Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 23 giugno 2025

Lex naturalis non abrogatur: La voce di Papa Leone XIV e il disinganno del moderno

Lo scorso 20 giugno, nel solenne contesto del Giubileo dei governanti, Leone XIV ha pronunciato un discorso che si distingue, come una delle più lucide enunciazioni del fondamento morale della politica nell’orizzonte del magistero recente. Qui l'indice degli articoli sulla realtà distopica, in attesa del ripristino della Lex naturalis.

Lex naturalis non abrogatur: La voce di Papa
Leone XIV e il disinganno del moderno


Nel solenne contesto del Giubileo dei governanti, il 20 giugno 2025, Papa Leone XIV ha pronunciato un discorso che si distingue, per pregnanza concettuale e profondità teoretica, come una delle più lucide enunciazioni del fondamento morale della politica nell’orizzonte del magistero recente. La sua affermazione secondo cui l’azione politica, per non divenire arbitrio travestito da procedura, deve ancorarsi alla legge naturale, "non scritta da mani d’uomo, ma riconosciuta come valida universalmente e in ogni tempo", recupera con vigore una visione ontologicamente fondata dell’ordine normativo, in netta controtendenza rispetto alle derive decisionistiche e contrattualistiche che hanno segnato la modernità giuridica.
Nell’evocare la celebre definizione ciceroniana della lex naturae come "diritta ragione, conforme a natura, universale, costante ed eterna", Leone XIV si pone nella continuità vitale con la tradizione giusnaturalistica classica, secondo la quale il diritto non si identifica con la volontà del legislatore, ma scaturisce dalla natura razionale dell’essere umano e dalla sua partecipazione alla legge eterna ("participatio legis aeternae in rationali creatura", così san Tommaso d'Aquino nella "Summa Theologiae", I-II, q. 91, a. 2).
La legge naturale, in tale prospettiva, non è un costrutto convenzionale, né una generalizzazione sociologica di norme culturali prevalenti, bensì una struttura ontologica inscritta nella costituzione del reale, che la ragione, non creatrice, ma ricettiva, è chiamata a riconoscere. Essa costituisce il metro normativo immanente, e nondimeno trascendente, di ogni legislazione positiva: non come limite esterno imposto alla libertà politica, bensì come suo principio interno di giustificazione e legittimità. Solo un ordine che si fonda su ciò che è, e non su ciò che si decide, è degno dell’uomo, essere dotato di logos e non semplice terminale di bisogni.
Nel medesimo discorso, tuttavia, il Santo Padre ha indicato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 un documento nel quale la legge naturale troverebbe, oggi, un’espressione significativa e attuale.
È qui che, pur nella deferenza verso la cattedra petrina, s’impone una riflessione che non può eludere la necessaria "distinctio principiorum". Se infatti la Dichiarazione in questione ha rappresentato un tentativo generoso di risposta alle barbarie del secolo XX e contiene enunciazioni che materialiter possono essere compatibili con il dettato morale naturale, essa si fonda su un’antropologia che non è quella della tradizione classica, bensì su una concezione radicalmente moderna dell’uomo come soggetto autonomo, autoreferenziale e costitutivamente autore della norma. I "diritti dell’uomo", così come emergono nel 1948, sono figli di un’epoca segnata dalla frattura epistemica dell’umanesimo razionalista e secolarizzato.
La modernità giuridica, nel suo nucleo teorico, ha reciso ogni legame tra il diritto e l’essere, sostituendo alla "veritas rerum" l’autodeterminazione soggettiva come fondamento ultimo del normativo. Da ciò discende un diritto svincolato dalla teleologia naturale e ridotto a dichiarazione di prerogative individuali, spesso in contraddizione con la legge morale oggettiva. In tale contesto, il riferimento alla "coscienza" come fonte ultima di dignità e decisione si muta in una sorta di nuova "auctoritas sui iuris", che sancisce una cesura insanabile con l’ordine della "lex naturalis", intesa come partecipazione alla sapienza divina che governa il mondo. La Chiesa, depositaria del "ius divinum naturale et positivum", non può accogliere integralmente questo impianto teorico senza contraddirsi nel principio.
Accostare la legge naturale alla Dichiarazione dei diritti moderni implica, se non si operano le necessarie distinzioni, un’ambiguità che rischia di offuscare la verità: ciò che nella "lex naturalis" è fondato sulla natura razionale e ordinata dell’uomo secondo il fine, nella visione moderna si fonda sull’autonomia svincolata da ogni ordine oggettivo. La legge naturale parla il linguaggio dell’essere; la dichiarazione dei diritti parla, invece, quello del volere. Per questa ragione, la loro identificazione non può reggere alla luce di un’analisi filosofica rigorosa.
Papa Leone XIV, nel ribadire il primato della legge naturale come "bussola" dell’agire politico e legislativo, ha tuttavia riaffermato una verità non negoziabile: l’ordine della giustizia precede il consenso e fonda la legittimità. Questa affermazione, pur riferita a un contesto ecclesiale e pastorale, costituisce anche un atto di resistenza teoretica contro il giuridicismo postmoderno e il nichilismo normativo che mina le fondamenta stesse della "civitas".
Se ne deve trarre una conseguenza radicale: il compito della Chiesa non è quello di integrare i diritti della modernità nel proprio orizzonte teologico, ma di purificarli alla luce della verità dell’uomo e di Dio. La lex naturalis" non è negoziabile perché essa non è nostra: è ricevuta, non costruita; è oggetto di conoscenza, non di invenzione; è misura, non ciò che viene misurato. In un tempo segnato dall’usura della coscienza morale e dalla confusione fra desiderio e diritto, l’intervento di Papa Leone XIV risuona come un "kairós" provvidenziale.
Resta tuttavia il compito, tanto più urgente quanto più arduo, di distinguere ciò che viene dalla tradizione e ciò che è frutto di una modernità segnata dall’oblio dell’essere. È da questa fedeltà alla verità che dipende il futuro non solo della Chiesa, ma della stessa civiltà giuridica dell’Occidente. Daniele Trabucco

1 commento:

Anonimo ha detto...

"NON TALI AVXILIO, NEC DEFENSORIBVS ISTIS TEMPVS EGET"
(Virgilio, Aen.,2,521)
"Non tali aiuti, né tali difensori il momento richiede."

La frase di Virgilio, "Non tali aiuti, né tali difensori il momento richiede", è pronunciata da Enea durante la caduta di Troia. Osservando l'anziano Priamo tentare una difesa futile, Enea esprime la disillusione di fronte a sforzi deboli e inadeguati.
Il "momento" tragico esige forza e strategia, non gesti simbolici o insufficienti. La citazione riflette sulla disparità tra intenzione e capacità: la buona volontà da sola non basta in situazioni critiche. È un'amara constatazione della futilità dell'eroismo quando il destino è segnato, sottolineando che dignità e intenzioni non possono cambiare l'ineluttabile.
Antonio D'Ettorre