologica dedicati alla nascita di Cristo, si chiede perché il Salvatore fosse nato a Betlemme e non a Roma. Questa la risposta del Dottore Angelico: "Come si legge in un sermone del Concilio di Efeso (Teodoro di Ancyra Serm. 1), «se (Cristo) avesse scelto Roma, la città più potente, si sarebbe potuto pensare che avrebbe cambiato il mondo grazie al potere dei concittadini. Se fosse stato figlio dell'imperatore, si sarebbe attribuita la sua riuscita al potere (imperiale). Per mostrare invece che il mondo sarebbe stato trasformato dalla sua divinità, scelse una madre povera e una patria ancora più povera». Però, come afferma S. Paolo (1Cor 1,27), «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti». Quindi, per manifestare meglio la sua potenza, stabilì a Roma, capitale del mondo, il centro della Sua Chiesa, come segno di completa vittoria, affinché di là la fede si diffondesse su tutta la terra, secondo la profezia di Isaia (26,5): «Umilierà la città sublime e la calpesteranno i piedi del povero», cioè di Cristo, « i passi degli indigenti», cioè degli apostoli Pietro e Paolo"[34].
Possiamo a questa luce comprendere come santa Caterina da Siena, che fu proclamata Patrona d'Italia, scrivendo a Gregorio XI perché tornasse a Roma come alla sua sede obbligatoria[35], affermava arditamente: "Pensate che questa terra è il giardino di Cristo benedetto ed è il principio della nostra fede"[36]. "Qui è il capo e il principio della nostra fede"[37].

Il Primato Romano

Roma aveva esercitato la sua egemonia politica sul mondo; il Romano Pontefice estese al mondo la legge del Vangelo. Il potere di giurisdizione della Chiesa che sostituì quello della Roma pagana si espresse fin dai primi secoli nella dottrina del "Primato Romano".
La dottrina cattolica sul primato di Pietro e sulla giurisdizione del Romano Pontefice, esposta già da san Clemente, terzo Papa, alla fine del I secolo[38], fu definita nel Il Concilio di Lione del 1274[39], nel Concilio di Firenze del 1439[40], nella Professio fidei Tridentina[41], e infine fu solennemente affermata dal Concilio Vaticano I con la Costituzione Dogmatica Pastor Aeternus (18 luglio 1870).
Quando si parla del Concilio Vaticano I ci si riferisce in genere al solo dogma dell'infallibilità. In realtà la Pastor Aeternus stabilisce in primo luogo che il primato del Papa consiste non solo in una preminenza d'onore sugli altri Vescovi e fedeli, ma in un vero supremo potere dì giurisdizione, indipendente da ogni altro potere, su tutti i pastori e su tutto il gregge.
Nella Pastor aeternus del Vaticano I fu solennemente rinnovata, nel capitolo 3, la definizione del Concilio Ecumenico di Firenze (4 settembre 1439), che impone a tutti i cristiani "di credere che la Santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice hanno il primato su tutto l'universo; che lo stesso Romano Pontefice è il successore del beato Pietro, principe degli apostoli, è autentico Vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, Padre e Dottore di tutti i cristiani; che nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e dei sacri canoni"[42].
Il fondamento della sovranità pontificia non consiste dunque nel carisma della infallibilità, conferito da Cristo al solo Pietro in quanto capo della Chiesa, oltre che al collegio apostolico unito a Pietro; ma consiste nel primato apostolico che il Papa possiede sulla Chiesa universale come successore di Pietro e principe degli apostoli. Questo primato comprende anche il potere di magistero, come fu definito dal Concilio Costantinopolitano IV[43], dal Concilio di Firenze[44] e poi dal Concilio Vaticano I[45].
Il Papa non è infallibile quando esercita il suo potere di governo: le leggi disciplinari della Chiesa, a differenza di quelle divine e naturali, possono infatti mutare. L'infallibilità pontificia ha come unico oggetto, a determinate condizioni, la fede e la morale. Ma è di fede divina, e quindi garantita dal crisma dell'infallibilità, la costituzione monarchica e gerarchica della Chiesa, che affida al Pontefice romano la pienezza della sovranità.

Roma e l'antiromanesimo

Nel corso della storia i nemici della Chiesa combatterono il Primato Romano cercando sempre di dissociare il Cristianesimo dalla romanità. Se la romanità è la prima nota distintiva della Chiesa, l'antiromanesimo può essere considerato la caratteristica distintiva dei suoi nemici. Dopo lo scisma d'Oriente, tra il XV e il XX secolo, la dissociazione di Roma dal Cristianesimo si sviluppa lungo due linee che spesso si intrecciano e si confondono: da una parte si vuole deromanizzare il Cristianesimo, come avviene con il protestantesimo e poi con il modernismo; dall'altra parte si vuole decristianizzare la romanità, come avviene con l'umanesimo pagano, con la Rivoluzione Francese e con il neopaganesimo del XX secolo.
L'umanesimo pagano del Rinascimento e della Rivoluzione Francese contrappone alla Roma cristiana il mito della Roma antica, repubblicana o imperiale. D'altra parte il protestantesimo e il modernismo vedono nel legame con la romanità, intesa come la dimensione costantiniana della Chiesa, la causa della sua degenerazione.
Anche l'Italia, sede del Papato, conobbe dopo il 1789 la sua rivoluzione. Nel cosiddetto Risorgimento, la rivoluzione italiana, noi vediamo confluire le due tendenze: la riaffermazione del Cristianesimo senza Roma e quella della Roma senza il Cristianesimo.
La deromanizzazione si esprime come riforma della Chiesa, purificazione dei suoi legami con il dominio temporale. È la posizione di Gioberti, che nel Rinnovamento civile d'Italia fa della soppressione del potere temporale la condizione necessaria per la rigenerazione della Chiesa.
La decristianizzazione di Roma si esprime con autori come Giuseppe Mazzini, che di Roma fa il simbolo del rinnovamento laico dell'umanità. "Per me" scrive nel 1864 "Roma era - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma uscirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all'Europa"[46].
Tutto l'ampio ventaglio di forze rivoluzionarie del Rinascimento, dal liberalismo "cattolico" fino alle punte più accese del radicalismo democratico, trova il suo momento catalizzatore nel mito della Roma "rigenerata" e "riformata", perché liberata dal principato civile del Pontefice[47].
"La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico" scrive Francesco De Sanctis, uno degli autori più rappresentativi dell'Italia risorgimentale "è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma è dunque per noi non il passato, ma l'avvenire. Noi andremo là per distruggervi il potere temporale e per trasformare il Papato"[48].

Trasformazione del Papato, per gli artefici del Risorgimento, significa la realizzazione di una rivoluzione filosofica e religiosa, analoga a quella protestante, mancata all'Italia, che avrebbe dovuto accompagnaree il processo di unificazione nazionale. P - questo progetto che costituisce il cuore della cosiddetta "Questione Romana".
La fine del potere temporale dei Papi non si riduce al compimento dell'unificazione geopolitica, con Roma capitale italiana, ma si presenta, per gli artefici del Risorgimento, come un evento di natura filosofica e religiosa, chee costituisce il filo conduttore e il simbolico compimento di quell'unificazione nazionale che nel 2011 ci accingiamo a celebrare.
I Patti Lateranensi del 1929 sembrarono cancellare la Questione Romana, ma una nuova "questione romana", esplose all'interno della Chiesa nel corso del Concilio Vaticano II.
"Fino ad oggi" aveva scritto uno dei padri del modernismo, Ernesto Buonaiuti "si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e infallibile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic Iabor "[49].
Tra i Padri e i teologi conciliaci dell'Europa centrale, convenuti a Roma nel 1962 per "aggiornare la Chiesa", si formò un partito anti-romano che sembrò ispirarsi a queste parole. Nelle aule del Concilio un Vescovo dell'Europa centrale accusava con violenza lo schema "De Ecclesia" preparato dalla Commissione teologica romana secondo la dottrina tradizionale di tre gravi colpe: trionfalismo romano; clericalismo; giuridicismo, riassumendo in questo trittico l'antiromanismo che animava quel partito[50].
Rimando al recente libro di Mons. Gherardini, Concilio Ecumenico II. Un discorso da fare[51] e al libro di Romano Amerio, Iota unum[52], l'approfondimento dì questi temi.
Allo storico appare oggi evidente che l'attacco alla Curia, sferrato nell'aula conciliare e nei mezzi di comunicazione che accompagnarono il Concilio e il post-Concilio, nascondeva in realtà l'attacco al Primato Romano.
La Curia Romana, espressione che designa il complesso di tutti i dicasteri e gli uffici che coadiuvano il Papa per il governo della Chiesa Cattolica[53], è nella sua essenza una porzione dell'antico presbyterium dei Vescovi dì Roma, dì cui rappresenta lo sviluppo omogeneo e autentico. Essa dunque non è solo un organo amministrativo, ma la posizione più elevata della Chiesa[54]. La Curia sono innanzitutto i Cardinali, che sono tali perché appartengono al clero della Chiesa locale dì Roma e che proprio in quanto membri del clero romano eleggono il Papa. Il nuovo eletto, proprio perché Vescovo di Roma, è immediatamente successore di san Pietro nel primato e Vicario di Gesù Cristo. Il Papa è Papa perché è Vescovo dì Roma e come Vescovo di Roma è il Vescovo del clero romano, che lo elegge Papa.
La Curia era sempre stata la longa manus del Papa, il suo strumento operativo. Durante il Concilio Vaticano II il partito antiromano riuscì a porre un cuneo tra la Curia e il Papa, colpendo il governo romano, accusato di trionfalismo e di centralismo, attaccando frontalmente la teologia romana, definita da un teologo francese, poi Cardinale, nel suo diario come "miserabile ecclesiologia ultramontana"[55], smantellando la liturgia romana che di quella teologia era espressione.
Oggi la romanità della Chiesa sta soprattutto nei nostri cuori in cui risuonano le parole che Pio XII rivolgeva il 30 gennaio 1949 alla gioventù studiosa di Roma: "Se mai un giorno (diciamo così per una mera ipotesi) la Roma materiale dovesse crollare, se mai questa stessa Basilica Vaticana, simbolo dell'una, invincibile e vittoriosa Chiesa cattolica, dovesse seppellire sotto le sue rovine i tesori storici, le sacre tombe che essa racchiude, anche allora la Chiesa non sarebbe né abbattuta né screpolata; rimarrebbe sempre vera la promessa di Cristo a Pietro, perdurerebbe sempre il Papato, l'una indistruttibile Chiesa fondata sul Papa in quel momento vivente. Così è. La Roma aeterna, in senso cristiano soprannaturale è superiore alla Roma storica. La sua natura e la sua verità sono indipendenti da questa"[56].

Tragedia e speranza dell'ora presente

L'epoca in cui viviamo ricorda quella che l'Europa conobbe tra il V e l`VIII secolo. Viviamo in un mondo in rovina. L'idolo della modernità, costruito a prezzo di tanto sangue nel Novecento, crolla a pezzi e le macerie culturali e morali ci circondano. Vi è tuttavia una pietra che non può essere divelta, perché costituisce la pietra angolare di un Tempio che sfida il corso dei secoli. Questa pietra sta in Roma, luogo scelto della Divina Provvidenza per ospitare la Sede del principe degli apostoli e dei suoi successori.
Benedetto XVI nel suo celebre discorso di Regensburg, ha parlato del tentativo di "deellenizzazione"[57] della Chiesa. Oggi esiste un analogo tentativo di "deromanizzazione", ovvero di dissoluzione della struttura giuridica del corpo mistico di Cristo. Questo tentativo di deromanizzazione della Chiesa è interno alla Chiesa stessa e al suo interno lo dobbiamo combattere.
In un mondo che proclama la necessità della globalizzazione, ma sprofonda sempre di più nel caos, per l'assenza di una suprema autorità e di un centro ordinatore e unificatore, è proprio la romanità della Chiesa a poter offrire un'ancora di salvezza al mondo.
Nel Pontificato Romano, la Chiesa possiede un centro gravitazionale fin dall'inizio della propria esistenza: un principio visibile e unitario di ordinamento e di guida che si incarna nel Vicario di Cristo, il Papa. Roma non è solo il centro geografico della Cristianità, ma il luogo in cui si custodiscono le verità ultime necessarie alla salvezza dell'uomo e i valori più profondi della civiltà occidentale.
L'autorità della Cattedra romana assicura l'unità, infranta tutte le volte che popoli o individui si sono sottratti a quel governo e a quel magistero; rende possibile la santità, come feconda coerenza della vita dei membri della Chiesa con la fede e la morale che essi professano; realizza l'universalità, nella sua missione unificatrice; e finalmente garantisce l'apostolicità in quella successione che va da san Pietro a Benedetto XVI e nel collegamento di ogni sede vescovile con questa romana[58]
.
La Chiesa non è un'unione federativa di comunità cristiane o di conferenze episcopali, professanti dottrine diverse, perfino opposte, sotto la presidenza onorifica del Papa. Ciò che caratterizza la Chiesa non è solo il suo potere di santificare le anime, amministrando i Sacramenti; non è solo il suo potere di guidarle alla verità, attraverso il suo magistero immutabile; ma è anche il potere di governarle, attraverso le sue leggi e le sue istituzioni, sotto l'autorità del Romano Pontefice.
La parola "Roma" evoca soprattutto questa dimensione istituzionale e visibile della Chiesa e il prefisso "romana" non restringe a un tempo e a un luogo storico la vocazione della Chiesa, ma la dilata e la qualifica come portatrice di un messaggio di salvezza soprannaturale che non va disgiunto dal suo governo e dalla sua legge, che ha nel Primato Romano la sua più alta espressione.
Noi oggi non siamo chiamati a difendere solo il Primato Romano, ma la Roma aeterna che lo rende possibile.
Il Primato Romano è stato infallibilmente definito e si difende da sé. Siamo chiamati a difendere il terreno che la Provvidenza ha predisposto attorno alla quercia bimillenaria del primato.
Siamo chiamati a difendere la romanità che è la dimensione giuridica e istituzionale della Chiesa, l'armatura canonica che avvolge e sorregge la sua dottrina. Siamo chiamati a difendere la liturgia romana, che è l'espressione sensibile di questa dottrina, perché la legge della preghiera corrisponde alla legge della fede. Ma soprattutto siamo chiamati a proclamare e a vivere lo "spirito romano", che è la capacità di attingere all'invisibile attraverso il visibile, attraverso quella speciale atmosfera di cui Roma è impregnata, che solo a Roma si respira.
Louis Veuillot lo chiamava "il profumo di Roma"[59]: un profumo naturale e soprannaturale che emana dalle pietre e dalle memorie raccolte in questo lembo sacro di terra in cui la Provvidenza ha posto la Cattedra di Pietro.
Lo spirito romano è il "sensus ecclesiae": la percezione dei mali che aggrediscono la Chiesa, la fedeltà inconcussa a ciò che questa città rappresenta, l'amore e la venerazione, verso tutti i tesori di fede e di tradizione che questa città ci dischiude. Quel sensus ecclesiae, quello spirito romano che ha gonfiato il cuore di tutti i pellegrini che nel corso dei secoli hanno contemplato la Roma felix et nobilis.
La Roma felix, cantata dai Vespri dell'ufficio dei santi Pietro e Paolo, la cui composizione è stata attribuita a una poetessa siciliana, Elpis, che secondo alcuni fu la moglie di Severino Boezio.
La Roma nobilis: la nobile Roma, salutata con commozione, fin dai primi secoli, dai pellegrini che vi giungevano, con le parole di un canto che ci è stato tramandato, come signora del mondo, rosseggiante per il sangue dei martiri, biancheggiante per i candidi gigli delle Vergini.

O Roma nobilis, orbis et domina, 
cunctarum urbium excellentissima, 
roseo martyrum sanguine rubea,
albis et liliis virginum candida: 
salutem dìcìmus tibi per omnia,
te benedicimus, salve, per saecula[60].

Nei giorni inquieti che viviamo, e che ancor più cì aspettano, dobbiamo essere ancora una volta pellegrini dello spirito, che sollevano lo sguardo verso la Roma nobilis et felix, la cui luce non tramonta. Essa appare anche a noi come la città di Sìon vista da Isaia: "Io non dimenticherò te. Ecco io ti ho scolpita sulle palme delle mie mani; le tue mura mi stanno sempre davanti agli occhi" (Is 49,15-16).
Queste parole sono tradizionalmente applicate anche alla Beatissima Vergine, ma nessuna città più di Roma può dirsi più cara a Maria. Nessuna città, nel corso della storia, ha onorato la Madonna come Roma, nelle sue basiliche, nelle sue chiese, nei suoi monumenti. Noi, ultimi tra i fedeli, vogliamo limitarci a sollevare lo sguardo alle immagini di Maria ancora incastonate in mille edicole, nelle strade e nelle piazze, sulle mura dei palazzi, sulle torri e sui campanili della città.
Quelle Madonne piansero miracolosamente nel 1796, alla vigilia dell'invasione giacobina, quando a Roma fu innalzato "l'albero della libertà", venne proclamata la Repubblica e Papa Pio VI fu deportato.
Quanto più devono piangere quelle immagini, in un momento storico in cui il Papa è isolato e "deportato" non fisicamente, ma moralmente, e la città eterna, un tempo sacra, è occupata da distruttori che operano al suo interno. Allora la città fu spogliata dei suoi tesori materiali: gli ori, gli argenti, i quadri, gli archivi. Oggi è nuda dei suoi tesori spirituali, a cominciare da quelli liturgici.
Volgendo gli occhi a Maria, il nostro sguardo pellegrina nello sguardo di Lei, la Madre della Chiesa, e lì trova la risposta al dramma del nostro tempo, lì trova la forza e la fiducia che ci anima.
Viviamo un'epoca tragica, ma come scriveva Veuillot, attendiamo il castigo, non la morte61. Attendiamo non la morte, ma la vita e questa vita non può venire che da Roma, fonte soprannaturale, centro della inevitabile risurrezione della Chiesa. I germi di questa rinascita si manifestano anche nella liturgia romana che papa Benedetto XVI ha restituito alla Chiesa e a cui non intendiamo rinunciare.
Non è un movimento solo liturgico ma un movimento teologico e spirituale, culturale e morale, quello che oggi ci raccoglie e che nella liturgia romana trova espressione. E un movimento "romano" che deve prendere consapevolezza di sé, assumere la propria responsabilità storica e fare dell'amore bruciante alla Chiesa la ragione della propria esistenza.
__________________________
21 Si veda ad esempio: P. HERMANN DIECKMANN s.j., De Ecclesia, Herder, Friburgo, 1925, vol. I, pp. 497-538; MICHAEL SCHMAUS, La Chiesa, tr. it, Marietti, Casale Monferrato, 1963, PP. 472-556; ADRIANO GARUTI, Il mistero della Chiesa. Manuale di ecclesiologia, Edizioni Antonianum, Roma. 2004, PP. 135-157
22 Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 811-812.
23 Catechismo di san Pio X, n. 107.
24 EUGENIO PAGELLI, Discorso del 24 febbraio 1936, in Discorsi ePanegirici, Vita e Pensiero, Milano, 1939, pp. 510, 509-514
25 TACITO, Historiae 2, 32.
26 ORAZIO, Carmina 4,3,13. 
27 TIBULLO, Carmina 2, 5, 29.
28 TITO Livio, Ab urbe condita I, n. 16.
29 DANTE, Divina Commedia, "Purgatorio", 32,102.
30 Lamentabilis", prop. 56, in S.S. SAN Pio X, Pascendi Domini Gregis "Sugli errori del modernismo", con prefazione di Mons. Luigi Negri, introd. Roberto de Mattei, Ed. Cantagalli, Siena, 2007, p. 126.
31 PROSPERO DI AQUITANIA, La vocazione dei popoli, tr. it., Città Nuova, Roma, 1998, p. 144
32 Pio XII, Discorsi e Radiomessaggi, vol. X, Tip. Poliglotta Vaticana, Roma, 1950, p.357
33 SAN LEONE MAGNO, Sermo LXXVII, c. 3-5
34 SAN TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologica, III, q. 35, art. 8 ad 3.
35 SANTA CATERINA DA SIENA, Lettera 196 a Urbano VI, in Le Lettere di S. Caterina da Siena. a cura di Piero Misciatelli, con note di Niccolò Tommaseo. Marzocco. Fiume, 1939, pp. 160-164.
36 SANTA CATERINA DA SIENA, Lettera 347 al conte Alberico da Balbiano, ivi, p. 169 (pp. 165-169).
37 SANTA CATERINA DA SIENA, Lettera 370 a Urbano VI, ivi, p. 272 (pp. 270-273).
38 SAN CLEMENTE ROMANO, Ai Corinti, capp. 5 e 6, in PG, 1, coll 217-221.
39 DENZ-H, nn. 363-365
41 DENZ-H, n. 1307
42 DENZ-H, n. 999.
42 DENZ-H, nn. 3059-3073
43 DENZ-H, nn. 363-365. 
44 DENZ-H, n. 1307
45 DENZ-H, n. 3065.
46 GIUSEPPE MAZZINI, Note autobiografiche, Rizzoli, Milano, 1986, p. 382.
4'7Cfr. VINCENZO GIOBERTI, Rinnovamento civile d'Italia, vol. II, Bologna, 1943, p. 237
48 FRANCESCO DE SANCTIS, II Mezzogiorno e lo Stato unitario, cit. in ALBERTO ACQUARONE, Le forze politiche italiane e il problema di Roma, in Alla ricerca dell'Italia liberale, Guida, Napoli 1972, p. 155
49 ERNESTO BUONAIUTI, Il modernismo cattolico, Guanda, Modena, 1944, p. 128.
50 Così Mons. Emile de Smedt, Vescovo di Bruges. Cfr. Acta Synodalia, 1/4, pp. 356ss.
51, BRUNERO GHERARDINI, Concilio Ecumenico II. Un discorso da fare, Casa Mariana, Frigento, 2009.
52 ROMANO AMERIO, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Fede & Cultura, Verona, 2009.
53 Cfr. NICCOLÒ DEL RE, La Curia Romana. Lineamenti storico giuridici, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1952 
54 Cfr. Abbé VICTOR A. BERTO, Pour la sainte Eglise romaine, Textes et documents, Dominique Martin Morin, Paris, 1976, p. 19.
55 YVES CONGAR, Diario del Concilio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005, vol. 11, p. 20.
56 Pio XII, Discorsi e Radiomessaggi, vol. X, Tip. Poliglotta Vaticana, Roma, 1950, pp. 358-359
57 BENEDETTO XVI, Discorso all'Università di Regensburg del 12 settembre 2006.
58 Cfr. P. MARIANO CORDOVANI o.p., "Romanità della Chiesa", in Roma Nobilis, L'idea, la missione, le memorie e il destino di Roma, a cura di Igino Cecchetti, Edas, Roma, 1953, pp. 103-111.
59 Louis VEUILLOT, Il profumo di Roma, tr. it., Edizioni Paoline, Roma, 1966.
60 Roma Nobilis, cit., p. 90. L'inno fu musicato da Liszt e da Perosi (cfr. pp. 1175-1191).
61 Cfr. LOUIS VEUILLOT, Il profumo di Roma, cit., p. 91.
[Fonte: Atti del Convegno Roma 16-18 ottobre 2009, Il Motu proprio "Summorum Pontificum". Un grande dono per tutta la Chiesa, Fede & Cultura 2011, pp.42-58 - Intervento del Prof. Roberto De Mattei (Presidente della Fondazione Lepanto, direttore di "Radici Cristiane", docente di Storia della Chiesa all'Università Europea di Roma)]

5 commenti:

  1. Alessandro mirabelli02 febbraio, 2014 11:35

    Questa si Che e' una lezione magistrale.

    RispondiElimina
  2. Mi è costata fatica.
    Ma ne valeva la pena! :)

    RispondiElimina
  3. Bello, bene! Dopo tante belle riflessioni vediamo i fatti. Perchè spesso si parla bene, ma poi si pretende per passare ai fatti di avere le chiese, anzi le basiliche, per mettere a frutto il bene ricevuto. Io credo invece che anche se ci chiudono le chiese, si possa servire il Buon Dio anche in casa di qualche famiglia, in un ex bar, sulla strada. Come mi diceva un amico anni fa: loro hanno le chiese noi abbiamo la fede, prima o poi le chiese torneranno ai cattolici, anche quelle ragalate, vendute o prestate a esponenti di scismatici o di altre religioni, perchè prima o poi si convertiranno tutti persino gli ebrei, dunque sursum corda! Per ora passiamo ai fatti, seguiamo qualche coraggioso sacerdote e andiamo a Messa dove la Messa viene detta, fosse anche una catacomba.

    RispondiElimina
  4. Bello, bene! Dopo tante belle riflessioni vediamo i fatti. Perchè spesso si parla bene, ma poi si pretende per passare ai fatti di avere le chiese, anzi le basiliche, per mettere a frutto il bene ricevuto. Io credo invece che anche se ci chiudono le chiese, si possa servire il Buon Dio anche in casa di qualche famiglia, in un ex bar, sulla strada.

    Annarè condivido in linea di principio.

    Se ti riferisci al nostro "pretendere", nel senso di "tendere a" riavere la nostra Santa Messa nella Basilica di Santa Maria Maggiore, credo di aver espresso chiaramente il significato simbolico dell'evento, oltre all'esigenza concreta di chi aveva (qualche volta anch'io) la grazia di parteciparvi.

    Ma magari avessi dietro l'angolo un garage in cui si dice la Messa che amo, ma che soprattutto considero unica!

    Quanto alle riflessioni, in mancanza d'altro e di altri punti di riferimento, dò ad esse la stessa importanza dei fatti, proprio pensando e sperando che servano a stimolarne la concretizzazione.
    La conoscenza che sveglia la volontà e stimola l'esperienza per poi nutrire e rinnovare una fede viva e non solo intellettuale (né solo sentimentale, come dicevo nell'altro thread).

    RispondiElimina
  5. Infatti mic non era tanto indirizzato ai fedeli, ma ai sacerdoti che hanno compreso, dicano la Messa anche in strada senza sperare nelle basiliche (che avremo a tempo debito), perchè è ora di muoversi nel concreto.

    RispondiElimina

I commenti vengono pubblicati solo dopo l'approvazione di uno dei moderatori del blog.