“Chiesa Apostolica Armena:
da culla del Cristianesimo a vittima del potere”
L'arresto di sabato scorso del Capo della Diocesi di Shirak, l’Arcivescovo Mikael Ajapahyan, che fa seguito ad altro nei confronti del Capo della Diocesi di Tavush, l’Arcivescovo Bagrat Galstyan, eseguito appena tre giorni prima, è l’ennesimo episodio di una teoria di attacchi che il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, sta portando da qualche tempo avverso la Chiesa Apostolica armena con pretestuose accuse di sovversione dell’ordine costituzionale del Paese. Già da qualche tempo, infatti, in particolare da quando si è andata affermando una diffusa opposizione verso l’attuale Governo, l’Armenia sta vivendo uno dei momenti più critici della sua esistenza. Ma non tanto a causa di una conflittualità sociale inesistente o di una pretesa crisi economica che investirebbe il Paese, bensì per ragioni di pura conservazione del potere. Un potere finalizzato ad attuare un corso di politica estera più favorevole ai tradizionali nemici di vicinato (leggi Azerbaijan e Turchia), ma mascherandone la compiacenza con un quanto mai illusorio progetto di pacificazione regionale non inclusivo dei reali e più rilevanti interessi nazionali. E proprio in questa prospettiva, il Governo avrebbe condotto oggi il Paese ad un bivio cruciale: ovvero a dover scegliere se permanere nello storico legame con Mosca, o se invece abiurarlo in favore di uno schieramento pro-occidentale. Un’opzione, quest’ultima, che è stata adottata in via preferenziale proprio da Pashinyan, su sollecitazione delle forze euro-atlantiste inclini a strumentalizzare la sua figura politica nell’ottica di antagonizzare ancora una volta la Russia nello scacchiere caucasico. Ed è in questa prospettiva che l’attuale scontro tra Governo e Chiesa Apostolica troverebbe le sue primarie motivazioni e spiegazioni.