Sandro Magister pubblica oggi, con una breve premessa - che non entra nel merito del complesso dibattito ma più che osservazioni mostra piuttosto reazioni - la lettera che gli ha scritto l’arcivescovo Carlo Maria Viganò in replica al suo articolo: L'arcivescovo Viganò sull’orlo dello scisma. La lezione inascoltata di Benedetto XVI [qui], insieme ad una Lectio del Card. Brandmüller. A quell'articolo avevo replicato: Mons. Viganò non è sull'orlo dello scisma. Molti nodi stanno venendo al pettine [qui]; così come avevamo puntualmente replicato al Cardinale: Maria Guarini. Il Card.Walter Brandmüller e le difficoltà interpretative del Concilio. Ci riporta indietro... non possumus! [qui] e Paolo Pasqualucci. Rispettosa replica a S. Em. Walter Cardinal Brandmüller sull’interpretazione del Concilio Vaticano II [qui]. Qui mi limito ad inserire i testi pubblicati su Settimo Cielo; ma, oltre a quanto già espresso dai contenuti di cui ai link sopra, a quanto pare puntualmente ignorati, mi accingo a predisporre una nuova sintesi. Quanto al titolo odierno, non si tratta tanto di chi ha ragione e chi no, quanto di chi è nella Verità senza sofismi... E che si riescano finalmente a riconoscere i sofismi nonché a chiamare gli errori col loro nome... Qui i precedenti recenti più significativi.
Sul Concilio una lettera di Viganò e una lezione di Brandmüller. Chi ha ragione e chi no
1. LA LETTERA DELL’ARCIVESCOVO CARLO MARIA VIGANÒ
Caro Magister,
mi permetta di replicare al Suo articolo “L’Arcivescovo Viganò sull’orlo dello scisma”, pubblicato su Settimo Cielo il 29 Giugno.
Sono consapevole che l’aver osato esprimere un’opinione fortemente critica sul Concilio sia sufficiente a risvegliare lo spirito inquisitorio che in altri casi è oggetto di esecrazione da parte dei benpensanti. Nondimeno, in una disputa rispettosa tra ecclesiastici e laici competenti, non mi pare sia inappropriato sollevare problemi che rimangono a tutt’oggi irrisolti, primo fra tutti la crisi che affligge la Chiesa a partire dal Vaticano II, giunta ormai alla devastazione.
Vi è chi parla di travisamento del Concilio; chi della necessità di tornare ad una sua lettura in continuità con la Tradizione; chi dell’opportunità di correggere eventuali errori in esso contenuti, o di interpretare in senso cattolico i punti equivoci. Sul fronte opposto, non mancano coloro che considerano il Vaticano II come un brogliaccio a partire dal quale proseguire nella rivoluzione, nel cambiamento, nella trasformazione della Chiesa in un’altra entità nuova, moderna, al passo coi tempi. Questo fa parte delle normali dinamiche di un dialogo che troppo spesso è invocato ma raramente praticato: chi sinora ha espresso dissenso su quanto da me affermato non è mai entrato nel merito della questione, limitandosi ad affibbiarmi epiteti che già meritarono miei ben più illustri e venerabili Confratelli. Ed è curioso che, tanto nell’agone dottrinale quanto in quello politico, i progressisti rivendichino per sé un primato, uno stato d’elezione che colloca apoditticamente l’avversario in una posizione di ontologica inferiorità, indegno di attenzione e di risposta e semplicisticamente liquidabile come lefebvriano sul versante ecclesiale o fascista su quello sociale. Ma la mancanza di argomenti non legittima costoro a dettare le regole, né a decidere chi ha diritto di parola, specialmente quando la ragione, ancor prima della fede, dimostrano dove sia l’inganno, chi ne sia l’artefice e quale lo scopo.
Inizialmente mi era parso che il contenuto del Suo articolo fosse da considerare piuttosto come un comprensibile tributo al Principe, si trovi esso nelle affrescate sale della Terza Loggia o negli uffici di design dell’Editore; eppure, nel leggere quanto Ella mi attribuisce, ho riscontrato una inesattezza – chiamiamola così – che spero sia frutto di un fraintendimento. Le chiedo quindi di accordarmi lo spazio di replica su Settimo Cielo.
Ella afferma che avrei accusato Benedetto XVI «d’aver “ingannato” la Chiesa intera dando a credere che il Concilio Vaticano II fosse immune da eresie e, anzi, andasse letto in perfetta continuità con la vera dottrina di sempre». Non mi pare di aver mai scritto una cosa simile riguardo al Santo Padre, al contrario: ho detto, e lo riaffermo, che siamo stati tutti – o quasi tutti – tratti in inganno da chi ha usato il Concilio come un “contenitore” dotato di una sua implicita autorità e dell’autorevolezza dei Padri che vi presero parte, stravolgendone però il fine. E chi è caduto in questo inganno l’ha fatto perché, amando la Chiesa e il Papato, non poteva persuadersi che in seno al Vaticano II una minoranza di organizzatissimi congiurati potesse usare un Concilio per demolire, dal di dentro, la Chiesa; e che nel farlo potesse contare sul silenzio e sull’inazione dell’Autorità, se non sulla sua complicità. Questi sono fatti storici, dei quali mi permetto di dare una lettura personale, ma che reputo possa essere condivisa.
Mi permetto anche di ricordarLe, se ve ne fosse bisogno, che le posizioni di moderata rilettura critica del Concilio in senso tradizionale da parte di Benedetto XVI fanno parte di un lodevole passato recente, mentre nei formidabili anni Settanta ben altra era la posizione dell’allora teologo Joseph Ratzinger. Autorevoli studi si affiancano alle stesse ammissioni del Professore di Tubinga confermando le parziali resipiscenze dell’Emerito. Non vedo nemmeno un «temerario atto d’accusa sferrato da Viganò contro Benedetto XVI per i suoi “fallimentari tentativi di correzione degli eccessi conciliari invocando l’ermeneutica della continuità”», poiché questa è opinione ampiamente condivisa non solo negli ambienti conservatori, ma anche e soprattutto in quelli progressisti. E andrebbe detto che quello che i novatori sono riusciti ad ottenere con l’inganno, l’astuzia e il ricatto fu il risultato di una visione che abbiamo ritrovato poi applicata al massimo grado nel “magistero” bergogliano di “Amoris laetitia”. L’intenzione dolosa è ammessa dallo stesso Ratzinger: «Sempre più cresceva l’impressione non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva somigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio» (cfr. J. Ratzinger, “La mia vita”, traduzione dal tedesco di Giuseppe Reguzzoni, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1997, pp. 99). Ma ancor di più dalle parole del domenicano Edward Schillebeecks: «Ora lo diciamo in modo diplomatico, ma dopo il Concilio ne trarremo le conseguenze implicite» (“De Bazuin” n. 16, 1965).
Abbiamo conferma che la voluta ambiguità dei testi aveva come scopo proprio il tenere insieme visioni opposte e inconciliabili, in nome di una valutazione di utilità e a detrimento della Verità rivelata. Una Verità che, quando viene proclamata integralmente, non può non esser divisiva, così come è divisivo Nostro Signore: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione» (Lc 12, 51).
Non trovo vi sia nulla di riprovevole nel suggerire di dimenticare il Vaticano II: i suoi fautori hanno saputo disinvoltamente esercitare questa “damnatio memoriae” non con un solo Concilio, ma con tutti, giungendo ad affermare che il loro era il primo di una nuova chiesa, e che a partire dal loro concilio era finita la vecchia religione e la vecchia Messa. Ella mi dirà che queste sono le posizioni degli estremisti, e che la virtù sta nel mezzo, ossia tra quanti considerano che il Vaticano II sia solo l’ultimo di un’ininterrotta serie di eventi in cui parla lo Spirito Santo per bocca dell’unico ed infallibile Magistero. Se così fosse, si dovrebbe spiegare perché la chiesa conciliare si sia data una nuova liturgia e un nuovo calendario, e conseguentemente una nuova dottrina – “nova lex orandi, nova lex credendi” – prendendo sdegnosamente le distanze dal proprio passato.
La sola idea di metter da parte il Concilio suscita lo scandalo anche in quanti, come Lei, riconoscono la crisi degli ultimi anni, ma si ostinano a non voler riconoscere il legame di causalità tra il Vaticano II e i suoi logici ed inevitabili effetti. Lei scrive: «Attenzione: non il Concilio male interpretato, ma il Concilio in quanto tale e in blocco». Le chiedo allora: quale sarebbe l’interpretazione corretta del Concilio? Quella che ne dà Lei o quella che ne davano – mentre ne scrivevano i decreti e le dichiarazioni – i suoi operosissimi artefici? o forse quella che ne dà l’Episcopato tedesco? o quella dei teologi che insegnano nelle Università Pontificie e che vediamo pubblicati sui più diffusi periodici cattolici del mondo? o quella di Joseph Ratzinger? o quella di mons. Schneider? o quella di Bergoglio? Basterebbe questo per comprendere quanto danno abbia causato anche solo l’aver deliberatamente adottato un linguaggio tanto fumoso, da legittimare interpretazioni opposte e contrarie, sulla cui base si è poi avuta la famosa primavera conciliare. Ecco perché non esito a dire che quell’assise andrebbe dimenticata «in quanto tale e in blocco», e rivendico il diritto di affermarlo senza per questo rendermi colpevole del delitto di scisma per aver attentato all’unità della Chiesa. L’unità della Chiesa è inseparabilmente nella Carità e nella Verità e dove regna o anche solo serpeggia l’errore non vi può essere Carità.
La favola bella dell’ermeneutica – ancorché autorevole per il suo Autore – rimane nondimeno un tentativo di voler dar dignità di Concilio ad un vero e proprio agguato contro la Chiesa, per non screditare con esso i Pontefici che quel Concilio hanno voluto, imposto e riproposto. Tant’è vero che quegli stessi Pontefici, uno dopo l’altro, assurgono agli onori degli altari per esser stati “papi del Concilio”.
Mi permetto di citare una frase dell’articolo che la dott.ssa Maria Guarini, in reazione al Suo pezzo su Settimo Cielo, ha pubblicato il 29 Giugno su Chiesa e postconcilio, intitolato: “Mons. Viganò non è sull’orlo dello scisma. Molti nodi stanno venendo al pettine” [qui] :
«Ed è proprio da qui che nasce e per questo rischia di continuare – senza esiti (finora, tranne che per il dibattito innescato da mons. Viganò) – il dialogo tra sordi, perché gli interlocutori usano griglie di lettura della realtà diverse: il Vaticano II, cambiando il linguaggio, ha cambiato anche i parametri di approccio alla realtà. E capita di parlare della stessa cosa alla quale, tuttavia, si danno significati diversi. Tra l’altro la caratteristica principale dei gerarchi attuali è l’uso di affermazioni apodittiche, senza mai prendersi la briga di dimostrarle o con dimostrazioni monche e sofiste. Ma di dimostrazioni non hanno neppure bisogno, perché il nuovo approccio e il nuovo linguaggio hanno sovvertito tutto “ab origine”. E il non dimostrato dell’anomala pastoralità priva di principi teologici definiti è proprio ciò che ci toglie la materia prima del contendere. È l’avanzata del fluido cangiante dissolutore informe, in luogo del costrutto chiaro, inequivocabile, definitorio, veritativo: l’incandescente perenne saldezza del dogma contro i liquami e le sabbie mobili del neo-magistero transeunte».
Continuo a sperare che il tono del Suo articolo non sia stato dettato dal semplice fatto di aver osato riaprire il dibattito su quel Concilio che molti, troppi nella compagine ecclesiale, considerano un “unicum” nella storia della Chiesa, quasi idolo intoccabile.
Resti certo che, a differenza di molti vescovi, come quelli del “German Synodal Path”, che sono già andati ben oltre l’orlo dello scisma – promuovendo e pretendendo sfrontatamente di imporre alla Chiesa universale ideologie e pratiche aberranti – non nutro alcuna velleità di separarmi dalla Madre Chiesa, per l’esaltazione della quale rinnovo ogni giorno l’offerta della mia vita.
“Deus refugium nostrum et virtus,
populum ad Te clamantem propitius respice;
Et intercedente Gloriosa et Immaculata Virgine Dei Genitrice Maria,
cum Beato Ioseph, ejus Sponso,
ac Beatis Apostolis Tuis, Petro et Paulo, et omnibus Sanctis,
quas pro conversione peccatorum,
pro libertate et exaltatione Sanctae Matris Ecclesiae,
preces effundimus, misericors et benignus exaudi”.
Riceva, caro Sandro, il mio benedicente saluto con l’augurio di ogni bene, in Cristo Gesù.
Carlo Maria Viganò
3 Luglio 2020
Sant’Ireneo, Vescovo e Martire
* * *
Il Concilio Vaticano II: le difficoltà dell’interpretazione
di Walter Brandmüller
Che nell’interpretare i documenti conciliari si possa pervenire a opinioni contrastanti non è certo una novità per la storia dei concili. Formulare verità di fede significa esprimere l’indicibile mistero della verità divina in un linguaggio umano. Tuttavia, è e rimane un’impresa audace, che già sant’Agostino ha paragonato al tentativo di un bambino di svuotare il mare con un secchiello.
E in questa impresa anche un concilio ecumenico non può fare molto più di quel bambino.
Nulla di strano, dunque, se perfino le affermazioni dottrinali infallibili di un concilio o di un papa possono sì definire la verità rivelata – e dunque delimitarla rispetto all’errore, – ma mai cogliere la pienezza della verità divina.
È questo il dato di fatto essenziale che non bisogna perdere di vista dinanzi alle difficoltà d’interpretazione che ci pone il Vaticano II. Per illustrarle, ci limiteremo a quei testi conciliari che vengono percepiti come particolarmente ostici dagli ambienti cosiddetti tradizionalisti.
Prima di tutto, però, è bene dare uno sguardo alle particolarità che distinguono il Vaticano II dai precedenti concili ecumenici.
A tale proposito c’è da fare una premessa: allo storico del concilio, il Vaticano II appare, sotto molti aspetti, anzitutto come un concilio dei superlativi. Partiamo dalla constatazione che nella storia della Chiesa nessun altro concilio è stato preparato così intensamente come il Vaticano II. Certo, anche il concilio che lo aveva preceduto era stato molto ben preparato quando iniziò l’8 dicembre 1869. Probabilmente la qualità teologica degli schemi preparatori era perfino superiore a quella del concilio che lo ha seguito. È però impossibile ignorare che il numero degli spunti e delle proposte inviati da tutto il mondo, come anche il modo in cui sono stati elaborati, siano stati superiori a tutto quanto si era visto fino ad allora.
Che il Vaticano II fosse un concilio dei superlativi emerse in modo vistoso l’11 ottobre 1962, quando un numero immenso di vescovi – duemilaquattrocentoquaranta – entrò in processione nella Basilica di San Pietro. Se il Vaticano I, con i suoi circa 642 Padri, aveva trovato posto nel transetto di destra della Basilica, ora l’intera navata centrale era stata trasformata in aula sinodale. Nei cento anni intercorsi tra i due concili, la Chiesa era diventata, come emerse visibilmente in modo tanto impressionante, Chiesa universale non solo di nome, ma anche di fatto.Una realtà che ora si rifletteva nel numero dei 2440 Padri e dei loro paesi d’origine. A ciò si aggiunge che per la prima volta nella storia un concilio poté votare con l’ausilio della tecnologia elettronica, e che i problemi di acustica, che ancora avevano infastidito i partecipanti al Vaticano I, non furono nemmeno più menzionati.
E dal momento che stiamo parlando di mezzi di comunicazione moderni: prima di allora non era mai accaduto che, come nel 1962, fossero accreditati al concilio circa mille giornalisti da tutto il mondo. Ciò rese il Vaticano II anche il concilio più conosciuto di tutti i tempi, un evento mediatico di prima categoria.
Concilio dei superlativi lo è però in modo particolare per quanto riguarda i suoi risultati. Delle 1135 pagine che compongono l’edizione dei decreti di tutti i concili generalmente considerati ecumenici, ovvero una ventina, il Vaticano II da solo ne ha prodotte 315, ossia ben più di un quarto. Pertanto, esso occupa senz’altro un posto speciale nella serie di tutti i concili ecumenici, anche solo secondo criteri più materiali, esteriori.
Al di là di questo, ci sono però altre particolarità che distinguono il Vaticano II dai concili che lo hanno preceduto, ad esempio per quanto riguarda le funzioni del concilio ecumenico. I concili sono maestri supremi, legislatori supremi, giudici supremi, sotto e con il papa, al quale questi ruoli spettano anche senza concilio. Non tutti i concili hanno svolto questa funzione.
Se, per esempio, il primo concilio di Lione, nel 1245, con la scomunica e la deposizione dell’imperatore Federico II ha agito da tribunale e per giunta emanato leggi, il Vaticano I non ha tenuto processi né promulgato leggi, ma deciso esclusivamente su questioni dottrinali.
Il concilio di Vienne del 1311/12, invece, ha sia giudicato sia emanato leggi, e anche deciso su questioni dottrinali.
Lo stesso vale per i concili di Costanza del 1414/18 e di Basilea-Ferrara-Firenze del 1431/39.
Il Vaticano II, invece, non ha pronunciato giudizi, non ha veramente emanato leggi e non ha nemmeno preso decisioni definitive su questioni di fede.
Piuttosto, ha effettivamente dato forma a un nuovo tipo di concilio, intendendosi come concilio pastorale, quindi di cura delle anime, volto a far conoscere al mondo di allora l’insegnamento e le istruzioni del Vangelo in modo più attraente e orientante. In particolare, non ha espresso nessuna condanna dottrinale. Giovanni XXIII, nel discorso per la solenne apertura del concilio, ne aveva parlato espressamente: “Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, […] preferisce usare la medicina della misericordia […]; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando”. Ebbene, come sappiamo a cinquant’anni dalla sua conclusione, il concilio avrebbe scritto una pagina gloriosa se, sulle orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di una ripetuta ed espressa condanna del comunismo.
La paura di pronunciare condanne dottrinali e definizioni dogmatiche, invece, ha portato a far sì che alla fine del concilio ci fossero delle affermazioni conciliari dal grado di autenticità, e pertanto anche dal carattere vincolante, completamente diverso. Così, per esempio, le Costituzioni “Lumen gentium” sulla Chiesa e “Dei Verbum” sulla rivelazione divina hanno senz’altro la natura e il carattere vincolante di insegnamenti dottrinali autentici – sebbene anche qui nulla sia stato definito in modo vincolante in senso stretto, – mentre per esempio già la Dichiarazione sulla libertà di religione “Dignitatis humanae” secondo Klaus Mörsdorf “prende posizione su questioni del tempo senza un chiaro contenuto normativo”. Di fatto, ciò vale per i documenti disciplinari, che regolano la prassi pastorale. Il carattere vincolante dei testi conciliari è quindi di grado diverso.
Compiendo un passo successivo, occorre poi porsi la domanda sul rapporto tra il Vaticano II e tutta la Tradizione della Chiesa. Una risposta la troviamo analizzando quanto, o quanto poco, i testi conciliari hanno attinto alla Tradizione. Basta esaminare in tal senso, a titolo d’esempio, la costituzione “Lumen gentium”. È sufficiente dare uno sguardo alle note del testo. Si può così constatare che all’interno del documento vengono citati addirittura dieci concili precedenti. Tra questi, il Vaticano I viene portato come riferimento 12 volte, il Tridentino ben 16. Già da questo si evince che, per esempio, un “distacco da Trento” va escluso in maniera assoluta.
Ancora più stretto appare il rapporto con la Tradizione, se si pensa che, tra i pontefici, Pio XII viene citato 55 volte, Leone XIII in 17 occasioni e Pio XI in 12 passi. A loro si aggiungono poi Benedetto XIV, Benedetto XV, Pio IX, Pio X, Innocenzo I e Gelasio.
L’aspetto più impressionante è tuttavia la presenza dei Padri nei testi di Lumen gentium. I Padri ai cui insegnamenti fa riferimento il concilio sono addirittura 44. Tra loro spiccano Agostino, Ignazio di Antiochia, Cipriano, Giovanni Crisostomo e Ireneo.
Vengono inoltre citati i grandi teologi, ovvero i dottori della Chiesa: Tommaso d’Aquino in ben 12 passi, insieme ad altri sette nomi di peso.
Basta anche solo questo elenco a illustrare fino a che punto i padri del Vaticano II si intendessero nella corrente della tradizione, integrati in quel processo del ricevere e trasmettere, che è la ragion d’essere della Chiesa: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dice l’Apostolo. È evidente che anche sotto questo aspetto non si può parlare di un nuovo inizio della Chiesa, dunque di una nuova Pentecoste.
Questo porta a delle conseguenze importanti per l’interpretazione del concilio, e più precisamente non dell'”evento concilio”, bensì dei suoi testi. Una preoccupazione centrale tangibile in molte affermazioni di Benedetto XVI è stata quella di mettere in risalto lo stretto collegamento organico del Vaticano II con il resto della Tradizione della Chiesa, evidenziando così che un’ermeneutica che crede di scorgere nel Vaticano II una rottura con la tradizione sbaglia.
Questa “ermeneutica della rottura” viene fatta tanto da coloro che nel Vaticano II vedono un allontanamento dalla fede autentica della fede, dunque un errore o addirittura un’eresia, quanto da coloro che attraverso una tale rottura con il passato volevano osare una coraggiosa partenza verso nuovi lidi.
Tuttavia: la presunzione di una rottura nell’insegnamento e nell’azione sacramentale della Chiesa è impossibile anche solo per ragioni teologiche. Se crediamo alla promessa di Gesù Cristo di rimanere con la sua Chiesa sino alla fine dei tempi, di inviare lo Spirito Santo che ci introdurrà nella ricchezza della verità, allora è addirittura assurdo pensare che l’insegnamento della Chiesa, trasmesso in modo autentico, nel tempo si possa dimostrare sbagliato nell’uno o l’altro punto, o che un errore da sempre rigettato si possa in qualche momento, rivelare come verità. Chi lo ritenesse possibile, sarebbe vittima di quel relativismo per il quale la verità è essenzialmente soggetta alla mutevolezza, ossia in realtà non esiste affatto.
A questa Tradizione ogni concilio dà il suo contributo specifico. Naturalmente esso può anche non consistere nell’aggiunta di nuovi contenuti al deposito della fede della Chiesa. E tanto meno nell’eliminazione di insegnamenti della fede tramandati finora. Piuttosto, quello che si compie qui è un processo di sviluppo, chiarimento, discernimento, e ciò con l’aiuto dello Spirito Santo, un processo che porta a far sì che ogni concilio, con le sue dichiarazioni dottrinali definitive, entri come parte integrante nella Tradizione complessiva della Chiesa. Da questo punto di vista, i concili sono sempre aperti in avanti, verso un annuncio dottrinale più completo, chiaro e attuale, mai verso l’indietro. Un concilio non potrà mai contraddire quelli che lo hanno preceduto, ma può integrare, precisare, proseguire.
Le cose sono però diverse per il concilio come organo di legislazione. Quest’ultima può – e senz’altro deve – affrontare, ma sempre nei limiti indicati dalla fede, le esigenze concrete di una particolare situazione storica e, da questo punto di vista, è per principio soggetta a cambiamento.
Da tali osservazioni una cosa dovrebbe essere emersa chiaramente: tutto quanto è stato detto vale pure per il Vaticano II. Anch’esso è niente di più – ma anche niente di meno – che un concilio tra, accanto e dopo gli altri. Non è al di sopra e nemmeno al di fuori, bensì rientra nella serie dei concili ecumenici della Chiesa.
Che ciò sia così risulta non ultimo dalla comprensione di sé di quasi tutti i concili. Basta ricordare le loro rispettive affermazioni, come anche quelle dei primi Padri, sulla questione. Essi riconoscono nella Tradizione la natura stessa dei concili.
Già Vincenzo di Lerino († prima del 450) riflette espressamente su ciò nel suo “Commonitorium”: “A che cosa ha aspirato la Chiesa attraverso i suoi decreti conciliari, se non a far sì che quel che prima del concilio semplicemente si credeva, dopo fosse creduto con maggiore diligenza; che quel che prima veniva annunciato senza vigore, dopo fosse annunciato con maggiore intensità; che quel che prima si celebrava con assoluta certezza, dopo fosse adorato con maggior zelo? Questo, ritengo, e null’altro, la Chiesa, scossa dalle innovazioni degli eretici, ha sempre ottenuto attraverso i suoi decreti conciliari: quel che prima aveva ricevuto dagli ‘antenati’ solo attraverso la tradizione, ora lo ha depositato per iscritto anche per i ‘posteri’. Lo ha fatto sintetizzando tanto in poche parole e, spesso, al fine di una più chiara comprensione, esprimendo il contenuto immutato della fede con nuove definizioni” (“Commonitorium”, cap. 36).
Questa convinzione autenticamente cattolica trova espressione nella definizione del secondo concilio di Nicea del 787, che così afferma: “In tal modo, procedendo sulla via regia, seguendo in tutto e per tutto l’ispirato insegnamento dei nostri santi padri e la tradizione della chiesa cattolica riconosciamo, infatti, che lo Spirito santo abita in essa noi definiamo …”; seguono poi i principi centrali del decreto conciliare. È particolarmente importante anche l’ultimo dei quattro anatemi: “Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema”.
Tenendo un concilio, la Chiesa realizza la sua natura più profonda. La Chiesa – e dunque il concilio – trasmette vivendo e vive trasmettendo. È la tradizione la vera realizzazione della sua essenza.
L’elemento decisivo dell’orizzonte interpretativo è la trasmissione autentica, non lo spirito del tempo. Ciò non può assolutamente significare rigidità e immobilità. Lo sguardo all’oggi non deve venir meno. Sono le domande attuali quelle che esigono una risposta. Ma gli elementi che compongono la risposta non possono che provenire dalla Rivelazione divina, offerta una volta e per sempre, che la Chiesa ci trasmette autenticamente nei secoli. Tale trasmissione costituisce dunque anche il criterio al quale deve rifarsi ogni nuova risposta se vuole essere vera e valida.
Di queste considerazioni fondamentali occorre tener conto anche nell’interpretazione dei testi conciliari più dibattuti.
Si tratta principalmente delle Dichiarazioni “Nostra aetate” e “Dignitatis humanae”, che hanno suscitato obiezioni da parte della Fraternità san Pio X. Quest’ultima accusa il concilio di avere errato nella fede. A questo, però, bisogna ribattere con decisione.
È del tutto evidente che un testo conciliare formulato nel 1965, che all’epoca andava inteso a partire dalla situazione in cui era nato e sulla base dell’intenzione delle sue affermazioni, quando viene proclamato nel mondo d’oggi deve necessariamente essere contemplato nell’orizzonte interpretativo attuale.
Prendiamo ad esempio “Nostra aetate”. Chi accusa oggi tale testo di indifferentismo religioso, dovrebbe leggerlo alla luce di “Dominus Jesus”, il che farebbe escluderebbe categoricamente qualsiasi malinteso nel senso di indifferentismo o di sincretismo. Con slanci sempre nuovi, il magistero postconciliare attraverso i suoi chiarimenti ha tolto le basi a qualsiasi interpretazione errata dei testi conciliari sia in senso tradizionalista sia in senso progressista.
Dopo queste osservazioni fondamentali, vorrei ora spiegare un altro principio interpretativo che risulta dalla storicità di ogni testo. Così come tutti i testi – e quindi anche tutti i testi magisteriali – nascono da una particolare situazione storica e sono determinati anche dalla situazione concreta del loro concepimento, essi vengono anche proclamati con una precisa intenzione in un preciso momento storico.
Non dobbiamo perdere di vista questo principio quando oggi ci accingiamo ad interpretare uno di detti testi.
Bisogna poi tenere anche conto del fatto che l’orizzonte ermeneutico così determinato si sposta, si modifica, nella stessa misura in cui l’interprete attuale è distante dal momento in cui il testo è nato. Questo significa che le interpretazioni passate, a seconda di quanto sono lontane nel tempo, possono avanzare più o meno solo pretese di interesse storico. Questa consapevolezza è particolarmente importante quando si tratta di testi del ministero magisteriale e pastorale della Chiesa.
Si potrebbe subito obiettare che la verità, specialmente quella della rivelazione divina, è una verità eterna e immutabile, che non può subire alterazioni. Certamente questo non può essere messo in discussione. “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, dice il Signore.
È però altrettanto vero che il riconoscimento di questa verità eterna da parte dell’uomo assoggettato al cambiamento storico è soggetto al cambiamento proprio come l’uomo che riconosce. Vale a dire che, a seconda del momento storico, l’uno o l’altro aspetto della verità eterna viene colto, riconosciuto e compreso in modo nuovo e più profondo.
Proprio per questo, anche un testo conciliare, se contemplato nel contesto spirituale, culturale, ecc. e alla luce del nostro tempo, può essere compreso in modo nuovo, più profondo e più chiaro.
Nella misura in cui terremo conto di tale concetto nei nostri sforzi di intendere gli insegnamenti del Vaticano II oggi e per oggi, riusciremo a superare diversi conflitti che si pongono in merito.
Naturalmente l’interpretazione del concilio è compito del dibattito teologico, che se ne occupa da sempre. Di fatto, i risultati di questo dibattito hanno infine trovato spazio nei documenti del magistero postconciliare.
Alla luce di quanto detto, sarebbe un errore grave non tenerne conto nell’interpretazione del concilio per il tempo attuale e comportarsi come se il tempo si fosse fermato al 1965.
Vorrei illustrare quanto detto con tre esempi che mi sembrano essere particolarmente caratteristici.
A questo proposito saltano subito all’occhio la Dichiarazione “Nostra aetate” sul rapporto tra la Chiesa e le religioni non cristiane e il Decreto “Unitatis redintegratio” sull’ecumenismo. Da molto tempo i due documenti sono soggetti a critiche da parte dei cosiddetti ambienti tradizionalisti. Entrambi vengono accusati di mancanza di chiarezza e decisione nel sostenere la verità, ovvero di sincretismo, relativismo e indifferentismo. Al momento dell’approvazione dei testi era difficile prevedere che avrebbero potuto offrire appigli a simili critiche.
Era stata l’esperienza del totalitarismo della prima metà del XX secolo e delle persecuzioni vissute insieme a ricordare agli ebrei e ai cristiani – cattolici, protestanti e ortodossi – le cose fondamentali che avevano in comune. L’impegno a superare le antiche ostilità e per una nuova convivenza era generalmente percepito come un dovere imposto dal Signore. Letti in questo spirito e su questo sfondo, i due documenti hanno dato impulsi fortissimi.
Poi però si voltò pagina. Solo pochi decenni dopo la conclusione del concilio venne sviluppata, soprattutto nell’area anglosassone, una visione teologica delle religioni non cristiane che parlava di diverse vie di salvezza per l’uomo, più o meno equivalenti, e che quindi metteva in dubbio la missione cristiana. L’annuncio della Chiesa, si riteneva, doveva essere volto a far sì che un musulmano diventasse un musulmano migliore, e così via. Fu il britannico John Hick, a diffondere, più o meno a partire dal 1980, questo tipo di idee. Di fatto, su questo nuovo sfondo l’una o l’altra formulazione di “Nostra aetate” poteva essere fraintesa. Inoltre, “Nostra aetate” “parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata” (Benedetto XVI, vol. VII/1, Prefazione).
A questo punto è necessario ricordare in modo particolare il passo di “Nostra aetate” che si riferisce all’islam. Il testo non viene accusato solo di indifferentismo. Va anzitutto osservato, a tale riguardo, che il decreto certamente “cum aestimatione quoque muslimos respicit“, ma assolutamente non l’islam. Non s’intende il suo insegnamento, bensì le persone che lo seguono. Il fatto che nelle formulazioni successive dietro a parole uguali o simili si nasconda una comprensione molto diversa è evidente per l’islamologo d’oggi. A questo passo del documento, che intende preparare la via per un dialogo pacifico, non andava applicato il rigido metro della terminologia dogmatica, per quanto un impegno in tal senso sarebbe stato auspicabile. Di fatto, il testo è stato pubblicato nel 1965.
Per la nostra comprensione attuale, il problema assume invece un aspetto del tutto diverso: è l’islam a essere profondamente cambiato nell’ultimo mezzo secolo, come dimostra il grado di aggressività e di ostilità islamica nei confronti dell’Occidente “cristiano”. Sullo sfondo dell’esperienza dei decenni trascorsi dal nine eleven un decreto di questo genere dovrebbe dire tutt’altro.
Ai fini di un’ermeneutica conciliare seria, dunque, non ha proprio senso accanirsi e polemizzare contro il testo del 1965: il decreto ha ormai solo un interesse storico.
È stato allora il magistero, con la Dichiarazione “Dominus Jesus”, a togliere le basi a ogni indifferentismo e a indicare in modo inequivocabile Gesù Cristo come unica via per la salvezza eterna e la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica di Gesù Cristo come unica comunità di salvezza per ogni uomo.
Qualcosa di simile è accaduto attraverso i diversi chiarimenti del significato del famoso “subsistit in”. Se nel discorso ecumenico c’erano state affermazioni che potevano suscitare l’impressione che la Chiesa cattolica fosse solo uno tra i molteplici aspetti della Chiesa di Gesù Cristo, l’interpretazione di “subsistit in“, anch’essa confermata da Dominus Jesus, ha eliminato ogni malinteso. Un altro “scandalum” è rappresentato per molti dalla Dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà di religione. Anch’essa è accusata di indifferentismo, tradimento della verità della fede e contraddizione al “Syllabus errorum” del beato Pio IX.
Il fatto che così non è, appare evidente se si applicano i principi interpretativi formulati sopra: i due documenti sono nati in un contesto storico diverso e devono rispondere a situazioni differenti.
Il “Syllabus errorum” – come già in precedenza l’Enciclica “Mirari vos” di Gregorio XVI – era teso alla confutazione filosofica della pretesa di assolutezza della verità, specialmente della verità rivelata attraverso l’indifferentismo e il relativismo. Pio IX aveva sottolineato che l’errore non ha nessuna ragione rispetto alla verità.
“Dignitatis humanae” invece parte da una situazione completamente diversa, creata dai totalitarismi del XX secolo che, attraverso la costrizione ideologica, avevano denigrato la libertà dell’individuo, della persona. Inoltre, i padri del Vaticano II avevano dinanzi agli occhi la realtà politica del loro tempo, che in condizioni diverse, ma non in minor misura, minacciava la libertà della persona. Per questo al centro di “Dignitatis humanae” non c’era la – indiscussa – intoccabilità della verità, bensì la libertà della persona da ogni costrizione esterna per quanto riguarda la convinzione religiosa.
A tale proposito, è bene assicurare ai sostenitori della “assoluta a-storicità della verità” che nessun teologo o filosofo dotato di buonsenso parlerebbe di mutevolezza, di volubilità della verità. Ciò che invece cambia, che è sottoposto a mutamento, è il riconoscimento, la consapevolezza della verità da parte dell’uomo, il quale cambia totalmente. Occupa qui un posto di eccellenza la professione di fede del Popolo di Dio, che Paolo VI ha proclamato nel momento culminante della crisi postconciliare.
In sintesi: Il “Syllabus” difendeva la verità, il Vaticano II la libertà della persona.
È difficile scorgere una contraddizione tra i due documenti se vengono contemplati nel loro contesto storico e intesi secondo quelle che erano allora le intenzioni delle loro affermazioni.
Per di più, ai fini di un’interpretazione corretta, oggi bisogna tener conto di tutto il magistero postconciliare.
Infine un accenno va fatto anche all’ottimismo mondano, evidentemente un po’ ingenuo, che aveva animato i padri conciliari durante la redazione di “Gaudium et spes”.
Appena terminato il concilio divenne tuttavia evidente che questo “mondo” stava vivendo un processo di secolarizzazione sempre più rapido, che spingeva la fede cristiana, e la religione in generale, ai margini delle società.
Bisognava pertanto ridefinire il rapporto tra la Chiesa e “questo mondo” – come lo chiama Giovanni – e completare, interpretare, il testo conciliare, per esempio nel senso dei discorsi di Benedetto XVI durante la sua visita in Germania.
Ciò significa però che una interpretazione attuale del concilio, che faccia emergere l’essenza dell’insegnamento conciliare rendendolo fecondo per la fede e l’insegnamento della Chiesa del presente, deve leggere i suoi testi alla luce di tutto il magistero postconciliare e intendere i suoi documenti come attualizzazione del concilio.
Come evidenziato all’inizio: il Vaticano II non è il primo né sarà l’ultimo concilio. Ciò significa che le sue dichiarazioni magisteriali devono essere esaminate alla luce della tradizione, vale a dire interpretate in modo tale da poter individuare, rispetto ad essa, un ampliamento, un approfondimento o anche una precisazione, ma non una contraddizione.
Trasmissione, tradizione, non implica la semplice consegna di un pacchetto ben sigillato, bensì un processo organico, vitale, che Vincenzo di Lerins paragona alla progressiva trasformazione della persona da bambino a uomo: è sempre quella stessa persona, che percorre le fasi dello sviluppo.
Ciò vale per gli ambiti della dottrina e della struttura sacramentale-gerarchica della Chiesa, ma non per la sua azione pastorale, la cui efficacia continua a essere determinata dalle esigenze delle situazioni contingenti del mondo che la circonda. Naturalmente anche qui è da escludere qualsiasi contraddizione tra la pratica e il dogma.
È un “processo di recezione attiva”, che deve essere svolto anche in ragione dell’unità in seno alla Chiesa. Di fatto, ci sono anche casi – non nell’ambito delle verità della fede, ma in quello della morale – in cui oggi può essere opportuno quello che ieri era proibito.
Se per esempio prima del Vaticano II il divieto assoluto di cremare i morti aveva come conseguenza la scomunica del cattolico che aveva scelto la cremazione, in un tempo in cui la cremazione ha perso il suo aspetto di protesta contro la fede nella risurrezione dai morti è stato possibile levare tale divieto.
Ciò vale in modo analogo nel caso del divieto degli interessi nel XV-XVI secolo, quando i francescani e i domenicani – e più precisamente a Firenze – si sfidavano in aspri duelli dai pulpiti, dove i contendenti si accusavano reciprocamente di eresia a causa dell’entità del tasso d’interesse consentito e minacciavano l’avversario di bruciare nelle fiamme dell’inferno. Si trattava di un problema morale, nato con i cambiamenti delle riforme economiche e poi diventato di nuovo obsoleto.
Bisogna andarci piano, dunque, anche nel dibattito sul Vaticano II e la sua interpretazione, che deve a sua volta avvenire sullo sfondo della situazione mutata nel tempo. A tale riguardo il magistero dei papi postconciliari ha dato contributi importanti, di cui però non si è tenuto sufficientemente conto, mentre bisognerebbe prenderne atto proprio nel dibattito attuale.
Poi, in questa discussione, è bene ricordare il monito alla pazienza e alla modestia di san Paolo a Timoteo (2 Tim 4,1s).
Purtroppo tali confronti continuano ad assumere forme che mal si accordano con l’amore fraterno. Dovrebbe essere possibile conciliare lo zelo per la verità con la correttezza e l’amore del prossimo. In particolare, sarebbe opportuno evitare quella “ermeneutica del sospetto” che accusa l’interlocutore in partenza di concezioni eretiche.
In sintesi: Le difficoltà nell’interpretazione dei testi conciliari non derivano soltanto dal loro contenuto. Bisognerebbe tenere in considerazione sempre più il modo in cui si svolgono le nostre discussioni a riguardo.
Non si tratta tanto di avere o no ragione, quanto di essere nella Verità senza sofismi... E che si riescano finalmente a riconoscere i sofismi nonché a chiamare gli errori col loro nome...
RispondiEliminaIeri all'Angelus il Pontefice doveva parlare della libertà «sociale e religiosa» citando Hong Kong (testo consegnato ai giornalisti) ma ha taciuto. Il sospetto di pressioni dalla Cina.
RispondiEliminaAnocra una volta non c'è "partita": La Verità esposta da Mons Viganò risplende chiara anche nei confronti di Magister e di questo ne dovrebbere prendere atto.
RispondiEliminaGrazie a monsignor Viganò che usa le parole come spada che divide fino al midollo la verità dall'errore. Non mi dilungo nella lettura del cardinale perchè colma di sofismi, le "intepretazioni passate hanno un mero valore storico" di qualcosa che è mutato,il Sillabo era mirato " alla confutazione della verità attraverso...", manca almeno una parola "condanna della confutazione", "cambia la consapevolezza della verità"... e quando mai? Gesù e gli Apostoli erano meno consapevoli del cvII ?? Dobbiamo guardare "al magistero post-concilio" per capire il concilio?
RispondiEliminaCitare numeri e citazioni per affermare una verità è falso. Gesù fu lasciato solo ed era la Verità.
Cadono i veli dei più pericolosi nemici di Cristo? Speriamo ciò non sia in foro interno pure, si possono ancora pentire se non altro.
Purtroppo leggo in ritardo e non ho letto tutto: sullo Spirito Santo la cui presenza è garantita alla Chiesa. Se la Chiesa da tempo s'era fatta chiesa certamente era garantita da ben altri spiriti.
RispondiEliminaSui rimandi ad altri Concili, Pontefici e Santi bisogna accertarsi della loro consistenza, per assurdo posso fare un rimando alla Summa Theologiae di San Tommaso per la congiunzione 'et'.
I così detti tradizionalisti non si sono svegliati l'altro ieri, erano in allerta dalla convocazione del CVII, anzi dalla morte di Pio XII erano già sul chi va là.
Nel corposo catechismo uscito dalla costola del CVII non ha trovato corpo la menzione di san Pio X, certo riferimento non al passo dei tempi dell'aggiornamento.
L'eresia ariana lanciò l'attacco più duro e pericoloso al cuore del cristianesimo. Oggi le deviazioni sono molte e riguardano gli aspetti i più vari della dottrina. Tuttavia non riescono a scalfire l'essenza del cattolicesimo, perchè esse non sono assunte in alcun documento ufficiale del Magistero. La dottrina cattolica nonostante tutto resta ancora oggi integra.
RispondiEliminaHo la certezza che la Verità, che è lo stesso Dio, alla fine trionferà.
OT - ha accompagnato molte colonne sonore della nostra vita.
RispondiEliminaScrive Cristina Siccardi:
E' tornato alla Casa del Padre l'illustre Maestro Ennio Morricone. Era credente nella Santissima Trinità e le sue musiche denotano un sentire dal tocco soprannaturale. Immenso il suo amore per la moglie Maria: si incontrarono nel 1950 e sono sempre rimasti uniti in Dio... oltre la morte. Artista geniale e mondiale, eppure umilissimo. I suoi funerali saranno strettamente privati: uno stile, anche questo, che lo contraddistingue per la nobiltà d'animo.
Diceva che in Paradiso non sapeva se allearsi con Beethoven o con Mozart... Grazie Padre del Cielo per aver mandato in terra Ennio Morricone. La sua magistrale musica fa parte delle nostre vite.
Il suo necrologio:
"Io Ennio Morricone sono morto. Lo annuncio così a tutti gli amici che mi sono stati sempre vicino ed anche a quelli un po' lontani che saluto con grande affetto. Impossibile nominarli tutti. Ma un ricordo particolare è per Peppuccio e Roberta, amici fraterni molto presenti in questi ultimi anni della nostra vita. C'è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare. Saluto con tanto affetto Ines, Laura, Sara, Enzo e Norbert per aver condiviso con me e la mia famiglia gran parte della mia vita. Voglio ricordare con amore le mie sorelle Adriana, Maria e Franca e i loro cari e far sapere loro quanto gli ho voluto bene. Un saluto pieno intenso e profondo ai miei figli, Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni, mia nuora Monica, e ai miei nipoti Francesca, Valentina, Francesco e Luca. Spero che comprendano quanto li ho amati. Per ultima Maria (ma non ultima). A Lei rinnovo l'amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio".
Mic, manca il link alla citazione del tuo primo articolo.
RispondiEliminaApprezzo la tua cura nell'inserire molti link di riferimento. Il problema è che si tratta, come tu stessa dici, di un discorso complesso e articolato. E forse dovresti ogni volta essere più esplicita nei dettagli. Uno strumento come questo si presta meglio a testi brevi e semplificati.
Un particolare:dopo la morte del Venerabile Pio XII, se non ricordo male, un medico lo fotografò subito dopo il suo ultimo respiro. Fu uno scandalo. Ora riandando sempre di nuovo a quei tempi ormai lontani è certo che nessun medico, professorone che fosse, avrebbe potuto osare tanto allora, se la curia non fosse stata già inquinata.
RispondiElimina“Dignitatis humanae” invece parte da una situazione completamente diversa, creata dai totalitarismi del XX secolo che, attraverso la costrizione ideologica, avevano denigrato la libertà dell’individuo, della persona".
RispondiEliminaIl cardinale Brandmüller scrive come se prima del Concilio non avesse avuto nessuna trattazione importante sulla libertà religiosa. Però, la libertà religiosa appare nella Dichiarazione universale dei Diritti umani di 1948. Qui sembra che la cosa non è stata propriamente risolvere un problema creato dai totalitarismo del Secolo XX ma di assorbire la soluzione della Dichiarazione universale dei Diritti umani. L'ex-senatore Marcelo Pera, nel libro "Diritti umani e Cristianesimo. La Chiesa alla prova della modernità" non tratta di questo argomento?
Impressiona nel testo del cardinale la presentazione del Concilio Vaticano II in piena e perfetta continuità con tutti i Concili. In quanto il Vaticano II non usa il linguaggio definitorio definitorio degli altri Concili e nemmeno un linguaggio chiaro. Per linguaggio definitorio non se intende appena le definizione dogmatiche. Ad esempio la dottrina della collegiatà episcopale era stata definita come meno probabile prima del Concilio. Non abbiamo nemmeno una definizione di pastorale. Le difficoltà di interpretazione di uno testo se devono al linguaggio che hanno usato in questo testo. In questo senso non se può dire che gli altri Concili presentano delle difficoltà interpretative. Questi possono avere delle difficoltà se letti alla luce della filosofia moderna o della Nouvelle Théologie. Qui il problema non sarebbe dei Concili...
In quello che dice rispetto alla Dominus Iesus, lei comincia con il Credo niceno senza il Filioque. Allora se abbiamo il bisogno di leggere qualcuno documenti del Concilio alla sua luce, non dobbiamo riconoscere che è mancato qualcosa al Concilio? La Dominus Iesus afferma che la Chiesa di Cristo sussiste única e pienamente nella Chiesa Cattolica. Questo non risolve il problema del "subsistit in" perchè mai se è trattato nella storia del Cristianesimo di parlare di questa relazione come se avesse due chiese. Ora, la Chiesa è il corpo del qualle Cristo è la testa. Come rimane questo intendimento nel "subsistit in"? Sarebbe la Chiesa è il corpo del qualle Cristo è la testa e questo corpo sussiste pienamente nella Chiesa Cattolica. All'interno della Chiesa vediamo oggi tantissime eretici. Vediamo chiaramente che l'appartenenza alla Chiesa non gli santifica. Quindi, come gli elementi di santificazione possono santificare al di fuori della Chiesa...?
La grande questione dopo il Concilio è la relazione tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Conciliare: la Chiesa Cattolica sussiste pienamente nella Chiesa Conciliare?
“Diritti umani e cristianesimo” di Marcelo Pera
RispondiEliminaUna lucida analisi filosofica per uscire dalla confusione
in cui versa il dibattito tra cristianesimo e contemporaneità
http://www.vitanuovatrieste.it/marcello-pera-a-trieste-su-diritti-umani-e-cristianesimo/
La cortese presa di distanze di Ratzinger dalle nuove tesi di Pera - La lettera inedita di Benedetto XVI al filosofo: non concorda con la teoria secondo la quale la Chiesa avrebbe subito un'involuzione riconoscendo i moderni diritti umani.
RispondiEliminahttps://www.google.com/amp/s/www.lastampa.it/vatican-insider/it/2018/05/07/news/span-id-u16573611071iwg-la-cortese-presa-di-distanze-di-ratzinger-dalle-nuove-tesi-di-pera-span-1.34014517/amp/
Dice mons. Viganò: «...chi è caduto in questo inganno l’ha fatto perché, amando la Chiesa e il Papato, non poteva persuadersi che in seno al Vaticano II una minoranza di organizzatissimi congiurati potesse usare un Concilio per demolire, dal di dentro, la Chiesa...»
RispondiEliminaIn breve: l'autoconvocata tifoseria papista credeva che l'ubbidienza a Pietro consistesse nell'adularlo, e che l'ubbidienza alla Chiesa consistesse nello sforzarsi di pensare in «ermeneutica di continuità», cioè di ingannare sé stessi, col bonus aggiunto di etichettare «lefebvriano» o «fascista» chiunque non partecipasse alla claque. Solo che non potevano troppo a lungo sostenere che "la virtù sta nel mezzo", cioè a metà strada tra la verità e l'errore...
Fra parentesi: sarà assai interessante vedere che posizione prendono le varie frange della Tradizione, solitamente molto cercatrici di pelo nell'uovo. Intanto mons. Williamson, come già ricordato qualche giorno fa, apprezza e sostiene mons. Viganò e mons. Schneider.
invito ad una riflessione...magari in altra sede.
RispondiEliminaPuò un vescovo esprimersi in questi termini? Come se Donatore e dono fossero due cose diverse!!! A tanto è arrivata, a tanto i basso, la fede eucaristica?
Il digiuno eucaristico
Attenzione a non lasciarsi catturare dal falso zelo! Questo tempo ci impone un digiuno eucaristico che per noi costituisce una novità, mentre è purtroppo una triste necessità in tante regioni del mondo in cui mancano i sacerdoti o non vi sono le condizioni per celebrare la Messa. Stiamo assistendo a una «domanda di Eucaristia» che può esserci di conforto (la CEI ha opportunamente emanato a questo proposito utili indicazioni). Quasi sempre la richiesta esprime un desiderio che è frutto di una vita spirituale intensa. Ma l’atteggiamento di alcuni, senz’altro in buona fede, ci fa comprendere che vi sono degli aspetti importanti da mettere a fuoco.
Nella richiesta troppo insistente dell’Eucaristia non di rado c’è una fede sincera… ma non matura. Si dimentica che la salvezza viene dalla fede e non dalle opere, benché sante, sicché ci si affida alle buone pratiche senza confidare in Dio, al punto da stimare i suoi doni più di Dio stesso. Come bambini, si afferra avidamente il dono senza ascoltare le parole amorose di chi lo porge. Si è concentrati più sul proprio grido che sul volto di Colui che si china per ascoltarlo. Questo ci dice che c’è un grosso lavoro da fare per aiutare i fedeli a cogliere il senso e la profondità del Mistero eucaristico e si possono sperare grandi frutti da una catechesi ben fatta. Intanto però occorre ricordare a tutti che il Signore è realmente presente con il suo Spirito tra coloro che sono riuniti nel suo Nome; è presente nella Parola e continua realmente a «nutrire» chi la legge e la medita; il Signore vivo si fa prossimo nel povero e nei bisognosi. Il Signore è nel desiderio stesso dei sacramenti. Ma soprattutto ha la sua dimora in colui che osserva i suoi comandamenti e condivide i suoi sentimenti, senza i quali neppure la comunione frequente può portare frutti di vita eterna.
Si tratta di mons. Libanori, vescovo ausiliare di roma
Mons. Viganò si difende bene e ribatte colpo su colpo. Certo resta isolato. Ma è normale, a ben vedere, data la devastazione quasi totale alla quale è ridotta la Chiesa. Sicuramente sono in migliaia i chierici che la pensano come lui, però al momento tacciono.
RispondiEliminaM.
Grazie Gianni, ho messo il link che mi era sfuggito.
RispondiEliminaÈ vero che abbiamo a che fare con questioni complesse che richiedono analisi articolate e spesso rivelano collegamenti inaspettati e insospettati che permettono sintesi più precise utili al ripareggiamento di verità monche velate deformate o addirittura oltrepassate....
L'impegno maggiore è quello di fornire le ragioni, rigorosamente fondate nel magistero perenne, delle conclusioni raggiunte.
Nel corso degli anni e col contributo di molti sono stati ampiamente individuati illustrati e ribaditi i punti più controversi.
Purtroppo la loro applicazione è vanificata dalla 'pastorale' imperante e dalla difficoltà tuttora quasi insormontabile di portare avanti alternative efficaci ostacolate al massimo grado e in ogni diocesi (penso, ad esempio, ai Centri-Messa e relativa catechesi da promuovere). Mentre l'ostacolo alla divulgazione dei nostri contenuti sta nel fatto che (lo vediamo ancor oggi) essi sono ignorati o fraintesi, non solo dai media di regime che li etichettano come 'attacchi' per delegittimarli senza mai entrare nel merito, ma persino dai siti conservatori che alla fine si rivelano conservatori del concilio... magari disposti a riconoscere alcune pecche ma non di risalire alle radici. Inutile (almeno finora) aver detto e ripetuto che senza risalire alle radici dei problemi non è possibile trovare le soluzioni.
Mi sforzerò, quindi, di essere più selettiva operando sintesi più essenziali per ogni tematica....
Il fatto è che i link ai precedenti pertinenti che inserisco sono utili e impegnativi per voi che li dovete andare a consultare; mentre ogni nuova sintesi esplicitata è impegnativa per me, che poi non ho tutto il tempo e l'energia richiesti... Ma, con l'aiuto del Signore, spero di riuscirci.
RispondiEliminaVengo un attimo a riferirmi alla valutazione qui su richiamata del S. Magister secondo cui mons. Viganò avrebbe accusato Benedetto XVI d’aver “ingannato” la Chiesa intera per l'evidenza palmare, lui asserisce, di un riferimento a Ratzinger circa il far credere che il Concilio Vaticano II sia da leggere non più che in continuità con la vera dottrina "di sempre" (sic). Ebbene, mi limito a ricordare che mons. Viganò, nel suo rigettare questa attribuzione, potrebbe a buon diritto far anche valere le valutazioni sui testi conciliari quali Benedetto XVI le diede, non, all'inizio, ma verso la fine del suo Pontificato, quando definì come niente meno che fallimentare il magistero straordinario di quest'ultimo concilio. Di lì si ebbe subito la clamorosa fronda di Mueller, che spinse e, apparentemente ottenne, di riportare Benedetto XVI da una postura autorevole di critica a posteriori di quegli eventi, al riposizionamento in una mera testimonianza storica di come originariamente lui stesso invece e li visse, da giovane, quei medesimi fatti, e, per come allora gliene fu poi appena dato di così restituirne, nel dunque ultimissimo suo discorso che poi fece a noi preti romani: quello stesso, perciò, a cui in modo non del tutto quindi pertinente finisce poi adesso per richiamarsene il medesimo dott. Magister.
RispondiEliminaSenza voler dunque per nulla reinterpretare o tanto meno integrare le nitide considerazioni di mons. Viganò, avanzo la fondata ipotesi che tra l'altro egli, invece, non lo abbia allora dunque dimenticato, quell'esito autentico del pensiero maturo di Benedetto XVI quale per altro oggetto lo verrà purtroppo ad essere, sinora, d'una postuma congiura del silenzio entro poi dei successivi dibattiti.
Sembra che non basta Mons. Viganó rispondere Sandro Magister. Adesso se deve rispondere anche il cardinale Brandmüller.
RispondiEliminaAttenzione ai pensieri che si ripiegano su se stessi senza più seguire la traccia, il solco del 'santo vero'.
RispondiEliminaSarebbe come continuare a mangiare quando non si ha più fame, ma si vuol gustare e ri/gustare un certo sapore.
La decadenza si manifesta solitamente con questo attorcigliarsi delle forme, con l'espandersi del medesimo motivo.
La masturbazione ha queste caratteristiche, mentale o erotica che sia.
Costumi lassi portano a pensieri lassi. Torniamo alla disciplina della 'mens sana in corpore sano' specchio della Fede sana de 'Ora et Labora'.
Da questa chiesa lassa non possiamo aspettarci nessuna scappatoia verso un vita dignitosa espressione della Fede degna.
Ognuno in ogni istante è davanti alla Vita e alla Morte, al Bene ed al Male, al Vero e al Falso, al Signore Gesù Cristo o al Nemico, dalla maggior parte degli uomini di chiesa non possiamo nè dobbiamo aspettarci più nulla. La Chiesa può essere ricostruita solo da chi, consacrato e non, si impegna, davanti alla Santa Trinità e davanti a se stesso,a combattere la 'buona battaglia' semplicemente col sì sì, no no.
Impariamo a riconoscere dov'è la Vita e dove le sue contraffazioni mortali.
Il CVII è stato una sega mortale.
Come il Concilio Vaticano II può cominciare con Giovanni XXIII dichiarando "che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, sopratutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi e alla fine costatare con il cardinale Brandmüller:
RispondiElimina"Appena terminato il concilio divienne tuttavia evidente che questo “mondo” stava vivendo un processo di secolarizzazione sempre più rapido , che spingeva la fede cristiana, e la religione in generale, ai margini delle società"".
Difficile mostrare con i fatti storici questo cambiamento dopo il fine del Concilio. Questo era una realtà già all'inizio del Concilio. Allora abbiamo un Concilio che se è cominciato con una visione di un "mondo" religioso e che al suo fine vede un mondo diventato secolarizzato e contrário alla religione. Pio XII nella Lettera Enciclica Summi Pontificatus (20 anni prima) già mostrava che la società viveva un forte processo di secolarizzazione che spingeva il Cristianesimo alla margini della società. Questo aveva le sue radice nella separazione tra gli Stati e la legge naturale e le leggi di Dio. Come un processo come questo non viene preso nemmeno sul serio in Concílio ecumenico? La realtà della secolarizzazione delle società vienne negata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura. Inoltre questo branno dal discorso di apertura del Concilio gli abbiamo parlato qui tantissime volte. Questo branno dell'apertura non afferma semplicemente che il Concilio non farà nessuna condanna, afferma che il Concílio applicherà la misericordia all'errore. Affermare che non se farà nessuna condanna e affermare che nel luogo delle condanne se farà l'uso della misericordia è applicare la misericordia all'errore. Così se Pio IX afferma che l'errore non c'e diritti il Concilio gli ha conferito misericordia.
Risulta scontato e un po' stucchevole rivangare tutte le incongruenze del "concilio", quando poi c'è chi in effetti riesce comunque a davvero recuperare e salvare ognuna delle singole questioni sollevate, come si è visto con Brandmuller, con i suoi buoni argomenti: ma, il punto che ha sollevato Viganò è ben più imponente, e riguarda anzi la sistematica e pervasiva fluidità ermeneutica dei dettati conciliari che li rendono in definitiva, più che fallibili, proprio fallimentari. Ma come è stato possibile questo? Mi sembra che Viganò lo suggerisca, ad un uditorio che non è pronto a recepirlo: negli asserti magisteriali immediatamente precedenti gli anni di quest'ultimo concilio già si presentava, sorprendentemente, la dicotomia tra un livello personale di chiarezza espositiva del papa Pio XII, specie nei suoi discorsi meno solenni, e un livello invece inevitabilmente farraginoso in diversi passaggi delle sue Encicliche, dovuto alla sua titubanza a reagire alle prese di posizione delle Commissioni, prima biblica e poi liturgica, che in quegli anni stavano imponendo, da Roma, un cambio di paradigma alla Chiesa. Una tale situazione di stallo non configurò per nulla un esito semmai ereticale, ma bensì quella esitazione compromissoria che tecnicamente, con rispetto parlando, ravvisa in senso quanto più nobile quella che gli antichi avrebbero chiamato "Apostasia" (discessio, defezione). Per fare un esempio non da poco, nella Divino Afflante Spiritu si parla sistematicamente della Vulgata, dicendone tra l'altro che fosse autentica in un senso solo normativo, ma con questo si faceva riferimento solo alla edizione usuale, corrente, inveterata, della sacra Vulgata, e implicitamente lo si faceva al fine giustissimo di realizzare il mandato del concilio tridentino di pervenire a pubblicare l'edizione finalmente critica, allora della Vulgata stessa. Ma cosa si è universalmente recepito e interpretato di tali asserti? Appunto, tutto al contrario, che la Vulgata come tale originariamente non avesse avuto valore critico di fonte della Rivelazione, e questo allora sulla scia e a conferma della temerarie posizioni della Commissione biblica che in realtà, timidamente, il papa avrebbe inteso correggere...
RispondiEliminaPerciò, forse, nel suo ultimo discorso ai preti romani papa Benedetto XVI, che da poco aveva chiaramente qualificato come fallimentari gli asserti del Concilio, poteva sembrare aver da ciò receduto, come intenderebbe S. Magister, e con lui i più: ma, in realtà, quegli poneva invece una enigmatica e allusiva distinzione tra un "concilio dei padri" e un "concilio mediatico" che va ora decodificata. Non è possibile che abbia stoltamente inteso che il concilio mediatico che si impose sia stato semplicemente l'influsso esteriore della comunicazione massiva. Questo strano "concilio mediatico" altro non era che la macchina organizzativa predisposta, e già da anni preparata nella curia stessa, a dunque "mediare" il lavoro assembleare dei padri. Perciò il papa Benedetto in quell'ultimo discorso probabilmente non ha affatto voluto rinnegare la sua previa denuncia del Concilio quale fallimentare, quanto piuttosto diplomaticamente insinuare che il problema di quel Concilio, che ci fu eccome, non ristette tanto nei disordini dei lavori spontaneamente assembleari (il "concilio dei Padri"), quanto piuttosto nella fisionomia collegiale stessa del Concilio, a partire, in definitiva, da una situazione senza precedenti storici che aveva configurato uno stallo, per così dire, sedeprivazionista, già in partenza e, in precedenza.
RispondiEliminaPerciò se ne conferma che risulta vano insistere ad accanirsi contro le pretese deviazioni dottrinali in corso d'opera, che ad un senso davvero ereticale in definitiva ne vennero via via sistematicamente prevenute dalla solerzia dei Padri. Mentre che però e ne resta, purtroppo e anzi confermato, che nonostante ed entro quella stessa solerzia il vizio di partenza di quel Concilio non adeguatamente allora colto e avversato avrà ugualmente infine prodotto quella nota esiziale di confusione ermeneutica comunque quindi mutuata dalle previe distorsioni della Commissioni preparatorie stesse. Come è evidentissimo intanto per la Sacrosanctum concilium, ma in obliquo anche poi per il resto dei risultati.
Per questo tipo di lettura si può capire che non è poi così necessario contrapporre l'intento apologetico di un Brandmuller rispetto alla forte e innovativa presa di posizione di mons. Viganò, e anzi glielo si potrebbe coordinare.
Il diavolo apprezza gli atei, predilige gli agnostici, ha un debole per gli eretici, molto gradisce gli scismatici, tifa per i pagani, si sente molto affine ai credenti non praticanti, ma "impazzisce" per i cattolici tiepidi.
RispondiEliminaLorenz inutile difendere la versione parzialmente riveduta e corretta della senescenza di Ratzinger, Monsignor Viganò la cita come parziale, ed indubbio è, dato che nel 2019 scrisse e precisò che gli ebrei non si devono convertire a Cristo. Gesù invece dice" chi non crede in ME si danna".
RispondiEliminaLorenz, francamente, non credo proprio che le cose stiano come dici tu.
RispondiEliminaRatzinger intendeva parlare di ciò che arrivava alla gente, tramite i media e, quindi, la solita annosa questione della recezione dei testi conciliari.
Inutile stare sempre a girarci intorno.
La questione, per lui, é quella posta tra il "vero" Concilio e quello falso, perché frainteso, anche a causa dei media.
Si torna sempre lì e alla corretta ermeneutica...
Antonio
"Pio XII, specie nei suoi discorsi meno solenni, e un livello invece inevitabilmente farraginoso in diversi passaggi delle sue Encicliche, dovuto alla sua titubanza a reagire alle prese di posizione delle Commissioni, prima biblica e poi liturgica, che in quegli anni stavano imponendo, da Roma, un cambio di paradigma alla Chiesa".
RispondiEliminaIn 1960 il P. Alonso Schökel,S.I. ha pubblicato sulla rivista Cattolica La Civiltà Cattolica un'articolo in che faceva un'interpretazione modernista della Divino Afflante. Nelllo stesso anno i P. Lyonnet, S.I. e P. Zerwick, S.I. hanno pubblicato degli articoli con l'esegesi ereticale. Mons. Antonino Romeo confuta P. Alonso e Mons. Francesco Spadafora confuta gli altri due gesuiti. Il Sant'Uffizio intervienne impone il silenzio alle parti gli ascolta per fare suo giudizio. Il Sant"Uffizio condanna i P. Alonso, P. Lyonnet e P. Zerwick e gli toglie delle cattedre di insegnamento. Dopo l'elezzione di Paolo VI questo Papa restituisce ai condannati le loro cattedre di insegno senza chiedere a loro nessuna rittratazione. Dopo 4 anni il Sant'Uffizio è riformato e diventa la Congregazione per la dottrina della fede. Il P. Lyonnet maestro del cardinale Carlo Maria Martini e dopo il caso da Divino Afflante la Chiesa non ha mai giudicato tra una vera e falsa interpretazione.
Sul problema dell'esegesi, lasciò la parola con Ratzinger:
RispondiElimina“La Costituzione sulla Divina Rivelazione — [la Dei Verbum] — ha cercato di stabilire un equilibrio tra i due aspetti dell’interpretazione, l’ “analisi” storica, e la “compreensione” d’insieme.. Da una parte ha sottolineato la legitimità ed anche la necessità del metodo storico, riconducendolo a tre elementi essenziali: l’attenzione ai generi litterarii; lo studio del contenuto storico (culturale, religioso, ecc.); l’ esame di ciò che si usa chiamare “Sitz im Leben”. Ma il documento del Concilio vuole al tempo stesso mantenere fermo il carattere teologico dell’esegesi e ha indicato i punti di forza del metodo teologico nell’interpretazione del testo; il pressuposto fondamentale sul quale riposa la compreensione teologica della Bibbia è l’unità della Scrittura. A questo pressuposto corrisponde come cammino metodologico “l’analogia della fede”, cioé la compreensione di singoli testi a partire dell’ insieme. Il documento aggiunge altredue indicazzioni metodologiche: la Scrittura è una cosa sola a partire dall’ unico popolo di Dio che ne è stato il portatore attraverso tutta la storia. Conseguentemente, leggere la Scrittura come una unità significa leggerla a partire della Chiesa come la vera chiave d’interpretazione. Da un lato ciò significa che aspetta nuovamente alla Chiesa, nei suoi organismi istituzionali, la parola decisiva nell ‘interpretazione della Scrittura”
“Ma questo criterio teologico del metodo è incompatibilmente in contrasto con l’orientamento metodologico di fondo dell’esegesi moderna; è precisamente, anzi, ciò che l’esegesi tenta di eliminare ad ogni costo. Questa concezione moderna può essere descritta in questo modo: o l’interpretazione è critica, o si rimette all’autorità; le due cose insieme non sono possibili. Compiere una lettura “critica” della Bibbia significa traslaciare il ricorso ad una autorità nell’interpreetazione.”(…).
“Da un tale punto di partenza, il compito assegnato dal Concilio all’esegesi — d’ essere cioé contemporaneamente critica e dogmatica– apare in sé contradittorio; essendo queste due richieste inconciliabili per il pensiero teologico moderno. Personalmente sono convinto che una lettura attenta del testo intero della “Dei Verbum” permeterebbe di trovare gli elementi essenziali per una sintesi tra il metodo storico e l’ “ermeneutica” teologica. Il loro accordo tuttavia non è immediatamente evidente.”
“Cosi la ricezione post-conciliare della Costituzione ha praticamente lasciato cadere la parte teologica della Costituzione stessa come una concessione al passato, compreendendo il testo unicamente come approvazione ufficiale ed incondizionata del metodo storico-critico. Il fatto che, in questo modo, dopo il Concilio, siano praticamente scomparse le differenze confessionali tra la esegesi cattolica e protestante, lo si può attibuire a tale ricezione unilaterale del Concilio. Ma l’aspetto negativo di questo processo è che, anche in ambito cattolico, lo iato tra esegesi e dogma è ormai totale e che la Scrittura è divenuta anche per essa, una parola del passato che ognuno si sforza a suo modo di tradurre nel presente, senza poter troppo fare affidamento alla zattera su cui è salito. La fede cade allora ad una sorte di filosofia della vita che ciascuno, per quanto gli è dato, cerca di distillare dalla Bibbia. Il dogma, deprivato del fondamento della Scrittura, non rege più. La Bibbia, che si è separata dal dogma, è divenuta un documento del passato; appartiene essa stessa al passato”. (Cardinale Joseph Ratzinger, “L’Interpetazione biblica in Conflitto – Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea” pp 3-4. http://wwwratzinger.it/miscellanea/interbiblconflitto.htm . Il grossetto è mio).
"...in realtà, quegli poneva invece una enigmatica e allusiva distinzione tra un "concilio dei padri" e un "concilio mediatico" che va ora decodificata".
RispondiEliminaLorenzo questa distinzione è antica, è la tesi del P. Henri De Lubac per tentarei spiegare il post Concilio...
@Anonimo delle 04:40
RispondiElimina"Sembra che non basta Mons. Viganó rispondere Sandro Magister. Adesso se deve rispondere anche il cardinale Brandmüller."
Avevo notato anch'io il discutibilissimo (a dir poco) atteggiamento di Magister nel pubblicare la replica di Mons. Viganò ...
Inserire in calce l'intervento di Brandmüller, noto da giorni e più volte commentato in vari siti anche e soprattutto in rapporto alle affermazioni di Viganò, mi è sembrata quasi una villania. Magister aveva la possibilità di controdedurre personalmente le affermazioni dell'Arcivescovo, e così ha fatto, ma poi ha voluto anche ripubblicare l'intero intervento del Cardinale, con la scusa di sottoporre al lettore (naturalmente, da lui orientato anticipatamente a favore di quest'ultimo) le due posizioni.
Un'operazione subliminale - ma neanche tanto - di delegittimazione di Viganò.
In questa occasione (parlo della presa di posizione di Viganò di questi giorni) è venuto fuori tutto il livore, invero degno di miglior causa, che Magister applica a chi si pone in modo radicalmente critico nei confronti degli atti del Concilio.
Chi tocca i fili, muore.
Tanti anni di ottimi articoli, tanti bei principi evidenziati e sottolineati: ma era tutto, evidentemente, subordinato alla piena accettazione di quell'ermeneutica della continuità che oggi ha mostrato tutti i suoi limiti.
Meglio così, adesso sappiamo chi è veramente Magister.
RispondiEliminaÈ tornato alla Casa del Padre l'illustre musicista, morto con i conforti religiosi..
Speriamo vivamente per lui che sia già tornato alla Casa del Padre, che sia cioè in Paradiso.
Ma come esserne certi?
Eravamo forse presenti quando la sua anima, appena morto, è andato al Giudizio individuale, di fronte a Nostro Signore?
Fuor di metafora: l'abitudine ormai invalsa di dire che quando uno muore "è andato alla Casa del Padre" è o no in contraddizione con il dogma della fede, secondo il quale quando uno muore va prima di tutto e immediatamente la sua anima al Giudizio individuale che le viene comminato da Nostro Signore, che la destina al suo luogo eterno, facendo passare i Giusti, quando necessario (quasi sempre) per il Purgatorio?
Ci crediamo ancora alla verità di fede divina e cattolica rappresentata dal Giudizio individuale per ciascuno di noi appena morto o no? Se ci crediamo, perché servirsi allora di questo modo di dire, sicuramente "scandaloso" dal punto di vista del dogma e "promuoventte l'eresia" (favens haeresim) nella misura in cui oscura la fede nell'esistenza del Purgatorio e dell'Inferno, oltre che quella nell'esistenza del Giudizio, individuale della nostra anima?
Z
"è andato alla Casa del Padre"
RispondiEliminaLa prima volta che ho sentito questa espressione e' stata dalla bocca di Mons.Sandri ed era riferita a Giovanni Paolo II .Successivamente tutti coloro che lavorano nei gornali o nelle TV con la qualifica di giornalisti ed anche varii Pastori hanno usato questa espressione . Ma . lo stesso si potrebbe dire per "tangentopoli", "affaropoli" ,e via dicendo tipico della mentalita' whatsappiana .
P.S. Ho una enciclopedia Treccani ,nuova , da regalare , se conoscete qualche associazione di volontariato che si occupa del doposcuola di bambini e ragazzi vi prego di segnalarmelo perche' non ho a chi lasciarla e nessuno la vuole . Preferiscono internet . Localita' Roma .
Ancora sulla distinzione tra un "Concílio dei Padri" e altro "Concilio dei mass media" me domando se non possiamo considare che in verità se tratti della distinzione di Loisy tra um "Gesù storico" e un "Cristo Della fede" applicatta al Concilio. Possiamo considerare che la tesi di De Lubac ci presenta nella verità un "Concilio della fede" e altro "Concilio della storia".
RispondiEliminai 4 appunti di premessa di Magister contro il primo testo di Viganò sull'argomento (che tu avevi spiegato già benissimo) SONO VERGOGNOSI.... e distorcono ciò che Viganò ha spiegato.....
RispondiEliminaDorotea Lancellotti