Nota previa: Mi sono accorto solo il 9 marzo u.s. del cortese intervento critico del lettore Giorgio Giacometti, “postato” il 25 febbraio precedente. Ho tentato di rispondere sul mio blog ma la risposta la “macchina” non me l’ha passata, forse per mia imperizia. Rispondo pertanto in maniera più articolata, con la presente replica, pubblicata come articolo autonomo. Colgo l’occasione per ringraziare il generoso apprezzamento di Gederson Falcometa, sempre a proposito dello stesso articolo, sull’eresia luterana di Papa Francesco.
L’intervento critico di Giorgio Giacometti.“Apparentemente la Sua dimostrazione dell’eresia di Papa Francesco (che coinvolge anche la celebre Dichiarazione congiunta di cattolici e luterani) è ineccepibile. Tuttavia, se i Suoi argomenti fossero validi (Lei ragiona su basi decisamente “aristoteliche”, in termini per così dire, di “bianco e nero”), l’ecumenismo a cui siamo chiamati dai tempi del Concilio Vaticano II sarebbe vano. Non vi sarebbe alcuna possibilità di “rivedere” i dettami del Concilio di Trento o di reinterpretarli in modo tale da farli collimare, prima o poi, con la dottrina protestante, a sua volta reinterpretata e approfondita.È chiaro che, se “dialogo” deve essere (e se così non dovesse essere, lo stesso Concilio e i Papi che ne sono seguiti e hanno cercato di attuarlo dovrebbero essere giudicati eretici), bisogna supporre che almeno alcune difficoltà e incomprensioni siano “verbali”e non “sostanziali”. A leggere bene, in effetti, gli stessi articoli del Concilio di Trento, quando parlano delle opere, mettono in luce l’azione dello Spirito Santo (dunque una forma della grazia). E che significa che le opere “aumentano” la giustificazione? O si è giustificati oppure no! Forse significa che la rendono più “splendida”, ma allora non sono strettamente essenziali…Insomma, non voglio fare il teologo, ma credo che se non si lavora di fino sui singoli termini con apertura mentale, il dialogo diventa impossibile e l’ecumenismo è affossato a priori”.
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REPLICA di PAOLO PASQUALUCCI
Sommario : 1. L’ecumenismo dell’attuale “dialogo”è incompatibile con la logica. 2. La critica di Giacometti al Tridentino non coglie il senso autentico dei testi. 3. Il rilievo sull’azione dello Spirito Santo appare ininfluente per la tesi dell’Autore. 4. Uno pseudo-problema. 5. Nozione della giustificazione. 6. Cause delle giustificazione. 7. La giustizia di Dio si attua in noi mediante lo Spirito Santo ma con la nostra cooperazione. 8. L’aumento della Grazia, la giustificazione nell’accrescimento reciproco di fede e opere. 9. Le opere buone aumentano la “giustizia ricevuta”, ossia la giustificazione. 10. Sembra essersi smarrito il senso del dogma, della verità di fede che non si può cambiare, nel modo più assoluto.
[1. L’ecumenismo dell’attuale “dialogo” è incompatibile con la logica]
Dimostrare in modo “ineccepibile”, dal punto di vista della logica, che Papa Francesco ha fatto professione di eresia nel dichiarare (come “dottore privato”) che Lutero non si era sbagliato nella sua eretica dottrina della giustificazione, significa, dunque, mettersi in contraddizione con l’ecumenismo proposto dal Vaticano II ed anzi “renderlo vano”?
Non c’è dubbio che sia così, se è vero che l’ecumenismo proposto dal Concilio consente appunto ad esponenti della Gerarchia dichiarazioni come quelle di Papa Francesco, legittimanti l’eresia e quindi esse stesse eretiche. Nella logica è come nella morale: non si posson servire due padroni. Come non si possono servire nello stesso tempo Dio e Mammona, così non si può affermare che la stessa cosa sia e non sia nello stesso tempo. Vale a dire: che la dottrina luterana della giustificazione sia eretica per il dogmatico Concilio di Trento ed invece ortodossa per Papa Francesco (visto che “lui non si è sbagliato”). Se non si è sbagliato Lutero, allora si è sbagliato il Concilio di Trento nel condannarne le dottrine. Questa alternativa radicale appare troppo “in bianco e nero”, troppo “aristotelica” e quindi per ciò stesso da rifiutarsi? Non vedo perché. Non è colpa mai se le categorie fondamentali della logica delimitano la realtà “in bianco e nero”. Sono categorie che corrispondono al senso comune e alla recta ratio, dai quali vengono il principio di identità e di non contraddizione, di causalità e ragion sufficiente; principi che applichiamo continuamente nella vita di tutti i giorni, anche senza rendercene conto.
Il fatto è, per l’appunto, che l’ecumenismo attuale vuole, mediante il c.d dialogo, trovare una sintesi tra verità cattolica ed errore protestante, e non solo protestante. Ma questa sintesi, come appare p.e. dalla Dichiarazione congiunta, è impossibile, non regge. E che non si regga, lo vediamo in primo luogo già dal fatto che essa si dimostra inconciliabile con le categorie fondamentali della logica, come giustamente rileva Giacometti. Ripudiando le quali, l’ecumenismo, per intima sua necessità, porta a mettere in dubbio le verità di fede dogmaticamente definite – in queste caso, quelle del Tridentino sulla giustificazione.
Ciò risulta in modo chiarissimo dagli argomenti di Giacometti. Egli critica la dottrina del Tridentino, affermando preliminarmente che le differenze (dogmatiche) con i luterani sarebbero frutto soprattutto di “incomprensioni verbali” assai più che “sostanziali”. Secondo la sua interpretazione, il Tridentino si limiterebbe a dire che le opere “aumentano” la giustificazione. Se si limitano ad “aumentarla”, rendendola forse “più splendida”, allora ne consegue che esse non sono “strettamente essenziali”. Sarebbero comunque sempre un’azione dello Spirito Santo, “dunque una forma della grazia”. E se “forma della Grazia”, da intendere in sostanza allo stesso modo di Lutero?
Dal Concilio in poi numerosi teologi e saggisti ripetono senza posa esser stati i gravi, plurisecolari contrasti di fede con scismatici ed eretici, il frutto di semplici equivoci, malintesi, anche solo verbali! Un “dialogo” opportunamente calibrato e tutto andrà a posto, alla fine: scomparse le antiche diatribe ci ritroveremo tutti assieme appassionatamente, a costruire la pace nel mondo, dopo aver “reinterpretato” le nostre e le loro dottrine, realizzando di fatto una nuova religione, deistico-umanitaria, planetaria, cosmica!
Ma non è far torto alla cultura teologica, indubbiamente profonda e completa, all’intelligenza dei Padri di Trento e allo stesso Lutero, voler ridurre il contrasto gravissimo provocato dall’eresiarca a semplici “incomprensioni verbali”? Forse i Padri non avevano capito di cosa si stesse discutendo, quale fosse l’effettiva posta in gioco? Mi sembra che l’ecumenismo imposto dalla Gerarchia ai fedeli, non solo li costringa a rinunziare alle categorie della logica ma ne svilisca anche la capacità di comprendere il significato autentico delle verità di fede.
[2. La critica di Giacometti al Tridentino non coglie il senso autentico dei testi]
Ma vediamo nel merito la critica di Giacometti, che credo esprima un sentire abbastanza diffuso, tipico di tanti cattolici che in buona fede cercano di reinterpretare il dogma secondo le direttive dell’ecumenismo, da loro disciplinatamente (ma acriticamente) accettate.
La critica viene espressa nei seguenti passaggi: “[1] A leggere bene, in effetti, gli stessi articoli del Concilio di Trento, quando parlano delle opere, mettono in luce l’azione dello Spirito Santo (dunque una forma della grazia). [2] E che significa che le opere “aumentano”la giustificazione? O si è giustificati oppure no! Forse significano che la rendono più “splendida”, ma allora non sono strettamente essenziali…Insomma, non voglio fare il teologo etc.”.
Caro Giacometti, qui bisogna invece fare proprio i teologi, altrimenti come facciamo ad inerpicarci su queste erte balze? Farlo, si intende, nel modo che è consentito a noi fedeli, che non siamo teologi di professione: cominciando col ricostruire il testo esattamente, rendendogli quel che è suo.
Veniamo alla Replica, dal n. [1].[3. Il rilievo sull’azione dello Spirito Santo appare ininfluente per la tesi dell’Autore]
È ovvio che le nostre buone opere non possano aver luogo senza l’aiuto dello Spirito Santo, che ci sorregge anche nella nostra fede. Che fede ed opere buone non possano esser indipendenti dall’azione dello Spirito Santo, viene ribadito più volte dal Tridentino, in ultimo al canone n. 3, contro i semipelagiani (quel Concilio non condannava solo gli errori dei luterani).
“Se qualcuno afferma che l’uomo, senza previa ispirazione ed aiuto dello Spirito Santo, può credere, sperare ed amare o pentirsi come si conviene, perché gli venga conferita la grazia della giustificazione: sia anatema”
(G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 552. Si tratta del Decreto sulla giustificazione, sess. VI, 13.1.1547, pp. 536-557. Tutte le mie citazione di quel Concilio provengono da questa traduzione. I brani delle Scritture da me citati, provengono da La Sacra Bibbia, Ed. Paoline, 1963).
Affermare che, essendovi nelle opere anche l’imprescindibile azione dello Spirito Santo, la giustificazione sarebbe allora “una forma della grazia”, non dimostra nulla. Non dimostra, cioè, che la giustificazione avvenga per sola grazia, ma unicamente che la Grazia si manifesta ineffabilmente per noi e in noi grazie ad un’azione dello Spirito Santo che influisce in modo decisivo anche sulle nostre opere, senza per ciò stesso far venir meno la nostra libera volontà che le esegue.
Quest’aspetto si chiarirà nella confutazione della critica n. [2][4. Uno pseudo-problema]
Qui abbiamo l’apparente problema rappresentato dalle opere che, secondo Giacometti, si limiterebbero ad “aumentare” la giustificazione, venendo così a svolgere un ruolo del tutto secondario. L’aumento del quale parla il Tridentino (nel cap. IX del Decreto citato) si riferisce innanzitutto alla grazia, con l’aiuto essenziale della quale otteniamo la giustificazione, e non alle opere, come se esse contribuissero solo all’aumento di una giustificazione già ottenuta sola Gratia. Successivamente, nel canone 24 del Decreto, si afferma che le opere sono “anche causa dell’aumento [ipsius augendae causam] della giustizia ricevuta” da Dio, ossia della giustificazione. Ma concorrono a questo “aumento” non perché siano il mero effetto di una giustificazione già concessa per sola fede e sola grazia bensì perché operano attivamente al venire in essere stesso della giustificazione, facendola crescere su se stessa.
[5. Nozione della giustificazione]
Per comprender questo concetto nel migliore dei modi, inquadriamolo nel suo vero contesto. Cos’è la giustificazione dell’empio?
“è il passaggio dallo stato, in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo [stato influenzato dal peccato originale], allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio [Rm 8, 23], per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo, nostro Salvatore.” (cap. IV, Decreto – nel testo originale le indicazioni dei passi scritturali sono in nota)
Ora, tale “passaggio” non può avvenire se non rinascendo in Cristo [Gv 3, 5] (ivi). La giustificazione ha origine dalla grazia preveniente di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè dalla chiamata, che gli uomini ricevono senza alcun merito, come avvenne emblematicamente agli Apostoli, uomini semplici, ignoranti e di bassa condizione. Tale gratuita “chiamata” si rivolge a tutti, in modo che tutti coloro che si erano allontanati da Dio
“siano disposti dalla sua grazia, che sollecita ed aiuta, ad orientarsi verso la loro giustificazione, accettando e cooperando liberamente alla stessa grazia, così che, toccando Dio il cuore dell’uomo con l’illuminazione dello Spirito Santo, l’uomo non resti assolutamente inerte subendo quella ispirazione, che egli può anche respingere, né senza la grazia divina possa, con la sua libera volontà, rivolgersi alla giustizia dinanzi a Dio”(cap V, Decreto).
È qui indicata esattamente la sinergia che si viene a creare tra la nostra natura decaduta ma non integralmente corrotta (come riteneva erroneamente Lutero) perché ancora capace di intelletto, volontà, coscienza morale e l’azione dello Spirito Santo in noi; azione di fronte alla quale non restiamo affatto passivi, mantenendo la capacità sia di corrispondere che di non corrispondere.
Dopo aver spiegato la necessità di prepararsi alla giustificazione, cosa che esige il contributo del nostro libero arbitrio, e l’origine di essa, il Tridentino illustra “che cos’è la giustificazione e quali siano le sue cause”, nel cap. VII. Qui appare un’ulteriore nettissima distinzione rispetto ai luterani, ossia la riaffermazione del fatto che la giustificazione non è solo “remissione dei peccati” (perché la divina misericordia emanante dalla Croce si limiterebbe a ricoprirli – dice l’eresiarca – come un mantello, senza voler incidere sulla nostra intima natura peccatrice, lasciandoci così come siamo) ma è anche
“santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, attraverso l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da ingiusto diviene giusto, e da nemico [di Dio] amico, così da essere ‘erede secondo la speranza della vita eterna’[Tt 3, 7]” [cap. VII, Decreto]
[6. Cause della giustificazione]
La giustificazione così intesa, è perfettamente coerente alla Sacra Scrittura e alla Tradizione della Chiesa, poiché si vede da tutto l’insegnamento di Nostro Signore e degli Apostoli, come essi mirino sempre a promuovere la nostra santificazione e il nostro rinnovamento interiore, senza i quali non diventiamo quell’uomo nuovo capace delle buone opere gradite a Dio, esso stesso gradito a Dio e da Lui giustificato ossia trovato giusto.
Le c a u s e della giustificazione sono le seguenti: finale, nella Gloria di Dio, di Cristo e nella vita eterna; efficiente, nella misericordia di Dio, che gratuitamente lava e santifica mediante lo Spirito Santo “pegno della nostra eredità”[Ef 1, 13-14]; meritoria, Cristo stesso, che ci ha meritato la giustificazione con la sua Passione, soddisfacendo Dio Padre; strumentale, “il sacramento del battesimo, che è il sacramento della fede, senza la quale a nessuno, mai, viene concessa la giustificazione”. Infine, la causa più importante, quella formale, “è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli è giusto, ma quella per cui ci rende giusti” (cap. VII, cit.).
Abituati ad una concezione della realtà che vuol far dipendere sia la natura che la società dal caso e dalla volontà di potenza esercitantisi erraticamente sotto la spinta degli istinti, ci fa sicuramente difficoltà trovarci di fronte a quest’esempio di causalità aristotelo-tomistica applicata alla spiegazione del dogma della fede. In particolare, credo, per ciò che riguarda la causa formale. La forma, per la nostra mentalità, riguarda soprattutto ciò che è formale nel senso di meramente esteriore o nel senso di modo di essere di qualcosa, in sè non limitato all’esteriorità ma comunque non coincidente con l’essere stesso, con la sostanza o essenza della cosa. Nel senso aristotelico classico, invece, la forma è proprio ciò che concerne l’essenza stessa della cosa, la sua natura intrinseca o sostanza, che la fa essere quello che è e giammai altro. Così, nel celebre esempio, riportato nella Fisica e nella Metafisica, l’idea della coppa è la forma (la “forma” e il “modello”, eidos e parádeigma, l’idea e il paradigma) che l’argento, plasmato dall’artefice, verrà ad assumere. Ora, quest’idea possiamo considerarla causa della forma che la materia viene concretamente ad assumere. La materia, inoltre, si rivela a sua volta causa materiale. Infatti, anche della materia si può dire che sia causa dell’oggetto perché senza di essa l’idea resterebbe in potenza: non potrebbe tradursi mai in atto e nulla vi sarebbe nella realtà sensibile. La forma della coppa, causa del venire in essere della coppa grazie all’attività dell’artefice (causa efficiente) e sempre per un determinato fine, p.e. puramente estetico o conviviale o di culto (causa finale), costituisce dunque la natura specifica della coppa, la sua stessa essenza, quella forma che dà alla cosa il suo stesso essere di realtà individuale particolare, completamente separato e diverso da tutto il rimanente molteplice degli enti (forma dat esse rei).
La causa formale, per tradursi nella praxis, ha bisogno dell’intervento di altre cause, dato che essa è l’idea o il modello dell’ente che deve venire in essere. Esattissimo quindi dire che la causa formale della giustificazione, cioè la forma ad substantiam, poiché ne costituisce l’essenza stessa facendola essere ciò che è già nella mente dell’Artefice sommo, è la giustizia ed anzi “è la giustizia di Dio”. Ma non la giustizia di Dio in sé bensì quella che ci giustifica, che si applica a noi rendendoci effettivamente giusti. Come dice per l’appunto S. Agostino, ripreso dal Tridentino: “iustitia Dei, non qua ipse iustus est, sed qua nos iustos facit” (DS 799/1529).
[7. La giustizia di Dio si attua in noi mediante lo Spirito Santo ma con la nostra cooperazione]Ora, la giustizia divina che ci rende giusti, come si attua? Prosegue il testo:
“con essa, cioè per suo dono, veniamo rinnovati interiormente nello spirito [Ef 4,23], e non solo veniamo considerati giusti, ma siamo chiamati tali e lo siamo di fatto [1 Gv 3, 1], ricevendo in noi ciascuno la propria giustizia, nella misura in cui lo Spirito Santo la distribuisce ai singoli come vuole [1 Cr 12, 11] e secondo la disposizione e la cooperazione propria di ciascuno” (cap. VII, Decreto).
Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno di noi la sua propria “giustizia”, che è un libero dono di Dio, dal momento che Dio non può considerarsi obbligato a darcela. Ed essa è pertanto parimenti un dono dello Spirito Santo, che ugualmente non ha obblighi nei nostri confronti. Lo Spirito Santo viene dal Padre e dal Figlio (Filioque). Egli distribuisce la giustizia di Dio nel modo che vuole, ma questo perché “a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura voluta dal beneplacito di Cristo”(Ef 4, 7). La distribuisce, quindi, secondo la disposizione e la cooperazione propria di ciascuno e quindi non in modo uguale per tutti e comunque sempre in relazione alla libertà di ognuno, libero di disporsi o non disporsi alla grazia e di collaborare o meno con essa. L’ uomo non può considerarsi passivo, in quest’operare dello Spirito nei suoi confronti, se si vogliono mantenere all’essere umano le caratteristiche sue proprie, che non sono animali ma spirituali: intelletto, coscienza morale, volontà, carattere.
La cooperazione del singolo credente all’azione della grazia in noi (mediante lo Spirito Santo) fa crescere la nostra santificazione quotidiana. In questa crescita abbiamo l’aumento della grazia ricevuta, spiegato nel cap. X del Decreto tridentino (“…ma professando la verità, noi cresceremo per mezzo della carità sotto ogni aspetto in colui che è il capo, Cristo” – Ef 4, 15). A questo aumento concorrono ovviamente le opere, rendendoci sempre più giusti agli occhi di Dio ovvero perfezionando la nostra giustificazione, che si costruisce giorno per giorno, nonostante le nostre cadute nel peccato, dalle quali possiamo risollevarci mediante “il sacramento della penitenza, per merito di Cristo”, recuperando così la grazia della giustificazione (cap. XIV).
(Sull’aumento della grazia della giustificazione mediante le buone opere, prodotto ex opere operantis, e quindi non uguale per tutti ma dipendente dal grado nostro di cooperazione all’azione della Grazia, vedi: Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. M. Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, vol. II, § 132, L’inégalité de la mesure de la Grâce).
Ma vediamo il testo del cap. X.
“Gli uomini così giustificati e divenuti amici e familiari di Dio [Ef 2, 19], progredendo di virtù in virtù [Sal 83, 8], si rinnovano (come dice l’apostolo [2 Cr 4, 16]) di giorno in giorno, mortificando, cioè, le membra del proprio corpo [Col 3, 5] e mostrandole come armi di giustizia per la santificazione [Rm 6, 13 e 19], attraverso l’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa: nella stessa giustizia ricevuta per la grazia di Cristo, con la cooperazione della fede alle buone opere, essi crescono e vengono resi sempre più giusti, come è scritto: Chi è giusto, continui a compiere atti di giustizia [Ap 22, 11], ed ancora: Non aspettare sino alla morte a giustificarti [Ecli (Sir) 18, 23], e di nuovo: Voi dunque vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede soltanto [Gc 2, 24]. Questo aumento della giustizia chiede la santa Chiesa quando prega: Dacci, o Signore, un aumento di fede, di speranza e di carità [Nella preghiera della XIII domenica tra l’anno]”
[8. L’aumento della Grazia, la giustificazione nell’accrescimento reciproco di fede e opere]
Cosa risulta da questo capitolo? Che la nostra giustificazione dura per tutta la durata della nostra giornata terrena. Non è qualcosa di statico e identico per tutti, perché predato, riconosciuto a priori in cambio di un nostro semplice atto di fede nella Grazia che ce la concederebbe a prescindere dalle opere e quindi dall’opera stessa della nostra quotidiana santificazione interiore, come vorrebbero gli eretici. È un processo che si concluderà solo il giorno della nostra morte. E fino al giudizio della nostra anima da parte del Cristo Giudice non avremo mai la certezza di esser giustificati, anche se la pratica delle tre virtù teologali e delle relative virtù, attuata con la dovuta perseveranza, ci manterrà la fiducia in Dio evitandoci di cadere nella disperazione esistenziale (cap. IX, XII, XIII). Proprio la pretesa, piena di superbia, di avere la certezza assoluta della giustificazione qui e ora, in questo mondo, è stato l’errore che ha condotto lo sventurato Lutero fuori strada.
Bisogna quindi tenere a mente che la giustificazione si attua mediante un rinnovamento costante del nostro vecchio uomo, il figlio d’Adamo peccatore, gradualmente sostituito dall’uomo nuovo, rigenerato in Cristo. Essa deve crescere su se stessa, e per tal motivo il cap. X ricorda che la santa Chiesa chiede continuamente per noi tutti “un aumento della giustizia” che ci giustifica (vedi supra), quando invoca l’aiuto di Dio perché ci sia dato un aumento costante di “fede, speranza e carità”, sino alla perseveranza finale, indispensabile per la salvezza (cap. XIII). E nella carità sono per l’appunto ricomprese le opere che ci meritano la salvezza (Mt 25, 31 ss.).
Il fondamento scritturale primo della giustificazione si trova, se non erro, nel discorso di Gesù al fariseo Nicodemo, quando gli spiegò che, per entrare nel Regno dei Cieli, bisogna nascere di nuovo, diventare un uomo nuovo in Dio tramite l’insegnamento di Cristo: proprio quello che l’eretico Lutero nega, dichiarandolo impossibile. “In verità, in verità ti dico: chi non rinascerà per acqua e Spirito [Santo] non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è generato dalla carne è carne; e quel che nasce dallo Spirito, è spirito” (Gv 3, 5-6).
La vita del cristiano è dunque posta dal Signore sotto l’insegna della rinascita e del rinnovamento interiore: noi dobbiamo rinascere per opera dello Spirito Santo, mediante il quale opera la Grazia che ci permette di osservare i Comandamenti e tutti gli insegnamenti di Cristo ossia della Chiesa. Solo se ci rinnoviamo nel senso auspicato da Cristo possiamo esser giustificati di fronte a Dio. L’idea della giustificazione, correttamente intesa come attuantesi in un continuo processo di rinnovamento e santificazione, esclude evidentemente che noi si possa continuare a fare le “opere della carne” come se volessimo continuare ad esser “generati nella carne”; gravata com’è, la carne, dalle conseguenze del peccato originale. Solo la “mortificazione” delle “membra del nostro corpo” fa sì, ribadisce il cap. X, che tali membra diventino “armi di giustizia per la santificazione”. Si tratta di un noto concetto della Lettera ai Romani, particolarmente attuale oggi: “Non abbandonate le vostre membra al peccato, sì che non diventino strumento d’ingiustizia; ma offrite tutti voi stessi a Dio, come viventi, da morti che eravate [nei confronti di Dio, per via dei vostri peccati], e fate servire a Dio le vostre membra, come strumenti di giustizia. Il peccato allora non eserciterà più il suo dominio su di voi…” (Rm 6, 13-14)
Mettere sotto controllo le nostre passioni, evitando che il nostro corpo sia ancora strumento del peccato, non appartiene forse alle opere buone che dobbiamo compiere nei confronti del prossimo e di noi stessi? Chi è giusto, conferma l’Apocalisse, deve continuare a compiere “atti di giustizia” ovvero le buone opere, le uniche gradite a Dio.
“L’ingiusto continui pure a commettere l’ingiustizia, l’immondo seguiti pure ad essere immondo; ma il giusto continui a compiere nuovi atti di giustizia e il santo a santificarsi ancora. Sì, io vengo presto, portando con me la mia ricompensa [merces mea], per darla a ciascuno secondo le sue opere [reddere unicuique secundum opera sua]. Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine”(Ap 22, 11-13).
Qui si vede a chiare lettere che la “ricompensa”, rigorosamente individuale come il giudizio finale di ciascuno, è il corrispettivo per le nostre opere, grazie alle quali sarà dimostrata la nostra fede o la sua mancanza.
E in questo continuo compiere “atti di giustizia”, attraverso una dura battaglia quotidiana contro noi stessi e il mondo, si ha il continuo rinnovarsi in Cristo del nostro uomo interiore, più volte testimoniato da S. Paolo: “Per questo non ci perdiamo d’animo, e sebbene il nostro uomo esteriore deperisca, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno”(2 Cr, 4, 16). Si rinnova nella fede e nelle opere, in stretta simbiosi tra di loro. E si rinnova per l’appunto nell’accrescersi reciproco delle tre virtù teologali, come ci spiega lo stesso S. Paolo, nella Lettera ai Romani:
“Essendo dunque giustificati per la fede, noi abbiamo pace con Dio per mezzo di nostro Signor Gesù Cristo, mediante il quale, per la fede abbiamo ottenuto l’accesso a questa grazia in cui siamo e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio [cioè della vita eterna]. Non solo, ma ci gloriamo pure delle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la perseveranza; la perseveranza, solide virtù, e la virtù provata, la speranza. Or la speranza non inganna, perché l’amore di Dio è stato diffuso in abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato” ( Rm 5, 5).
La giustificazione l’otteniamo innanzitutto per la fede in Cristo Nostro Signore: è la fede ad ottenerci tale grazia poiché di tale fede si compiace sommamente Iddio (“Questi è il mio figlio diletto. Ascoltatelo!”, Mc 9, 7). Per effetto di questa grazia noi cresciamo spiritualmente fino a “gloriarci nella speranza della vita eterna”, promessa da Cristo a chi avrebbe creduto in Lui e osservato i suoi comandamenti. La speranza della vita eterna diventa qualcosa di reale, una presa di coscienza nella quale ci gloriamo, ci esaltiamo spiritualmente, ascendendo a gradi più elevati del nostro interiore perfezionamento. Ma non possiamo “gloriarci” solo con la speranza che viene dalla fede, dobbiamo “gloriarci” anche con le opere, la cui necessità emerge nella nostra lotta contro “le tribolazioni”.
Infatti, le tribolazioni non vengono a costituire per noi una pietra d’inciampo, tale da far naufragare la nostra fede al duro contatto con la loro realtà? Gesù ci ha messi in guardia, nella parabola del seminatore (Mt, 13). Ma se manteniamo la fede possiamo trasformare le tribolazioni nel piedestallo della nostra gloria. E la fede deve condurci ad accettarle risolvendole in un momento transeunte ma decisivo del nostro gloriarci nella speranza della vita eterna. E come è possibile questo? Con la consapevolezza che, solo affrontandole, l’uomo giunge alla virtù. La tribolazione “produce la perseveranza”, virtù indispensabile per la salvezza, e, in generale, “solide virtù”. La “virtù provata” ossia messa alla prova, alimenta la nostra speranza. La speranza nella vita eterna risulta dalla fede ma viene confermata dalle “solide virtù” che scaturiscono dalla perseveranza nella lotta contro le tribolazioni della vita terrena. Confermata, quindi, dalle buone opere, poiché la “virtù messa alla prova” altro non è che quella che si attua nel sano comportamento morale, nei retti costumi, insomma nelle opere gradite a Dio, perché conformi ai suoi comandamenti.
Non basta pertanto la fede, per la nostra giustificazione. Essa è la prima virtù teologale ma agisce sempre assieme alle altre due. Nella “virtù messa alla prova” mediante le buone opere si attua la carità, senza la quale è vano gloriarsi “nella speranza della gloria di Dio”, come spiegato in maniera esaustiva da S. Giacomo nella sua celebre Epistola.
Le buone opere concorrono anche alla nostra libertà, consistente nel liberarsi della schiavitù del peccato. Obbedendo “di cuore” alla “dottrina evangelica, nella quale siete stati istruiti”, voi, ci spiega sempre S. Paolo, non siete più “schiavi del peccato”(Rm 6, 17). E che non lo siamo più, sottolineo, non risulta forse dalle nostre opere, dal momento che non facciamo più del nostro corpo “membra del peccato”? Difatti, “come un tempo avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per soddisfare le concupiscenze [con le opere cattive], così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per raggiungere la santità”( Rm 6, 17-19). Senza le opere rappresentate dal mettere ora “le nostre membra a servizio della giustizia”, quella che ci giustifica di fronte a Dio, non raggiungiamo “la santità” e quindi non siamo giustificati agli occhi di Dio.
[9. Le opere buone aumentano la “giustizia ricevuta”, ossia la giustificazione]
Tutto ciò considerato, possiamo comprendere al meglio il canone 24 del Decreto sulla giustificazione, che spiega l’aumento della giustizia ricevuta, grazie anche alle opere buone, le quali sono dunque anche causa del suo aumento.
“Se qualcuno afferma che la giustizia ricevuta non viene conservata ed anche aumentata dinanzi a Dio con le opere buone, ma che queste sono solo frutto e segno della giustificazione conseguita, e non anche causa del suo aumento: sia anatema” (c. 24, Decreto).
Perché mai dovrebbe sembrar strana l’idea delle opere buone che “aumentano” la “giustizia ricevuta” ovvero la nostra giustificazione? E tale da suscitare l’impressione sbagliatissima che tali opere non siano “strettamente essenziali” per la nostra salvezza?
La “giustizia che riceviamo da Dio”, cioè il grado della nostra giustificazione non è un dato statico ed immutabile, uguale per tutti, come nell’ottica di Lutero, che vuole appunto separare erroneamente la fede dalle opere e svincolare la salvezza dall’attuazione di queste ultime. Dio, ci ricorda il Salmista, vuole che “procediamo di virtù in virtù”, ascendendo verso la perfezione morale (Gn 17, 1). Mediante lo Spirito Santo viene dato un aumento della Grazia in modo che la “cooperazione della fede e delle buone opere” necessaria a questa ascesa possa perfezionarsi senza posa e migliori esponenzialmente la nostra “osservanza dei Comandamenti di Dio e della Chiesa”. La “giustizia ricevuta” ovvero la giustificazione ottenuta viene dunque non solo “conservata” ma anche “aumentata dinanzi a Dio con le opere buone”. Progredendo sempre più nelle buone opere (e conseguentemente nella fede), aumentiamo nei nostri meriti di fronte a Dio, vedendo pertanto aumentata la nostra giustificazione presso di Lui. In altri termini, più progrediamo nelle opere buone, dimostrandoci sempre più forti nella fede, tanto più siamo graditi agli occhi di Dio, siamo “giustificati” ai suoi occhi.
È giusto pertanto affermare che con le nostre opere buone la nostra giustificazione non solo viene “conservata” ma anche “aumentata” poiché è l’incremento delle opere a farla aumentare. Ciò dimostra che le opere non sono concepite in modo secondario rispetto ad una giustificazione già conseguita sola fide et sola gratia, come sembra ritenere Giacometti, ma devono al contrario concepirsi anche come “causa dell’aumento della giustificazione”. Quest’ultimo dipende sì da una maggior effusione della grazia (cap X, vedi supra) ma sempre nell’ambito della sinergia creata dall’azione sovrannaturale della Grazia con quella del nostro libero arbitrio.
La Grazia agisce in noi che attivamente vi cooperiamo (“Chiedete, e vi sarà dato; cercate e troverete…”Lc 11, 9) onde l’aumento delle buone opere provoca un aumento della fede e dell’effusione della Grazia. L’aumento non è accidentale ma, per così dire, strutturale, poiché il nostro perfezionamento morale al fine di ottenere la giustificazione è, come si è visto, da intendersi come un processo costante, che deve crescere su se stesso e arricchirsi, sia dal lato della fede che da quello delle opere, provocando una contestuale crescita nel gradimento di Dio verso di noi; gradimento che ci riconosce alla fine giusti di fronte a Lui, per i nostri meriti, nonostante le nostre cadute, se perseveriamo sino al momento della nostra morte (“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita” – Ap 2, 10). E questa crescita, nel che consiste propriamente la rinascita nostra in Cristo richiesta dal Signore stesso (Gv 3, cit.), con le buone opere ci ottiene (1) di meritare il necessario aumento della Grazia e la vita eterna ed anzi (2) il conseguimento stesso della vita eterna ed anche l’aumento della gloria, nella vita eterna:
“Se qualcuno afferma che le opere buone dell’uomo giustificato sono doni di Dio, così da non esser anche meriti di colui che è giustificato, o che questi con le buone opere da lui compiute per la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita realmente un aumento di grazia, la vita eterna e il conseguimento della stessa vita eterna (posto che muoia in grazia) ed anche l’aumento della gloria: sia anatema” (can. 32, Decreto).
Nelle nostre opere buone dobbiamo pertanto essere generosi perché dobbiamo rispondere generosamente al Signore che ci chiama. Esse devono sovrabbondare, secondo l’esortazione vibrante di S. Paolo, richiamata nel capitoletto XVI, conclusivo del Decreto sulla giustificazione. “Abbondate in ogni opera buona, sapendo che il vostro lavoro nel Signore non è vano”(1 Cr 15, 58). Non è inane il “lavoro” delle nostre buone opere perché sarà ricompensato con la vita eterna. Il principio luterano (condannato nel c. 25 del Decreto), assolutamente anticristiano, secondo il quale il giusto nel far le opere buone pecca (di superbia) venialmente o mortalmente, è insostenibile innanzitutto sul piano logico. Infatti, queste “opere” Dio stesso le vuole da noi, collegandole al conseguimento nostro della vita eterna. I due Testamenti risuonano da cima a fondo dei comandi e delle esortazioni a farle; esse altro non sono, a ben vedere, che l’osservanza scrupolosa dei divini Comandamenti, accompagnata da tutte le pratiche devote per prepararla e favorirla, insegnateci anche da Nostro Signore. Il principio luterano conduce illogicamente a credere, all’opposto, che tale osservanza non sia agli occhi di Dio determinante per la vita eterna di ciascuno di noi, mettendo così Dio in contraddizione con se stesso!
Nostro Signore, in quanto “il capo nelle membra e la vite nei tralci [Gv 15, 1], trasfonde continuamente la sua virtù in quelli che sono giustificati, virtù che sempre accompagna e segue le loro opere buone, e senza la quale non potrebbero in alcun modo piacere a Dio ed esser meritorie”. Per questo motivo, per essere i giustificati sempre tralci della vite che è Cristo, si deve ritenere che essi “con le opere che hanno compiuto in Dio [Gv 3, 21], hanno pienamente soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile in questa vita, e che hanno veramente meritato di ottenere a suo tempo la vita eterna (se tuttavia moriranno in grazia). Dice, infatti, il Cristo, nostro Salvatore: ‘Chi berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante per la vita eterna”[Gv 4, 13-14]”.( Cap. XVI, op. cit.).
[10. Sembra essersi smarrito il senso del dogma, della verità di fede che non si può cambiare, nel modo più assoluto]
Nella conclusione del suo intervento, Giorgio Giacometti scrive, come si è visto: “Insomma, non voglio fare il teologo, ma credo che se non si lavora di fino sui singoli termini con apertura mentale, il dialogo diventa impossibile e l’ecumenismo è affossato a priori”.
Ciò che colpisce qui, in primo luogo, è il fatto che si ritenga possibile “lavorare sui singoli termini con apertura mentale” per poter realizzare il dialogo ecumenico, che altrimenti verrebbe “affossato”. Secondo la mia modesta opinione, quando la Gerarchia lo “affosserà”, questo sciagurato dialogo, tornando finalmente a predicare la retta dottrina e a vivere secondo essa, sarà davvero un bel giorno per la Chiesa e tutti noi. Ma, a parte quest’augurio, che al momento appare utopistico, va sottolineato come e qualmente si ritenga possibile modificare il significato dei “singoli termini” degli articoli di fede contenuti nei Decreti del Tridentino, quasi fossero semplici opinioni di coloro che le hanno votate in quel Concilio e non dogmi solennemente definiti, che tutti dobbiamo scrupolosamente credere e osservare, se vogliamo conseguire la giustificazione ossia salvarci l’anima.
Si è smarrita questa nozione elementare, per noi cattolici: che le verità di fede sulla fede e sui costumi solennemente definite in un Concilio dogmatico come il Tridentino, non possono esser modificate, o comunque sottoposte ad un lavoro di intarsio, all’insegna della necessaria “apertura mentale”, per poterle adattare al modo di pensare di eretici e scismatici, nemici immutabili e accaniti di quelle stesse verità, da loro negate in tutti i modi. Tra la concezione della giustificazione della Chiesa cattolica e quella di Lutero, negatrice dell’importanza fondamentale delle buone opere per la salvezza, improntata al sola Fide e al sola Gratia, non può esserci, come si è visto, compromesso alcuno: si escludono a vicenda, così come si escludono reciprocamente ed irrimediabilmente la verità e l’errore.
Di questo smarrimento la colpa non va data tanto ai singoli fedeli quanto al clero “riformato” secondo le direttive del pastorale e non dogmatico Concilio Ecumenico Vaticano II, poiché già nei testi di quel Concilio, volto all’aggiornamento della dottrina e della pastorale della Chiesa e alla riforma di tutti i suoi istituti, compare l’oscuramento della verità di fede fondamentale, che solo la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa di Cristo, l’unica che salvi, grazie al suo insegnamento mantenutosi nei secoli fedele al Deposito.
Paolo Pasqualucci, sabato 17 marzo 2018 - fonte
Bergoglio è andato ben oltre l'eresia luterana. Ha fatto scalpore la sua 'strana' benedizione al pre-sinodo dei giovani. Un bell'inizio... in nome di chi agisce e parla costui e in nome di chi sarà condotta la nuova assise sinodale?
RispondiEliminaDon Mario Proietti, su Fb, ne ha fatto una parodia:
BENEDICTIONES VARIE
EX NOVO RITUALI ROMANO EXCERPTAE
FORMULA BENEDICTIONIS CUM INDULGENTIA PLENARIA PRO BOVES, OVES ET UNIVERSA PECORA
Bene mane ad vos omnes amicos. Vos ipsi vidistis fit? Orationes iam satis idonea tibi videtur quod ad minus dubites credere quod Deus non semper tecum. Fluctus haud satis mihi videtur mittere adhuc censeo ... EH! Positivum.
(Buongiorno a tutti voi amici. Mi avete pensato bene? Ora recitate le vostre preghiere a qualunque Dio voi crediate e che i vostri dubbi vi accompagnino sempre. Continuate a pensarmi bene e mandatemi un'onda positiva... mi raccomando eh! Positiva.)
Prof. Pasqualucci la ringrazio di questo suo intervento chiarificatore. Vorrei chiederle la cortesia di scrivere anche qualche cosa sulla PREDESTINAZIONE in senso Cattolico, come inteso e creduto dai padri della Chiesa da Sempre e dalla Chiesa stessa, giacchè la predestinazione "Cattolica" esiste, anche se da Lutero in poi se ne parla poco per paura di fraintendimenti. Sul tema dell'ecumenismo concordo pienamente con lei quando afferma:" Secondo la mia modesta opinione, quando la Gerarchia lo “affosserà”, questo sciagurato dialogo, tornando finalmente a predicare la retta dottrina e a vivere secondo essa, sarà davvero un bel giorno per la Chiesa e tutti noi. ". Parlando come mio cugino sacerdote salesiano, non certo tradizionalista, ma ancorato, ringraziando Dio, alla sana dottrina Cattolica, lui mi diceva che tutto questo insistere sull'ecumenismo è un falso problema, che discende peraltro dalla logica hegeliana della sintesi che emerge dalla contrapposizione della tesi è della antitesi. Oggi la Chiesa è afflitta dall "hegeliano e dal kantiano". Questo insistere sul dialogo, tra tesi ed antitesi, nasconde il desiderio di arrivare ad una sinstesi, superando la tesi "Cattolica". Nasconde il desiderio, mail celato di liberarsi dal "dogma". Nasconde la convinzione per questa Neochiesa conciliare che la "la religione Cattolica non è l'Unica Vera Religione". Ecco da dove nasce il dialogo, malamente inteso, e L'ecumenismo odierno. Giustamente mio cugino mi faceva osservare che il "problema che angoscia tanto la Chiesa post conciliare, di dialogare, è un falso problema. La Chiesa Cattolica dovrebbe, piuttosto che cercare un dialogo nel senso hegeliano, cercare di ESSERE TESTIMONEAUTENTICO del Vangelo, di testimoniare Cristo, di mostrare la presenza reale di Cristo, poichè è solo in questo modo, ovvero tramite una testimonianza autentica che non può che attrarre poiché sarebbe anche benedetta e premiata da Dio con i Segni ed i Doni, che si attraggono i lontani e si riconducono all'Unica Fede. Ecco manca il vissuto autentico, manca il Padre Pio, che con il suo vivere autenticamente il Vangelo ha attratto a Cristo e convertito milioni di persone. È poiché non si è più in grado, o non si vuole (perchè costa) vivere il Vangelo e la Fede Cattolica autenticamente ed integralmente, allora ci si rifugia in un falso ecumenismo, in un falso dialogo, che non può che portare alla distruzione, in chi lo pratica, della Fede.
RispondiEliminaBuon primo giorno di Primavera, oggi l'Equinozio 2018: E’ finita la trepidante attesa della primavera astronomica che inizia con l’Equinozio che quest’anno cade oggi, 20 marzo, alle 16:15 UTC (le 17:15 ora italiana).
RispondiEliminaL’Equinozio di primavera, come quello d’autunno, è uno dei momenti dell’anno in cui giorno e notte sono in perfetto equilibrio, dal latino “aequus nox” (notte uguale). Mentre l’Equinozio d’autunno segna l’inizio della metà oscura dell’anno, quello di primavera è il suo esatto opposto: è il primo giorno della “stagione della rinascita”. I due equinozi, uniti ai solstizi, scandiscono i ritmi della Natura, dividendo l’anno solare in quattro parti uguali; sono le pause e i passi di una danza cosmica di cui tutti facciamo parte.
Una superlativa lectio magistralis da parte del Professore! Grazie.
RispondiElimina@Alex
RispondiEliminaCredo che il cugino prete abbia ragione, sulle radici "hegeliane" del dialogo; però, più come mezzo per raggiungerlo, che come necessità. Ovvero, certamente c'è una spinta culturale che trae origine da quelle filosofie e che stimola a questa spasmodica ricerca del dialogo, ma non è tutto; se non altro perché questa è roba da intellettuali, cioè quelli che guidano (ed intortano) le masse, che non sono così sensibili a questi temi. La causa prima di questa ricerca spasmodica del dialogo sta in una malintesa idea di pace, che a sua volta prende origine dalle tragedie del XX secolo; per contrapposizione si è creato un atteggiamento che vede in ogni controversia una possibile causa di conflitto, che dunque va subito disinnescata. Questo è lo spirito new age del "peace and love" di cui purtroppo "celebriamo" il cinquantenario. Certamente c'è anche in questo una manipolazione intellettuale: per esempio, l'ecumenismo viene giustificato per evitare le guerre di religione, che in realtà in Europa erano terminate già da tantissimo tempo. Questo va di pari passo con il raggiungimento di un certo grado di benessere, per cui la gente vuole poter stare in santa pace sul proprio divano a guardarsi lo show preferito in TV, evitando ogni conflitto che possa esser anche solo fonte di seccatura. Dunque, non solo Cristo non è più pietra di scandalo, Dio non giudica più, non c'è nessuna Croce, non ci sono scelte mutualmente esclusive che dobbiamo compiere, non ci sono patrie e culture diverse, ma un unico minestrone, ecco anche che non ci sono più differenze significative tra le religioni, la natura non ci è più ostile per via del peccato originale, ma è benigna; gli unici cattivi sono solo i gruppi industriali che hanno interessi avversi ai padroni del vapore, e ovviamente la vera Chiesa e la cultura conservatrice che cercano di svegliare da questo sonno oppiaceo.
In definitiva, la gente vuol essere lasciata in "pace" a farsi i cavoli propri. È questa la causa di tutto.
In Inghilterra i grandi testi, stranieri o in lingue antiche, vengono spesso editi, ridetti(cioé riscritti con parole e costruzioni sintattiche più semplici) e riassunti, per renderli fruibili ad un vasto pubblico che altrimenti ne rimarrebbe escluso. Per ridire e riassumere, rimanendo fedeli al testo, bisogna conoscerlo in maniera approfondita, forse più approfondita di quella del comune erudito. A lavoro compiuto, colui, che ha ridetto e riassunto il capolavoro xy, e colui, che legge il capolavoro ridetto e riassunto, entrambi sanno di non trovarsi davanti al vero capolavoro xy e gli danno il valore relativo che si dà ad una sintesi di facile e piana lettura.
RispondiEliminaChi compie questa operazione, di ridire e riassumere le grandi opere, corre molti rischi: di fraintendere il pensiero dell'autore originale, di addomesticare questo pensiero, di migliorarlo a suo giudizio, di svilupparlo in un altro che poi ritiene suo originale e sorgivo, di poter scambiare questo pensiero con altri simili che, a lui, paiono interscambiabili con quello originale per via di qualche assonanza.
Questi rischi ed altri simili sono comuni a tutti coloro che ridicono il pensiero altrui. Nel nostro caso si tratta della Dottrina. Tutti quelli che la ridicono, cercano di esemplificarla, la esemplificano secondo le loro capacità e secondo le capacità che ritengono proprie di chi li ascolta. Nessuno si è mai sognato di aggiornare la Dottrina con il 'ridetto' di tizio e caio o con i loro pensieri che uscivano dalla loro mente, man mano, che la studiavano.Invece sì, questo è successo sempre con gli eretici e in maniera sovrabbondante con il CVII.
A mio parere dietro il CVII vi è una conoscenza lacunosa, superficiale della Dottrina di sempre, colmata con letture eretiche, vissute come erotiche, nel senso che davano piacere, il piacere del proibito, così è accaduta questa contaminazione che ha fatto dire ad alti porporati, già diversi anni or sono, che occorreva un altro concilio, cioè altro erotismo gratis per tutti.
Credo che questi fraintendimenti abbiano per causa una varietà di miserie umane che poco hanno a che fare con il divino, e, che molto hanno a che fare, a mio parere, con i soliti vecchi vizi di noi, poveri uomini, che nel nostro cuor fingiamo di essere Quasi-dio. La pacificazione, l'unione di noi avverrà solo quando eviteremo con tutte le nostre forze quei vizi e di buon grado osserveremo i comandi ai quali NSGC ha indicato di sottometterci. Questi comandi sembrano impossibili solo a colui che, rifiutando Gesù come suo Unico Maestro, non ha mai provato a sottomettersi ad essi, se avesse provato, saprebbe che il loro giogo è soave ed il loro peso leggero.
Anvora dal pre-sinodo dei giovani, oltre alla 'strana' benedizione di non si sa quale dio... secondo voi è pazzia o cos'altro?
RispondiElimina"Cosa fa un giovane senza lavoro? Si suicida, fa il ribelle, o prende l'aereo e va in una città che non voglio nominare e si arruola all'Isis o in un altro di questi movimenti guerriglieri, almeno ha senso vivere e avrà uno stipendio mensile". Non l'ha detto Alessandro Di Battista, il grillino per cui con i terroristi bisogna trattare, ma Papa Francesco davanti ai 300 giovani accorsi lunedì in Vaticano per il Presinodo.
@ Anonimo 13:59
RispondiEliminaProporrei un sondaggio:
"Chi è più fuori, quello che ha presieduto il pre-sinodo o i 300 che vi sono accorsi?“
Effettivamente, in Europa ci sono decine di milioni di giovani senza lavoro, e sono andati tutti in Siria ad arruolarsi nell'ISIS...
RispondiEliminaPreferisco non commentare più, e nemmeno pensare, le parole e gli atti di Bergoglio. Troppe volte ho dovuto confessarmi a causa sua!
RispondiEliminaPer quanto riguarda il sig. Giacometti,come tutti i modernisti o semimodernisti, ha il sacro terrore di sconfessare le nuove dottrine del CVII e il magistero ad esso relativo dei papi che hanno preceduto Bergoglio.
Naturalmente, mettendosi sotto i piedi la logica e il principio di non contraddizione, oltre che la fede, sono disposti a sconfessare 2000 anni di storia della Chiesa, con relativi concili dogmatici e magistero infallibile, senza farsene minimamente problema.
La filosofia di Hegel, in se, è roba da specialisti ma ormai quella concezione è penetrata,in mille modi, nella mente della gente comune.
In ogni caso sostendo da tempo che anche i cosiddetti cattolici oramai credono solo ciò che gli conviene credere. Non vogliono la pace di Cristo ma il piú comodo quieto vivere.
"Non sono venuto a portare la pace ma la spada..." Chi ascolta più questa Parola?
È troppo scandalosa. Il vero Gesù è troppi "scandaloso", ridotto ad una macchietta pacifista.
Grazie prof.Pasqualucci per questo eccellente saggio.
Mi associo alla richiesta di Alex sulla predestinazione e, magari, anche su altri temi ( ad esempio i castighi) su cui lei può darci preziose indicazioni.
Antonio
da parte mia faccio una semplice considerazione: il CVII si presenta e dice chiaramente di non essere "DOGMATICO" ma "PASTORALE" , altrettanto afferma l'introduzione ad AL. Date queste premesse, per me poco manca che butti nel cestino i documenti ivi contenuti. Certo, si possono leggere, ma "cum grano salis " , prestando loro l'attenzione dovuta alle opinioni di qualsivoglia interlocutore (Kasper, Haering, Marx il cardinale, ma anche l'altro etc)
RispondiElimina
RispondiEliminaSulla predestinazione e i castighi
Ringrazio per i gentili e sempre generosi apprezzamenti. Nella desistenza dei teologi ufficiali, siamo costretti a darci da fare con i nostri limitati mezzi per ribadire a noi stessi la retta dottrina, senza pretesa alcuna di originalità.
La predestinazione è uno dei misteri più profondi e più tremendi della nostra religione. Non che la Chiesa in passato ne parlasse continuamente. Tuttavia il popolo dei fedeli ne era intuitivamente consapevole, avendo ben presente la verità di fede, che una parte del genere umano si sarebbe dannata. A livello popolare, a volte, di un grande delinquente, si diceva: era un predestinato! Forme rozze ed improprie naturalmente per esprimere il mistero della predestinazione. Oggi, al contrario, con il diffondersi del grave errore della salvezza di fatto garantita a tutti, l'idea della dannazione di una parte dell'umanità viene di per sé a cadere. E con essa la predestinazione.
Nella Chiosa n. 4 alla L. A. Tertio millennio adveniente, R. Amerio, criticando affermazioni di GPII implicanti l'errore della salvezza per tutti, si soffermava sulla predestinazione. Dal famoso capitolo 9 della Lettera ai Romani che la rivela, si deduce che esiste una predestinazione alla Gloria ma non alla dannazione. Chi si danna, lo fa con le sue mani. Tuttavia, per il nostro intelletto un problema rimane: "Perché Dio, buono e giusto, li lascia perdere per colpa propria?" (Amerio). Lo si può porre anche così: "Nella sua onniscienza, Dio sa già chi si dannerà e chi no. E allora perché permette che nascano quelli che si danneranno?".
Come si vede, sono domande cui l'intelletto nostro non trova risposta. Per questo Amerio, nella citata chiosa, ripropone la dottrina di Manzoni sulla "ignoranza utile" del cattolico: nel senso, sia chiaro, di restare "ignoranti" di fronte ai misteri che la nostra mente non può penetrare, senza andare in cerca di guai, per voler trovare dimostrazioni impossibili.
La dottrina attuale della salvezza per tutti non è un "restare ignoranti", è un tradimento della fede.
Gli autori del passato consigliavano di attenersi ai dogmi, rimettendosi umilmente a Dio per gli elementi eccedenti la nostra ragione. L'articolo di fede di base, del tutto comprensibile, è : "Dio dona a tutti i giusti le grazie veramente e relativamente sufficienti per osservare i comandamenti" (Bartmann). Perché Dio vuole che tutti si salvino, anche se una parte non si salverà, per colpa sua (di fede). Ma nessuno di noi può avere la certezza della giustificazione, e quindi di esser predestinato alla Gloria; dobbiamo allora cercare di vivere ogni giorno seguendo gli insegnamenti della Chiesa di sempre, che ci garantiscono la giustificazione finale, se perseveriamo in essi sino alla fine. Inoltre: la predestinazione non fa comunque venir meno l'uso del nostro libero arbitrio.
Sui "castighi": credo si intenda l'eternità delle pene infernali e quindi la logica sovrannaturale del Giudizio di Dio. Su questo ho scritto qualche anno fa (scusate la citazione personale) l'articolo "Il Cristo Giudice", che forse è stato pubblicato da Mic.
PP
Grazie a PP per le interessanti riflessioni.
RispondiEliminaNella mia ancor maggiore limitatezza teologica, mi son trovato a dover rispondere a mia figlia che mi sottoponeva la seguente domanda: È giusto dire che per il Signore è più importante la nostra libertà della nostra salvezza?
Sono riuscito a balbettare che la nostra libertà è essenziale per poter amare Dio. Non si può amare qualcuno se non liberamente.
E certamente l'amore per Dio è la cosa più importante, più importante della nostra stessa salvezza. Nell'atto di penitenza si dice: "...perché peccando ho meritato i tuoi catighi e molto più, perchè peccando ho offeso Te ...".
Più importante non significa però che questo amore (che sottintende la libertà) non sia essenziale alla nostra salvezza. In questo senso la nostra priorità (anche cronologica) va all'amore di Dio prima ancora che alla salvezza. Questa ne è una semplice conseguenza.
Spero di non aver omesso qualche fatto importante, ma mi sembra che anche il discorso sulla predestinazione possa e forse debba, almeno in parte, essere ricondotto a questa riflessione sulla nostra libertà. Fermo restando che comunque a certe domande solo il Signore sa rispondere.
"Eutanasia: prima vietata, poi permessa, quindi obbligata?
RispondiEliminaFoley, canadese affetto da patologia neurodegenerativa, ha denunciato il sistema sanitario che gli ha offerto come soluzione l’eutanasia: quando Foley ha rifiutato le cose si sono complicate, dimostrando che se la morte diventa diritto chi soffre si trova non solo a dover combattere la malattia ma anche un sistema che non riconosce più il valore assoluto di ogni vita."
( Ares M. Bernasconi)
Ecco l'articolo su Cristo giudice ricordato da Paolo Pasqualucci:
RispondiEliminahttp://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2015/04/paolo-pasqualucci-il-cristo-giudice.html
Sulla predestinazione, intuitivamente e soggettivamente parlando:
RispondiEliminaLa domanda essenziale che mi ponevo fin da bambina era sulla effettiva responsabilità (ero molto propensa a trovare giustificazioni) di coloro che, nascendo in una famiglia e in una situazione corrotta, si ritrovavano a vivere una vita di corruzione, rispetto a coloro che facevano scelte di giustizia perché inseriti e guidati da un contesto "giusto". Ricordo i balbettii dei miei genitori e quelli dei miei insegnanti di religione che non mi hanno mai dato una risposta che mi soddisfacesse. Partivano dal 'libero arbitrio'; ma quello lo davo per scontato. Il problema che mi ponevo era sulle affievolite capacità di corrispondervi che mi apparivano 'distribuite' in maniera difforme.
Ora come ora, alla luce di quel briciolo di fede che ho ricevuto in dono dopo essere uscita da una situazione di 'abitudine' e successivamente di 'crisi', piuttosto che di fede viva, mi convince la certezza che il Signore vuole la salvezza di tutti e che dà a tutti, in qualunque situazione, il kairòs, il momento favorevole per accogliere la grazia necessaria per corrisponderGli e convertirsi. Resta il fatto che più si è accecati dal male e meno si è sensibili alla grazia; ma non esiste una impossibilità assoluta di corrispondere e penso che basti un timido sì per capovolgere situazioni anche ingarbugliate. Ciò che è più difficile (per tutti) è la perseveranza fino alla fine. Ma a questo può molto supplire e venire incontro la preghiera personale e la funzione santificatrice della Chiesa che, sul piano metafisico, agisce al di là di ogni nostra comprensione, secondo la volontà del Padre. E' il come e il quanto che è e resta un mistero al quale ci arrendiamo, affidandoci.
Caro PP,
RispondiEliminaCerca la dottrina luterana della giustificazione, questa sta intrinsecamente legata alla dottrina del servo arbitrio. Quindi, non può cooperare con la grazia e nè fare delle buone opere chi non puo scigliere tra bene e il male. Il grande problema di findo della dottrina luterana è la negazione del libero arbítrio.
Già il grande problema del cattolicesimo, che vuole presentare Lutero, come qualcuno che ha ricercato un Dio misericordioso e lo ha trovato al di fuori della Chiesa,deve spiegare come un Dio che non ha concesso il libero arbítrio può essere misericordioso. Se non abbiamo il libero arbítrio, la colpa per i nostri peccati non è nostra.
Osservo che nelle documenti comuni tra cattolici e luterani, il problema del servo arbítrio non è nemmeno affrontato.
Un caro saluto dal Brasile
Grazie prof Pasqualucci, ma per "castighi" intendevo altro, ovvero le punizioni divine. Di castighi ne parla e la Scrittura e la Madonna nelle sue apparizioni (mi riferisco a quelle riconosciute). Oggi si tende a mettere la sordina su questo aspetto che fa parte della Rivelazione.
RispondiEliminaMic, temo che noi vogliamo sempre ragionare in termini di giustizia umana, ma come diceva il cardinal Biffi il Signore non sembra fissato per l'uguaglianza assoluta.
Lo stesso Amerio cita,come lui li definiva,dei versicoli "scandalosi" su questo tema.
In fondo non siamo tutti bravi,intelligenti, capaci e belli allo stesso modo.
Facciamo fatica ad accettarlo ma è così.
Antonio
Sinopse dal libro "Il servo arbitrio" venduto nel sito per l'edittrice Claudiana Paideia:
RispondiElimina«Non c’è nessun libro nel quale veramente io mi riconosca tranne forse quello sul Servo arbitrio e il Catechismo», scriveva Martin Lutero quasi cinque secoli fa. Tuttavia l’opera in risposta al Libero arbitrio di Erasmo da Rotterdam è ancora oggi sovente fraintesa, quasi che il Riformatore tedesco negasse alla creatura umana ogni capacità di intendere e di volere. Quel che Lutero nega – attingendo dalla Bibbia la sostanza del suo pensiero – è la capacità dell’essere umano di concorrere alla propria salvezza. La buona novella dell’evangelo è però che questi non deve salvarsi ma è già salvato. Davanti a Dio, la creatura umana sperimenta non la sua libertà ma quella di Dio, che la giustifica per grazia mediante la fede. Il Servo arbitrio non è altro che un ampio e tumultuoso commento al sola gratia.
Nuova edizione integrale con testo latino a fronte.
https://www.claudiana.it/scheda-libro/martin-lutero/il-servo-arbitrio-9788870169478-1918.html
RispondiEliminaAncora sulla grazia e la predestinazione - i castighi
--Opportuno assai il richiamo di GF alla negazione luterana del libero arbitrio. Nel suo libello contro Erasmo sull'"arbitrio non libero"(De Servo Arbitrio,1525), scrive, icasticamente: "E'necessario e salutare che i cristiani capiscano anche questo in primo luogo: che Dio non ha una prescienza a caso, ma, con volontà immutabile, eterna e infallibile, tutto prevede, predispone e porta a compimento [ alles...sowohl vorhersieht, sich vornimmt und ausfuehrt - vers. ted. moderna]. Con questo colpo di tuono si abbatte il libero arbitrio e lo si annienta in modo totale." Calvino avrebbe poi sviluppato all'estremo questa concezione.
Questa concezione non lascia alcuno spazio alla distinzione, accolta dal Magistero, che implica una duplice volontà divina di salvezza: 1. la volontà divina "antecedente" (Dio vuole che tutti si salvino - di fede) che è generale ma condizionata: essa vuole la salvezza di tutti s e ciascuno vuole anche la propria salvezza. Condizionata quindi dalla nostra stessa cooperazione, con il nostro libero arbitrio (Deus ne te deserit nisi deseratur: Dio non ti abbandona a meno che non sia [da te] abbandonato - S. Agostino). 2. la volontà divina "conseguente", all'opposto assoluta e particolare, poiché si applica solo a coloro che, con la grazia, meritano l'eterna salvezza. Il Tridentino condanna al can. 6 del Decr. sulla Giustificaz., i predestinazionisti, per i quali chi si danna è stato predestinato da Dio alla dannazione. Costoro negano già l'esistenza della volontà divina antecedente (Lutero, Calvino, etc.). Fonte: Bartmann
Per un Lutero allora come so che sono stato predestinato alla salvezza? Con l'atto di fede che crede nella salvezza garantitami dalla Croce, mantello che copre i miei peccati, restando io sempre peccatore irredimibile e per niente rinato in Cristo. Questa certezza è autopoietica (quanto alla salvezza), un mero prodotto della coscienza individuale, al di fuori di tutte le opere buone, che scompaiono quali fattori di salvezza, allo stesso modo del nostro rinnovamente interiore, esplicitamente richiesto da NS; coscienza che poi Hegel ma tutto l'idealismo tedesco e più ancora di lui un Fichte amplieranno ad autocoscienza dell'individuo che si innalza all'Assoluto, a Dio come Spirito Assoluto. Però qui siamo oltre Lutero.
--Capisco ora il riferimento ai "castighi". E'un discorso complesso, che può portare anche ad atteggiamenti spirituali improntati a scarsa prudenza. Complesso, a mio avviso, già per due ordini di motivi: 1. Su quali fonti si deve basare? Ci sono le fonti canoniche ossia le c.d. Apocalissi neotestamentarie, con i loro noti problemi interpretativi. 2. Ci sono le rivelazioni private,che presentano un duplice problema: a. il loro rapporto con le fonti canoniche e il dogma; b. la loro attendibilità in relazione a fatti storici noti.
Che ci sia un "castigo" in atto verso la Chiesa apostatica attuale e le società nostre atee e miscredenti, non si può certo negare. Ma ci battiamo, a Dio piacendo, proprio per ribaltare la situazione ed evitare castighi ancora peggiori.
PP
Grazie PP.
RispondiEliminaSempre chiaro, puntuale e, per quanto mi riguarda, condivisibile al 100%
RispondiEliminaPrego.
E' sempre bello poter scrivere e discutere di queste cose, nonostante le tante miserie del presente, grazie a Mic che ci consente questo spazio da lei creato e mantenuto con tanta dedizione e bravura.
Una postilla sul tema : Blaise Pascal, che ha lasciato tra i suoi manoscritti inediti importanti riflessioni sulla grazia e la predestinazione, concludeva ad un certo punto nel seguente modo; che nella predestinazione, come intesa dalla Chiesa, dobbiamo sempre presumere l'esistenza di un giudizio di Dio, giusto ma nascosto.
PP
Caro PP,
RispondiEliminaGrazie per il commento e riflessioni.
Desidero a te, a Mic e a tutti i leitori una Santa Pasqua.
Un caro saluto dal Brasile
Egregio professor Pasqualucci, La ringrazio per l'attenzione che ha dato alla mia nota sulle condizioni di possibilità dell'ecumenismo (da Lei sostanzialmente negate). A mia volta, stimolato dalle Sue considerazioni, ho riflettuto a lungo sulla mia appartenenza alla Chiesa e ne ho tratto un piccolo saggio a carattere filosofico http://www.platon.it/etica/2018/05/24/che-significa-essere-cattolici/
RispondiEliminaQui vorrei solo rilevare quanto segue.
Il Suo dotto contributo chiarisce certamente che la dottrina tridentina dell'aumento della giustificazione grazie alle opere, nel suo contesto, non può significare, come "alla lettera" parrebbe (non si aumenta qualcosa che già non c'è), che le opere accrescano una giustificazione già data, verosimilmente ad opera della grazia. Tuttavia, il suo stesso sforzo ermeneutico che cosa dimostra? Che le parole spesso non significano quello che sembrano. Perché questo non potrebbe valere anche di molte espressioni adottate dai luterani, in apparente opposizione a quelle adoperate dai cattolici, come tenta di dimostrare la Dichiarazione congiunta del 1994?
Cordiali saluti