All’origine, questo scritto era stato redatto per il VII Convegno Teologico di Sì sì no no, Parigi, 5-7 gennaio 2007, organizzato dall’Istituto Universitario San Pio X e da DICI (FSSPX) ed ivi inviato. Il testo pubblicato di seguito è stato rivisto, modificato e considerevolmente ampliato con l’aggiunta dell’intero § 5 o II parte. La traduzione francese dell’intervento originario è apparsa negli Atti del Convegno, pubblicati dal Courrier de Rome, con il titolo: Les crises dans l’Église. Les causes, effets et remèdes, Paris, 2008, pp. 251-276.
Per mettere in buona evidenza questo testo, l'ho inserito tra i Documenti di rilievo consultabili dalla colonna destra del blog.
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La crisi della vita devota e le responsabilità
del concilio ecumenico Vaticano II
del concilio ecumenico Vaticano II
di Paolo Pasqualucci
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SOMMARIO: I - 1. La vita devota in senso proprio sembra scomparsa. 2. Il concilio vaticano II ha formalmente mantenuto gli usi tradizionali della vita devota. 3. tuttavia nei testi conciliari appare la tendenza ad inglobare questi usi nella liturgia, contro l’insegnamento tradizionale: 3.1 La dottrina tradizionale, come esposta nella Mediator Dei. 3.2 Il concilio fa sparire il concetto di “culto interno”. 3.3 Il concilio vuole includere gli exercitia pietatis nella liturgia. 3.4 Il concilio vuol far scaturire lo spirito di preghiera dalla prassi di vita. 4. La concezione tradizionale della devozione ha sempre ricercato una perfetta armonia tra culto interno e liturgia, alla luce delle capacità di ciascun credente: 4.1 Il modo devoto di ascoltare la Messa, secondo S. Francesco di Sales. 4.2 Il latino non ha mai rappresentato un vero ostacolo. 4.3 il vero significato di una “partecipazione attiva”. 4.4 Pio XII conferma le istruzioni della ‘filotea’.
II - 5. Il concilio oscura i fondamenti della vita devota. 5.1 La necessaria separazione spirituale del cristiano dal mondo. 5.2 Il vaticano II richiede al cattolico di “perfezionare l’ordine temporale” senza convertirlo a Cristo. 5.3 Il perfezionamento dell’ordine temporale deve esser attuato “ecumenicamente” ossia in comunità d’intenti e d’azione con “gli altri gruppi cristiani” ed anzi con tutti gli uomini. 5.4 servendosi del concetto di “verità come ricerca”, tipico dei modernisti, la pastorale del “perfezionamento” auspica il superamento dell’etica cristiana e della concezione tradizionale della salvezza, considerate troppo “individualistiche”. 5.4.1. L’irrazionale e contraddittorio concetto di “verità come ricerca”, proposto dal concilio.
I.
1. La vita devota in senso proprio sembra scomparsa
È opinione sempre più diffusa che uno dei segni evidenti dell’odierna, gravissima crisi della Chiesa cattolica sia rappresentato dalla sostanziale assenza di riferimenti al Sovrannaturale e alla Grazia nella prassi ecclesiale quotidiana, ivi compresi documenti ufficiali del Magistero. Quali le cause di questo silenzio? La causa remota è da ricercarsi, ad avviso di molti, nell’antropomorfismo penetrato nella dottrina e nella pastorale della Chiesa a partire dal Vaticano II, il cui “spirito” è notoriamente risultato esser quello di una conciliazione-compromesso dei valori del Cristianesimo con quelli del mondo, anziché quello di un rinnovato slancio missionario per convertire il mondo.
Tra le cause prossime, possiamo annoverare il declino della vita devota presso il clero ed i fedeli, con le sue tradizionali pratiche, pubbliche e private. Grazie a queste ultime, il singolo credente si manteneva in costante contatto quotidiano con il Sovrannaturale, le cui Grazie, indispensabili alla salvezza della sua anima, erano continuamente da lui impetrate, con il dovuto timore e rispetto e nello stesso tempo con fiducia. Accanto a meditazioni, mortificazioni, digiuni la preghiera costituiva l’elemento fondamentale. Onde l’antica massima : “chi non prega, non si salva”. Nella pratica assidua e metodica della preghiera individuale, il cristiano imitava Nostro Signore, che pregava continuamente il Padre e che ha detto ai Suoi discepoli, all’inizio della Passione : “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione”(Mt, 26, 41. Corsivo mio).
Il riferimento a Nostro Signore ci permette di precisare, senza tema di smentita, che la preghiera nel senso della vera devozione cristiana non è da intendersi come mero omaggio formale, esteriore alla divinità al fine di ingraziarsela per riceverne benefici, incluse le Grazie necessarie alla nostra santificazione individuale. Nel senso più autentico, essa è invece da intendersi come manifestazione dell’interiore e più profondo significato di una vita devota, improntata, giusta la celebre definizione di S. Francesco di Sales, a quella pietas che altro non è se non il vero amor di Dio.
“La vera e viva divozione, o Filotea, vuole prima di tutto l’amore di Dio, anzi non è altro che vero amor di Dio; ma non è però un amore mediocre. Devi sapere che l’amore divino, in quanto abbellisce le anime nostre, si chiama grazia, perché ci rende simili alla divina Maestà; in quanto ci comunica la forza di operare il bene, dicesi carità; ma quando è arrivato a tal grado di perfezione, che, oltre a farci fare il bene, ce lo fa fare con diligenza, assiduità e prontezza, allora piglia il nome di divozione [...] A dirla in breve, la divozione è un’agilità e vivacità spirituale, con cui la carità opera in noi e noi operiamo nella carità prontamente e con trasporto, cosicché, mentre è ufficio della carità farci osservare i comandamenti di Dio, è poi ufficio della divozione farceli osservare con prontezza e diligenza. Dunque chi non osserva tutti i comandamenti di Dio, non può esser giudicato nè buono nè divoto : non buono, perché a essere buono si richiede la carità; non divoto, perché a essere divoto, oltre la carità, ci vuole anche ardore e speditezza a fare le azioni proprie della carità”[1].
La devozione non è altro che la carità portata al suo più alto grado : “la divozione è la dolcezza delle dolcezze e la regina delle virtù, perché è la perfezione della carità”[2]. La vita devota è pertanto quella che si svolge all’insegna della carità ovvero in spirito di preghiera poiché è guidata dall’intenzione di chi, volendo fare in tutto la volontà di Dio, allo stesso modo di Nostro Signore, per amor di Dio e per la Sua Gloria, impetra ogni giorno l’aiuto di Dio a questo scopo.
Lo spirito di preghiera non può mantenersi senza il pregare effettivo, costituito dalle nostre orazioni quotidiane con le loro connesse meditazioni. In passato, meditazioni e preghiere trovavano la loro perfetta sintesi negli esercizi spirituali condotti secondo il metodo di S. Ignazio di Loyola, riconosciuto e raccomandato dalla Chiesa come il migliore nel suo genere, anche nella versione ridotta ad una sola settimana. Ma oggi, a quanto sembra, sono pochi quelli che si affidano ancora alle pratiche tradizionali della vera devozione cattolica. Quest’ultima trovava il suo humus nella ricca vita liturgica delle parrocchie di un tempo. Prima del Vaticano II, nelle parrocchie si celebravano ogni giorno molte messe ed i fedeli potevano ascoltare in chiesa Rosari, Vespri, Novene. Oggi, invece, nelle parrocchie si celebra in genere una sola messa al giorno, ed è quella del Novus Ordo. Inoltre, la povertà spirituale della vita parrocchiale è desolante, devastata com’è dalla creatività liturgica e dalle molteplici iniziative “ecumeniche” cui sono costretti i parroci.
È comprensibile che i fedeli cerchino di surrogare questo vuoto partecipando ai movimenti carismatici o all’ambiguo cattolicesimo per così dire di gruppo di Comunione e Liberazione o dei Focolarini. La vera devozione privata cattolica è stata sostituita dalla devozione pubblica nel movimento, o nel gruppo-movimento, nel cui ambito si prega e si canta collettivamente, con slancio, per così dire entusiastico, al fine di ottenere un beneficio, una guarigione o comunque per sentirsi “illuminati” dallo Spirito, possibilmente illico et immediate. Questi “movimenti”, le cui “liturgie” molti aderenti surrogano a quella della Messa, provengono originariamente, come sappiamo, dalla multiforme frangia coribantica del protestantesimo ed è alquanto improbabile che sia possibile ritornare per loro tramite alla vera devozione cattolica[3]. La messa del Novus Ordo ha di fatto tolto la Santa Croce (il santo sacrificio propiziatorio della misericordia divina per i nostri peccati) dal centro della messa stessa, con il presentarla quale assemblea che celebra, sotto la presidenza del sacerdote, il memoriale del Mistero Pasquale ovvero della Resurrezione di Cristo[4]. Allo stesso modo, la devozione dei fedeli ha in sostanza perduto il suo fondamentale carattere di pietas individuale e privata, di culto interno orientato all’amor di Dio e quindi all’imitazione quotidiana della S. Croce, con metodo e disciplina approvati dalla Chiesa, per attuarsi oggi sempre più spesso nelle forme del collettivo rappresentato dal “movimento”, il quale dal suo canto persegue un rapporto spurio, chiaramente non-cattolico, con il Sovrannaturale (di frequente sostituito dal preternaturale diabolico).
2. Il Concilio Vaticano II ha formalmente mantenuto gli usi tradizionali della vita devota
Dobbiamo addossare al Vaticano II anche la colpa dell’attuale crisi della devozione, in tutte le sue forme, e in particolare in quella rappresentata dalla pietas privata dei fedeli? A prima vista la cosa non sembrerebbe possibile, dal momento che il Concilio ribadisce la necessità e l’importanza della preghiera personale e propugna il mantenimento delle tradizionali pratiche della devozione cattolica. Del resto, avrebbe forse potuto passarle sotto silenzio?
Ciò risulta, in particolare, dagli articoli 11, 12 e 13 della Sacrosanctum Concilium, la costituzione che ha stabilito i princìpi della riforma della liturgia.
L’art. 11, trattando delle disposizioni personali dei fedeli nei confronti della “azione liturgica”, afferma che, per aversi la “piena efficacia” di quest’ultima ai fini della nostra “santificazione” (ivi, art. 10), occorre che i fedeli “si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunciano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano”. L’art. 12 ricorda poi la necessità della costante devozione privata, avendo sempre come modello la Croce di Nostro Signore : “il cristiano, benché chiamato alla preghiera in comune, è sempre tenuto a entrare nella propria stanza per pregare il Padre in segreto [Mt, 6, 6]; anzi, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, è tenuto a pregare incessantemente [1 Ts, 5,17]. L’Apostolo ci insegna anche a portare continuamente nel nostro corpo i patimenti di Gesù morente, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale [2 Cor 4, 10-11]. Per questo nel sacrificio della messa preghiamo il Signore che, “accettando l’offerta del sacrificio spirituale”, faccia “di noi stessi un’offerta eterna [Messale Romano, orazione sulle offerte del lunedì fra l’ottava della Pentecoste]”. L’art. 13 della Sacrosanctum Concilium riafferma, pertanto, la necessità di mantenere i “pii esercizi” del “popolo cristiano”. Conseguentemente, l’art. 105 della medesima costituzione replica ribadendo che la Chiesa “nei vari tempi dell’anno, secondo una disciplina tradizionale, completa la formazione dei fedeli per mezzo di pie pratiche spirituali e corporali, per mezzo dell’istruzione, della preghiera, delle opere di penitenza e di misericordia”. Inoltre, l’art. 8 del decreto conciliare Optatam totius sulla formazione sacerdotale, ribadisce la necessità di queste pratiche devote tradizionali per i seminaristi. L’art. 14 del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis sul ministero e la vita sacerdotale ricorda “l’utilità” degli “esercizi di pietà” per i sacerdoti mentre il successivo art. 18, che tratta della loro “vita spirituale”, raccomanda, tra gli altri, oltre al “ritiro spirituale” e alla “direzione spirituale” anche “l’orazione mentale, di così provata efficacia” nonché “le varie forme di preghiera, che ciascuno preferisce”. L’art. 16 del decreto conciliare Christus Dominus sull’Ufficio pastorale dei vescovi, raccomanda a questi ultimi di organizzare, tra le altre cose, anche “corsi più lunghi di esercizi spirituali” per favorire “la rinnovazione della vita [spirituale]” dei sacerdoti[5].
3.Tuttavia i testi conciliari tendono ad inglobare questi usi nella liturgia, contro l’insegnamento tradizionale
3.1 La dottrina tradizionale, come esposta nella Mediator Dei.
Sappiamo che l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 20 novembre 1947, dedicata alla sacra liturgia, analizzava a fondo il rapporto tra il culto esterno ed il culto interno, mostrando la necessità del loro intimo equilibrio alla luce del concetto che “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”, al quale appartiene la pietà privata tipica della vita devota. Se così non fosse, la religione diventerebbe “un formalismo senza fondamento e senza contenuto”. Il culto interno deve naturalmente attuarsi sempre “in intima congiunzione con il culto esterno”. La Mediator Dei condannava perciò l’errore dei panliturgisti, apparso già in alcune componenti del Movimento Liturgico, alla fine degli anni venti del secolo XX, secondo il quale a contare era soprattutto la cosiddetta “pietà oggettiva”, quella cioè che si attuava nel culto esterno e pubblico, grazie all’efficacia ex opere operato dei Sacramenti e del Sacrificio dell’altare, a scapito del culto privato o pietà sprezzantemente detta “soggettiva”. Incentrando tutta la pietà cristiana “nel mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza nessun riguardo personale e soggettivo”, costoro ritenevano, precisava l’enciclica, “che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e compiute al di fuori del culto pubblico”[6]. Ad essi il Papa ricordava che i Sacramenti e il Sacrificio dell’altare, “per avere la debita efficacia esigono le buone disposizioni dell’anima nostra”[7], tant’è vero che “nessuno può ricevere validamente e tanto meno degnamente e con frutto un Sacramento se non è nelle condizioni necessarie”[8].
Non bisogna mai dimenticare, proseguiva, che “l’opera della redenzione, in sé indipendente dalla nostra volontà, richiede l’intimo sforzo dell’anima nostra [internum animi nostri nisum] perché possiamo conseguire l’eterna salvezza”. Questo “intimo sforzo”, al quale il nostro libero arbitrio non può sottrarsi e che la tradizione cattolica ha sempre concepito ed attuato nel giusto equilibrio di ragione, volontà e sentimento, l’enciclica lo illustrava e chiarificava in una pagina esemplare per chiarezza e perspicuità di analisi.
“Se la pietà privata e interna dei singoli trascurasse l’augusto Sacrificio dell’altare e i Sacramenti e si sottraesse all’influsso salvifico che emana dal Capo nelle membra, sarebbe senza dubbio riprovevole e sterile; ma quando tutte le previdenze e gli esercizi di pietà non strettamente liturgici [sed cum omnia pietatis consilia et opera, quae cum Sacra Liturgia arcte non coniunguntur] fissano lo sguardo dell’animo sugli atti umani unicamente per indirizzarli al Padre che è nei cieli, per stimolare salutarmente gli uomini alla penitenza e al timor di Dio e, strappatili all’attrattiva del mondo e dei vizi, per condurli felicemente per arduo cammino al vertice della santità, allora sono non soltanto sommamente lodevoli, ma necessari, perché scoprono i pericoli della vita spirituale, ci spronano all’acquisto delle virtù e aumentano il fervore col quale dobbiamo dedicarci tutti al servizio di Gesù Cristo. La genuina pietà, che l’Angelico chiama “devozione” e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto [ST, IIa-IIae, q. 82, a. 1], ha bisogno della meditazione delle realtà soprannaturali e delle pratiche spirituali perché si alimenti, stimoli e vigoreggi, e ci animi alla perfezione. Poiché la religione cristiana debitamente praticata richiede soprattutto che la volontà si consacri a Dio e influisca sulle altre facoltà dell’anima. Ma ogni atto di volontà presuppone l’esercizio dell’intelligenza, e, prima di darsi a Dio per mezzo del sacrificio, è assolutamente necessaria la conoscenza degli argomenti e dei motivi che impongono la religione, come, per esempio, il fine ultimo dell’uomo e la grandezza della divina maestà, il dovere della soggezione al Creatore, i tesori inesauribili dell’amore col quale Egli ci vuole arricchire, la necessità della grazia per giungere alla meta assegnataci, e la via particolare che la divina Provvidenza ci ha preparata unendoci tutti come membra di un Corpo a Gesù Cristo”[9].
3.2 Il Concilio fa sparire il concetto di “culto interno”.
Il Concilio, cosa ha mantenuto di tutto questo? L’articolo 12 della Sacrosanctum Concilium sopra citato, pur esprimendosi in termini molto più generici di quelli della Mediator Dei, sembra indubbiamente contenere un forte e tradizionale richiamo alla necessità della preghiera personale. E tuttavia si cercherebbe invano, nei testi del Concilio, un concetto fondamentale come quello secondo il quale “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno” : at praecipuum divini cultus elementum internum esse debet. Dell’esistenza di un culto esterno ed interno non si parla nemmeno e la nozione di “culto interno” sembra del tutto scomparsa. Non solo. I “distinguo” introdotti nei testi conciliari tendono a svalutare la pietà privata nei confronti della liturgia e a far prevalere la pietà cosiddetta “oggettiva” su quella “soggettiva”, andando quindi proprio nella direzione condannata dalla Mediator Dei[10].
Cominciamo dall’art. 11 della SC, già riportato. Si è visto che esso afferma esser indispensabili “le disposizioni di un animo retto” al fine di ottenere la “piena efficacia” del culto pubblico. Nella nozione di queste “disposizioni” è forse racchiusa quella del culto interno? Lo si può ritenere, pur trattandosi in ogni caso di un riferimento che resta generico, visto che la SC di “culto interno” non parla mai. Tuttavia, si nota, a mio avviso, un’ambiguità di fondo. Secondo l’insegnamento tradizionale, ribadito da Pio XII, nessuno, come si è visto, può ricevere validamente, degnamente e con i dovuti frutti un Sacramento, se non si trova nelle “condizioni necessarie”, condizioni ovviamente predisposte ad opera del culto interno, mediante la vita devota. Nel testo della SC si parla, invece, di “piena efficacia” : le “disposizioni di un animo retto”, che vuole “cooperare con la grazia”, non sarebbero condizioni di valida e degna recezione del Sacramento, ma lo sarebbero solo della sua “piena efficacia”.
Non mi sembra che in tal modo la dottrina tradizionale sia qui resa fedelmente. Infatti, un conto è affermare, senza sfumature di sorta, che la disposizione interiore del soggetto è condizione di valida e degna recezione del Sacramento, che solo in tal modo può quindi essere efficace per chi lo riceve; un altro è affermare che è condizione della sua “piena efficacia”. Con la seconda formulazione, si verrebbe di fatto ad ammettere questa interpretazione : che il Sacramento, per esempio l’Eucaristia, è comunque di per sé efficace anche se in modo non pieno e quindi (se ne deve concludere) anche se il credente lo riceve con animo non retto. Si è visto che, secondo la Mediator Dei, i Sacramenti, “per avere la debita efficacia [debitam efficaciam] esigono le buone disposizioni dell’anima nostra [rectae animae nostrae dispositiones]”. La SC, al posto della “debita efficacia”, ci propone la “piena efficacia”. Mi sembra che l’ambiguità nasca proprio dall’uso dell’aggettivo piena. Il culto interno, anonimamente riproposto nell’art. 13 della SC, risulta pertanto alquanto sminuito rispetto alla concezione tradizionale perché la funzione che ora gli viene attribuita non è più quella di concorrere in modo decisivo all’efficacia dei Sacramenti, non è più quella di essere “l’elemento precipuo” della Liturgia, senza il quale essa decade a vuoto “formalismo” (vedi supra), ma è solo quella di contribuire alla “piena efficacia” del culto e quindi dei Sacramenti.
Il culto interno, o ciò che ne resta, sembra perciò ridotto a un semplice ausiliare, utile unicamente per raggiungere la “piena efficacia” dei Sacramenti, i quali manterrebbero comunque un’efficacia, anche se non “piena”, in quanto atti del culto pubblico esterno. Ma come si dovrebbe intendere il concetto di un’efficacia non piena dei Sacramenti? Ad ogni modo, il culto interno viene comunque posto in posizione subordinata rispetto a quello esterno, pubblico; esso viene anzi oscurato in modo sostanziale nella SC, risultando del tutto assente dalla definizione della Liturgia. Per meglio dire : assente dalla sua descrizione, poiché la SC (artt. 6-10) non ha voluto dare una vera definizione della liturgia, semplicemente descritta, invece, tramite immagini nell’insieme tradizionali, nelle quali si sente, però, alitare uno spirito nuovo, quello ispirato dal modernistico Panliturgismo. Nella Mediator Dei, invece, come si è visto, il culto interno era parte integrante della definizione stessa della Liturgia, e quindi del suo concetto, del quale veniva addirittura a costituire “l’elemento precipuo”.
3.3 Il Concilio vuole includere gli exercitia pietatis nella liturgia.
L’art. 13 della SC si muove nella stessa direzione, cercando addirittura di inglobare i “pii esercizi” nella liturgia. È vero che esso raccomanda “vivamente” i “pii esercizi del popolo cristiano”, purché naturalmente “conformi alle leggi e alle norme della Chiesa”, ed in particolare quelli “che vengono compiuti per disposizione dei Vescovi”; tuttavia, ordina che tali esercizi “siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la Liturgia; derivino in qualche modo [quodammodo] da essa e ad essa introducano [manuducant] il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Oltre che “armonizzarsi” con la liturgia (necessità della quale nessuno in passato aveva mai dubitato), le pratiche della devozione privata ed in sostanza il culto interno devono “in qualche modo” derivare dalla liturgia e, ciò che più conta, “introdurre ad essa” i fedeli, condurveli come per mano. E questo obiettivo è giustificato con la constatazione, tutto sommato abbastanza ovvia, che “la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Ma in tal modo, l’art. 13 toglie al culto interno la sua propria autonoma finalità, facendone (di nuovo) un semplice strumento liturgico, un ausiliare della liturgia, dal momento che esso deve servire soprattutto di “introduzione” ad essa.
Infatti, se tale culto, oltre a derivare dalla liturgia, deve condurre ad essa i fedeli, allora non possiede più quel fine rappresentato dall’elevazione del nostro animo a Dio mediante la purificazione interiore ricercata ed attuata grazie alle varie forme degli exercitia pietatis, che richiedono, come ha ben spiegato la Mediator Dei, “l’esercizio” della nostra intelligenza, volontà e ragione. Questo attribuire un fine liturgico al culto interno, oltre a contraddire l’insegnamento costante della Chiesa, dissolve, cosa gravissima, la fondamentale caratteristica della pietà privata cattolica, che non è mai stata quella di una contemplazione sentimentale o di un’esperienza di tipo mistico, cosa che rappresenta sempre uno sviluppo eccezionale : è sempre stata quella, invece, di uno sforzo congiunto della nostra anima e del nostro intelletto; sforzo, quindi, all’insegna della volontà e della ragione, ricercanti coscientemente l’aiuto dello Spirito Santo al fine di lasciarsi umilmente guidare da esso. Lo scopo rappresentato dal nostro perfezionamento individuale, dalla nostra santificazione, ossia il fine specifico della vita devota, non è un fine che, come tale, si debba ricondurre alla liturgia, che pure fornisce, nei riti dei Sacramenti, della Messa, nel rito in generale, strumenti fondamentali per il suo raggiungimento. Alla luce della retta dottrina della Chiesa, incomprensibile mi sembra perciò il dettato finale dell’art. 13 della SC. Esso non sembra rispettare affatto il principio ribadito da Pio XII, sempre nella Mediator Dei, secondo il quale, “farebbe cosa perniciosa e del tutto erronea chi osasse temerariamente assumersi la riforma di tutti questi esercizi di pietà per costringerli nei soli schemi liturgici”[11]. È sufficiente che “lo spirito della Liturgia ed i suoi precetti influiscano beneficamente su di essi, per evitare che vi si introduca alcunché di inetto o di indegno”[12]. Ma l’art. 13 della SC non si limita di certo a questo; vuole apertis verbis che lo scopo stesso degli esercizi, e quindi del culto interno, sia quello di condurre i fedeli alla liturgia! Il carattere “pernicioso” della riduzione degli esercizi di pietà del culto interno “nei soli schemi liturgici”, profeticamente denunciato da Pio XII, è confermato dal fatto che il vero spirito degli esercizi di pietà sembra essersi oggi dissolto, sostituito da quello di un’esperienza interiore tendente al liturgico e quindi di tipo misticheggiante, di quel misticismo spurio che caratterizza la liturgia del Novus Ordo; la quale, come si è ricordato, ha messo protestanticamente al centro dell’azione liturgica la comunità, il “popolo di Dio” riunito “in assemblea” per “sentire” la presenza di Nostro Signore già nella Sua Parola e farsi possedere da essa, alla maniera dei Quaccheri e convulsionari di ogni risma, credendo di attuare già in tal modo la propria salvezza[13].
3.4 Il Concilio vuol far scaturire lo spirito di preghiera soprattutto dalla prassi di vita.
A che serve, mi chiedo, che la Sacrosanctum Concilium raccomandi vivamente i tradizionali esercizi della pietas cristiana per i seminaristi, i sacerdoti, i laici, se poi ne stravolge il fine, nel modo che si è visto, alterandone perciò lo spirito? O se cerca nello stesso tempo di diminuirne comunque l’importanza rispetto alla prassi rappresentata dalla vita secondo il Vangelo? Si veda ad esempio quanto scrive l’art. 8 del decreto Optatam totius sulla formazione sacerdotale.
“Siano vivamente inculcati gli esercizi di pietà raccomandati dalla veneranda tradizione della Chiesa; bisogna curare però che la formazione spirituale [dei seminaristi] non consista solo in questi esercizi, né si diriga al solo sentimento religioso. Gli alunni imparino piuttosto [discant potius] a vivere secondo il Vangelo, a radicarsi nella fede, nella speranza e nella carità, in modo che attraverso l’esercizio di queste virtù possano acquistare lo spirito di preghiera [Giovanni XXIII, Enc. Sacerdotii Nostri Primordia AAS, 51, 1959, p. 559 ss.], ottengano forza e difesa per la loro vocazione, rinvigoriscano le altre virtù e crescano nello zelo di guadagnare tutti gli uomini a Cristo”.
La “formazione spirituale” dei seminaristi non deve esser affidata ai soli “esercizi”? Ciò avveniva forse in passato? Non credo lo si possa affermare, anche se gli “esercizi” occupavano certamente un posto importante nel loro culto privato (così come lo occupavano in quello di molti devoti fedeli). Comunque sia, appare singolare voler sottrarre proprio alle pratiche della devozione privata il merito di contribuire in maniera essenziale all’acquisto dello spirito di preghiera e alla fortificazione delle virtù cristiane; merito che si vuol attribuire, invece, all’esercizio delle tre virtù teologali nella vita di tutti i giorni. Lo spirito di preghiera dovrebbe pertanto formarsi soprattutto nella prassi, nell’azione, rappresentata ovviamente dalla vita condotta “secondo il Vangelo”. Impostazione ancora una volta diversa da quella della Mediator Dei, che, come abbiamo visto, rivendicava all’interiorità del credente il suo diritto alla meditazione sulle verità eterne e alla comprensione razionale della fede, con l’ausilio dell’introspezione di sé, dei ritiri spirituali, del Rosario, dell’adorazione del Santissimo; tutte cose che non ci sono offerte come tali dalla vita nostra di tutti i giorni ma presuppongono invece una nostra separazione da essa, sia sul piano spirituale che su quello materiale (nel caso dei ritiri o esercizi spirituali). Mi sbaglierò, ma quanto affermato qui dal Concilio, mi ricorda un concetto fondamentale de L’Action di Blondel : “ l’atto è in un certo senso il pedaggio ed il passaggio della fede : presuppone l’abdicazione totale del significato intrinseco [che, a quanto pare, apparirebbe solo nell’azione]; esso esprime l’umile raggiungimento di una verità che non proviene dal solo pensiero; immette in noi uno spirito diverso dal nostro. Fac et videbis”[14]. Fac et orabis, dunque. L’azione prima del Verbo, contro tutto il plurisecolare modo di sentire e di essere della Chiesa. L’azione ossia il dialogo, che è l’unica forma d’azione che la Gerarchia formatasi nello spirito del Vaticano II riesca a concepire : dialogo e non più missione. L’azione che si costituisce nel riconoscimento dell’Altro, affinché la fede risulti arricchita dei valori di quest’ultimo; azione, dunque, non per convertirlo alla vera fede ma per lasciarsi educare dai suoi valori, ad essa fede storicamente o indifferenti od ostili! L’azione, il cui scopo appare oggi manifestamente rovesciato rispetto a quello attribuito da Nostro Signore alla Santa Chiesa, da Lui stesso fondata!
In ogni caso, anche se non si vogliono qui ammettere retroterra blondeliani, rimane netta l’impressione che questo testo conciliare – dopo averli vivamente raccomandati – tenti di sminuire l’importanza degli exercitia pietatis nella formazione dei seminaristi, ritenendoli come tali insufficienti a far acquistare loro lo “spirito di preghiera” e a rafforzarne la vocazione e le virtù. Sembra quasi che il testo voglia vedere una sorta di contrapposizione tra gli “esercizi di pietà” ed il “vivere secondo il Vangelo”, come se le pratiche del culto interno non fossero già un “vivere secondo il Vangelo”, non mostrassero già in atto l’esercizio delle virtù teologali. La contrapposizione risulta, a mio avviso, dal lessico, con l’impiego dell’avverbio potius : discant potius, “imparino piuttosto...”. Che cosa? Evidentemente, qualcosa di meglio degli “esercizi”; imparino piuttosto a vivere effettivamente secondo il Vangelo etc. Come se gli exercitia pietatis rendessero di per sé difficile ai seminaristi vivere secondo il Vangelo!
E l’articolo si appoggia poi in nota all’Enciclica che Giovanni XXIII dettò per commemorare il centenario della morte di S. Giovanni Maria Battista Vianney, il santo curato d’Ars, morto nel 1859. Ma se uno va a controllare le pagine richiamate nel testo del Concilio (si tratta del par. II dell’enciclica, AAS, cit., pp. 558-566) a mio avviso non trova alcun riscontro a dualismi di sorta tra exercitia pietatis e spirito di preghiera. Infatti, quel Papa vi esortava i sacerdoti a sviluppare e mantenere lo “spirito di preghiera” nonostante le cure pastorali sempre più assorbenti imposte dal mondo moderno ed portava loro come esempio il santo curato d’Ars, il quale eccelleva in esso, nonostante le cure pastorali massacranti (confessava in continuazione, sino a quindici ore al giorno, come poi S. Leopoldo da Padova e Santo Padre Pio). Egli traeva grande forza spirituale dalla frequente adorazione del Santissimo nel Sacro Tabernacolo e dalla pratica delle mortificazioni. Certo, si può dire che lo “spirito di preghiera” del curato d’Ars traesse alimento in misura cospicua dalla prassi della sua vita sacerdotale, dal momento che egli trascorreva gran parte della sua giornata in confessionale. Ma dopo aver posto loro come esempio ai sacerdoti la vita devota straordinaria ed eccezionale del curato d’Ars, quel Papa rammentava loro come esistessero da sempre “varia sacerdotalis pietatis exercitia”, i quali “massimamente producono e conservano quella assidua unione con Dio”, che viene spiritualmente in essere grazie alla preghiera[15]. Ampio elogio degli esercizi di pietà, dunque, da parte del Papa, e nessunissimo accenno ad una loro possibile inadeguatezza a far acquistare e mantenere lo “spirito di preghiera”, né ad un loro possibile antagonismo con la vita cristiana. E l’enciclica ricordava i più importanti, che la Chiesa, con le sue “sapientissime leggi”, aveva reso obbligatori per i sacerdoti : “la sacra meditazione giornaliera, le visite al Tabernacolo, la recitazione del Rosario Mariano, il diligente esame di coscienza”[16]. L’eventuale negligenza nell’osservanza di queste pratiche, essa concludeva, era in ogni caso da attribuirsi esclusivamente a quei sacerdoti che si fossero lasciati travolgere dal “vortice” delle cure esteriori, e alla fine sedurre dalle lusinghe del mondo [terrenae huius vitae illecebris allecti][17].
4. La concezione tradizionale della devozione ha sempre ricercato l’armonia più completa tra culto interno e liturgia, alla luce delle capacità di ciascun credente.
Rileggendo la Filotea, si nota come la devozione privata vi sia concepita sempre e comunque in armonia con la liturgia. Cosa del resto ovvia perché intrinseca alla natura stessa del culto interno, rettamente inteso.
4.1 Il modo devoto di ascoltare la Messa, secondo S. Francesco di Sales.
Consideriamo brevemente la parte II di quest’opera, intitolata Orazione e Sacramenti. Dopo aver spiegato dettagliatamente il modo di fare “l’orazione mentale e del cuore”, S. Francesco di Sales scrive, al cap. XIV, intitolato Della santa Messa e del modo di ascoltarla : “L’orazione fatta in unione con questo divino Sacrificio ha una forza indicibile; in virtù di esso, o Filotea, l’anima viene ricolma di celesti favori, come appoggiata al suo diletto [Cant., 8, 5] [...] Fa’ dunque tutti gli sforzi possibili per assistere ogni giorno alla santa Messa e offrire col Sacerdote il tuo Redentore a Dio suo Padre in vantaggio tuo e di tutta la Chiesa [...] La Chiesa trionfante e la Chiesa militante vengono a stringersi intorno a Nostro Signore in questa divina azione, a fine di rapire con lui, in lui e per lui il cuore di Dio Padre e fare tutta nostra la sua misericordia. Che felicità per un’anima recare divotamente il tributo de’ suoi affetti [con l’orazione mentale], per ottenere un bene sì prezioso e desiderabile!”[18].
L’orazione mentale “fatta in unione con questo divino Sacrificio ha una forza indicibile”: nell’azione liturgica che costituisce il cuore della liturgia stessa, il santo precettore auspica ed anzi reclama la presenza dell’atto della devozione privata che possiamo definire canonico : l’orazione mentale. Solo qui essa acquista “una forza indicibile” perché qui, come in nessun altro momento della liturgia, essa riesce a “recare il tributo dei suoi affetti” al fine di ottenere il bene impareggiabile della misericordia divina. L’orazione mentale raggiunge quindi il massimo effetto allorché si innesta sulla liturgia, contribuendo così ex opere operantis agli effetti propiziatori del Sacramento Eucaristico.
Seguono poi le istruzioni per integrare perfettamente questa orazione alla liturgia della S. Messa, divise in sei punti, che mi sembra utile riportare per esteso, anche perché essi ci danno un’idea del senso autentico della vera messa cattolica, oggi oscurato dal Novus Ordo.
“Ecco ora le norme per ascoltare bene, o in realtà o in ispirito, la santa Messa.
Se poi l’anima non si sente capace di questo tipo di meditazioni, che seguono passo passo le varie fasi della messa, essa può concentrarsi, continua il Santo Dottore, “sui misteri che essa va proseguendo di giorno in giorno”, purché ci sia sempre “l’intenzione di voler adorare e offrire il santo Sacrificio mediante la pratica di questa orazione mentale, poiché in ogni meditazione entrano gli atti suddetti o espliciti o impliciti [cioè l’adorazione e l’offerta spirituale del santo Sacrificio]”[20].
- Dal principio fino a che il Sacerdote sia all’altare, fa’ con lui la preparazione, la quale consiste nel metterti alla presenza di Dio, riconoscere la tua indegnità e domandargli perdono delle tue colpe.
- Dall’ingresso del Sacerdote all’altare fino al Vangelo considera la venuta e la vita di Nostro Signore in questo mondo; ma sia una considerazione semplicissima e generica.
- Dal Vangelo fin dopo il Credo considera la predicazione del nostro Salvatore, e protesta di voler vivere e morire nella fede e nell’obbedienza alla sua santa parola e nell’unione con la santa Chiesa Cattolica.
- Dal Credo al Pater Noster medita sui misteri della Passione e Morte del nostro Redentore, attualmente ed essenzialmente rappresentati in questo santo Sacrificio, il quale tu col Sacerdote e col rimanente popolo offrirai a Dio Padre per suo onore e per la tua salute.
- Dal Pater alla Comunione sfòrzati di moltiplicare nel tuo cuore i santi desideri, bramando ardentemente di essere sempre unita al tuo Salvatore con un amore eterno.
- Dalla Comunione al termine della Messa ringrazia il Signore della sua Incarnazione, della sua vita, della sua Passione e Morte, e dell’amore di cui ci dà prova in questo santo Sacrificio; scongiuralo che in virtù di esso egli voglia essere sempre propizio a te, a’ tuoi parenti, a’ tuoi amici e a tutta la Chiesa; e con umiltà di cuore ricevi divotamente la benedizione divina che Nostro Signore ti dà per mezzo del suo ministro”[19].
4.2 Il latino non ha mai rappresentato un vero ostacolo.
Queste istruzioni venivano date in un’epoca nella quale il Messale romano non riportava ancora la traduzione in lingua volgare. Secondo gli Ammodernanti e Novatori, sarebbero proprio istruzioni come queste a dimostrare l’esistenza di una inaccettabile separazione tra liturgia e culto interno : il fedele che se ne sta alla Messa solo con le sue meditazioni, senza poter seguire partitamente il rito, celebrato in una lingua liturgica, diventata per di più incomprensibile. Se si osserva bene, tuttavia, si noterà che le “norme” dettate dal santo Dottore della Chiesa presuppongono una perfetta conoscenza delle varie fasi della messa da parte del fedele, dal momento che ad ogni fase, ben delineata nel suo inizio e nella sua fine, corrispondono delle meditazioni ad hoc. E poiché l’Introduzione alla vita devota è scritta per i credenti di ogni condizione sociale, essa presuppone da parte loro la capacità di seguire bene la messa nelle sue varie fasi, come se il latino non costituisse affatto un ostacolo. Ed era in effetti così. È noto che anche le persone incolte, purché dotate di un minimo di buona volontà, riuscivano in passato ad imparare a memoria, sia pure a prezzo di qualche ininfluente storpiatura, preghiere e passaggi interi della messa, intuitivamente consapevoli del loro significato. In ogni caso, avevano la possibilità di conoscere bene il rito proprio grazie ai numerosi libri di pietà. La devozione privata richiedeva e provocava una fitta rete di pubblicazioni in volgare, che trattavano ovviamente anche della liturgia della messa.
“Il Tridentino, sess. XXII, cap. 9, ordinò che nel corso della Messa il sacerdote spiegasse al popolo parte delle letture che andava facendo. D’altronde questo si faceva non solo con l’omelia ma copiosissimamente coi libri di pietà, fino al Vaticano II diffusissimi, che rendevano facile seguire le varie parti della messa. Essi portavano preghiere appropriate, spesso parafrasanti i testi liturgici, e persino vignette riproducenti all’occhio l’aspetto dell’altare, gli atti del celebrante, la posizione dei vasi e della suppellettile in modo così evidente che niente più. Naturalmente, essendo gran parte della moltitudine cristiana illetterata, non si poteva trovare perfetta concordanza tra l’interiore disposizione devota dei volghi e la sequenza delle sacre cerimonie. D’altronde l’universalità dell’assemblea, letterata o illetterata, conosceva e riconosceva i momenti salienti e le articolazioni del rito, segnalati anche dal tintinnabulo. Così non mancava ai sacri riti la partecipazione spirituale dei fedeli. E non soltanto non mancava, ma mancò sempre meno dopo che negli anni del primo post-guerra (in Italia per merito dell’Opera della regalità di Cristo) in tutti i paesi europei si diffusero le pagelle che recavano il testo latino e la traduzione in volgare del messale festivo. E importa anche notare che messali recanti il testo latino e giustapposta la traduzione in lingua moderna furono in uso sin dal secolo XVIII e non so se anche prima [...].
Si suole obiettare che nel rito latino il popolo fosse distaccato dall’azione cultuale e mancasse quella partecipazione attuosa e personale che è l’intento della riforma [liturgica voluta dal Vaticano II]. Ma contro l’obiezione sta il fatto che la mentalità popolare fu per secoli improntata dalla liturgia, e che il linguaggio dei volghi attingeva al latino quantità di locuzioni, di metafore, di solecismi. Chi legga quella vivissima pittura della vita popolaresca che è il Candelaio di Giordano Bruno stupisce della cognizione che i più bassi fondi avevano delle formule e degli atti dei sacri riti, non sempre (è ovvio) nella semantica legittima, spesso tirati a sensi difformi, ma sempre attestanti l’influsso dei riti sull’animo popolare. Oggi al contrario un tale influsso è del tutto spento...”[21].
Che la diminuzione di affluenza alla messa e il diminuito fervore durante la sua celebrazione, segnalati a più riprese in passato e fonte di preoccupazione anche per Pio XII[22], dovessero attribuirsi all’esistenza di un rito oscuro ed inaccessibile - questa tesi non è altro che uno dei tanti abbagli dei Novatori. La tiepidezza nei confronti della messa (comunque nulla di paragonabile alla vastissima disaffezione odierna nei confronti della Messa del Novus Ordo) dipendeva in realtà da un generale, progressivo allentarsi della fede in conseguenza del prolungato assalto apportato ai valori cattolici da un laicismo sempre più aggressivo a tutti i livelli della società, al quale la Gerarchia non sapeva complessivamente rispondere nel modo dovuto, poiché – nonostante la vigile difesa del dogma attuata dai pontefici sino a Pio XII - era minata al suo interno dall’azione sotterranea della nouvelle théologie, succube di quello stesso pensiero profano che avrebbe dovuto combattere. E sarebbe stato proprio il neomodernismo dei nouveaux théologiens a penetrare nel Vaticano II, nel modo che sappiamo, grazie alle ben note acquiescenze e complicità.
4.3 Il vero significato di una “partecipazione attiva”.
L’errore neomodernista conduceva i Novatori ad interpretare in modo sbagliato l’istanza fatta già valere da S. Pio X, di una actuosa participatio (attiva partecipazione) dei fedeli alla Messa[23]. Far sì che i fedeli non restassero spiritualmente passivi durante la celebrazione del rito, significava, come poi ribadì Pio XII, far loro comprendere che essi dovevano soprattutto “unirsi nell’animo e nel cuore, nella fede e nella carità ai sacerdoti che celebrano il santo Sacrificio”[24] (cosa che poteva benissimo avvenire con l’esercizio delle meditazioni di cui sopra) in modo da attuare il detto dell’Apostolo : “abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. I fedeli dovevano sforzarsi di avere, per quanto possibile, “lo stesso stato d’animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé : l’umile sottomissione dello spirito, cioè, l’adorazione, l’onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio “ e di “riprodurre in se stessi le condizioni della vittima : l’abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo etc”[25]. Né S. Pio X né tantomeno Pio XII intendevano dire che l’actuosa participatio, per esser veramente tale, avrebbe dovuto essere quella di un soggetto collettivo, della “comunità”; la quale, di per sé, avrebbe addirittura dovuto diventare “soggetto attivo della celebrazione liturgica”, concetto che costituisce un errore dottrinale, espressamente riprovato dai Papi, poiché fra l’altro riduce la funzione del sacerdote celebrante a quella di un semplice presidente dell’assemblea liturgica![26]
L’infondatezza dell’accusa rivolta al rito romano antico, quella di alienare il popolo dalla Messa, risulta, a mio parere, anche da un’altra considerazione. Nell’Europa cattolica del Medio Evo, la fede popolare era quella di masse in gran parte ignoranti ed analfabete. Secondo la tesi dei Novatori, esse avrebbero dovuto sentirsi più che mai estranee al rito, visto che di latino non sapevano nulla. Ma la pietà ed il fervore liturgico della religiosità medievale non sono forse rimasti proverbiali? A periodi di apparente o momentaneo appannamento seguivano sempre momenti di intenso e spontaneo fervore[27]. Dobbiamo forse ritenere che si trattasse di un fervore superstizioso, motivato dalla paura dell’Inferno? E dobbiamo forse ritenere che i parroci del Medio Evo non abbiano mai spiegato ai loro fedeli il significato della santa Messa, ivi compreso quello della santa Eucaristia? Nessuno storico serio accetterebbe interpretazioni e supposizioni del genere. Tutte le testimonianze storiche imparziali sono a favore della fervida religiosità popolare di quei secoli e del fatto che la cultura solo orale del popolo analfabeta mostrava (come ha ricordato Amerio) di aver assorbito a modo suo il latinorum del rito.
E non mi riferisco ovviamente a forme occasionali ed esaltate di pietà, come quelle che si producevano nelle processioni dei cosiddetti “flagellanti”, ma alla devozione normale, umile e paziente, priva di qualsiasi fanatismo, che si nutriva del culto dei Santi e dei pellegrinaggi, oltre che della santa Messa. La gran massa della popolazione si sentiva ovviamente estranea all’alta cultura, rappresentata emblematicamente dal latino, ma non si sentiva estranea alla liturgia, nonostante essa fosse in latino, perché qui il latino era non tanto la lingua dell’alta cultura quanto l’antica lingua sacra, nella quale si esprimevano in modo immutabile le verità di fede rappresentate da sempre nella liturgia. Tantomeno, dunque, si sentiva estranea alla santa Messa, il cui rito, del resto, indipendentemente dalla lingua usata, rinnovava misteri così profondi da oltrepassare comunque la nostra comprensione. Si intende, la oltrepassava per ciò che riguarda la loro meccanica intrinseca, non per ciò che riguardava e riguarda il loro significato generale, che è soprattutto quello rappresentato dal significato propiziatorio del fatto storico della Santa Croce, indispensabile alla nostra salvezza individuale, i cui meriti dobbiamo perciò cercare di lucrare ogni giorno, nella quotidiana lotta contro noi stessi e il mondo. Questo significato, che è quello che conta, opportunamente spiegato dai Pastori, era benissimo inteso sia dall’ignorante che dall’uomo colto.
Appare quindi perfettamente logico che, al fine di seguire con devozione e frutto la santa Messa (quella sicuramente cattolica, di rito romano antico detta impropriamente “tridentina”), non sia mai stato imposto ai fedeli l’obbligo di seguire passo passo la celebrazione della stessa nelle sue varie fasi, voglio dire partitamente, in uno con il sacerdote celebrante. Ciò lo si deduce chiaramente dalle “norme” di S. Francesco di Sales sopra citate, le quali arrivano al punto di affermare, come si è visto, che è perfettamente lecito all’anima devota fare, durante la Messa, la meditazione sui misteri ai quali si applica giornalmente, nell’esercizio della sua devozione privata. L’importante è che essa mantenga l’intenzione di “voler adorare ed offrire il santo Sacrificio”, del cui significato è ben consapevole, dal momento che questi atti mentali, di adorazione ed offerta del santo Sacrificio, si ritrovano in genere, direttamente o indirettamente, in ogni meditazione dell’anima devota.
4.4 Pio XII conferma le istruzioni della Filotea.
Questa direttiva del santo Dottore venne riconfermata, con opportuni approfondimenti, dalla Mediator Dei, nella sezione dedicata al Culto Eucaristico – II – Partecipazione dei fedeli al Sacrificio Eucaristico. In questa sezione, dopo aver nettamente e fortemente riprovato l’opinione dei Novatori, i quali sostenevano non poter la Messa “raggiungere il suo scopo” se non c’era la partecipazione attiva dei fedeli, i quali, grazie al Messale bilingue, potevano pregare con il sacerdote “con le sue stesse parole”, rispondergli ed eseguire canti, in modo che la Liturgia diventasse “anche esternamente un’azione sacra, alla quale comunicassero di fatto tutti gli astanti”; Pio XII affermava : “ Non pochi fedeli, infatti, sono incapaci di usare il “Messale Romano” anche se è scritto in lingua volgare; né tutti sono idonei a comprendere rettamente, come conviene, i riti e le cerimonie liturgiche. L’ingegno, il carattere e l’indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti né restano sempre gli stessi nei singoli. Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto [quello, appena ricordato, dei Novatori], che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici [perché incapaci di seguirlo sul “Messale Romano” o per altri motivi]? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura”[28].
Belle, semplici e profonde parole. Esse dimostrano come non vi possa essere intrinsecamente antitesi fra liturgia e devozione privata : gli “esercizi di pietà” e “le preghiere” corrispondono per natura loro ai sacri riti, questo è il punto essenziale. Ne differiscono solo per la forma. E questo, perché? Perché il culto interno, anche quando è volto specificamente alla santificazione personale del credente, si svolge sempre sul presupposto del culto di latrìa a Nostro Signore, alla Santissima Trinità. Ma, anche al di fuori degli esercizi di pietà, con le loro meditazioni e preghiere; e al di fuori delle “altre preghiere” utilizzabili, cioè di ogni altro tipo di preghiera; si può partecipare, ci ricorda il Papa, al Sacrificio Eucaristico semplicemente “meditando piamente i misteri di Gesù Cristo”, meditazione che, mi permetto di aggiungere, a volte ci conduce a riflettere su ciò che noi stessi siamo, in relazione a ciò che dobbiamo diventare, con l’aiuto della S. Croce, per essere graditi a Dio. A mio avviso, è proprio questo tipo di meditazione ad aver di frequente luogo anche presso coloro che sono in grado di seguire la funzione sul Messale Romano. Essi finiscono spesso con il privilegiare alcuni punti del testo, che li hanno colpiti in modo particolare, e si soffermano a meditare su di essi. Si tratta di frequente degli stessi punti, che ritornano periodicamente. Ciò significa che la “partecipazione attiva” dei fedeli al rito assomiglia alla fine a quella apparentemente “passiva”, poiché entrambe finiscono con il risolversi in pie meditazioni sui misteri di Nostro Signore Gesù Cristo e a volte su noi stessi in relazione a questi misteri.
Val la pena di ricordare, infine, che l’esigenza di una “più attiva partecipazione” alla Messa, dal Medio Evo in poi, è sempre stata avanzata dagli eretici con l’invocare proprio un rito più accessibile e più semplice, ovviamente in lingua volgare[29]. E sappiamo a che cosa ha portato, alla fine, l’accoglimento di questo tipo di richieste: alla creazione di un nuovo rito; alla scomparsa del concetto stesso di Sacrificio, dalla liturgia e dalla vita morale; alla scomparsa della Messa; all’estinzione della pietà e della preghiera private, dell’idea stessa della santificazione privata. Al deserto, religioso e morale. Un rito come quello cattolico, che addirittura rinnova il mysterium tremendum della trascendente e tuttavia reale presenza della Divinità nella transustanziazione delle sacre specie, non può certamente esser ridotto a dimensioni semplici, chiare, accessibili a tutti, ovvero alle limitate capacità della nostra mente! La pretesa ad una partecipazione di questo tipo, conseguente all’idea errata di una partecipazione che, per essere attiva, debba intendersi collettivamente, è in realtà cosa del tutto priva di senso. Il rito romano antico già offre alla nostra mente ciò che le è sufficiente per edificarsi nei divini Misteri. Purtroppo, la Sacrosanctum Concilium ha insistito molto sul concetto non cattolico della semplificazione del rito, da ridursi in forme semplici, brevi, facili, adattate alla comprensione dei fedeli e alle varie culture nazionali[30]. Il cuore della santa Messa, la Transustanziazione, provocata, con la Consacrazione, dal sacerdote che agisce in persona Christi, deve conservare, invece, tutta la sua intrinseca, numinosa inaccessibilità, il profondo senso del sacro e del mistero che la caratterizza, immutabile nelle forme e nella lingua liturgica nelle quali l’ha fissata la Tradizione della Chiesa, che ha sempre affermato risalire il canone della Messa a S. Pietro Apostolo[31].
II.
5. Il Concilio oscura i fondamenti della vita devota.
La vita devota del cattolico implica dei presupposti o fondamenti di carattere spirituale, profondamente radicati nella Rivelazione. Tra di essi, essenziali sono: l’esigenza della separazione spirituale del cristiano dal mondo e la visione etica orientata alla salvezza individuale. Entrambi questi fondamenti appaiono oscurati dalla prospettiva della cosiddetta “Chiesa-comunione” inauguratasi con il Vaticano II, giusta la quale il cattolico deve operare in continuo dialogo e armonia con tutto il resto degli uomini, senza più cercare di convertirli, tutto intento a collaborare con essi, quale che sia la loro religione, per l’edificazione dell’unità del genere umano e di un mondo migliore.
5.1 La necessaria separazione spirituale del cristiano dal mondo.
La vita devota del cattolico, da perseguirsi con l’ausilio degli exercitia pietatis, si fonda come una roccia sul presupposto della sua separazione spirituale dal mondo. San Francesco di Sales è molto chiaro in proposito. Nella Prefazione alla Filotea scrive:
“Gli autori che trattarono di vita divota, ebbero quasi tutti di mira d’istruire persone segregate dal mondo, o per lo meno insegnarono una divozione che conduce a questo completo isolamento; io invece ho in animo d’istruire coloro che vivono nelle città, tra le faccende domestiche, nei pubblici impieghi, e che dalla propria condizione sono obbligati a fare, quanto all’esterno, la vita che tutti fanno. Costoro, d’ordinario, sotto pretesto di un’immaginaria impossibilità, non vogliono nemmeno pensare a intraprendere la vita divota, dandosi a credere che […] nessun uomo debba aspirare alla palma della pietà cristiana fin tanto che vive nella ressa degli affari temporali. Ebbene, io mostrerò a questi tali che, come le conchiglie dette madriperle vivono nel mare senza prendere una goccia d’acqua marina […] così può un’anima energica e costante vivere nel mondo senza imbeversi di umori mondani, può trovare sorgenti di dolce pietà nelle onde amare del secolo, può volare tra le fiamme delle concupiscenze terrene senza lasciarvi le ali dei santi desideri della vita divota. L’impresa è ardua al certo, e per questo appunto mi piacerebbe che molti vi dedicassero il pensiero con più ardore che non siasi fatto fin qui…”[32].
Separazione dal mondo, dunque, ma non alla maniera dei monaci di clausura o degli stiliti che rendono gloria a Dio in altro modo dal nostro, anche se la separazione in ispirito dal mondo si può dire che sia la medesima per noi e per loro, risultando essa sempre dall’imitazione di Cristo Nostro Signore attuata nella vita di ogni giorno. Inoltre, separazione o meglio diversità evidente nelle opere cioè nel modo di vivere dentro il mondo, che sarà il modo di chi cerca di attuare il Vangelo in tutto ciò che fa. L’anima generosa verso Dio, costante nella lotta contro se stessa e le tentazioni del mondo, sarà dunque quella che, praticando la vita devota, non si lascerà avvelenare, per grazia di Dio, dagli “umori mondani”, dimostrando in tal modo la verità dell’affermazione di Nostro Signore, che i suoi prescelti “non sono del mondo” poiché, scegliendoli, Egli li ha “fatti uscire dal mondo”, che per questo li odia (Gv 15, 9-29).
Sbaglierebbe, tuttavia, chi interpretasse questa separazione come l’espressione di un ideale di vita astratto e rinunciatario. Non si tratta affatto di ritirarsi di fronte alle “onde amare del secolo” ma di affrontarle virilmente ogni giorno, facendo sempre il nostro dovere di stato, con il fondamentale aiuto delle pratiche della vita devota, che favoriscono grandemente l’afflusso della Grazia divina in noi (“Senza orazione si fa poco più che nulla, spesso assolutamente nulla o persino del male”, diceva S. Giovanni della Croce). E l’anima immersa nella vita devota o che si appresta ad avviarvisi, come si sente portata a vedere il mondo? Forse dal punto di vista del “dialogo”, vera e propria sagra di pseudovalori ed ipocrisie in ogni salsa?
“O mondo, o turba abbominevole, no, non mi vedrete mai più entro le vostre insegne: io ho lasciato per sempre le vostre pazzie e vanità. Re d’orgoglio, re di miseria, spirito infernale, io rinuncio a te e a tutte le tue vane pompe, io ti detesto con tutte le opere tue. E rivolgendomi a voi, mio dolce Gesù, Re di felicità e di gloria eterna, io vi abbraccio con tutte le forze dell’anima mia…”[33].
Questo è sempre stato il punto di vista cattolico sul mondo, fondato sul Nuovo Testamento e sull’insegnamento della Chiesa. Il cattolico, pur vivendo nel mondo, deve nello stesso tempo fuggirne le vanità, ci ammonisce S. Giovanni Evangelista nel famoso passo della sua prima Lettera: “Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, non possiede l’amore del Padre poiché tutto ciò che è nel mondo, cioè la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia delle ricchezze, non vengono dal Padre ma dal mondo. Ora, il mondo passa e la sua concupiscenza pure, ma chi fa la volontà di Dio dura in eterno” (1 Gv 2, 15-17). Tutto ciò che viene dal mondo, essendo, a causa del peccato originale, sottoposto alle leggi della concupiscenza (carnale e non) non è forse sempre pronto a mutarsi in inganno ed ingiustizia, anche quando inizia ad essere in modo buono ed eccellente? Nostro Signore in persona ci ha insegnato che “il mondo è il regno del Principe di questo mondo”, il quale è nello stesso tempo “padre della menzogna ed omicida sin dal principio” (Gv 8, 44; 12, 31). Il Beato Pietro, nel primo sermone agli Ebrei subito dopo il prodigio della Pentecoste, con il quale si iniziava la missione apostolica, concluse la sua potente esortazione alla penitenza e al battesimo “nel nome di Cristo”, con l’ammonimento: “salvatevi da questa generazione perversa” (Atti 2, 38-40).
Nell’esortazione a fuggire il mondo con le sue tentazioni non v’è tuttavia nulla di contraddittorio né di paradossale. Salvarsi dal mondo significa fuggire le tentazioni cattive che sempre vengono dal mondo, non condividerne i valori ingannevoli, non lasciarsi sedurre da esso, sapendo che il mondo passa e la nostra vita terrena con esso mentre la vita eterna, promessa da Nostro Signore a chi crede in Lui e vive secondo i suoi insegnamenti, durerà per sempre. Fuggire il mondo significa pertanto respingere i suoi falsi insegnamenti per contrapporvi quelli di Cristo, della Chiesa da Lui fondata, ossia lottare contro il mondo per convertirlo a Cristo; concretamente, per conferire un significato cristiano a valori mondani di per sé positivi, se rettamente intesi, quali il matrimonio, la famiglia, la cultura, il lavoro, la società, lo Stato, la Patria. E tutto questo per la Gloria di Dio e l’attuazione della sua Misericordia, sapendo che l’esempio di una autentica vita devota potrà contribuire grandemente alla conversione delle anime. E accrescere, di fronte a Dio, i meriti che dobbiamo lucrare con la Santa Croce per ottenere la nostra salvezza personale.
Ma il Vaticano II, con la sua inconsulta volontà di aggiornamento ai valori del Secolo, ha fatto venir meno il concetto della necessaria separazione spirituale del cattolico nei confronti del mondo e quindi il presupposto stesso della vera “vita devota”, indispensabile alla salvezza di ciascuno. Sentirsi spiritualmente separato dal mondo e quindi “diverso”, ciò è addirittura diventato, per il cattolico postconciliare di oggi, il peggiore dei peccati: peccato di egoismo, si sente dire, peccato di chi vuol vivere secondo un’etica solo individuale ed aspira ad una salvezza solo individuale! L’origine di siffatta distorta ed aberrante prospettiva risale a teologi eterodossi come De Lubac, il quale, nella sua opera Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, del 1935, giustamente messa all’indice, contestava l’idea della salvezza individuale e vi contrapponeva una supposta salvezza collettiva, interpretando arbitrariamente certi passi scritturali[34]. Quest’errore, che fa il paio con quello dei “cristiani anonimi” e della conseguente idea ugualmente bislacca della salvezza garantita a tutti dall’Incarnazione senza bisogno di conversione alcuna, era piuttosto diffuso tra i “nuovi teologi” neomodernisti, affatto pentiti e tuttavia immessi inspiegabilmente e proditoriamente da Giovanni XXIII come “consultori” nelle Commissioni conciliari, incluso lo stesso De Lubac, pur essendo stata la maggior parte di loro censurata e costretta al silenzio da Pio XII.
5.2 Il Vaticano II richiede al cattolico di “perfezionare l’ordine temporale" senza tuttavia convertirlo a Cristo.
Quando il decreto conciliare Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici afferma che il cristiano “deve animare e perfezionare con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali” (art. 4), sembra muoversi nell’ambito del modo di pensare cattolico tradizionale. Tuttavia, a prescindere dal verbo “animare” (spiritu christiano formare), che conserva solo un debole riflesso del concetto della conversione del mondo al cristianesimo, l’uso del termine “perfezionare” (perficere), la cui portata resta indeterminata, introduce anch’esso una nota ambigua poiché sembra implicare che il mondo costituisca una realtà che si tratta solamente di “perfezionare” con l’ausilio dei cristiani. E ciò che si deve solamente “perfezionare”, non è già buono di per sé? Ma il mondo – lo sappiamo bene – non è buono di per sé. Ce lo ha detto più volte la divina Rivelazione (vedi supra), ce lo conferma tutti i giorni l’esperienza, anche quella nostra interiore. Il mondo è devastato dalle conseguenze del peccato originale, per quanto quest’ultimo abbia corrotto solo in parte l’uomo, lasciandogli l’uso del libero arbitrio e quindi la possibilità di compiere il bene. Le opere del mondo sono quasi sempre cattive. Perciò esso non può esser “perfezionato”, in quanto tale: può solo esser “convertito”. La dichiarazione Apostolicam actuositatem propone perciò ai fedeli un ideale di “perfezionamento” del mondo che non concorda con la maniera nella quale la Chiesa ha sempre inteso il mondo ed il rapporto del fedele con esso. E difatti non può produrre nessun sostegno né scritturale né magisteriale a questo conclamato “perfezionamento”.
È da notare che questo decreto, citando l’art. 31 della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (detta dogmatica anche se completamente priva di definizioni dogmatiche), attribuisce ai fedeli “la partecipazione dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo” (AA, 2). Esso utilizza la ben nota estensione del concetto di sacerdozio operata dal Vaticano II con l’interpretare in modo non conforme alla tradizione 1 Pt 2, 4-10, che conferisce al “popolo” dei fedeli solo un titolo onorifico[36]. Il testo conciliare ordina gli uni agli altri, fedeli e sacerdoti, nell’unico “popolo di Dio”, entrambi sacerdoti del popolo di Dio, secondo la propria misura, senza spiegare le reciproche differenze di “essenza” e “grado” fra i due, solo enunciate[37]. E tuttavia, quando nel citato art. 4 AA si occupa della “spiritualità” di questi fedeli innalzati al rango del sacerdozio “regale e profetico” di Cristo, il decreto non nomina affatto gli strumenti della vita devota tra gli “aiuti spirituali” necessari a mantenerli nella “vita d’intimità con Cristo”, richiesta dalla vera spiritualità cattolica. Nomina, invece, soprattutto la liturgia, citando in nota l’art. 11 della SC, a noi già noto, quello della “piena efficacia” (vedi supra, parte I). “Questa vita d’intimità con Cristo viene alimentata nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, soprattutto con la partecipazione attiva [actuosa participatione] alla sacra liturgia” (AA, art. 4, cit.).
L’impressione di non concordanza con la tradizione, fornita dall’art. 4 della AA, si rafforza se passiamo al successivo art. 5. Qual è il fine dell’apostolato dei laici? “L’opera della redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza degli uomini, però abbraccia pure il rinnovamento di tutto l’ordine temporale [totius quoque ordinis temporalis instaurationem complectitur]”. Forse che in passato la pastorale della Chiesa, accanto al fine della salvezza, attribuiva alla Chiesa anche quello di “rinnovare tutto l’ordine temporale”? E come fine addirittura equivalente a quello sovrannaturale della salvezza? Il fine istituzionale della Chiesa cattolica verrebbe allora ad essere duplice: la salvezza degli uomini ed il rinnovamento di tutto l’ordine temporale. Ma in tal modo il Vaticano II avrebbe ridefinito la missione della Chiesa, attribuendole un fine temporale posto sullo stesso piano di quello spirituale. Cosa questa, che non credo sia mai stata insegnata in passato. Il decreto, infatti, non si limita a dire che la predicazione della salvezza viene ad attuarsi, quando viene accolta, con l’instaurarsi, in genere graduale, di società civili (“l’ordine temporale”) improntate ai valori del cristianesimo. Afferma addirittura che il fine della salvezza “abbraccia [complectitur] il rinnovamento di tutto l’ordine temporale”. Come a dire: senza tale “rinnovamento” non può realizzarsi la salvezza delle anime.
“Di conseguenza, la missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini ma anche ad animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico [sed et spiritu evangelico verum temporalium ordinem perfundendi et perficiendi]” (AA, art. 5, cit.). Lo scopo attribuito all’apostolato dei laici è naturalmente lo stesso – duplice – attribuito ora alla missione della Chiesa. Questo duplice scopo, spirituale e temporale, deve esser sempre tenuto presente dai laici nel loro apostolato; essi devono sapere di dover operare sempre nell’ordine “spirituale” ed in quello “temporale” (ivi). E per evitare equivoci quanto all’equiparazione dei due “ordini”, il testo specifica che questi ordini “sebbene siano distinti, tuttavia sono così legati nell’unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo [in unico consilio Dei ita sunt connexi ut ipse Deus intendat, in Christo, totum mundum reassumere in novam creaturam, inchoative his in terris, plene in ultimo die]” (ivi).
Il testo conciliare non si limita affatto, a mio avviso, a ribadire ciò che è storicamente avvenuto: che la conversione graduale delle anime a Cristo ha prodotto nei secoli la graduale instaurazione di un ordine temporale cristiano, per esempio in Europa e Sud America. Esso vuole al contrario insinuare un nuovo orientamento di pensiero, addirittura rivoluzionario: che l’instaurazione di un “ordine temporale perfezionato” e alla fine dei tempi addirittura “perfetto”, non deve intendersi alla stregua di una conseguenza implicita della conversione delle anime, dal momento che deve esser considerata vero e proprio fine primario della missione della Chiesa. Da effetto della conversione, e quindi della missione, diventa causa finale della missione stessa, pari in dignità al fine rappresentato dalla stessa conversione. Ad accentuare ulteriormente la novità di quest’idea, soccorre la constatazione che i testi del Concilio non dicono mai chiaramente che questo “ordine temporale” deve diventare tout court cristiano, se vuole salvarsi. Lo si deve “animare” e “perfezionare” in senso cristiano, concetti piuttosto vaghi, come ognun può vedere. Vaghissima, come si è detto, l’idea di una “animazione” dell’ordine temporale, termine entrato comunque largamente nell’uso del jargon postconciliare. Che vuol dire? Ed insufficiente, nella sua indeterminatezza, quello del “perfezionare”, che implica oltretutto la sostanziale bontà del mondo, come se non fosse dogma di fede che il peccato originale si trasmette ex origine a tutta la discendenza d’Adamo.
E che si abbia qui a che fare con un insegnamento diverso da quello del Magistero tradizionale, ciò risulta, a mio avviso, anche dal fatto che i Papi hanno sempre ribadito che il fine per il quale esiste la Santa Chiesa, fondata da Nostro Signore e non dagli uomini, l’unico che ne giustifichi effettivamente l’esistenza, è unicamente il fine sovrannaturale, costituito dalla salvezza delle anime; fine primario che trascende in modo assoluto ogni possibile fine temporale, anche essenziale al mantenimento della stessa Chiesa, in quanto istituzione giuridico-politica. Tant’è vero che Pio IX, pur difendendone a spada tratta l’evidente legittimità, non volle notoriamente includere l’esistenza del potere temporale dei Papi nel dogma della fede, lasciandone così implicitamente il modus essendi al prudente e realistico apprezzamento dei Papi stessi. Ciò risulta dal passo di una sua allocuzione in occasione di una cerimonia di canonizzazione, nel quale dichiarò: “la S. Sede non sostiene come dogma di fede il dominio temporale, ma dichiara che il dominio temporale è necessario ed indispensabile, finché duri questo ordine di Provvidenza, per sostenere l’indipendenza del potere spirituale”[38].
Il nuovo orientamento infiltratosi nel Concilio viene, pertanto, ad incidere sulla retta rappresentazione del disegno salvifico della Provvidenza. A cosa mira, infatti, secondo il Concilio, il “disegno salvifico”? A salvare il maggior numero possibile di anime, facendole entrare nel Corpo Mistico di Cristo, sino al giorno nel quale l’improvvisa Parousia o Ritorno, Avvento di Nostro Signore porrà fine per sempre alla figura di questo mondo? No. Mira a “ricapitolare in Cristo” tutto il mondo per formare una “creazione nuova”, che sarà perfetta (plena) alla fine del tempo. Il significato di queste affermazioni mi sembra evidente: tramite la Chiesa, ci dice il Concilio, Dio vuole perfezionare l’ordine temporale sì da renderlo compiuto o perfetto “alla fine del tempo”. Alla fine dei tempi non ci sarà allora il Giudizio universale ma la pienezza del perfezionamento dell’ordine temporale, grazie all’aggiornata opera di “redenzione” della Chiesa. La “creazione nuova” che si avrà alla fine dei tempi non avrà pertanto luogo dopo il Giudizio (che distruggerà completamente il mondo, come rivelato e come sempre insegnato) e la conseguente separazione eterna dei buoni dai cattivi; non sarà rappresentata dalla Gerusalemme celeste, che porterà il Tabernacolo di Dio tra gli uomini, sì che “Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo e Dio stesso dimorerà con gli uomini. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non vi sarà più morte, né lutto, né grido, né pena esisterà più, perché il primo mondo è sparito” (Apoc., 21, 1-5). Al contrario, secondo questo testo del Concilio – il quale pur ricorda il Giudizio universale all’art. 48 della LG – la “creazione nuova” che si avrà “alla fine del tempo” consisterà nel perfezionamento finale dell’ordine temporale ovvero della figura di questo mondo! Ed i christifideles dovrebbero cooperare alla realizzazione di questa “redenzione” dell’ordine temporale! Il “rinnovamento dell’ordine temporale” cui è chiamato a collaborare il cattolico laico assume allora una dimensione addirittura cosmica perché deve concorrere ad una “nuova creazione” che (anziché rivelare la Gerusalemme celeste, della quale qui non si parla) renderà l’ordine temporale perfetto alla fine dei tempi[39].
In questo testo appare evidente, a mio avviso, la concezione naturalistica e millenaristica del Regno di Dio, intrisa di elementi teilhardiani oltre che dei teologoumeni di De Lubac e Rahner, frutto della scomparsa del fine autenticamente sovrannaturale dal concetto aggiornato di “missione della Chiesa”, strutturata ora sul “dialogo ecumenico” per l’unificazione del genere umano; concezione insinuatasi nei testi del Concilio ad opera dei nouveaux théologiens e sviluppata in particolare negli articoli 33-39 della costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.[40] Ed appare del pari evidente che l’apostolato dei laici è inteso in modo nettamente diverso che in passato, dal momento che gli si attribuisce un fine (tra parentesi del tutto utopistico) che oltrepassa quello tradizionale della conversione delle anime a Cristo. E non solo lo oltrepassa ma viene di fatto a contraddirlo.
5.3 Il perfezionamento dell’ordine temporale deve esser attuato “ecumenicamente” ossia in comunità d’intenti e d’azione con “gli altri gruppi cristiani” ed anzi con tutti gli uomini.
Perché affermo che, con questa nuova impostazione, ci troviamo di fronte ad una sostanziale contraddizione? Non ci sono, forse, nel decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici, frasi che sembrano riaffermare il fine tradizionale di quest’apostolato e della missione della Chiesa? Ci sono, ma non elidono le sgradevoli novità poiché il nuovo obiettivo proposto all’apostolato stesso viene ripetutamente confermato. L’art. 6 AA ricorda che i laici cristiani devono offrire la “testimonianza” di una vita cristiana e attirare gli uomini a Dio mediante “le opere buone compiute con spirito sovrannaturale”, integrando tutto ciò con “l’annunciare Cristo con la parola”, integrazione che sembra tuttavia rappresentare una novità rispetto al passato, non richiedendosi in genere ai laici di comportarsi da predicatori. In ogni caso, dopo questa precisazione nel senso della tradizione, il successivo art. 7 ribadisce, al contrario, il nuovo indirizzo: “Dio vuole che gli uomini, con animo concorde, instaurino e perfezionino sempre più l’ordine delle realtà temporali [Circa mundum vero consilium Dei est, ut homines concordi animo ordinem rerum temporalium instaurent iugiterque perficiant]”. Siffatta “instaurazione” è da intendersi sempre nel senso del “perfezionamento” escatologico delle realtà mondane, sopra richiamato. Si noti: il “perfezionamento dell’ordine temporale”, da obiettivo indicato (secondo il Concilio) da Cristo ai fedeli, è ora diventato (dopo due articoli) un obiettivo imposto da Dio all’umanità intera. Anche di questo consilium Dei circa mundum il testo non sa tuttavia fornirci alcun riscontro scritturale e magisteriale specifico. Lo riconduce al fatto, sempre in AA, art.7, che “Dio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano assai buone” (Gen 1, 31): fondamento alquanto labile, direi, per l’idea di un “perfezionamento dell’ordine temporale” quale compito essenziale dei cristiani in unione con il resto (non convertito) dell’umanità. E difatti tale perfezionamento, concepito in questo modo, dovrà sempre esser perseguito, dai laici cristiani, nella concordia con tutto il genere umano, cioè ecumenicamente. La missione della Chiesa non può più prescindere da questa concordia, essa deve perseguire la salvezza del mondo sempre e comunque mediante un’azione condotta “con animo concorde” assieme a tutti gli uomini, vale a dire in unità con quello stesso mondo che essa dovrebbe invece convertire e salvare. È fuori discussione che in una simile prospettiva l’idea stessa della conversione degli uomini a Cristo è esclusa poiché essa comporta fatalmente la discordia, implicando essa la condanna esplicita dei falsi valori del mondo ed il conseguente odio da parte di quest’ultimo (“Non sono venuto a portar la pace ma la spada”, Mt 10, 34). Nella prospettiva impostasi con il Concilio, la Chiesa cattolica cessa, pertanto, di esser segno di contraddizione nei confronti del mondo. Cessa, perché la sua Gerarchia non vuole più esserlo, tradendo così il significato della missione di salvezza ordinatale da Cristo Nostro Signore.
Il perfezionamento dell’ordine temporale (per salvare il mondo unificandolo in quanto mondo) lo si dovrà pertanto realizzare programmaticamente sempre di comune accordo con gli altri gruppi cristiani. La “testimonianza di vita” offerta dai laici cristiani a questo fine “raggiungerà facilmente il suo effetto se verrà data insieme con gli altri gruppi cristiani, secondo le norme contenute nel decreto relativo all’ecumenismo” (decreto Ad Gentes sull’attività missionaria della Chiesa, art. 36). Questo articolo richiama in nota – a causa delle novità introdotte, il Concilio è spesso costretto a citare se stesso – il testo dell’art. 12 del decreto sull’ecumenismo, il cui argomento è la “cooperazione con i fratelli separati”. In quest’ultimo articolo, i cattolici sono già diventati cristiani di tipo ecumenico, grazie ad una professione di fede ad hoc, adatta a tutte le denominazioni cristiane, come si suol dire oggi, copiando dalla terminologia anglosassone. “Tutti i cristiani professino davanti a tutti i popoli la fede in Dio uno e trino, nel Figlio di Dio incarnato, Redentore e Signore nostro [a questo è ridotto il Credo?], e con comune sforzo della mutua stima rendano testimonianza della speranza nostra, che non inganna. Siccome in questi tempi si stabilisce su vasta scala la cooperazione nel campo sociale, tutti gli uomini sono chiamati a questa comune opera, ma a maggior ragione quelli che credono in Dio [tutte le religioni, dunque] e, in primissimo luogo, tutti i cristiani, a causa del nome di Cristo di cui sono insigniti [cattolici, protestanti, ortodossi, etc., tutti assieme]. Questa cooperazione, già attuata in non poche nazioni, va ogni giorno più perfezionata […] sia facendo stimare rettamente la dignità della persona umana, sia lavorando a promuovere il bene della pace, sia applicando socialmente il Vangelo, sia facendo progredire con spirito cristiano le scienze e le arti etc.” (decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, art. 12).
Che “i tempi”fossero caratterizzati a livello mondiale da una “vasta cooperazione nel campo sociale”, ciò non era affatto vero. A metà degli anni Sessanta del secolo scorso il mondo era rigidamente diviso in due blocchi contrapposti, Occidente ed Unione Sovietica, tra i quali si barcamenavano i cosiddetti “non allineati”, intenti a lucrare tutti i possibili vantaggi dall’una o dall’altra parte. C’era la c.d. “guerra fredda”, che era invece assai “calda” in Viet-Nam. In Cina era cominciata la “rivoluzione culturale” delle Guardie Rosse, una sanguinosa guerra civile scatenata da una fazione del partito comunista al potere contro un’altra, guerra ferocissima, che sarebbe durata anni, mietendo milioni di vittime. In Occidente il marxismo e l’esistenzialismo, la psicoanalisi dominavano la scena culturale e stava maturando, all’insegna dell’edonismo di massa, la “rivolta studentesca” del 1968 mentre i partiti comunisti (finanziati e diretti dall’Unione Sovietica) tenevano sempre alto il livello dello “scontro di classe”, grazie al controllo dei sindacati. Democrazia e comunismo si fronteggiavano come due visioni del mondo e modi di vivere tra i quali bisognava scegliere: o l’uno o l’altro. L’idea di un processo di solidarietà mondiale ai fini dell’unificazione del genere umano nella pace e nella concordia, che trasuda dalle pagine del Concilio, non la professavano che sparuti quanto esaltati utopisti, però evidentemente ben presenti tra i teologi neo-modernisti disseminati nelle Commissioni conciliari.
Di fronte ad un mondo diviso, anche con le armi, atomiche incluse, la Chiesa, cosa ha fatto? Invece di ribadire che la vera pace poteva venire solo dalla conversione degli individui e dei popoli a Cristo; di condannare pertanto tutti gli errori del Secolo, ad iniziare dal marxismo, che ne era il più grave; di riconfermare la validità perenne della propria dottrina tradizionale, si è inopinatamente rifugiata nell’utopia pacifista e millenarista da realizzarsi con il chimerico ed inconsistente strumento del “dialogo”! Svolta irrealistica, che si è voluto presentare addirittura come una Nuova Pentecoste, quando si trattava solo della reinvenzione truffaldina di un illuminismo da farmacisti di paese[41].
In tal modo, la Chiesa iniziava a dare il suo potente contributo ad un processo che ancora non c'era, diventando così non solo complice ma anche causa, e forse principale, di quel processo, rivelatosi negli ultimi tempi per quello che veramente è stato ed è: processo distruttore non solo dello Stato-nazione ma anche delle società, delle Nazioni e dei popoli occidentali in generale e cristiani in particolare, ivi compresa ovviamente la religione. Possiamo dire: un processo di autodistruzione della Chiesa che ha inevitabilmente coinvolto tutte le nazioni cattoliche nel suo moto perverso, tradite dunque queste nazioni proprio dalla Chiesa generata dal Concilio.
Ma i b e n i del perfezionando “ordine temporale” che, diceva il Concilio, bisogna realizzare in “cooperazione” con gli altri “gruppi” cristiani e con tutti gli uomini, cioè con tutte le altre religioni della terra, quali erano? “La vita, la famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali, e così via”(decreto AA, art. 7 cit.). Ora, mi chiedo, e la mia è la domanda del semplice senso comune, com’è possibile perfezionare questi “beni” assieme a “tutti quelli che credono in Dio” e a tutti gli altri “gruppi” cristiani, e persino agli atei (Gaudium et Spes, art. 21), quando gli uni e gli altri concepiscono tutti questi “beni” in modo non solo diverso dai cattolici ma persino opposto? Tanto per fare un esempio: solo i cattolici professano l’indissolubilità del matrimonio. Com’è possibile che essi promuovano il bene fondamentale della famiglia assieme a coloro che questa indissolubilità non ammettono? Ed assieme a coloro che, oltre al divorzio, ammettono il ripudio, il matrimonio temporaneo, la poligamia, il concubinaggio, le coppie di fatto ed oggi addirittura il “matrimonio omosessuale”? E la cultura? Abbiamo forse noi cattolici gli stessi valori culturali di atei, protestanti, grecoscismatici, buddisti, mussulmani e chi più ne ha più ne metta? Insomma, come è stato possibile apporre un fine così contraddittorio alla missione della Chiesa e all’apostolato dei laici cattolici? Com’è possibile “instaurare l’ordine temporale in Cristo” (AA, art. 7, cit.) lavorando assieme a coloro che, in vario grado, sono nemici di Cristo e in ogni caso al suo Vicario in terra? “Che comunanza c’è tra Cristo e Belial? Che rapporto tra il fedele e l’infedele?” (2 Cr, 6, 14-15). Queste domande sono state rivolte più volte all’autorità competente, negli ultimi anni. Essa non ha mai risposto. Hanno risposto, in vece sua, i fatti, che sono quelli della prolungata decadenza, per non dire dissoluzione, morale e persino fisica del Cattolicesimo e delle nazioni una volta cattoliche.
È chiaro che in una situazione del genere non ha senso parlare di una “separazione spirituale” del fedele cattolico dal mondo. La sua “vita devota” dovrà attuarsi soprattutto nelle attività che si svolgono in unione e comunione con tutti gli altri uomini, dalla liturgia agli incontri interconfessionali ed interreligiosi, in tutti gli aspetti di quella dimensione collettiva e dialogante che si considera necessario mantenere per poter realizzare il nuovo (e non cattolico) fine assegnato ora alla Chiesa: il perfezionamento dell’ordine temporale sino al raggiungimento dell’unità del genere umano, alba del nuovo millennio.
L’inserimento della devozione privata e quindi della vita devota in senso proprio in una dimensione collettiva e profana, che finisce con il soffocarla nel proprio mortale abbraccio, ha del resto conseguenze deleterie, come si può ben immaginare, anche nei confronti dell’etica ovvero della morale cristiana in senso proprio e dell’esatta nozione della salvezza.
5.4 Servendosi del concetto di “verità come ricerca”, tipico dei modernisti, la pastorale del “perfezionamento” auspica il superamento dell’etica cristiana e della concezione tradizionale della salvezza, considerate troppo “individualistiche”.
Lo spirito comunitario o di comunione con l’intero genere umano, di universale cooperazione per realizzare obiettivi puramente terreni, intramondani, non cattolici perché di origine illuminista e liberale, (quali i diritti umani, la dignità della persona, l’uguaglianza e la libertà, l’unità del genere umano nella pace e nel progresso) proposto dal nuovo approccio emergente dal Concilio, si riverbera poi negativamente sul modo di intendere la morale e, in conseguenza, la salvezza dell’anima. Nella Gaudium et Spes troviamo, infatti, un paragrafo (il n. 30) che porta questo singolare titolo: “Occorre superare l’etica individualistica”(Quod ultra individualisticam ethicam progrediendum sit). Un titolo che sicuramente non è dispiaciuto a De Lubac. All’inizio, il testo stigmatizza giustamente coloro che vivono “come se non avessero alcuna cura delle necessità della società” e ancor più quelli che non rispettano le leggi, quali gli evasori fiscali o coloro che violano “le norme stabilite per la guida dei veicoli, non rendendosi conto, con la propria incuria, di metter in pericolo la propria vita e quella degli altri” (GS, art. 30, cit.).
Fa specie che un Concilio Ecumenico della Chiesa cattolica scenda in questi dettagli. Comunque sia, l’egoismo qui giustamente condannato non è forse quello di chi non rispetta il comandamento di “amare, per amor di Dio, il prossimo come se stesso”? Voglio dire, con ciò, che il superamento dell’egoismo, che ci porta a violare le leggi, dal punto di vista cristiano deve sempre attuarsi obbedendo al comando (divino) di amare il prossimo come se stessi – restando quindi nell’ambito degli imperativi dell’etica cristiana sempre insegnata dalla Chiesa.
Ma il ragionamento di GS 30 non si sviluppa in questo modo, cioè limitandosi a ribadire che la carità cristiana, oggi ancor più che in passato, deve applicarsi a certe esigenze di “solidarietà” un tempo meno evidenti. Esso subisce una svolta anomala che si delinea nell’ammonimento con il quale l’articolo si conclude.
“Che tutti prendano sommamente a cuore di annoverare le solidarietà sociali tra i principali doveri dell’uomo d’oggi, e di rispettarle. Infatti, quanto più il mondo si unifica, tanto più apertamente gli obblighi degli uomini superano i gruppi particolari e si estendono a poco a poco al mondo intero. E ciò non può avvenire se i singoli uomini e i gruppi non coltivano le virtù morali e sociali e le diffondono nella società, cosicché sorgano uomini nuovi, artefici di una umanità nuova, con il necessario aiuto della grazia divina” (GS, 30, cit.).
Seguiamo attentamente. Tra i principali doveri morali dell’uomo e quindi del cattolico di devono esser oggi “le solidarietà sociali”. Ma per qual motivo? Sempre in adempimento della legge morale cristiana (per amor di Dio, ama il prossimo tuo come te stesso), che deve esser intesa anche come vera e propria legge di natura, da far regnare anche nei rapporti sociali? No. Come logica conseguenza del fatto che “il mondo si unifica”, che si sta cioè andando, secondo il Concilio, verso l’unità del genere umano. Unificandosi il mondo, allora gli obblighi degli individui si estendono al mondo intero. Che vuol dire? Che ognuno di noi ha doveri verso tutto il mondo? Il passaggio finale è ben significativo nel senso del nuovo indirizzo bandito dalla “pastorale” del Concilio. Infatti, come avrà luogo quest’opera di paideia collettiva, che dovrebbe partorire addirittura “uomini nuovi, artefici di un’umanità nuova”? Con “il necessario aiuto della grazia divina”, si capisce, anche se questa frase appare aggiunta per dovere d’ufficio.
Aggiunta, appiccicata, poiché “le virtù morali e sociali” di cui sopra si fondano necessariamente sulle verità della morale, le quali, tuttavia, non sono quelle tradizionali della morale cattolica, fondata sulla Rivelazione. E perché non lo sono? Perché devono esser ricercate dalla coscienza di ciascuno – queste verità – in unione con tutti gli altri uomini e pertanto con le religioni e morali da essi professate, nessuna delle quali riconosce la religione fondata da Cristo come l’unica vera. Questo sviamento rispetto alla corretta concezione dell’etica cristiana, risulta dall’art. 16 di Gaudium et Spes, dedicato alla “dignità della coscienza morale”, a mio avviso uno dei testi chiave per capire lo spirito del Concilio.
Anche qui, come in altri testi conciliari, il discorso si inizia da un concetto del tutto ortodosso per poi deviare. Difatti, l’articolo ripropone la verità insegnata da S. Paolo in Rm 2, 14-16 sul rapporto tra la nostra coscienza e la legge morale. La coscienza rettamente intesa ci svela la presenza nel nostro animo di una legge morale cui dobbiamo obbedire e in base alla quale saremo giudicati alla nostra morte. S. Paolo si riferisce qui alla legge morale come deve esser intesa dai pagani, che non avevano avuto una legge esteriore, positiva, di origine divina, rivelata e imposta. Tuttavia, il rapporto tra coscienza e legge morale delineato dall’Apostolo, vale sempre allo stesso modo per tutti gli uomini, dato che la legge inscritta nei nostri cuori è in sostanza quella dei Dieci Comandamenti, che tutti hanno il dovere di ascoltare ed osservare.
“Nell’intimo della coscienza – recita GS 16 – l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato [Rm 2, 14-16]”. Pertanto, prosegue il testo conciliare, “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità [Radiomessagio di Pio XII, del 23.3. 1952]. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo [Mt 22, 37-40; Gal 5, 14]”[42].
Stabilito che la coscienza opera rettamente quando ricerca dentro di sé la voce di Dio che le parla e aderisce a ciò che quella Voce le ordina di fare per evitare il male, il testo passa a sviluppare il punto della “legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”. Cosa si deve ricavare dal Comandamento di “amare il prossimo”? Qui si ha la svolta in senso negativo e al vero amor del prossimo cristiano si sovrappone la spuria, sincretistica solidarietà ecumenica fabbricata dal Concilio.
“Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità” (GS 16, cit.). L’articolo si conclude poi con l’affermare che la coscienza “non perde la sua dignità” quando sbaglia “per ignoranza invincibile” mentre la perde se l’errore è dovuto a negligenza nel “cercare la verità” e quando essa è diventata “quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato” (ivi).
Osserviamo attentamente. Il passaggio decisivo è nel primo periodo. Si afferma qui il principio cui deve ispirarsi la c.d. ortoprassi cioè il comportamento eticamente giusto. Tale comportamento, annoto, dovrà esser conforme a principi che non risultano dalla prassi stessa ma la precedono. Qui, principio essenziale e, si vorrebbe dire, preliminare è quello della “fedeltà alla coscienza” (fidelitate erga conscientiam christiani cum ceteribus hominibus coniunguntur…). Nella prassi della vita di relazione i credenti devono restar sempre fedeli alla coscienza. A quale coscienza? Evidentemente, a quella appena richiamata nel testo, della quale testimonia l’insegnamento di S. Paolo la coscienza in ascolto della voce di Dio e della legge naturale dentro di sé. La coscienza morale, dunque, quale il cristiano deve sforzarsi in ogni modo di avere e mantenere, grazie anche alle pratiche della “vita devota”.
Stando così le cose, ci si aspetterebbe che il Concilio proseguisse con affermazioni di questo tipo: la “fedeltà alla coscienza” fà sì che il cristiano operi quotidianamente per la sua santificazione personale, facendo così vedere agli altri uomini la superiorità della sua etica, che viene dalla Rivelazione del vero Dio, instradandoli in tal modo sulla via della conversione. E invece, cosa dice il Concilio? Che sarebbe proprio la “fedeltà alla coscienza” a spingere i cristiani ad “unirsi agli altri uomini per cercare la verità e risolvere secondo verità i problemi posti dall’etica”.
5.4.1. L’irrazionale e contraddittorio concetto della “verità come ricerca” proposto dal Concilio.
Di quale verità si tratta, qui? A quanto sembra, della verità in generale. Ora, a prescindere dal ruolo attribuito alla coscienza, si utilizzano qui nozioni di verità e di legge morale del tutto incompatibili con quelle cristiane. Dal testo conciliare appare, infatti, che la verità risulterebbe da una ricerca in comune con gli altri uomini. Ugualmente da una ricerca in comune dovrebbe risultare la soluzione dei “numerosi problemi morali”, privati e sociali, che affliggono sempre gli uomini. In altre parole: la verità risulterebbe dal dialogo, al pari dei criteri morali da adottarsi per risolvere le questioni etiche imposte dalla prassi. Il vero e il giusto risulterebbero allora dall’esser ciascuno di noi in comunione attivamente dialogante con l’Altro, il quale Altro ricomprende, con gradazioni diverse, l’intera umanità? Non si vede quale altra conclusione trarre dal dettato conciliare. Ma che razza di concezione del “vero” e del “giusto” è mai questa? Sembra appunto uscita dalle malsane fantasticherie della filosofia del dialogo di un Buber o di un Rahner e compagnia cantante.
Secondo il sano realismo della filosofia aristotelico-tomistica, la verità, per esser tale, esige la concordanza dell’intelletto nostro con la cosa oggetto della sua indagine. E tale concordanza non può certo attribuirsi al fatto in sé di una “ricerca in comune”, che magari decide a maggioranza; non può essere il risultato di uno sforzo collettivo, condotto per di più in base al principio del c.d. “dialogo”; “ricerca” il cui unico criterio-guida è quello di far scaturire la verità dalla ricerca stessa ossia dall’esser-in-dialogo. Il principio del dialogo come valida ricerca della verità si può applicare solo ai dialoghi filosofici, come quelli di Platone, che sono rappresentazioni letterarie dello svolgimento ideale della dialettica dei concetti; e di concetti che, nel caso di Platone, mirano sinceramente a cogliere il Vero in senso assoluto; non certo ai rapporti religiosi, morali e politici degli uomini, i quali, nella concreta realtà storica e sociale, perseguono sempre scopi di parte, buoni o cattivi che siano, e non si curano affatto di giungere alla dimostrazione dell’esistenza di una verità universale, accettata da tutti.
La proposizione conciliare mostra dunque, in primo luogo, un carattere del tutto utopistico, poiché presuppone una esigenza di ricerca della verità in tutti gli uomini, una sincerità di intenti nei confronti del Vero, che nei fatti non esiste, se non in individui isolati, personalità eccezionali o, se collettiva, in rari momenti di improvvisa lucidità, spesso imposta da circostanze pesantemente avverse. Non che uomini e donne non sentano in cuor loro il fascino ed anche l’esigenza della verità nella loro vita: ma generalmente vi si sottraggono, rimandano all’infinito il chiarimento interiore, occupati come sono dalle loro necessità immediate, accecati dalle passioni, dai pregiudizi, proni a verità “ufficiali” delle quali si accontentano perché utili e comode o per timore.
Qual è dunque il concetto della verità qui propugnato dal Concilio? Si riesce a stabilirlo? A ben vedere, che cosa si debba intendere per verità il testo sembra darlo per presupposto. Ma non è sicuramente quello tradizionale del pensiero cattolico, di derivazione aritotelico-tomistica. Quale, allora? Si resta nell’indeterminato perché compare un concetto della verità come ricerca, di origine chiaramente blondeliana, condiviso dalla prospettiva relativistica tipica dei modernisti, negatori del concetto stesso di verità assoluta. La verità è per il Concilio da intendersi come ricerca della verità, da effettuarsi nel dialogo con tutti gli uomini, tutte le religioni, tutte le ideologie. Non c’è più una verità religiosa e morale (e anche politica, quella dello Stato cristiano, con i suoi valori non negoziabili) da insegnare e comunque proporre, anche con l’esempio della propria vita, come l’unica ed assoluta perché di origine divina. Vi si sostituisce ora la verità come ricerca collettiva, in ogni campo, dalla filosofia alla morale, alla religione. La verità diventa un puro tendere verso la verità, il cui raggiungimento dipende dal successo del dialogo con tutti gli altri. Un tendere che deve avvalersi di una sinergia comunitaria. Il giusto concetto del vero viene così oscurato, sostituito da quello della ricerca dialogante del vero, aperta a tutte le avventure e mode intellettuali, in balia dello Spirito del Secolo.
Siamo, evidentemente, alla dissoluzione dei fondamenti metafisici ed etici del Cattolicesimo. Ma questo pernicioso e falso concetto del vero il Concilio lo ha applicato anche altrove.
Per esempio nell’art. 8 della costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione, dedicato alla “sacra tradizione”. Vi si dice, ad un certo punto, che la tradizione di origine apostolica “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo” poiché la sua “comprensione cresce” sia “con la contemplazione e lo studio” sia con una “maggior intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali”, sia, infinite, per la “predicazione” dei vescovi. Da qui la conclusione: “Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina [ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit], finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”(DV, 8.3). Stabilito che la “tradizione apostolica” è caratterizzata da un continuo progredire, nel quale confluirebbero le molteplici componenti enunciate, appare quasi scontato concluderne che la Chiesa “tende incessantemente alla pienezza della verità divina”.
Eccoci dunque di nuovo di fronte al concetto della verità come ricerca. Ricerca e non saldo possesso, come quello garantito dal Deposito della Fede, il quale, come dal nome, indica per l’appunto l’esistenza di una verità rivelata immutabile e immodificabile sulla fede e sui costumi, mantenuta e difesa come in un sacro e intangibile d e p o s i t o dalla Chiesa. Affermare che la Chiesa a tutt’oggi ancora “tende alla pienezza della verità divina” significa insinuare l’idea che la Chiesa questa pienezza non l’abbia ancora conseguita, dopo circa duemila anni, il che è palesemente assurdo. Vorrebbe dire che per duemila anni lo Spirito Santo non ha assistito la Chiesa nel suo magistero, se essa è ancora alla ricerca di tale “pienezza”, e che i Papi, la gerarchia tutta sono stati degli incapaci! Che vuol dire poi “pienezza”? È un termine largamente usato dal Concilio, in contesti diversi, di per sé ambiguo. Infatti, non si capisce bene quale sarebbe il contenuto specifico di questa pienezza: che ancora non si sono pienamente afferrate le verità rivelate? E quali? Che il Magistero sta ancora dibattendo attorno ad esse? Dove, come? Che sono, pertanto, insegnate in modo non pieno Inoltre, affermare che la Chiesa è ancora in cerca delle verità di fede significa contraddire in modo patente il dogma secondo il quale la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo. Ed infine: l’idea della verità come ricerca è principio ex sese incompatibile con l’idea stessa di una verità immutabile perché di origine divina.
La verità si può ridurre ad una cangiante ricerca della verità, diventando così sempre relativa al luogo e al tempo, al momento storico dato, solo dal punto di vista di una concezione vitalistica della verità, come quella professata appunto dalla filosofia dell’azione di Blondel, della quale erano nutriti i modernisti[43]. In particolare, per il cristiano il concetto della verità non si può ridurre a quello della verità come ricerca e per di più in comune con tutto il resto dell’umanità. Le verità concernenti Dio, il mondo, l’uomo, sono per il cattolico già date sulla base della Rivelazione, dell’insegnamento della Chiesa, della recta ratio e del senso comune per ciò che riguarda il ragionamento individuale capace di verificarne il senso.
Dal testo del Concilio, al contrario, sembra che il cristiano non possegga queste verità ed anzi nessuna verità, se deve ancora trovare il vero in una ricerca comune, nel dialogo con tutti gli altri uomini. E che non possegga nemmeno le verità della morale, se ugualmente deve trovare la vera soluzione ai problemi posti dall’etica sempre e solo nella ricerca comune con gli altri.
La prospettiva inaugurata qui dal Concilio rappresenta una gravissima deviazione dal retto pensare cattolico. Infatti, essa incide anche sul dogma della fede poiché introduce il relativismo nella nozione della verità e della legge morale. Tutto il contrario di ciò che si ricava dall’insegnamento di S. Paolo sul giusto rapporto tra coscienza e legge morale naturale, rapporto che ci mostra come deve essere intesa la verità (di origine divina) che dobbiamo saper trovare nella coscienza, avendo come punto di riferimento la Rivelazione e quindi anche l’insegnamento di S. Paolo. Avendo punti di riferimento fissi e immutabili, costituiti dalle verità di fede e dal Magistero che ce le spiega.
Dico che la nuova prospettiva inaugurata dal Concilio fa naufragare il concetto della verità nel peggior relativismo perché la verità non si può far dipendere da una ricerca comune con tutti e di tutti, come se essa dovesse per l’appunto risultare esclusivamente dalla prassi o dalla storia, alla maniera di un Blondel o del tedesco Wilhelm Dilthey, filosofo che, anch’egli a cavallo tra Otto e Novecento, teorizzò come categoria esistenziale fondamentale la vita nel senso di “esperienza vissuta” (Erlebnis). Il risultato di un’impostazione del genere non può che essere un’universale Babele. E lo vediamo ben oggi! Bisogna ripeterlo: quale verità filosofica ed etica, da utilizzare per l’ortoprassi, potrà uscire da una ricerca in comune i cui protagonisti professano concezioni del vero e del giusto non solo diverse tra loro ma persino radicalmente opposte ed inconciliabili?
La contraddizione è clamorosa e insuperabile. Il concetto del vero propugnato da GS 30 appare sinnlos, privo di senso. Diventa allora contraddittorio anche l’inciso “nella fedeltà alla coscienza”. Infatti, se la coscienza è sempre quella del capoverso precedente, fondata sull’insegnamento di S. Paolo, non è possibile farne il garante di una ricerca della verità come quella subito dopo professata nel testo.
L’alterazione dell’autentico concetto della verità influisce dunque negativamente sul concetto della vera etica cristiana e della salvezza. Anche la salvezza deve esser concepita come una realtà di comunione, per così dire, uno status collettivo, dell’intero genere umano. Ma in questo caso, la ricerca di quella specifica verità che è la salvezza è solo una finzione. Infatti, la salvezza è una sola, non può essere piena o meno piena, costituire l’oggetto sempre in fieri e quindi indeterminato della ricerca comunitaria del vero. E la salvezza è già stata apportata dall’Incarnazione di Cristo Nostro Signore, per tutti, che sono quindi già salvati, anche senza saperlo (errore della Allerlösung o salvezza già precostituita per tutti). Che ci sia l’impronta anche di questo errore, nei testi del Concilio, si vede già dalla visione millenarista, alla De Lubac, della “terra nuova e cieli nuovi”, dianzi richiamata. Nello stadio del perfezionamento ultimo (escatologico) delle realtà terrene, entrerà tutta l’umanità, dal momento che non si parla di Giudizio universale e quindi nemmeno di uno stadio ultimo di perfezione, riservato solamente ai buoni, dopo il Giudizio finale. E se vi entrerà tutta l’umanità, della quale nello stesso tempo non si postula l’indispensabile conversione a Cristo, ciò significa che l’umanità la si ritiene già salvata in blocco dall’Incarnazione, dal c.d. “Cristo cosmico”, il falso Cristo teilhardiano penetrato nei testi del Concilio, come risulta dal famigerato passo di GS 22 : “Infatti con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Scopo dell’odierno “dialogo” interconfessionale, interreligioso e con tutti, è appunto quello di far comprendere questa nuova verità: che tutti sono stati già salvati, devono solo prenderne atto e unirsi alla Chiesa in una comunione, in una prassi ecumenica che prefiguri qui in terra la Gerusalemme celeste[44].
La vera e propria inversione della Missione della Chiesa che qui appare, in odio alla giustizia del Cristo Giudice e al dogma dell’esistenza dell’eterna dannazione nell’Inferno per i peccatori impenitenti, non si è mai verificata sino ad ora, nella storia della Chiesa. Nella storia delle eresie, questa è forse la peggiore di tutte. A noi, rimasti per Grazia di Dio fedeli alle verità di fede, la Provvidenza ha dato il compito di battersi senza timore sino all’ultimo per l’onore e la gloria del vero Dio, Uno e Trino, e per il ristabilimento della vera dottrina e pastorale della Chiesa; senza preoccuparsi della povertà delle nostre risorse, della limitatezza delle nostre forze, dell’isolamento nel quale ci troviamo, dell’avversione del mondo, dell’apparente inanità dei nostri tentativi.
“Non sapete quello che dice la Scrittura dove parla di Elia, come egli cioè rivolga a Dio questo lamento, contro Israele: ‘Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno abbattuto i tuoi altari, son rimasto io solo e cercano di togliermi la vita’. Ma cosa gli risponde Iddio: ‘Mi son lasciato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio di fronte a Baal’. Così, anche al presente, vi è un residuo scelto per grazia…” (Lettera ai Romani, 11, 2-5).
Paolo Pasqualucci – 22 marzo 2016
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1. San Francesco di Sales, La Filotea ossia introduzione alla vita devota (1609), nuova tr. ital. del sacerdote Eugenio Ceria, 6a ediz. rived., Torino, SEI, 1945, pp. 5-7. Corsivi miei. L’anima devota è detta, con vocabolo greco, filotea, ossia anima “amante o innamorata di Dio” (ivi, Prefazione, p. XVIII).
2. Ivi, p. 11.
3. Sulla natura chiaramente diabolica del cosiddetto “battesimo dello spirito” praticato come vera e propria cerimonia di iniziazione a chi entra in questi “movimenti”, cfr. Sì sì no no (XXVII) 2, 31.1.2001.
4. Si rammenti il celebre e famigerato art. 7 della Institutio Novi Missalis Romani, 1969, che recitava : “La Cena del Signore o Messa è la santa assemblea o riunione del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore” (corsivo mio); definizione che suscitò al tempo la ferma presa di posizione dei cardinali Bacci e Ottaviani [qui], a causa del suo evidente carattere protestante ossia eretico. La successiva frettolosa modifica dell’articolo, con inserimenti ed aggiunte, non ha cambiato di molto le cose né è servita a modificare in alcun modo il rito del Novus Ordo, elaborato sulla base della definizione originaria. (Sul punto : Sì sì no no (XXX) 2, 31 gennaio 2004).
5. Per la traduzione italiana dei testi del Concilio ho utilizzato il testo pubblicato dalle Edizioni Paoline nel 1980 : I Documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni-Decreti-Dichiarazioni. I riferimenti ai testi sacri e al Messale Romano nel corpo dell’art. 12 della SC si trovano già nell’originale. Quest’articolo è uno di quelli nei quali si parla del “sacrificio della messa”, senza tuttavia mai specificarne il significato propiziatorio, grazie al quale otteniamo misericordia per i nostri peccati, potendo così confessarci e ricevere la S. Comunione. Il Concilio tace anche, come è noto, sul dogma della transustanziazione. Per un’analisi critica della Sacrosanctum Concilium, vedi Marcus, La “Mediator Dei” condanna anticipata della “riforma liturgica” di Paolo VI, in Sì sì no no (XXVI) n. 2, 31 gennaio 2000, e soprattutto Canonicus, Concilio o conciliabolo? Il prologo della rivoluzione : A. La costituzione sulla liturgia, in Sì sì no no (XXVI) 5-20, dell’anno 2000.
6. Pio XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia, ediz. bilingue a cura di “Vita e Pensiero”, Milano-Roma, 1956, Parte prima, II – La liturgia culto esterno ed interno, pp. 26-28.
7. Mediator Dei, cit., p. 28.
8. Allocuzione ai sacerdoti e predicatori della Quaresima, tenuta il 17.2.1945 a Roma, in La Liturgie, Les Enseignements Pontificaux, Desclée, 1961, pp. 304-306. L’abnorme importanza conferita dai panliturgisti alla “pietà oggettiva”, già mostrava la penetrazione di una concezione protestante della Messa, poiché nel suo centro veniva posta la “parola di Dio”, presente nel “popolo di Dio” riunito “in assemblea” per esaltarsi in essa. “La parola di Dio, intesa come rivelazione immediata di Dio nel mezzo dell’assemblea, finisce con lo stravolgere completamente il significato della Messa. La Messa dei fedeli lascia il passo a quella dei catecumeni. Dio vi sarà presente molto più con la sua parola che con la sua Eucaristia. I fedeli “che assistono alla Messa” finiscono con il diventare una Assemblea del “Popolo di Dio”, riunione di credenti in mezzo alla quale soffia lo Spirito...Non siamo affatto lontani dal pentecostalismo contemporaneo. Questa è la nuova concezione della liturgia, la nuova concezione della Chiesa che il ‘Movimento biblico-liturgico’ di Dom Parsch insinua negli spiriti [in Germania]. E siamo negli anni 1925-1930!” (P. Didier Bonneterre, Le mouvement liturgique, Prefazione di S. Exc. Mgr. Marcel Lefebvre, Ed. Fideliter, Escurolles, 1980, p. 49). Il “pentecostalismo contemporaneo”, grazie alle inopportune ed imprudenti riforme liturgiche impostate dal Vaticano II e alla negligenza ed acquiescenza dei Pastori, non è riuscito alla fine in qualche modo a travasarsi, con i movimenti carismatici, nel cuore stesso della liturgia cattolica, nella S. Messa?
9. Mediator Dei, cit., pp. 30-32. L’indicazione del passo della Summa si trova nel testo dell’Enciclica. Corsivi miei.
10. Nella Storia politicamente corretta del Vaticano II, quella curata da Alberigo, il saggio dedicato al “dibattito sulla liturgia” nel Concilio, non si distingue per acume critico. L’autore sembra voler attenuare la portata rivoluzionaria della SC mentre i motivi profondi dell’opposizione conservatrice al documento (la difesa della Tradizione e del dogma della fede, messi in pericolo) sembrano sfuggirgli del tutto. Tale opposizione sembra essere per lui nient’altro che una manifestazione del potere della Curia, che voleva sabotare il cosiddetto progresso! Pertanto egli non coglie l’incisività e la giustezza delle critiche apportate al testo da esperti come Mons. E. Dante o dai cardinali Ruffini e Ottaviani, critiche che egli pur ricorda. Sul punto che qui ci interessa, l’autore si limita a menzionare il citato art. 12 della SC, il quale, scrive, con una opportuna aggiunta nella parte iniziale, “attribuì maggior peso al significato della pietà personale del fedele” (Mathijs Lamberigts, Il dibattito sulla liturgia, in Giovanni Alberigo (a cura di), Storia del Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna, 1996, vol. 2, pp. 129-192; p. 186). L’altro saggio dedicato allo stesso argomento nella medesima Storia, scritto da un ex-collaboratore di Mons. Bugnini, non è che un’esaltazione unilaterale, del tutto acritica, dei supposti meriti della riforma liturgica, che anzi, a suo dire, non sarebbe stata sufficientemente avanzata su alcuni punti, pur “aprendo molte porte”: Reiner Kaczynski, Verso la riforma liturgica, op. cit., vol. 3, pp. 209-276; spec. pp. 209-255. L’autore mette tuttavia (con compiacimento) in rilievo la rottura con la tradizione operata dalla riforma contenuta nella SC. La riforma ha introdotto una (nuova) concezione di santificazione dell’uomo, santificazione che si attua mediante la liturgia (del culto pubblico), la quale diventa ora salvifica, venendo ad includere anche i Sacramenti mentre il soggetto proprio dell’ “azione liturgica” è adesso “la comunità” (con nessun riconoscimento più dell’importanza fondamentale del culto interno); comunità che è la Chiesa, “terrestre e celeste”, è immagine di tutta la Chiesa, allorché si riunisce per la celebrazione liturgica. Il fatto che ora tutta la comunità sia concepita come “soggetto attivo della celebrazione liturgica” esprime “un sostanziale rifiuto della liturgia del clero come essa si era sviluppata dagli inizi del Medioevo” (op. cit., pp. 241-255; p. 251). Nientedimeno. Sostituita, questa liturgia – aggiungo - dal panliturgismo più smaccato, più volte condannato in passato dai Papi. È il panliturgismo che ha svuotato le chiese, introducendo l’arido formalismo di un culto inevitabilmente piatto e banale, che non lascia alcuno vero spazio al culto interno e pone al centro del rito “la comunità”, la quale finisce così con l’autocelebrarsi.
11. Mediator Dei, IV – Direttive pastorali – I – Si raccomandano vivamente le altre forme di pietà non strettamente liturgiche, p. 142. I principali tra questi esercizi di pietà sono elencati dal Papa : “ la meditazione di argomenti spirituali, l’esame di coscienza, i ritiri spirituali, istituiti per riflettere più intensamente sulle verità eterne, la visita al Santissimo Sacramento, le preghiere particolari in onore della Beata Vergine Maria, tra le quali eccelle, come tutti sanno, il Rosario” (op. cit., p. 136).
12. Ivi.
13. Per un’analisi più dettagliata dell’argomento in questione, vedi : Sì sì no no (XXVI), Agosto 2000, n. 14.
14. Maurice Blondel, L’Action (1893), PUF, rist. 1993, p. 403. Secondo l’eterodosso Blondel, “la pratique précède et prépare la croyance”(ivi, p. 408). Sull’influenza perniciosa di Blondel, vedi infra.
15. Giov. XXIII, enc. Sacerdotii Nostri Primordia, AAS, 51, 1959, p. 560.
16. Ivi.
17. Ivi, pp. 560-561.
18. S. Francesco di Sales, op. cit., pp. 137-138. Sottolineature nel testo al pari dell’indicazione delle fonti.
19. Op. cit., pp. 139-140.
20. Ivi, p. 140.
21. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 19862, § 277: Latinità e popolarità della liturgia, pp. 515-516. La commedia satirica Candelaio fu terminata da Giordano Bruno nel 1582.
22. Cfr. l’Istruzione Saepenumero della Sacra Congregazione del Concilio, del 14 luglio 1941, in La Liturgie, cit., pp. 292-295.
23. Nella Lettera apostolica Tra le sollecitudini, del 22 novembre 1903 (cfr. La Liturgie, cit., pp. 173-185).
24. Istruzione Saepenumero, cit., in La liturgie, cit., p. 293.
25. Mediator Dei, cit., p. 68.
26. L’immagine del celebrante quale “presidente dell’assemblea” o della “celebrazione” si è ormai affermata e la ritroviamo più volte nella pastorale dei Papi postconciliari. Nel 2006, in un discorso tenuto ai parroci, che si ritrovavano sul tema: “La parrocchia rinnovata. Percorsi di rinnovamento”, Benedetto XVI diceva: “La parrocchia può rivivere questa esperienza [quella della prima comunità cristiana a Gerusalemme] e crescere nell’intesa e nella fraterna coesione se prega incessantemente e resta in ascolto della Parola di Dio, soprattutto se partecipa con fede alla celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal sacerdote” ( AAS, XCVIII, 6 ottobre 2006, n. 10, p. 700). Il concetto compare nel Vaticano II: “L’assemblea eucaristica è dunque il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero” (Decreto Presbyterorum Ordinis, art. 5, sul ministero e la vita sacerdotale).
27. Si legga quanto scrivono storici autorevoli sull’origine spontanea, nella devozione popolare, del pellegrinaggio di perdono e remissione delle colpe, che il Papa avrebbe poi inquadrato nel primo Giubileo, quello dell’anno 1300 : Raffaello Morghen, Il Giubileo del 1300, in ID., Medioevo cristiano, 1951, rist. Laterza, Bari, 1968, pp. 265-282. S. Caterina di Siena, al pari di altre Sante, non ha mai appreso il latino. Dobbiamo ritenere, allora, che questa ignoranza impedisse a lei e alle altre di partecipare in modo spiritualmente attivo e consapevole alla Santa Messa?
28. Mediator Dei, cit., pp. 86-88.
29. Giovanni Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società italiana. Secoli XI-XIV, 1922, rist. Sansoni, Firenze, 1971, p. 247.
30. Costituzione Sacrosanctum Concilium, artt. 21, 34, 50, 59, 90; 37, 38, 39, 40, 54, 63, 119, 128. Sul punto, vedi, in modo più approfondito : Sì sì no no (XXVI) 17, del 15 ottobre 2000. Per la corretta nozione di “actuosa participatio” vedi anche: Maria Guarini, La questione liturgica. Il rito Romano usus Antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II, Solfanelli, Chieti, 2015, pp. 123-129.
31. Mons. Klaus Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici. Problematica, supplemento al n. 53-54, giugno-dicembre 1980 del notiziario Una Voce, p. 20.
32. S. Francesco di Sales, op. cit., pp. XV-XVI.
33. Op. cit., p. 67. Si tratta del cap. XVIII, che contiene la meditazione dedicata alla Elezione della vita divota, op. cit., pp. 64-68. Tutta la meditazione ricorda quella su I due stendardi (di Cristo contrapposto a quello di Satana) negli Esercizi Spirituali di S. Ignazio di Loyola (vedi: Preghiere, Canti, Esercizi Spirituali di S. Ignazio di Loyola, ad uso interno della Fraternità sacerdotale S. Pio X, Edizioni ‘Regnum Crucis’, 1981, pp. 187-189). S. Francesco di Sales aveva praticato questi esercizi (cfr. A. Ravier, Introduction à la Vie Dévote, in St. François de Sales, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1969, pp. 3-15; p. 7).
34. Vedi: Henri De Lubac S. J., Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, tr. it. sulla quarta edizione di Umberto Massi, Editrice Studium, Roma, 1948, pp. 45-55; p. 99 ss.
35. “Gesù Cristo fu il primo che distintamente additò agli uomini quel lodatore e precettore di tutte le virtù finte, detrattore e persecutore di tutte le vere; quell’avversario d’ogni grandezza intrinseca e veramente propria dell’uomo; derisore d’ogni sentimento alto, se non lo crede falso, d’ogni affetto dolce, se lo crede intimo; quello schiavo dei forti, tiranno dei deboli, odiatore degl’infelici; il quale esso Gesù Cristo dinotò col nome di m o n d o , che gli dura in tutte le lingue colte insino al presente…”(Giacomo Leopardi, Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di Francesco Flora, Mondadori, Milano, 19493, II, p. 51. È il n. LXXXIV dei Pensieri, spaziatura mia).
36. I credenti in Cristo sono “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo d’acquisto […] Quello che un tempo non era [mio] popolo, ora invece [è] popolo di Dio; voi che [prima] non foste partecipi della misericordia, ora invece partecipate della misericordia [divina]” (1 Pt 2, 9-10).
37. Confronta Lumen Gentium, articoli 10 e 62. Il passo di 1 Pt 2, 9-10 è parzialmente citato in LG, 9. Questo titolo di “popolo di Dio” dato da S. Pietro ai pagani convertitisi a Cristo, per analogia con il carattere di “popolo di Dio” posseduto un tempo da Israele, in quanto popolo inizialmente eletto, è stato sempre interpretato come titolo d’onore attribuito ai fedeli, allo stesso modo delle altre espressioni (“stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo d’acquisto [divino]”). Come ha dimostrato Spicq, esse sono tolte tutte dall’Antico Testamento. Provengono da Isaia, dal libro dell’Esodo, dai Salmi, da Osea e “permettono a S. Pietro di applicare ai credenti i titoli più alti della nobiltà d’Israele”. Essi erano infatti il nuovo Israele, il vero Israele dello Spirito, che si sostituiva a quello della carne, colpevole di aver rigettato il Messia (vedi: Ceslas Spicq, O.P., Les Épitres de Saint-Pierre, Gabalda, Paris, 1966, pp. 88-94, per tutti i riferimenti all’Antico Testamento).
38. Citato in A. Poverari, Vita di Pio IX, vol. III (1861-1878), Città del Vaticano, 1988, p. 35, che rinvia, per la fonte, a Civiltà Cattolica, V, II, pp. 98-101. Il concetto espresso da Pio IX significa che il Potere Temporale, per quanto “indispensabile”, corrisponde ad un’esigenza della costituzione ecclesiastica della Chiesa, non di quella divina.
39. Cfr. Henri De Lubac, op. cit., pp. 230-232, con l’oscura e delirante “visione” escatologica di p. 230 (“ L’universo intero assunto dall’uomo e solidale del suo destino – l’uomo nella prodigiosa complessità della sua storia, a sua volta assunto dalla Chiesa - l’universo spiritualizzato dall’uomo e l’uomo consacrato dalla Chiesa - la Chiesa, infine, universo spirituale e sacro, come una grande nave carica di tutti i frutti della terra, entreranno nell’Eternità”) le cui tracce si rinvengono nell’art. 39 della costituzione conciliare Gaudium et Spes, intitolato “Terra nuova e cielo nuovo”.
40 Per un approfondimento di questo punto, mi permetto rinviare al mio saggio: L’altération de l’idée du surnaturel dans les textes de Vatican II, in Actes du 4ème Congrès Théologique de Sì Sì No No, Rome, 3-5 août 2000, Ed. Courrier de Rome, 2002, pp. 205-248. Per la versione italiana: ID., L’alterazione dell’idea del sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Per una vera restaurazionje della Chiesa, Atti del IV Congresso teologico di “sì sì no no”, Roma 2000, Editrice Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236.
41. Come è noto, i teologi ortodossi, sotto il controllo della Curia, in tre anni di duro lavoro, sentiti tutti i vescovi, avevano preparato validissimi schemi di costituzioni dogmatiche, nei quali si condannavano gli errori del mondo e si ribadiva come di dovere la dottrina della Chiesa. Ma questi schemi furono gettati a mare nel convulso inizio del Concilio, che vide il prevalere della fazione modernista nella direzione dello stesso, grazie ad una serie di colpi di mano procedurali tollerati senza batter ciglio da Giovanni XXIII, che diede pertanto la netta impressione di pencolare dalla parte dei c.d. Novatores. Sulla questione delle gravi illegalità che macchiarono l’inizio del Vaticano II, della quale non si vuol mai parlare, mi sia concesso rinviare a: Paolo Pasqualucci, Il Concilio parallelo. L’inizio anomalo del Vaticano II, Fede & Cultura, Verona, 2014.
42. Indicazione delle fonti nel testo conciliare.
43. Il nesso profondo tra la blondeliana filosofia dell’azione e le istanze, inizialmente anonime, del risorgente modernismo all’inizio degli anni Trenta, fu rilevato con la consueta maestrìa dal grande teologo domenicano Réginald Garrigou-Lagrange, in un celebre articolo apparso su Angelicum, 23, 1946, pp. 136-154: La nouvelle théologie, oú va-t-elle? Elle revient au modernisme, pubblicato su questo blog sia in francese che in traduzione italiana, con Note di Commento di Paolo Pasqualucci. Nell’articolo si ricorda che nel 1924 il Sant’Uffizio condannò dodici proposizioni della filosofia dell’azione, condanna rimasta semisconosciuta, e tra di esse quella contenente il concetto del vero professato dal filosofo francese, come si ricava dai suoi scritti: “La verità non si trova in nessun atto particolare dell’intelletto, nel quale si avrebbe la conformità con l’oggetto, come dicono gli scolastici, ma la verità è sempre in divenire e consiste nella progressiva adeguazione dell’intelletto alla vita, ovvero in un certo moto perpetuo tramite il quale l’intelletto si sforza di spiegare ciò che l'esperienza partorisce o ciò che l’azione esige; in modo tale, però, che in tutto il progresso non ci sia nulla di definito o stabile”. Si vede immediatamente l’assonanza con la “verità come ricerca” propugnata dal Concilio.
44. Negli ultimi anni della sua vita, il discusso e funesto cardinale Carlo Maria Martini SI, menzionato dall’attuale Pontefice tra i suoi mentori, curò una rubrica di argomenti religiosi e morali sul Corriere della Sera. Il 27 maggio 2011, ad una lettrice che, dichiarandosi seguace di Teilhard de Chardin, affermava di credere “che tutti saranno salvati”, il porporato rispose: “Lei crede più di quanto crede! Nella precedente risposta intendevo proprio che l’errore è aver smarrito la fede nella salvezza universale. Che per la salvezza abbiamo bisogno gli uni degli altri. Che l’umanità è una lunga, immensa, cordata che sale verso la vetta e che ogni scalatore tira e insieme è tirato dall’altro”. In un volumetto intitolato Il vescovo, Rosenberg & Sellier, Torino, 2012, il cardinale, dopo aver inveito contro la Chiesa perché nei secoli non era stata (a suo dire) abbastanza povera, affermava testualmente: “il problema” di mentalità “rimane ed è molto grande. Forse sarà necessario attendere una invasione di persone venute da altre civiltà, che distruggano e in qualche modo facciano “tabula rasa” di tutto il nostro modo di vita” (op. cit., p. 56). L’invasione è arrivata, Papa Bergoglio SI e il suo clero se ne proclamano ogni giorno di più i profeti, invocando senza posa un’ingiustificata ed irresponsabile accoglienza indiscriminata degli invasori, quasi tutti mussulmani.
Rimetto qui il video di Mons. Fellay, vi parla anche del CVII, ma non solo.
RispondiEliminahttp://www.dici.org/actualites/video-entretien-avec-mgr-bernard-fellay-4-mars-2016-menzingen-suisse/
Qui la trascrizione in italiano dell`intervista al Superiore della FSSPX:
RispondiEliminahttp://www.sanpiox.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=1769:intervista-a-mons-bernard-fellay&catid=58&Itemid=64
E' strano che questo libro, Filotea, bellissimo sia così poco conosciuto, amorevolmente studiato e proposto come Testo da non perdere.
RispondiEliminaGrazie.
I nuovi gesuiti.
RispondiEliminaNella maratona della "Laudato si'" i gesuiti sono al comando (Magister)
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L'impatto della "Laudato si'" sulla cosiddetta "pastorale" della Chiesa sarebbe tutto da studiare. Vi traspare spesso un ossequio acritico alla cultura dominante, indipendentemente dalla fondatezza scientifica delle teorie ecologiste alla moda e con quasi più niente di esplicitamente cristiano.
Un curioso riscontro di questa modernizzazione della pastorale si ha a Trieste, ad opera di un centro culturale della Compagnia di Gesù, di nome "Veritas", attualmente diretto da padre Gaetano Piccolo, filosofo ed epistemologo, vicedirettore della rivista "Rassegna di Teologia", responsabile dell’apostolato culturale dei gesuiti della provincia d’Italia.
Il centro "Veritas" si definisce "laboratorio di ricerca culturale, aperto all’incontro e al dialogo interreligioso ed ecumenico". E ha trasformato quella che era la sua cappella in una "sala di accoglienza e di esposizione", per una "preghiera laica e religiosa, indipendente dall’appartenenza".
La sua giornata di sensibilizzazione ai contenuti dell'enciclica "Laudato si'", il centro "Veritas" l'ha programmata per il 7 maggio, vigilia a Trieste della maratona finale della settimana di gioco e sport denominata Bavisela Running Festival.
Il nome che i gesuiti triestini hanno dato alla giornata è MENS SANA, che è l'acronimo – spiegano – di "Maratona di Educazione, Natura, Sport, Spiritualità, Arte, Networks e Associazioni".
Il bando d'indizione spiega che la giornata "tradurrà in conversazioni, laboratori e giochi l’enciclica 'Laudato si’' di papa Francesco e i diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite".
In preparazione alla MENS SANA terrà una conferenza sul legame tra l'enciclica e l'agenda dell'ONU il gesuita Luciano Larivera, già firma di spicco del collegio degli scrittori de "La Civiltà Cattolica".
Dulcis in fundo: "La maratona si concluderà nella chiesa del Sacro Cuore, dove alle 19 sarà celebrata la messa prefestiva dell’Ascensione, grande mistero della fede cristiana e segno religioso di alleanza ecologica planetaria".
Con il che anche l'ascensione al cielo di Gesù è sistemata. Secondo i canoni del moderno ecologismo.
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/23/nella-maratona-della-laudato-si-i-gesuiti-sono-al-comando/
questo articolo è una pietra miliare in quanto evidenzia in modo magistrale il capovolgimento dei concetti di verità/morale/missione operato dai teologi neomodernisti grazie anche e soprattutto alla connivenza bonaria dei pastori
RispondiEliminaGrazie Prof. Pasqualucci. Magistrale, come sempre.
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RispondiEliminaRingrazio per i generosi e cortesi apprezzamenti.
Paolo Pasqualucci
https://mundabor.files.wordpress.com/2014/05/vatican_ii_watering_down_the_faith_since_1962_tshirt-rc1e22eef29c7452ea159c1a053f980de_804gs_512.jpg
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